Utente:Ilcolono/prove
L’epopea della bonifica nel Polesine di San Giorgio. L’Eden che divenne Far West per convertirsi nella Pampa italiana
modificaL’antico golfo padano viene ricolmato dai detriti, nel corso del Pleistocene, dalle acque che dai lati montuosi fluiscono verso il centro, dove in ampie aree l’irregolarità dei depositi ostacola il deflusso creando vaste paludi. Con le paludi le popolazioni padane si confrontano nel corso di tre millenni, conquistando all’aratro quelle le cui acque è possibile smaltire sfruttando i dislivelli minori. La tradizione idraulica più augusta non può misurarsi, però, con le acque stagnanti, al livello del mare, che quando due apparecchi rivoluzionari, l’idrovora e la caldaia a vapore, consentono di innalzare volumi d’acqua che nessuna forza diversa poteva affrontare. L’avvento dell’idrovora si compie nei decenni in cui, a metà dell’Ottocento, le conurbazioni industriali moltiplicano la domanda di cereali: le distese paludose del Ferrarese accendono speranze di guadagni prodigiosi, affrontano l’avventura della bonifica banchieri, imprenditori convinti dei poteri della tecnica, avventurieri economici. Nel crepuscolo del secolo le paludi che da Ferrara si dilatavano fino al litorale si sono convertite in pianura in cui chi ha pagato la terra prezzi irrisori verifica di dover investire, per ricavare una produzione, cifre maggiori di quelle spese per latifondi la cui ricchezza si rivela un miraggio. I trasporti a vapore determinano, intanto, il crollo del prezzo dei cereali: la maggior parte degli acquirenti ha investito tutto nella terra, non dispone di riserve, deve rivendere. L’entità delle superfici offerte al mercato, che non cerca più terra per coltivare grano, converte il sogno dell’Eden nel Far West fondiario in cui gli affaristi più disinvolti si impadroniscono di quanto i pionieri hanno convertito in campi coltivati. La bonifica delle paludi ferraresi continuerà nel Ventennio fascista, si compirà in Età repubblicana, quando nella provincia emiliana si dilaterà la più florida frutticoltura del Paese. La fioritura del melo e del pero sarà, nel Ferrarese, fioritura effimera: tramontata la frutticoltura agonizzerà la bieticoltura, tramutando le campagne che hanno alimentato il sogno dell’Eden, che si sono convertite nel Far West immobiliare, nella Pampa in cui qualche decina di uomini coltiva, con macchine titaniche, la più vasta pianura maidico d’Italia
Da Consorzio di bonifica II circondario, Polesine di San Giorgio, 1605 – 2005. 1 anno per 400 anni di attività, compact disc, Ferrara 2005
Un antico delta
modificaDelimitato dal Volano e dal Primaro, il Polesine di San Giorgio può essere considerato il cuore del Delta Padano che conobbero gli uomini vissuti all’alba della storia. Nel corso delle ere geologiche il maggiore fiume italiano ha mutato sistematicamente il proprio corso: nelle età glaciali, quando le calotte polari avevano sottratto agli oceani masse ingenti di acque, ed i mari si erano ritratti, su tutti i continenti, dilatando le terre emerse, la Pianura Padana si era estesa di decine di migliaia di chilometri quadrati nell’attuale fondale adriatico, che il Po solcava fino alla latitudine di Ancona, ricevendo quali affluenti, a sinistra, tanto gli attuali fiumi veneti quanto alcuni fiumi fluenti dai Balcani. Al dissolversi dei ghiacci polari la Pianura Padana si sarebbe contratta, successivamente, e la costa avrebbe corrisposto, nel tardo Pleistocene, all’attuale pedecollina appenninico. Il grande golfo padano sarebbe stato ricolmato, nei millenni, dai detriti portati dai fiumi: la formazione dell’immenso deposito di sedimenti sui quali si dispiega la pianura che conosciamo non sarebbe stato, peraltro, processo omogeneo, ma la risultante di due fenomeni contrapposti, uno di natura tettonica, uno di natura sedimentaria. Il processo tettonico sarebbe stato la conseguenza della collisione tra la massa continentale dell’Europa e quella dell’Africa, un fenomeno che si è realizzato nel corso di milioni di anni, producendo il duplice corrugamento delle Alpi e degli Appennini. Insegna la geologia che quando l’urto tra due piattaforme continentali provoca l’innalzamento di una catena montuosa la superficie ai piedi della medesima tende ad abbassarsi: è il fenomeno della subsidenza tettonica, un fenomeno tuttora in corso secondo il proprio ritmo geologico. Mentre i fenomeni tettonici hanno continuato ad abbassare il fondo della fossa, dall’emersione delle due catene montuose i fiumi fluenti da entrambe hanno preso a riversare nella grande cavità masse immense di detriti. A ragione del principio per cui il trasporto solido dei fiumi è tanto maggiore quanto maggiore è il dislivello altimetrico tra la sorgente e la foce, il trasporto è stato maggiore, si deve sottolineare, durante le età glaciali, quando il Po scorreva sull’attuale fondo dell’Adriatico, il periodo in cui furono convogliate nell’attuale Pianura Padana le masse maggiori di ciottoli, arena e argilla, col deposito, ai piedi dell’Appennino, dei detriti maggiori, che hanno formato le grandi conoidi costituenti i serbatoi idrici della Pianura Padana meridionale. Subsidenza tettonica e deposizione dei detriti solidi hanno registrato, sui due lati dell’asse fluviale padano, un andamento disomogeneo: mentre la subsidenza risulta maggiore nell’area settentrionale, il deposito è stato superiore in quella meridionale, siccome i fiumi appenninici conducono a valle una massa di materiale litoide e arenoso ampiamente superiore a quella trasportata dai fiumi alpini, le cui acque attraversano i laghi insubri, dove depositano i materiali che trasportano. Il bacino padano si abbassa più velocemente nella fascia settentrionale, i depositi fluviali sono più abbondanti in quella meridionale: la conseguenza è stata, nei millenni, il progressivo spostamento dell’alveo del Po verso settentrione. Possiamo ritenere che il processo si sia sviluppato nell’intero corso del Pleistocene: tutti gli studi concordano nel dimostrare che all’alba della storia i primi popoli civili che affrontarono, con le proprie imbarcazioni, le acque del Po, del Po risalirono due rami attualmente abbandonati: il Volano ed il Primaro, tra i quali gli archeologi hanno provato che gli Etruschi avrebbero creato un funzionale canale di collegamento. Sul braccio meridionale del Po all’alba della storia sorgeva il maggiore emporio in cui scambiavano le proprie merci veneti, greci ed etruschi: Spina. Il secondo, Adria, sorgeva sul braccio settentrionale, la cui portata non era paragonabile, allora, a quella che avrebbe acquisito due millenni più tardi. Sarebbe stato ubicato a metà tra i due empori protostorici il centro del commercio padano in età medievale, Ferrara, alle proprie origini il più attivo fondaco fluviale. Compreso tra il braccio meridionale e quello centrale del grande fiume, all’alba della storia il Polesine di San Giorgio costituiva il centro del Delta, quel centro che oggi si è spostato a settentrione, nel triangolo delimitato dal Po di Goro, oggi il ramo meridionale del fiume, e quello di Levante, il braccio settentrionale. Un delta abbandonato, quindi, che deve al passato la propria conformazione, a sua volta chiave dei rapporti tra l’uomo, la terra e le acque. Le innumerabili migrazioni realizzate, nei millenni, dai rami deltizi che lo hanno solcato, hanno lasciato la propria impronta in un autentico labirinto di dossi, l’impronta che un corso d’acqua conferisce per sempre al territorio che ha attraversato. Intersecandosi, quei dossi delimitano una serie di bacini dai quali le acque di pioggia non hanno mai potuto defluire né verso i rami del Po, fluenti su alvei rilevati, né verso il mare, precluso da dossi e dune parallele alla costa. Una scacchiera di rilievi delimitanti una serie di oltre venti catini: sono le caratteristiche topografiche e altimetriche del Polesine di San Giorgio, la ragione delle vicende particolarissime che conoscerà la sua bonifica. In un’area di confine tra la terra e le acque la pianura non può essere distesa omogenea, siccome le acque di piena premono per aprirsi il varco al mare, e la forza diversa con cui, dall’asse del deflusso, raggiungono le aree marginali, determina il deposito di materiali progressivamente più leggeri: le sabbie più grossolane dove la corrente è più vigorosa, poi, scemando la forza viva, le sabbie fini, il limo e l’argilla. Caleidoscopio di terra e di acque, il Polesine di San Giorgio è anche mosaico di suoli, dai fertilissimi terreni di medio impasto dei dossi alle più compatte argille delle aree di antico ristagno. Alla varietà dei suoli prodotta dalla forza delle correnti, una varietà che si esprime nell’ampia gamma delle combinazioni granulometriche, due elementi ulteriori aggiungono tipi pedologici ancora diversi: la materia organica e la salinità. La prima è il frutto dell’accumulo delle erbe palustri che, ricoperte, in occasione delle alluvioni, da strati di argilla, hanno protratto, nei millenni, la lenta conversione in torba, un processo che nelle valli diverse del Polesine ha raggiunto stadi molteplici. Il sale è, palesemente, il portato dell’ingresso, nelle valli, di acqua marina, un processo favorito dalla conformazione di un delta “morto”, attraverso il quale non defluiscono più masse d’acqua tali da sospingere l’acqua salsa oltre il limite della terra, che le consentono, anzi, di penetrare all’interno del litorale, creando paludi salmastre ed entrando in contatto con i suoli, sui quali l’acqua marina ha il potere di provocare un’ampia serie di alterazioni, dalla deflocculazione delle argille all’alterazione delle capacità di scambio, due fenomeni che alterano i terreni radicalmente e, in parte, irreversibilmente.
Canali, argini e giure delle acque
modificaPosta al centro di un labirinto di corsi d’acqua naturali e artificiali, Ferrara sviluppa precocemente una legislazione sul governo delle acque, sui doveri dei cittadini che vivono in adiacenza di fiume e canali, sulle prerogative delle magistrature che al governo delle acque sono preposte. Le origini di quella legislazione risalgono agli statuti comunali, la loro prima codificazione è ascrivibile, peraltro, a Obizzo II, che nel 1287 iscrive, nel quinto libro degli Statuti, una rubrica De aggeribus et aggerum officio, de viis, de pontibus, de scursuriis, de laboreriis et operibus pubblicis…Il testo definisce i compiti dei giudici d’argine, dei notari d’argine e dei sovrastanti, insieme costituenti l’organico di un embrionale apparato di genio civile preposto alla realizzazione e alla manutenzione delle opere idrauliche che sono obbligati ad eseguire i proprietari delle terre adiacenti ad argini e canali. Se i proprietari dei terreni prossimi a fiumi e canali sono, insieme, i primi interessati e i primi responsabili del loro controllo, negli Statuti di Obizzo essi non costituiscono ancora un corpo dotato di autonomia, quindi una persona giuridica, quale la collettività dei proprietari diverrà, progressivamente, al maturare della legislazione ferrarese sulla bonifica. La legislazione idraulica del fondaco padano si sviluppa con le norme emanate da Borso nel 1456 e da Hercule II nel 1534. E’ il 12 aprile 1580 quando Alfonso suggella gli Ordini e provisioni sopra i Lavorieri del Po e ufficiali a quelli deputati, trentasette capitoli che affidano i poteri di governo delle acque al Maestrato dei savi, il maggiore consesso cittadino, demandato della ripartizione dell’imposta fondiaria destinata a finanziare i lavori idraulici. La tradizione ingegneristica e normativa consolidata nei secoli del dominio estense si perpetua in quelli successivi, quando Ferrara diviene provincia della Chiesa, gli atti dei cui legati attestano la sistematica evoluzione, nel corso di duecentocinquanta anni, della legislazione sulle acque. La prima significativa innovazione pontificia è, nel 1601, la creazione, per ciascun polesine, di una congregazione per i lavorieri, un comitato di diciotto proprietari del territorio demandati dei rapporti tra l’universalità dei possessori ed il Maestrato dei Savi, l’organo pubblico depositario del potere di vigilanza sulle opere idrauliche. Carlo Lega, studioso degli ordinamenti della bonifica e, tra il 1976 e il 1981, presidente del Consorzio, addita nell’organismo istituito da quella disposizione il nucleo originario, seppure ancora embrionale, dei futuri consorzi di bonifica. Il 22 dicembre 1605, con la designazione dei primi delegati del comprensorio avrebbe preso vita l’embrione dell’ente che, mutate le dimensioni giurisdizionali e moltiplicate le competenze, si convertirà, senza soluzione di continuità seppure mutato l’ordinamento giuridico che quelle competenze sancisce, nell’organismo preposto all’ordine idraulico del Polesine di San Giorgio, il Consorzio del secondo circondario.
La legislazione sui Lavorieri viene aggiornata nel 1623 dai Nuovi Ordini e Provvisioni intorno al buon governo del Comune, ai Lavorieri pubblici e agli ufficiali sopra quelli deputati, poi dalle disposizioni emanate, nel 1652, dal cardinale legato Cybo e suggellate da Innocenzo X, quindi da un breve del 1690 di Innocenzo XI. Un’importanza del tutto particolare rivestono, quindi, le Determinazioni e Regolamenti per la Congregazione sopra la Cassa dei Lavorieri, suggellate il 14 luglio 1753 dal cardinale legato Barni e approvate da Benedetto XIV. Del testo sono state proposte interpretazioni diverse: alcuni esegeti individuano nell’organismo demandato della progettazione ed esecuzione delle opere idrauliche, e dotato dei poteri di imposizione necessari al loro finanziamento, un ente già dotato di personalità giuridica. Il testo più significativo della legislazione idraulica dei pontefici romani saranno, comunque, le Determinazioni e Regolamenti per la Congregazione sopra la Cassa dei Lavorieri emanate dal cardinale legato Carafa il 1° gennaio 1784 e approvate da un moto proprio di Pio VI il 6 luglio 1785. Sarà, peraltro, nella parentesi temporale in cui riassume il governo del Ferrarese tra l’avventura napoleonica e la conquista sabauda che il potere pontificio compirà l’evoluzione della fisionomia della “congregazione” facendone organismo i cui rappresentanti sono liberamente eletti dai proprietari del comprensorio. Le congregazioni consorziali ferraresi, tra loro quella del Polesine di San Giorgio, acquisiscono la nuova fisionomia con il moto proprio di Pio VII del 23 ottobre 1817
Tra agricoltura e pesca un conflitto secolare
modificaNon è possibile ripercorrere la storia delle terre del Polesine di San Giorgio senza narrare, parallelamente, quella delle valli salse che si dilatano attorno alla città di Comacchio. Se la storia dell’agricoltura non può mancare di rievocare il confronto che si è protratto, per millenni, tra i popoli dediti alla coltivazione dei campi e quelli viventi dei prodotti della pastorizia, un confronto che segna, ad esempio, l’intera storia della Cina, le vicende dell’agricoltura del Polesine di San Giorgio sono determinate, per una successione non esigua di secoli, dal confronto, non meno crudo, tra le esigenze del grano e quelle di cefali e anguille. A spiegare il conflitto si deve ricordare la propensione naturale di un vasto novero di specie marine a risalire i fiumi, in primavera, alla ricerca di pastura nelle acque dolci. Se, salito il pesce, i passaggi che ne hanno consentito l’accesso vengano chiusi, e negli stagni in cui si sia insediato sia mantenuta una salinità sufficiente alle sue esigenze biologiche, il pesce crescerà e potrà essere catturato quando, in inverno, aperti gli sbocchi, tenderà naturalmente a tornare in mare. Il meccanismo della pesca negli stagni salsi impone la chiusura delle comunicazioni tra le valli e il mare dalla fine di maggio, quando si conclude la risalita del novellame, e la fine di gennaio, quando hanno termine le catture. La secolare contesa comacchiese tra pesca e agricoltura ha quattro protagonisti: il potere politico, nei secoli che rievochiamo il potere papale, titolare dei diritti eminenti sulle valli salse, un imprenditore privato che affitta le valli, la popolazione comacchiese, che gode del diritto di pesca su alcune valli e che assicura all’imprenditore la manodopera necessaria alle attività alieutiche, i proprietari, infine, dei terreni agricoli confinanti con le valli. La pesca nelle valli di Comacchio costituisce, tra il Cinquecento e l’Ottocento, la più lucrosa impresa di acquacultura d’Italia, forse d’Europa. Un’impresa oltremodo redditizia nonostante che la società comacchiese abbia sempre rivendicato il diritto collettivo sul pesce di tutte le acque locali, in un conflitto incessante con il proprio datore di lavoro, nei cui confronti non ha mai rinunciato a quella che la controparte tentava di impedire come pesca “di frodo”, l’ardimentosa attività notturna del “fiocinino” comacchiese. Nonostante parte del pescato sia perduta nel conflitto con la popolazione, di cui la miseria alimenta la tenacia, tra il Cinquecento e l’Ottocento il prezzo del pesce è tale da rendere l’appalto oltremodo lucroso. Nel 1587 Alfonso II affitta le valli per l’ingente cifra di 52.000 scudi, una cifra che i contratti successivi non assicureranno alla Camera apostolica per l’intero corso del Seicento, quando le valli saranno cedute per cifre prossime ai 20.000 scudi romani. Concedendo, peraltro, le autorità pontificie, il progressivo ampliamento delle valli, gli appaltatori saranno indotti ad aumentare il corrispettivo, che nel 1772 toccherà i 55.000 scudi romani. Gli appaltatori sono disposti ad accrescere il canone della concessione alla condizione di potere governare le acque secondo le esigenze della pesca, che sono esigenze esattamente opposte a quelle dell’agricoltura, siccome impongono, dopo la risalita del pesce, di sbarrare le comunicazioni tra le valli e il mare. Nei mesi chiave delle colture agrarie ai terreni adiacenti alle valli salse viene impedito, così, qualunque scolo, le acque piovane si accumulano elevando il livello delle valli di acqua dolce, il franco di coltura si riduce, la coltivazione diviene improduttiva su terreni che, permesso lo scolo, potrebbero essere adeguatamente coltivati. E’ la ragione del peggioramento, tra il Cinquecento e l’Ottocento, delle condizioni agronomiche dei terreni del Polesine di San Giorgio, che si deteriorano in proporzione esattamente inversa alla dilatazione delle valli da pesca e all’entità del pescato della più feconda laguna mediterranea. Una spedizione tra argini e paludi
Ricostruire le vicende della conquista della terra, con l’espulsione delle acque, nel Polesine di San Giorgio, impone di identificare, all’origine di una vicenda che conoscerà la drammaticità dell’epopea, un evento fieristico, occasione, per un uomo politico locale, di svolgere un’applaudita conferenza. E’ il 1851quando Francesco Luigi Botter, l’agronomo trevigiano chiamato a Ferrara quale docente del nuovo Istituto agrario, redattore di un vivace periodico, promuove la prima esposizione agraria provinciale, in occasione della quale invita Andrea Casazza ad illustrare la straordinaria installazione, nella limitrofa provincia di Rovigo, della prima idrovora azionata da una macchina a vapore. L’installazione è stata realizzata a Dossi Vallieri, presso Adria. La conferenza induce la Congregazione consorziale del secondo circondario, l’organismo che nel quadro pontificio regola le acque del Polesine di San Giorgio, a invitare per un sopraluogo l'ingegner Stefano Benech, il costruttore torinese degli apparecchi installati a Dossi Vallieri, chiedendogli di formulare un piano per la bonifica del comprensorio. Benech non visita le paludi ferraresi, dove negli ultimi giorni di settembre esegue un sopraluogo il suo rappresentante in Veneto, l’”ingegnere macchinista” Augusto Tarifat, che propone il progetto di installazione di un’idrovora che si tradurrà nella bonifica di Galavronara e Forcello. Due anni più tardi, tra il 20 ed il 26 ottobre 1853, visita il comprensorio l’ingegner Cesare De Lotto, il progettista che di Benech ha installato le macchine in Veneto. Lo accompagna Giuseppe Forlani, “ingegnere primario” della Congregazione. Della spedizione Forlani stila una circostanziata relazione. La lettura del testo ci introduce in un mondo dove acque e terra si inframmettono in una composizione che solo la fantasia consente, oggi, di immaginare: i due tecnici e il gruppo degli accompagnatori attraversano le valli lasciando la carrozza per calessini capaci di transitare su argini serpeggianti, o per barche a tiro equino, bivaccano nei “casoni”, pranzano "alla soldatesca". Le privazioni conoscono un'interruzione nella villa di Giuseppe Pavanelli, magnifico anfitrione tra pascoli e paludi. Dalla visita prenderà forma il piano di dividere il grande comprensorio, secondo i dossi naturali, in sottobacini, di cui procedere al prosciugamento con apparati idrovori indipendenti, il piano che orienterà, quando resistenze e ostacoli saranno superati, la bonifica del comprensorio.
L’aratro sacrificato al tramaglio
modificaI risultati della spedizione non sono, peraltro, immediati, come attesta la pagina desolata che lo stesso Forlani verga, ricordando il sopraluogo, l’anno successivo: “Quanto prosperava per il conseguito beneficio di scolo il Terzo altrettanto languiva il Secondo Circondario Scoli per la peggiorata sua condizione – scrive l’”ingegnere primario”-. A formarsene un’idea, abbenchè non sia descritto lo stato deplorevole di tutti i condotti e di tutti i manufatti, occupandosi specialmente di terreni e di strade coperti d’acque stagnanti, basta leggere l’affliggente rapporto dell’Ingegnere Consorziale, e gli atti relativi d’archivio dell’anno 1827. All’abbandono improvvidissimo nel quale erano lasciati i condotti, le canalette in valle, le chiaviche ed i ponti, nel falso ed assurdo principio che la prevalenza dell’acqua delle valli su quella degli scoli rendeva inutile ogni spesa, aggiungevasi il barbaro impedimento delle arellate di fronte alle chiaviche di sbocco per impedire, all’opportunità di alzare le saracinesche, l’ascendere del pesce per gli alvei di scolo… Le doglianze amarissime, ed i reclami fervidissimi dei possidenti del Polesine mossero il governo locale, nella legazione dell’Eminentissimo Arezzo, ad ordinare una visita all’Ispettore Giuseppe Professore Venturoli, ed all’Ingegnere in Capo della Provincia di Ferrara Tommaso Barbantini ed un congresso in Libolla nel quale fu fatta la convenzione 16 Ottobre 1827…in conseguenza della quale, riservato all’Azienda Valli il diritto esclusivo di pesca negli scoli ascendendo per cinque miglia, e nelle valli in libera comunicazione con gli scoli, furono disfatte le arellate o coladuri, e divenne alquanto men triste la compassionevole condizione di scolo del Polesine di S. Giorgio… Abbandonato l’assurdo principio dell’inutilità dei lavori, ed ammesso l’altro che, allo spirare specialmente dei venti favorevoli, allo spingersi dell’acqua delle valli in direzione opposta a quella delle arginature, fatte le opere indispensabili, trascinerebbe seco l’acqua degli scoli, e si godrebbe del proficuo beneficio della espansione, dopo l’anno 1832 cominciò il servizio a prendere un diverso andamento, e fu fatto un nuovo e più conveniente riparto delle sezioni… … ma ciò non ostante entrarono le acque torbide derivate dal Reno a mezzo della chiavica della Bastia per uso degli antichi e da lungo tempo abbandonati molini di Filo, entrarono per la costruita chiavica di sbocco nel Canale Menate quelle della cassa ravegnana di Longastrino, e così pure per la chiavica Garzana appositamente costruita le acque derivate dal Reno ad uso dell’umida coltivazione del riso nell’intrapresa Bonificazione di Umana, e di Longastrino; e quindi l’enorme massa d’acqua che si accumula nel Mezzano viene di continuo aumentata rendendo sempre più precario lo scolo del disgraziato Polesine di S. Giorgio...” Sono trascorsi solo due anni dalla relazione di Forlani quando l’ospitale anfitrione del manipolo di tecnici che ha visitato, nel 1853, il Polesine di San Giorgio, Giuseppe Pavanelli, ottiene l’autorizzazione a installare una macchina idraulica per liberare dalle acque la propria tenuta di Sfondrabò. Si accende la prima vaporiera della serie che in pochi decenni muterà lo scenario agrario del Polesine.
Le epiche disavventure del maggiore Merighi
modificaLa storia della bonifica delle paludi ferraresi si illumina dei bagliori dell'epopea quando, all'alba del Regno d'Italia, nel 1863, il maggiore Vittorio Merighi,si unisce ad uno dei protagonisti delle prime esperienze idromeccaniche, il conte Francesco Aventi, e affida a Francesco Magnoni, “ingegnere primario” della Congregazione del primo circondario, il compito di produrre, a sue spese, un progetto generale per il prosciugamento di entrambi i comprensori palustri del Ferrarese. Dopo che i due soci hanno ottenuto, il 6 ottobre 1863, il consenso preliminare del Ministero di agricoltura, industria e commercio, Magnoni elabora piani organici per il prosciugamento del Polesine di San Giovanni e un progetto di massima per quello di San Giorgio, prevedendo di recuperare all'agricoltura, complessivamente, 100.000 ettari delle paludi a nord e a sud del Volano. Il progetto relativo al Polesine di San Giovanni è approvato dal Ministero col reale decreto 30 aprile 1865, che ne dichiara la pubblica utilità, il presupposto per l'esproprio dei terreni i cui proprietari non intendessero partecipare all'opera di prosciugamento. Alla ricerca di finanziatori con cui condividere un'impresa che si prospetta di impegno immane, qualche mese dopo aver ottenuto la dichiarazione di pubblica utilità Merighi crede di individuare un'intermediaria preziosa nella contessa Teresa Gatteschi, gentildonna dal fascino prorompente, che dichiara di poter coinvolgere nell’impresa lord Westbury, il cancelliere dello scacchiere di Sua Maestà britannica, il cui solo nome sarebbe palesemente sufficiente ad assicurare all’impresa il supporto delle più solide banche della City. Come emissario dell’onnipotente Cancelliere, la gentildonna fiorentina presenta all’intemerato maggiore un gentiluomo viaggiatore, mister John Standley. I due soci ferraresi stilano con l’avvenente signora ed il suo partner d’affari un accordo societario l’8 luglio 1865. Il gentiluomo si rivelerà il più spregiudicato avventuriero internazionale: in buona sintonia con la nobildonna fiorentina si produrrà in una successione di operazioni che estrometterebbero dall’affare Merighi, che riuscirà a tutelare i propri diritti senza riuscire ad evitare, peraltro, colpi durissimi contro la realizzazione del grande progetto. Il disegno dell’avventuriero con amicizie a Westminster e dell’aristocratica capace di manovrare nei ministeri di Firenze, allora capitale d’Italia, è diverso per i due comprensori da bonificare. Siccome per il primo Comprensorio Merighi e Aventi hanno presentato un progetto esecutivo, secondo le cronache oltre novanta disegni e progetti, la coppia avventurosa deve impedire che la propria società con Merighi acquisti i terreni la cui disponibilità è condizione dell’inizio dei lavori. Per il secondo comprensorio la gentildonna e l’avventuriero si propongono, invece, di sottrarre a Merighi i disegni preliminari, farli completare da tecnici al proprio servizio e presentare un piano esecutivo. Il primo obiettivo che conseguono è il secondo: ottengono da Merighi, nello spirito dell’intesa societaria, i disegni relativi al Polesine di San Giorgio e richiedono l’autorizzazione ministeriale a perfezionare un progetto esecutivo, che grazie alle amicizie della contessa, tra le quali preminente quella del senatore Vacca, viene rilasciata il 9 settembre 1865. La Congregazione del secondo circondario interviene a favore di Merighi invitando il Prefetto, il 28 settembre, a pretendere dai nuovi concessionari piani dettagliati, che la coppia ardimentosa, verificato che la bonifica del primo Circondario è impresa, essa sola, da pretendere tutte le risorse proprie e quelle degli amici di Firenze e Londra, non presenterà mai. Mirano al secondo obiettivo informando Merighi, il mese successivo, che Lord Cancelliere verserà le somme che ha promesso per l’acquisto dei terreni necessari all’esecuzione del progetto solo se i terreni saranno intestati alla sua persona. Essendo la pretesa contraria agli accordi Merighi non si sottomette, rescinde, nel 1868, la società con la contessa e l’avventuriero, ma la mancanza della disponibilità dei terreni impedisce l’inizio dei lavori, provocando la decadenza della concessione, che nel 1870 risulta destituita di ogni valore. Privo di finanziatori, decaduta la concessione, l’impavido maggiore non accetta la sconfitta, affronta, mentre la guerra franco-tedesca incendia il cuore del Continente, un fortunoso viaggio a Londra, reperisce altri soci, l’11 aprile 1871 firma a Firenze, con i mandatari della Public Works Construction Company Limited, una convenzione in base alla quale la società inglese realizzerà il progetto di Magnoni. L’intemerato maggiore si è liberato dei due avventurieri e ritiene di essersi assicurato, con l’accordo stipulato, soci capaci di realizzare la grande impresa. Perché la società inglese possa realizzare l’opera occorre, peraltro, che le sia rinnovata la concessione già rilascia a Merighi. Merighi imputerà a due parlamentari disinvolti, Pietro Torrigiani e Carlo Arrivabene, di avere suggerito ai plenipotenziari della società, l’ing. Atkinson Longridge e Ulysses Del Lungo, di denunciare l’inadempienza di Merighi al termine dei venti giorni concessigli per cedere la concessione assicurando che avrebbero suggerito al ministro Gadda di sottoscriverla dopo il termine contrattuale, quando Merighi sarebbe stato, ormai, escluso dall’affare. I soci inglesi avrebbero potuto usare, così, dei progetti di Merighi senza pagarli. Il 20 luglio 1871 si costituisce, in un ufficio della City, The Ferrarese Land Reclamation Company Limited, di cui sottoscrivono il capitale di 300.000 sterline gli stessi soci del sodalizio che si era accordato con Merighi a Firenze. Uscito di scena l’intraprendente maggiore, gode i benefici dell’impiego dei progetti eseguiti da Magnoni l’antico socio di Merighi, il conte Aventi, che assume il ruolo di fiduciario ferrarese della società. Il fallimento della società angloitaliana, che nonostante l’astronomico capitale sottoscritto dovrà accettare la confluenza in una società torinese, dimostrerà la dubbiosa consistenza del sogno di Merighi, deciso a bonificare, con un duplice progetto, due comprensori uno solo dei quali assorbirà tanto denaro da costringere al fallimento il più solido connubio tra la finanzia inglese e quella italiana. Come i più nobili, intemerati sognatori incapace di arrendersi all’evidenza, estromesso dai soci inglesi, Vittorio Merighi, che nell’impresa è verosimile abbia giocato le proprie fortune, non abbandonerà i propositi di bonificatore: se al primo cimento ha donato a onnipotenti finanzieri inglesi progetti costati decine di migliaia di lire, esperirà il secondo cimento beneficando uno degli affaristi più facoltosi d’Italia, l’ingegner Girolamo Chizzolini.
La palude irride i primi progetti
modificaConcepiti nell’incerta terra di confine tra la tecnologia d’avanguardia ed il sogno finanziario, i primi progetti dimostrano l’entità degli ostacoli da superare. Nelle difficoltà a tradurli in realizzazioni la palude protrae il proprio imperio sui polesini ferraresi, come testimonia una pagina emblematica di Raffaele Pareto, ispettore centrale delle bonificazioni e irrigazioni, che nel 1865 propone la medesima visione che ha evocato, con una prosa non meno eloquente, Giuseppe Forlani: “…il Secondo Circondario può dirsi più disgraziato del primo, perché scaduto, nella sua parte bassa, da uno stato floridissimo in uno miserabile…Nello stato attuale, il Polesine di San Giorgio scola una piccola parte delle sue acque nelle valli delle Gallare di acqua dolce, che versano esse stesse nel Po di Volano, a più bassa marea, e la più gran parte delle acque nel Mezzano, valle estesissima, priva di acqua dolce e recipiente di scoli, ed ora salsa e peschereccia. Per questa ultima condizione, l’acqua vi si tiene alta in quei mesi dell’anno che più sarebbe utile averla bassa per gli scoli del Polesine, il quale vi immette le sue acque con numerosi canali. I proprietari accusano l’estensione della pesca nel Mezzano delle cattive condizioni in cui versano. La valle è separata, dai terreni coltivati, da un argine di cinta, ma questo non può trovarsi in contatto con lo specchio di acqua della valle, perché in tempo di burrasca i marosi vi depongono accanto limo, piccole conchiglie chiamate Capulerio nel paese e altre materie sollevate dai fondi… I fossi di scolo del Polesine sono forniti di chiaviche al traversar che fanno l’argine di cinta, senza di che, quando le acque sono alte nella valle, verrebbero per riflusso ad inondare i terreni coltivati, ma anche quando sono basse, i detti fossi si trovano chiusi dalla spiaggia o gronda di materie accumulate dai marosi, e conviene aprirvi canaletti di scolo, che si colmano ad ogni nuova mareggiata. Aggiungasi che nella più gran parte dell’anno non possonsi aprire le chiaviche e fare scolare l’acqua, che allorquando un forte vento di levante spinge verso Comacchio le acque della gran valle e produce presso l’argine un sensibile sbassamento di livello… Riesce quindi evidente che l’unico mezzo per redimere il Polesine di San Giorgio si è l’applicazione qui pure delle macchine idrovore.”
L’equivoca metamorfosi di un progetto di bonifica E’ il 21 gennaio 1870 quando i delegati dell’Assunteria di Massafiscaglia dirigono alla Congregazione scoli la richiesta di un progetto per l’emungimento dei propri terreni. Il successivo 14 febbraio 1870 alla riunione della Congregazione, l’”ingegnere primario” Luigi Piccoli, il successore di Forlani, dichiara la possibilità di assicurare il prosciugamento dei terreni che scolano nelle Valli Gallare mediante l’installazione di una macchina idrofora, che dovrebbe essere installata alla Chiavica Marescalca, in località Marozzo, all’argine del Volano, nel quale riverserebbe l’acqua stagnante nelle Gallare determinando l’emersione delle terre circostanti ad altimetria superiore. Il 30 aprile 1870 Cesare Paramucchi, presidente dell’Assunteria di Massafiscaglia, illustra ai delegati il progetto dell’ingegner Piccoli. Trascorrono nove giorni, il 9 maggio ottantacinque proprietari del comprensorio, temendo che l’auspicio di Paramucchi sia destinato ai polverosi archivi dell’organismo, indirizzano alla Congregazione del secondo circondario una petizione che chiede la realizzazione del progetto. La Congregazione approva la richiesta e incarica l’”ingegnere primario” di predisporre un progetto esecutivo. L’ingegner Piccoli assolve con solerzia ai propri compiti: il 30 maggio sottoscrive il piano formale per la bonifica meccanica delle valli circostanti le Gallare comunemente indicate con la medesima denominazione. Il 2 giugno il progetto è inoltrato al Prefetto in assolvimento delle prescrizioni del moto proprio di Pio VI che all’alba del Regno d’Italia costituisce norma vigente in materia di acque e opere di bonifica negli antichi stati pontifici. Evento eccezionale nella storia della Pubblica amministrazione italiana, dopo una sola settimana, il 9 giugno, il Prefetto suggella l’approvazione del progetto, di cui la Congregazione può, quindi, affrontare l’attuazione. Prevista una spesa di 135.000 lire, viene proposto un primo riparto, commisurato ai benefici che le singole proprietà ritrarranno dal prosciugamento della superficie palustre o semipalustre, estesa a 7.600 ettari. Secondo Piccoli l’onere medio di 3,42 lire per ettaro consentirà di accrescere il valore dei terreni di 25 lire per ettaro. Se, peraltro, la sussistenza di vantaggi è riconosciuta da tutti i consorziati, non tutti sono d’accodo sulla loro misura nei terreni ubicati nelle diverse aree del comprensorio, posti a quote diverse e a distanza differente dai canali di emungimento. Manca altresì l’accordo sul tipo di apparecchiatura da installare, siccome negli anni più recenti i modelli di pompa offerti dai costruttori si sono moltiplicati, le riviste tecniche proclamano i vantaggi di un apparecchio rispetto agli altri, la scelta dipende dalla diversa valutazione di un numero cospicuo di variabili. Inizia un’interminabile successione di assemblee dei possidenti, che nominano prima una “deputazione straordinaria”, quindi una “commissione straordinaria”, che insedia, a sua volta, una “commissione parziale”, le cui sedute si accendono allo scontro delle opinioni opposte sulle macchine da installare, sulla potenza di cui debbano disporre, sui criteri di riparto degli oneri tra i beneficiari. Dopo un vortice di sedute, il 9 settembre 1870 la commissione “straordinaria” incarica formalmente l’ingegner Piccoli di modificare il piano originario prevedendo di collocare a Marozzo macchine di potenza maggiore. La solerzia dell’ingegner Piccoli consente di presentare il nuovo piano al Prefetto il 15 settembre. Il 20 marzo 1871 la commissione “straordinaria” è in procinto di deliberare sulle apparecchiature da adottare quando propone un’obiezione pregiudiziale ad ogni decisione Giuseppe Pavanelli, che si oppone a qualunque deliberazione se non si decida, previamente, che il progetto assicuri il completo prosciugamento delle Valli Gallare, di Valle Volta e di una serie di valli prossime di proprietà privata. Il progetto originario prevedeva la bonifica delle terre che scolano nelle Gallare, 7.600 ettari, Pavanelli pretende che esso prosciughi le intere Gallare, 12.500 ettari: un mutamento che obbligherebbe a presentare in Prefettura un progetto radicalmente diverso da quello già inoltrato. Per non interrompere l’iter del progetto l’ingegner Piccoli dichiara che nel progetto già inoltrato avrebbe inserito espressioni sufficientemente ermetiche da consentire alla Congregazione, ove i delegati lo decidessero, di dichiarare di avere previsto, nella compilazione del testo originario, di realizzare i grandi canali necessari a prosciugare il comprensorio cui Pavanelli intende estendere la bonifica. Giocoliere impareggiabile tanto tra gli infidi pantani del Polesine quanto nelle mutevoli combinazioni di assemblee e commissioni, Giuseppe Pavanelli ha sospinto un progetto di bonifica a convertirsi in un progetto oltremodo più ambizioso, e più costoso, ha indotto il progettista che lo ha firmato a prodursi nella più prodigiosa, inattesa metamorfosi. Conferma che la commissione “straordinaria” ha deliberato un piano radicalmente nuovo il tempo che l’ingegner Piccoli impiega a redigere il progetto dei nuovi canali e delle nuove opere murarie. Corredato dal piano di riparto delle spese tra i proprietari compilato dall’ingegner Parmiano Parmiani, e da un piano finanziario opera del dottor Antonio Malagò, che appare il solerte comprimario di Pavanelli all’interno della “commissione straordinaria”, il nuovo progetto viene presentato dall’ing. Piccoli il 26 settembre. Il 10 novembre la commissione “straordinaria” delibera alcune modifiche ai criteri di riparto delle spese, che vengono inclusi dall’ingegner Piccoli nel piano aggiornato che presenta il 20 novembre. Il verbale viene sottoposto all’approvazione prefettizia, che viene rilasciata il 20 dicembre. Mentre la commissione “straordinaria” sospinge il piano verso l’approvazione, la non meno solerte commissione “speciale” compie passi decisivi verso la capitale scelta delle apparecchiature: nel corso della riunione del 20 settembre, Pavanelli, che sostiene la scelta della “ruota-pompa”, suffraga la proposta dichiarando che l’opzione sarebbe avallata dall’ingegner Girolamo Chizzolini, direttore del più prestigioso periodico agricolo nazionale, L’Italia agricola, un professionista le cui consulenze sono richieste nella realizzazioni di opere pubbliche in Italia e all’estero, membro di autorevoli commissioni e comitati. La tecnologia olandese soccombe al pantano Dalla prima menzione, nel verbale della seduta del 20 settembre, l’ingegner Chizzolini assume il ruolo di autentico deus ex machina della bonifica delle Gallare: siccome l’apparecchio che verrà installato sarà imposto dalla sua pervasiva autorità, l’esattezza lessicale imporrebbe di definire l’apparecchio la machina ex deo, attribuendo al nume ingegneristico il potere di creare la macchina piuttosto che alla macchina il potere di fare comparire la divinità. Deliberata la realizzazione del grande progetto, il 15 novembre il diligente ingegner Piccoli si reca in provincia di Venezia, a San Donà di Piave, a verificare, a Cava Zuccherina, l’efficienza dell’apparecchio suggerito, attraverso Pavanelli, da Chizzolini. Le informazioni di cui dispone risultano errate, l’apparecchio non è ancora stato installato, la società costruttrice non ne ha consegnato che il tamburo, ma l’ingegnere che dirige l’installazione, l’olandese Overmars, dichiara a Piccoli che qualunque dubbio potrà essere risolto da Chizzolini, rappresentante in Italia del costruttore. La Congregazione chiede informazioni sull’apparecchio al Ministero di agricoltura, industria e commercio, che trasmette la richiesta al Ministero degli esteri, il quale incarica, per parte sua, la Prefettura di Ferrara di riferire alla Congregazione che per ottenere le informazioni più sicure sulla “ruota pompa” non è necessario esperire ricerche in Olanda, siccome il costruttore, Van Royen, ha stipulato un contratto di esclusiva con l’ingegner Chizzolini, che è pronto a fornire qualunque ragguaglio sull’apparecchio. La presenza di Chizzolini nei consessi ministeriali è, palesemente, una presenza autorevole. Dopo le decisioni assunte dalla “commissione straordinaria” il 20 settembre 1871 la bonifica delle Gallare non pare doversi aprire un varco tra pantani palustri, procede su un viale trionfale: il 6 gennaio 1872 la medesima commissione approva il piano finanziario del dottor Malagò, il secondo protagonista, abbiamo annotato, della vicenda, il 16 successivo viene stipulato il necessario mutuo con i banchieri Laudadio Grego di Verona, il 9 marzo viene nominato il direttore dei lavori: il tecnico prescelto è l’ingegner Giuseppe Borsari. La circostanza più singolare della vicenda appare essere, tuttavia, il viaggio in Olanda per la scelta dell’apparecchio destinato al sollevamento delle acque. Partono per i Paesi Bassi, il 18 aprile 1872, Antonio Malagò, il consigliere Fabbri, l’ingegner Piccoli e, come consulente, un ingegnere dal nome inglese, Whitehead. Sussistendo un palese orientamento verso la “ruota-pompa” di Van Royen, l’apparecchio di cui detiene l’esclusiva per l’Italia Chizzolini, il comitato tecnico si dirige agli stabilimenti del costruttore olandese, che, ricolmo di premure, con sicura padronanza, “data l’influenza nel suo Paese, Cavaliere di vari ordini e reputatissimo”, scriverà Piccoli nella propria relazione, accompagna gli ospiti in una lunga tournée tra polder maggiori e minori, dove il comitato può verificare l’azione di tutti gli apparati idraulici che offrono i costruttori europei, pompe aspiranti, pompe aspiranti e prementi, ruote a palette, viti olandesi, pompe centrifughe. Singolarmente, spiega l’ingegner Piccoli nella relazione che corona il viaggio, l’esame di tutte le apparecchiature diverse conferma l’assoluta superiorità della “ruota pompa” del geniale Van Royen, che congeda gli ospiti italiani certo dell’affare, seppure eviti di affrontare qualunque tema economico, per correttezza, spiegheranno i solerti viaggiatori, verso l’ingegner Chizzolini, al quale ha assicurato l’esclusiva delle vendite in Italia. Il contratto tra i rappresentanti della Congregazione e il mandatario italiano del costruttore olandese viene stipulato il 24 settembre 1872. Il prezzo pattuito per due caldaie e quattro pompe è 170.000 lire oro, oltre a 17.000 lire di attrezzi di corredo, più 37.000 lire per il trasporto fino a Venezia, o, a scelta del venditore, a Ferrara, restando il tragitto dal porto, o dalla stazione ferroviaria, al cantiere, a carico della Congregazione. Singolarità di un contratto di vendita, il costruttore ottiene, oltre al prezzo, 8.000 lire a titolo di riconoscimento del proprio brevetto, l’intermediario riceve 4.000 lire per le proprie prestazioni ingegneristiche. Assolutamente inequivocabile sulle clausole relative ai propri diritti, Chizzolini ha ottenuto dalla controparte la firma di un contratto ermetico sui tempi di consegna delle macchine. Gli immensi apparecchi giungeranno con ritardi tali da imporre more successive alla installazione. E’ il 23 ottobre 1874 quando il professor Jacopo Benetti, docente di macchine termiche all’Università di Bologna, effettua il fatidico collaudo. Esito curioso di un incarico professionale, il collaudatore pubblica sulla Gazzetta Ferrarese una serie di articoli encomiastici sulle macchine che ha esaminato. Seppure la documentazione dell’archivio consortile sulla funzionalità delle apparecchiature dopo che i fuochisti hanno avviato le vaporiere sia, probabilmente non per caso, lacunosa, sussistono indizi plurimi di gravi appunti agli amministratori per la scelta effettuata, e le prove di costose riparazioni, persino di modifiche operate alle macchine per riparare difetti originari. Risultate vane tutte le modifiche, le apparecchiature scelte, in Olanda, dopo la visita a impianti di pompaggio che impiegano l’intera gamma dei modelli prodotti dall’industria europea, sono sostituite, nel 1888, da pompe centrifughe Gwynne. Apparecchiature costate oltre 250.000 lire, versate in oro, hanno imposto, dopo soli quattordici anni dall’installazione, di verificare che le continue modifiche imposte da macchine di progettazione errata obbligavano a oneri maggiori dell’acquisto di macchine nuove. Le Gallare e le valli circonvicine emergono, comunque, nel 1875, dalle acque, assicurando a chi ne affronterà la coltivazione 12.500 ettari di terre che vanteranno un posto tra le più fertili della pianura ferrarese.
Bonifiche minori, progetti maggiori
modificaLa conformazione topografica del Polesine di San Giorgio, abbiamo rilevato costituito da una serie di bacini separati da dossi che li rendono indipendenti, consente di affrontare il prosciugamento di ciascuno in forma relativamente indipendente dal prosciugamento degli altri. E’ la ragione per la quale, avvalendosi della legge 20 marzo 1865, la prima legge sulla bonifica del nuovo Regno, i proprietari dell’area palustre compresa tra Argenta e Filo si costituiscono, nel 1872, in consorzio autonomo, che chiede l’autorizzazione del Prefetto per attuare il prosciugamento dei 6.726 ettari di propria pertinenza. Ricevuta l’autorizzazione, il Consorzio ottiene i fondi necessari dalla Banca delle Romagne, dalla Banca di Ferrara, dal finanziere torinese Geisser, da quello ferrarese Finzi. Realizzata una rete di 93 km di canali, il Consorzio installa a Bando un apparato idrovoro capace di riversare nel Mezzano 154 metri cubi di acqua al minuto. Nel 1878 le opere sono ultimate, l’impianto è funzionante. Un’esperienza di dimensioni minori, coronata da un esito egualmente felice, ha inizio, due anni più tardi, in un altro lembo del Polesine, il territorio di 2.181 ettari di paludi compreso tra Galavronara e Forcello, dove, costituitisi in consorzio autonomo, i proprietari attuano un progetto che prevede l’elevazione degli antichi argini e l’installazione di un impianto idrovoro, che prosciuga la palude nel 1882. Mentre nel grande comprensorio si moltiplicano le superfici che le idrovore liberano dalle acque, l’uomo che ha orientato, muovendo, nel teatrino delle paludi, le proprie marionette, la bonifica delle Gallare, Girolamo Chizzolini, propone, nel 1877, un piano generale per il prosciugamento dell’intero Polesine di San Giorgio, della parte settentrionale delle Valli di Comacchio e della bassa Pianura bolognese. Il progetto prevede la costruzione di una “botte” che consentirebbe al canale che convoglierebbe le acque bolognesi di passare al di sotto dell’alveo del Reno. Chizzolini commissiona all’ingegner Parmiano Parmiani la classificazione delle terre che verrebbero beneficate dal progetto: la condizione per attribuire ai proprietari le spese delle opere. La superficie interessata dal progetto viene ripartita in 23.764 ettari di terre “superiori”, poste, cioè, a quota maggiore di m 2,80 sul livello del mare, in 8.644 ettari di terre “medie”, poste, cioè, tra m 1,80 e m 2,80 sul livello del mare, e 3.848 ettari di terre “inferiori”, poste, cioè, al di sotto di m 1,80 sul mare. Il progetto prevede opere del costo complessivo di due milioni e mezzo di lire. Alla ricerca di alleati che suscitino l’adesione al progetto dei possidenti e della popolazione, l’ingegner Chizzolini si lega al banditore di tutti i piani di riscatto economico delle paludi, il maggiore Merighi, che il 18 agosto 1876 indirizza alla popolazione di Comacchio, diffidente, se non ostile, verso ogni disegno che minacci le sue valli, e, con le valli, le sue anguille, un bando altisonante: “Comacchiesi! Oggi stesso ebbi l’onore di presentare all’Onorevole Vostro Consiglio il nuovo Progetto…della parziale Bonifica della Vostra Laguna… L’essermi associato alla grande impresa l’Illustre Ingegnere Cav. Girolamo Chizzolini, ed averne invocate da Esso le tecniche discipline, Vi è piena caparra pella più sollecita e scrupolosa esecuzione dell’opera avventurata. E siccome la Patria è una sola, ed egualmente sacri in essa gli interessi di tutti, così non si scompagni da Voi il pensiero che, vedendo modo di promuovere in equa misura i Vostri interessi, provvedete nel tempo istesso a quelli di quattro Provincie sorelle, ed alla Patria comune.” Singolare manifestazione della personalità di un idealista cui nessuna sconfitta insegna a curare i propri interessi senza pretendere che con gli interessi propri collimino quelli di migliaia di possidenti, oltre a quelli di banchieri, costruttori e finanzieri, il malaccorto maggiore si rivolge a una popolazione naturalmente avversa alla bonifica pretendendo non solo che accetti il prosciugamento dei propri stagni come il più generoso dei doni, immagina di convincere i Comacchiesi che l’amore di patria li obblighi a promuovere i vantaggi idraulici delle province di Ravenna, Bologna e Modena. E’ superfluo annotare che il sodalizio tra Merighi e Chizzolini si concluderà in una cruda vertenza giudiziaria, che vedrà, palesemente, l’affarista trionfare sulle ragioni del sognatore.
Tre protagonisti
modificaAbbiamo constatato il ruolo capitale assolto, nella realizzazione dell’impianto di Marozzo, da due uomini, Giuseppe Pavanelli e Girolamo Chizzolini. Siccome saranno ancora protagonisti di eventi chiave dell’epopea ferrarese, lo storico che si proponga di definire il profilo dei pionieri di quell’epopea non può assolvere al proposito con pertinenza maggiore che tratteggiando le biografie dei dioscuri del prosciugamento delle Gallare, rappresentanti emblematici della borghesia agraria ottocentesca. Giuseppe Pavanelli è caratteristica figura di affarista provinciale, la copia ferrarese del siculo mastro don Gesualdo di Verga. L’origine del denaro di cui dispone sono gli appalti, piccoli o piccolissimi appalti: il padre appaltava botteghe comunali. Come don Gesualdo dall’appalto passa all’affitto di terre di grandi proprietari patrizi, di cui, al passo successivo, diviene proprietario. Costruttore, agricoltore, commerciante, il suo frenetico attivismo riesce a fare, in pochi anni, di Migliarino, poche case tra paludi e pascoli palustri, un centro di vitalità economica che si distingue tra i centri vicini. Frutto di una girandola di compravendite fortunate, quando, ricalcando i precedenti di avventurieri famosi, il 2 dicembre 1875 Giuseppe Pavanelli si spara un colpo alla testa, lascia agli eredi un patrimonio che oltre ad una serie di palazzi comprenderà 815 ettari a Migliaro, 286 a Fiscaglia, 160 in località diverse. La sua fortuna ha superato quella dell’omologo personaggio verghiano, di cui non ha atteso, indomito, il malinconico tramonto. Radicalmente diversa, quella di Chizzolini è figura di rilievo nazionale: ingegnere e grande proprietario nel Mantovano, si trasferisce a Milano, dove firma progetti di grande ambizione, fonda una rivista agricola, L’Italia agricola, che conquista, rapidamente, i titoli della testata agraria più prestigiosa d’Italia, entra, quale consigliere, in un novero incredibile di organismi e comitati. Anche Milano si rivela arena angusta per un uomo dal dinamismo incontenibile, che raggiunge Roma, dove partecipa alla fondazione del primo organismo associativo degli agricoltori italiani, la Società degli agricoltori italiani, e dove viene nominato tra i membri del Consiglio d’agricoltura, il comitato tecnico economico di cui si avvale il Ministro per la valutazione dei problemi che impongano il propriointervento. Tanto nella direzione della rivista, che cede al Comizio agrario di Piacenza conservando il titolo di condirettore, quanto al vertice della Società agraria quanto, infine, nel Consiglio di agricoltura, l’ingegnere milanese si sposta, per una riunione o un consiglio esecutivo, dalla sede di un organismo a quella di un altro, da Milano a Piacenza a Roma, gli uomini che incontra sono, però, sempre i medesimi, i venti uomini che negli ultimi quattro lustri dell’Ottocento decidono le sorti dell’agricoltura italiana, un manipolo che comprende Enea Cavalieri, Luigi Luzzatti, Giovanni Raineri, Maggiorino Ferraris, Antonio Bizzozero, Emilio Fioruzzi. A ciascuno di quegli uomini è stata dedicata almeno una biografia, ognuna accuratamente documentata e organicamente compilata. Nessuno dei biografi degli alfieri dell’agricoltura italiana nel crepuscolo dell’Ottocento si è mai chiesto, tuttavia, perché il protagonista della propria indagine partecipasse a una molteplicità di organismi, nei cui consigli incontrava sistematicamente le medesime controparti. Tra gli organismi i cui consigli riuniscono il manipolo degli alfieri del progresso agricolo il più prestigioso è, indubbiamente, la Federazione italiana dei consorzi agrari, creata a Piacenza nel 1892. La rapidità con cui il sodalizio, concepito in una rapida serie di convegni i cui protagonisti non varcano il numero di dieci, propaga le proprie diramazioni in tutto il Paese, dimostra in modo inequivocabile che i fondatori dispongono di legami funzionali con uomini in grado di orientare l’economia agraria di gran parte delle province italiane. Quei legami non sono, palesemente, legami familiari, non sono legami nobiliari, economici o politici, non possono essere che legami massonici. Alla Federazione italiana dei consorzi agrari Girolamo Chizzolini assicura, con l’Italia agricola, la prima rivista agraria nazionale. Se il vertice della Federazione è costituito da un manipolo di fratelli muratori, idealmente partecipe di quel manipolo, Chizzolini è, palesemente, fratello muratore. Supporre che l’ingegnere milanese sia legato ai vertici massonici della finanza italiana fornisce l’unica spiegazione che rende comprensibile la facilità con cui un progettista il cui patrimonio personale è cospicuo, che non dispone, tuttavia, dei capitali di una banca nazionale, estrae dal cilindro di imprevedibile prestigiatore le cifre necessarie a due delle più impegnative speculazioni fondiarie della storia delle bonifiche italiane. Se la bonifica del Polesine di San Giorgio registra, alle proprie origini, le gesta di due avventurieri economici, non è improbabile che l’acqua avrebbe riconquistato, nel crepuscolo dell’Ottocento, la terra che le era stata sottratta se un terzo protagonista non avesse assunto, con determinazione e lungimiranza, la guida della Congregazione. Quando, infatti, si rende necessaria la sostituzione delle macchine imposte da Pavanelli e Chizzolini, in conseguenza delle difficoltà economiche dei consorziati, la Congregazione versa nelle più gravi difficoltà finanziarie, incapace persino di pagare i ratei dei mutui in corso: è il marchese Alessandro di Bagno che, assunta la presidenza, riesce a ottenere che la Congregazione fruisca dei benefici della recente legge Baccarini, un’impresa non agevole siccome la legge prevede benefici per opere da realizzare, non per opere già realizzate, possa, quindi, completare le opere in corso di esecuzione e realizzare opere nuove. Se altri ha bonificato, avventurosamente, il Polesine di San Giorgio, è Di Bagno a salvare la bonifica e ad assicurare definitivamente alla coltivazione la terra sottratta alle acque.
Beni comunali, affaristi e banchieri
modificaE’ nell’anno successivo al collaudo dell’impianto idrovoro di Marozzo, il 1875, che il sodalizio nato tra Giuseppe Pavanelli e Girolamo Chizzolini fornisce la prova più eloquente del proprio disinvolto dinamismo con l’affare più fortunoso e fortunato della storia delle bonifiche ottocentesche. Usando del proprio ruolo di consigliere dell’assunteria di Massafiscaglia, Pavanelli riesce a fare approvare una delibera con cui il comune offre all’asta i diritti di enfiteusi sui 1.700 ettari di palude di Valle Volta. Il bando prescrive che i concorrenti versino in anticipo un quinto del prezzo. In un borgo di braccianti e pescatori nessuno è in grado di partecipare all’incanto, così che i diritti enfiteutici sono aggiudicati all’unico concorrente, Giuseppe Pavanelli, che si assicura l’immensa superficie per 118 lire all’ettaro, lo stesso prezzo per cui cede l’immensa estensione all’ingegnere milanese. Temendo dell’incolumità personale, il disinvolto affarista si dimette, il giorno stesso del contratto, dalla carica di consigliere. Le decine di famiglie alle quali vengono sottratte, repentinamente, le risorse essenziali, un poco di pascolo, un poco di pesca, il taglio di un poco di bosco, si sollevano, interviene la forza pubblica, i titolari degli antichi diritti comuni ricorreranno in tribunale affidandosi ad un docente di diritto penale, Giorgio Turbiglio, che nell’adempiere al mandato profonderà ogni passione. Nelle istanze successive di giudizio i giudici del nuovo Stato italiano, monarchico e liberale, accoglieranno le ragioni di Pavanelli e del suo cessionario, fino alla definitiva sentenza di Cassazione, che sarà pronunciata il 22 febbraio 1880 Dopo il suicidio del prezioso alleato, Chizzolini non può più avvalersi degli uffici del signore indiscusso delle paludi ferraresi, dimostra, però, di avere appreso a negoziare con comuni in possesso di migliaia di ettari concludendo il secondo clamoroso affare con l’acquisto, ancora, di una palude sconfinata nella quale acque e pascoli sortumosi sono fonte di vita per una plebe di pastori, pescatori e braccianti. E’ il 1878 quando acquista dal comune di Comacchio, in società con il banchiere viennese Schanzer, 3.586 ettari delle Gallare. Il prezzo concordato è 69 lire per ettaro: un prezzo che pare irreale a chi consideri che sono quattro anni, ormai, che le “ruote-pompe” olandesi riversano nel Mezzano l’acqua che ricopriva la valle, che non è più, o è prossima a non essere più, una palude, ma è, o sta divenendo, una fertile distesa di pianura. Il comune di Comacchio si è opposto giudizialmente al prosciugamento delle Gallare, rifiutando, quindi, di partecipare alla faraonica spesa per le macchine vendute da Chizzolini. Pure non avendo aderito, della bonifica potrebbe goderne i benefici: decide, invece, di vendere. Dopo che dall’impianto ha tratto i proventi di intermediario e quelli di progettista, l’inafferrabile fratello muratore di Milano diviene proprietario della superficie maggiore bonificata con le pompe di Marozzo. Il prezzo è tale che solo un anno dopo i due acquirenti rivendono metà della proprietà ai banchieri viennesi Klein per 134 lire. Il maggiore latifondo dei polesini ferraresi non è costato loro che l’anticipazione del prezzo per un anno, avendo i secondi acquirenti pagato una cifra maggiore di quella versata al Comune di Comacchio per l’intero latifondo. Chizzolini e il socio cederanno ai Klein, nel 1884, anche la superficie che hanno trattenuto, al prezzo di 1.400 lire l’ettaro.
La caldaia a vapore sovverte il mercato del frumento
modificaDrammatica epopea tecnologica ed economica, la stagione delle bonifiche ferraresi vede avventurieri, sognatori, finanzieri scommettere fortune sui redditi futuri delle terre redente dalla palude. Non rischierebbero, palesemente, se una ragionevole valutazione dell’operare futuro di una forza capitale del contesto economico non li inducesse ad attendere, dai propri investimenti, guadagni ingenti. Quella forza è una delle chiavi degli equilibri economici di tutte le epoche: il prezzo del frumento. Dopo le vette toccate durante le guerre napoleoniche, nei primi decenni dell’Ottocento il prezzo del frumento ha conosciuto un temporaneo ristagno, ha iniziato, quindi, una vigorosa ascesa. A sospingere quell’ascesa è, a metà del secolo, la domanda dei primi grandi centri manifatturieri, la domanda, cioè, della nuova economia industriale, l’economia delle ferriere e delle filande meccaniche. Nel cuore della vita finanziaria europea, nella City dove si decide di investire nelle bonifiche ferraresi, nel 1870 le quotazioni del frumento toccano 2 sterline, 5 scellini per quarter di otto staia (291 litri), un prezzo che induce a vedere in paludi collocate nel cuore dell’Europa un autentico Eden. L’economia industriale che chiede frumento in quantità senza precedenti offre a chi voglia produrre frumento su terreni dove lo impedisca il ristagno dell’acqua uno strumento nuovo: la pompa che può azionare una caldaia a vapore. I guadagni che, a metà dell’Ottocento, si possono sperare dall’operazione, sono cospicui. I terreni di palude costano poche decine di lire all’ettaro, una macchina a vapore alcune decine di migliaia di lire: il frumento, calcolano i pionieri della bonifica, ripagherà gli investimenti in pochi anni. La previsione si rivelerà doppiamente fallace. Fallace perché ha mancato di prevedere l’evoluzione del prezzo del grano e perché le produzioni attese sono il frutto di un errore agronomico. A provocare la caduta del prezzo che i pionieri della bonifica hanno previsto stabile è lo stesso strumento al quale hanno affidato le proprie speranze, la macchina a vapore, che oltre ad azionare una pompa può essere impiegata a muovere un veicolo su una rotaia e un bastimento sugli oceani. Negli Stati Uniti viene impiegata a collegare a un porto le terre di fertilità primigenia della Prateria, liberate dai cacciatori di bisonti al prezzo di qualche cartuccia, quel porto viene collegato agli scali europei da navi di ferro di capacità mai sperimentata. La caldaia a vapore viene impiegata, ancora, ad azionare, nella Prateria, apparecchi che consentono a un pugno di uomini di realizzare, con rapidità senza precedenti, l’operazione che costituisce il nodo del ciclo dei cereali: la trebbiatura, preceduta dalla mietitura eseguita da apparecchi a trazione equina che evitano l’impiego di migliaia di uomini. Tre applicazioni della caldaia a vapore consentono a un numero ridotto di uomini di ricolmare, nel cuore della Prateria, vagoni senza numero di frumento, di riversare quei vagoni in un piroscafo a vapore, di ricolmare, in un porto europeo, nuovi vagoni diretti ai centri manifatturieri del Continente. Il prezzo del frumento conosce la flessione più drammatica di tutta la propria storia: alla borsa di Londra il quarter che nel 1870 costava 2 sterline e 5 scellini, viene venduto, nel 1895, a 1 sterlina, 2 scellini e 8 pence. Il secondo errore dei pionieri della bonifica, l’errore agronomico, consiste nell’illusione che sotto il manto d’acqua che la pompa azionata dal vapore può rapidamente eliminare, si distenda una pianura dove sia sufficiente gettare il seme per ricavare raccolti opulenti. I terreni bonificati si riveleranno, in misura cospicua, terreni anomali, argillosi, torbosi, salsi, per portarvi sementi e bestiame sarà necessario costruirvi le necessarie reti stradali, e perché uomini e animali possano dissetarsi si dovrà portarvi persino l’acqua, siccome i pozzi realizzati in aree da millenni palustri non offrono acqua potabile.
Il Far West immobiliare dell’Italietta di Giolitti
modificaSono due errori che si uniscono in una morsa che per la maggior parte dei pionieri della bonifica si rivela fatale: proprio quando, infatti, verificano la necessità di realizzare strade e fabbricati, di acquistare bestiame e di stipendiare operai, i primi bonificatori debbono misurarsi con la caduta del prezzo del grano. La terra che hanno redento non produce quanto essi speravano, per offrire rendimenti sufficienti richiede nuovi, ingenti investimenti, il frumento che produce, tanto meno abbondante di quello sperato, vale la metà di quanto avevano previsto. Allettati dal costo irrisorio della terra, e dai risultati di un computo agronomico errato, la maggioranza dei primi bonificatori ha investito tutte le disponibilità acquistando quanta più terra fosse possibile: cede il prezzo del grano, crollano i prezzi delle terre che di produrre grano si rivelano incapaci, i pionieri della bonifica tentano di resistere stipulando mutui astronomici: tra il 1886 ed il 1891 sei proprietari di terreni di bonifica, titolari, insieme, di 25.069 ettari, stipulano con la sola Banca nazionale mutui per 9.800.000 lire. Ma i mutui producono interessi, mentre i terreni di bonifica non producono frumento in misura che consenta di pagare gli interessi: il mutuo è la tappa obbligatoria verso una vendita che dissolverà il patrimonio che l’avventuroso pioniere dell’idrovora ha investito nella palude. La storia della bonifica dei polesini ferraresi registra, negli anni a cavaliere tra i due secoli, la rovina della schiera di uomini d’affari, finanzieri e imprenditori che hanno fatto professione di fede nella macchina a vapore, che dalla macchina a vapore sono costretti a rivendere la palude che hanno sognato di convertire in lembo dell’Eden. La vaporiera che ha prosciugato la palude converte l’Eden nella terra di frontiera dove banchieri, speculatori e affaristi lottano per strappare, per un pugno di lire, i latifondi che i pionieri della bonifica hanno fatto emergere dalle acque per essere sommersi dai debiti, che le banche, impietose, pretendono siano pagati con una vendita a qualunque prezzo. E’, nella prima stagione dell’Italia industriale, vicenda che si consuma tra bagliori corruschi, una pagina di Far West immobiliare nell’Italietta di Giolitti. Nella lotta di frontiera tra le paludi il più illustre tra gli sconfitti è Francesco Cirio, il più prestigioso imprenditore agroindustriale del Paese, il pioniere dell’applicazione industriale dei nuovi processi di conservazione degli ortaggi, che nel Polesine di San Giovanni si è proposto di creare un’azienda modello che dilata, moltiplicando gli acquisti, su migliaia di ettari, che, dimostratisi irrealizzabili i guadagni che sperava, Cirio rivenderà a prezzi ampiamente inferiori a quelli a cui ha acquistato. Data la molteplicità delle compravendite che vengono componendo il nuovo giardino delle Esperidi non è facile stabilire il prezzo medio di acquisto, come è difficile stabilire quello di vendita. Forniscono un indizio eloquente dell’esito dell’avventura due dati: le 1.125 lire all’ettaro che Cirio ha pagato per i 1.256 ettari che ha acquistato, tra il 1886 ed il 1888, tra Codigoro, Pomposa e Mezzogoro, e le 890 lire per le quali cede, nel 1910, 2.500 ettari negli stessi comuni al cavalier Mazzotti Biancinelli. Tra i due contratti sono trascorsi, si deve rilevare, vent’anni, durante i quali l’alfiere della nuova agricoltura industriale ha investito somme ingenti in edifici, strade, apparecchiature, che hanno accresciuto la produttività dei terreni, a vantaggio, palesemente, dell’acquirente che li rileva a un prezzo inferiore del 30 per cento a quello a cui erano stati pagati appena emersi dalle acque. Nella rovina dei pionieri si salva, la storia è spesso impietosa, chi non ha sognato il lembo il nuovo Eldorado, chi di fronte alla palude non si è abbandonato alle illusioni sull’agricoltura di un futuro radioso, ma della palude ha fatto l’oggetto della più fredda speculazione immobiliare, chi ha comprato, come Pavanelli, terreni pubblici per poche lire e li ha rivenduti, triplicato il prezzo, a chi la palude voleva convertire in distesa di messi biondeggianti, chi, come Chizzolini, ha usato del duplice ruolo di progettista e di finanziere per operare il prosciugamento, e cedere, senza affrontare gli investimenti imposti dalla trasformazione agricola, a chi sognava l’agricoltura del futuro. Quando Pavanelli, intermediario spregiudicato, decide di chiudere la propria avventura, lascia il patrimonio di un grande latifondista, ma quella di Pavanelli è fine tragica. L’autentico trionfatore, nella cruda contesa sulla frontiera ferrarese della palude, è Girolamo Chizzolini. Per il proprio duplice ruolo, che diviene triplice se si considerano le funzioni di intermediario di apparecchiature meccaniche, l’ingegnere milanese ha raccolto tutti i benefici che un operatore tecnico ed economico potesse ritrarre dalla corrusca epopea delle bonifiche ferraresi. Ai sogni dell’agricoltura futura l’accorto fratello muratore non manca di contribuire, peraltro, senza rischiare le proprie fortune, come condirettore del più diffuso periodico dell’agricoltura nazionale. Trionfatore sul cedevole terreno palustre nel quale tanti coraggiosi hanno affondato il patrimonio, sui bordi delle paludi ferraresi l’ingegnere milanese meriterebbe un monumento. Siccome non può esservi monumento senza lapide dedicatoria, a illustrare ai posteri i meriti dell’ingegnere lombardo in quella lapide dovrebbe scriversi, a caratteri d’oro, il giudizio pronunciato da Francesco Luigi Botter, che in occasione della prima comparsa tra le paludi ferraresi ha elogiato Chizzolini definendolo “uomo superiore, vera specialità tecnica e particolarmente idraulica” e, a complemento, gli attributi di cui lo onorano gli avvocati di Vittorio Merighi e quelli di pescatori e pastori di Massafiscaglia, che lo descrivono come il più avido degli animali da preda che abbia mai solcato le acque di una palude. Scompaiono gli ultimi stagni L’epopea della bonifica ottocentesca si conclude, nel Polesine di San Giorgio, nel 1891, quando l’installazione di una pluralità di piccole idrovore consente di bonificare nove bacini minori del comprensorio, Montesanto, Denore, Campocieco, Benvignante, Sabbiosola, Martinella, Tersallo, Bevilacqua e Trava, complessivamente 13.660 ettari, il secondo merito storico, dopo il salvataggio della bonifica delle Gallare, del marchese Di Bagno. La guerra interromperà la grande opera intrapresa dall’Italia sabauda per estendere l’esigua superficie agricola di cui il Paese dispone, naturalmente, in pianura. Dopo la guerra lunghi anni saranno necessari al ripristino delle opere la cui cura è stata, negli anni del conflitto, trascurata, o che sono state, è il caso delle bonifiche venete, teatro dello scontro militare. Quando nuove bonifiche vengono intraprese il confronto tra l’uomo e la palude si compie in un quadro civile che non è più dominato dai gentiluomini in marsina e bombetta che decidevano dell’installazione delle idrovore in sintonia con i propri corrispondenti alla City londinese, è il quadro in cui si sono imposti i focosi centurioni in camicia nera che inaugurano ogni nuova chiavica allo sventolare dei gagliardetti tra gli inni a Roma che rivendica le glorie tramontate. Nel clima nuovo nel 1925 vengono prosciugati i 2.300 ettari di sant’Antonino, la cui bonifica è salutata dalle autorità, in una solenne adunata, come l’alba della nuova agricoltura del Regime, nel 1928 i 1.300 ettari di Celese, nel 1933 i 4.300 ettari di Valle Isola e Minori e, contemporaneamente, i 6.300 ettari del Mantello. Alla stagione delle bonifiche littorie corrisponde il progressivo ampliamento della superficie del Consorzio. Il comprensorio governato dalla Congregazione di diritto pontificio si dilatava su una superficie di 55.800 ettari: quelle dimensioni si erano contratte quando, emanata la legge 20 marzo 1865, nel comprensorio di Argenta e in quello di Galavronara e Forcello i proprietari si erano uniti in consorzi specifici per realizzare autonome esperienze di bonifica. La superficie dell’antica Congregazione aveva perduto 10.800 ettari. La superficie del Consorzio inizia il processo di dilatazione che la porterà alle dimensioni attuali con l’incorporazione, sancita nel 1925, della bonifica di Trebba e Ponti realizzata due anni prima dal Genio Civile, cui negli anni successivi segue l’incorporazione di numerosi consorzi minori. Nel 1937 l’incorporazione della bonifica di Cavo Spina porta la superficie consortile a 50.650 ettari. Dopo il secondo conflitto mondiale si aggiungono ai terreni liberati dalle acque i 1.600 ettari delle Valli Basse, vengono inclusi nel comprensorio il Consorzio di Forcello, quindi quello di Valle Isola, poi le Bonifiche di Argenta, quindi il Consorzio di Filo e Langostrino. Nel 1951 il Genio Civile di Ferrara inizia i lavori di bonifica di Valle Pega. Il 5 ottobre 1953 l’Ente Delta, costituito tra gli organismi demandati dell’attuazione della Riforma agraria, inoltra al Comune di Comacchio un’offerta di acquisto delle valli Pega, Rillo e Zavelea. Fedele alla secolare tradizione alieutica il Consiglio comunale rifiuta, inizialmente, la trattativa, propone, dopo negoziati politici turbinosi, il proprio prezzo il 29 novembre 1955. La vendita viene realizzata a 60.000 lire l’ettaro. La grande valle del Mezzano sarà oggetto di una trattativa successiva. La bonifica di Valle Pega è ultimata nel 1955, quella del Mezzano sarà realizzata grazie alla legge speciale che finanzierà le ultime bonifiche realizzate nel Paese, la legge 20 luglio 1957, che consentirà di varare, l’anno successivo il piano generale di bonifica del Mezzano, che nel 1989 sarà incluso dalla legislazione regionale nel comprensorio del Secondo Circondario portandone la superficie a 119.500 ettari. La Riforma fondiaria: quale bilancio? Al termine del secondo conflitto mondiale si accende nel Paese il più aspro scontro politico per distribuire ai contadini la terra la cui divisione negli immensi latifondi patrizi è stata, per secoli, la prima causa dell’arretratezza economica e civile del Mezzogiorno, la cui concentrazione in mani borghesi è stata nel Settentrione, per giudizio unanime dei partiti popolari, tra le cause del Fascismo. Dopo un infuocato confronto parlamentare l’imperativo “la terra ai contadini” si realizza nella Riforma agraria sancita dalla legge “Stralcio” 841 del 1950. Varata per dissolvere il latifondo, non le proprietà a coltura intensiva, la Riforma non interessa, praticamente, il Settentrione, dove la sola provincia coinvolta in misura significativa è quella di Ferrara. Per l’esecuzione della legge viene costituito, il 7 febbraio 1951, l’Ente Delta, attraverso il quale nella provincia emiliana vengono espropriati 28.374 ettari, che saranno ripartiti in 3.065 unità poderali. Tra gli enti costituiti per attuare la Riforma, l’Ente Delta è il solo che non si prefigge soltanto la ripartizione di latifondi, ma che mira a creare, mediante la bonifica, nuove superfici agrarie di cui effettuare, successivamente, la distribuzione. L’Ente completa, infatti, la bonifica delle valli Pega, Rillo e Zavelea, iniziata dal Genio Civile, realizza quella del Mezzano, un’immensa valle salmastra di 18.000 ettari. Le assegnazioni di Valle Pega hanno inizio nel 1965, quelle del Mezzano hanno termine nel 1981, quando il problema della “terra ai contadini” costituisce, ormai, tema dei testi di storia sociale. Tra le leggi della Repubblica la Riforma agraria vanta un indiscusso primato polemico: ha suscitato la più violenta opposizione al momento del varo, ha sollevato le più accese critiche economiche nel corso dell’attuazione, i più radicali rilievi storici alimenterà alla conclusione degli insediamenti. Se è difficile contestare, infatti, che essa abbia infranto il torpore millenario che l’accentramento, nel Mezzogiorno, di regioni intere nel patrimonio di principi e duchi, che le gestivano attraverso intermediari più prossimi alla figura dell’usuraio che a quella dell’affittuario agrario, i risultati hanno consentito ai critici di additare, dal Tavoliere delle Puglie al Fucino alla Maremma grossetana, migliaia di case poderali abbandonate pochi anni dopo la consegna a una famiglia contadina, la cui fuga poteva essere assunta a prova della fallacia del disegno. Tracciare il bilancio dell’ultimo confronto agrario combattuto in una nazione che mentre il Parlamento disputava sulle dimensioni dell’ideale azienda contadina abbandonava lo status di paese agricolo convertendosi in nazione industriale, è impegno non scevro di difficoltà, che risultano particolarmente insidiose per la provincia di Ferrara. Nei comprensori di riforma della provincia emiliana sono stati assegnati terreni a oltre 3.600 nuovi coltivatori, per 330 dei quali la superficie iniziale è stata successivamente ampliata essendo ritenuta quella originaria inferiore alle esigenze economiche essenziali. Le dimensioni dei poderi assegnati sono state superiori a quelle di tutte le altre aree interessate dalla Riforma nel Mezzogiorno e nel Centro: nel comprensorio di Valle Pega sono stati assegnati 70 poderi di 30 ettari. Nel Mezzano vengono assegnati poderi di entità decrescente: i primi di 34 ettari, quindi di 18, gli ultimi di 13. Non sono stati pochi i coltivatori che hanno costituito aziende vitali, non sono stati pochi neppure quelli che, al termine del periodo in cui era loro proibito di rivendere, hanno ceduto, contribuendo alla formazione di nuove grandi proprietà, in parte cospicua di agricoltori veneti, che all’alba del nuovo Millennio le conducono, secondo criteri estensivi, coltivando prevalentemente mais. Peculiarità ferrarese, il radicamento del movimento sindacale di ispirazione marxista ha prodotto l’assegnazione di una superficie cospicua, 1.728 ettari, a cooperative di conduzione, che, nonostante l’entità dei contributi del Governo regionale, che ne ha periodicamente ripianato le passività, hanno mancato di fornire quella prova della vitalità della gestione collettiva della terra che si ricerca invano esaminandone i tentativi alle latitudini diverse del planisfero, che l’impegno di chi governava, a Bologna, nel segno di Marx è stato incapace di produrre contando sullo spirito comunitario, e la devozione al Partito, degli antichi pescatori di anguille di Comacchio.
Dalla canapa al mais: una civiltà muore, un’altra la sostitusce
modificaRipercorrere la storia dell’agricoltura nel Polesine di San Giorgio significa ricostruire due vicende pressoché indipendenti, quella della coltura dei dossi dall’antichità più remota emergenti dalle acque, le “terre vecchie”, quella delle terre sulle quali la bonifica sostituisce, repentinamente, all’economia della valle, l’economia della pesca e del pascolo, una nuova economia agraria. L’agricoltura delle terre di più antica coltura può essere identificata in un sistema di conduzione e in una coltura. Il sistema di conduzione è quello del versuro, un’azienda di ampiezza due-quattro volte maggiore del podere emiliano tradizionale, il podere tipico delle province limitrofe, Modena, Bologna, Ravenna, affidata a un salariato fisso, il boaro, responsabile della cura dell’ingente numero di buoi impiegato nelle arature, fino a sette paia, con l’ampio ricorso, per le operazioni colturali cardinali, alla manodopera salariata. Seppure producesse frumento, e , nelle alberate, anche uva, per secoli la coltura chiave del versuro ferrarese è stata, nelle terre “vecchie”, la canapa. Nella seconda meta dell’Ottocento l’Italia vanta il titolo di secondo produttore mondiale di fibra di canapa. La produzione è concentrata in Emilia: con 190.000 quintali la provincia di Ferrara realizza, nel 1890, il 26,5 % della produzione nazionale. Quella della canapa non è semplicemente una coltivazione, è l’espressione di una civiltà, una civiltà agraria fondata su una disponibilità pressoché illimitata di lavoro umano. L’anno 1900, in occasione dell’Esposizione internazionale di Parigi, Adriano Aducco, docente presso la Cattedra ambulante di Ferrara, è designato dalla Società degli agricoltori italiani ad illustrare le procedure seguite per la coltivazione nella prima provincia canapicola del Paese. Il saggio scritto in adempimento del mandato costituisce straordinaria lettura storica, agronomica, sociale. Producono l’incredulità del lettore moderno, nella dettagliata analisi agronomica, le prove della somma di fatiche umane erogate per ricavare, da ogni ettaro, una quantità di fibra, dalle caratteristiche pure eccellenti, sostanzialmente modesta. Il terreno viene preparato alla canapa dalla ravagliatura, l’operazione con cui, dopo il passaggio di un aratro trainato da sei paia di buoi, una squadra di vangatori approfondisce il solco della profondità della vanga. L’operazione richiede la disponibilità di 24 operai, che si dividono in due squadre, una impegnata, dopo il passaggio dell’aratro, ad approfondire un solco, una il solco opposto. Arato la prima volta dopo la mietitura del grano, il campo destinato alla canapa viene arato di nuovo, alla profondità di 35-40 cm, in settembre, viene erpicato in primavera, quindi livellato, con la zappa, da grandi squadre di donne, e seminato, per non calpestare il terreno, trainando la seminatrice, dalle capezzagne, mediante funi che corrono su carrucole poste in corrispondenza alle fasce di terreno che l’attrezzo deve percorrere. L’agronomo ferrarese descrive come operazioni assolutamente ordinarie il lavoro eseguito, per la copertura della semente, da un erpice che, per evitare il calpestamento degli animali, viene trainato da un manipolo di operaie, e la “concimazione di soccorso” eseguita, dopo il germogliamento, da uomini e donne che, muniti di annaffiatoi, prelevano, da un carro botte disposto sulla capezzagna, urina di stalla imputridita nel pozzo nero e diluita con acqua, per somministrarla, delicatamente, alle pianticelle che appaiano meno vigorose, l’espressione di una cura meticolosa quanto quella diretta ad un orto. Dalla germogliazione la canapa viene sarchiata manualmente almeno tre volte, sopprimendo tutte le infestanti fino a quando lo sviluppo della coltura ne elimina la competizione. Al raggiungimento dell’altezza massima degli steli ha inizio la seconda, faticosissima fase della coltura: gli steli sono recisi, progressivamente, dal margine al centro del campo, dove lignificano più lentamente, vengono raccolti in grandi fasci, posti ad essiccare, quindi immersi nel macero e ricoperti di grosse pietre perché giacciano sul fondo, prima dell’estrazione vengono battuti vigorosamente contro il pelo dell’acqua per liberarli dai brandelli dell’epidermide imputridita, mentre viene ricollocata sulla riva del macero l’immensa mole di pietrame: tutte le operazioni sono svolte da operai immersi fino alla cintola nell’acqua che, alla fine della macerazione, è imputridita. I fasci estratti dal macero sono aperti a capannuccia, si attende che asciughino, quindi vengono sciolti per l’estrazione della fibra, che impone nuove gravose operazioni manuali, la scavezzatura, l’infrangimento, cioè, del canapulo, il midollo dello stelo, e la decanapulatura, la separazione della fibra dai frammenti anche minori di canapulo. Se la canapa costituiva la coltura chiave delle terre ferraresi di più antica coltura, nelle terre di più recente bonifica vengono sperimentate, secondo le dimensioni aziendali, combinazioni produttive diverse, che attribuiscono un ruolo non insignificante, in alcune aziende, all’allevamento, da latte e da carne, due attività che non stabiliranno, nella provincia, una tradizione zootecnica. A fianco della canapa si radica nel Ferrarese, dall’alba del Novecento, la bietola, una pianta che predilige, anch’essa, terreni ricchi e profondi, e impone intense cure colturali. Anche la bieticoltura vede Ferrara imporsi come prima provincia nella graduatoria nazionale, un primato suggellato dalla presenza, nel Ferrarese, di un numero di stabilimenti che non ha riscontro in nessuna delle province emiliane e venete in cui la cultura si impone al centro degli ordinamenti: contano uno stabilimento Migliarino, Comacchio, Ostellato, Bando d’Argenta, Portomaggiore, Mizzana, Bondeno, Codigoro, Jolanda di Savoia, ne contano due Ferrara e Pontelagoscuro. Dopo le avvisaglie di declino degli anni Trenta, gli anni Cinquanta registrano la crisi definitiva della canapa. Al tracollo della coltura tradizionale corrisponde, sulle terre ferraresi, l’alba di una coltura nuova, quella della frutta. La qualità tradizionale della canapa ferrarese era l’esito della coltivazione sui dossi dove il flusso millenario delle acque ha raccolto i materiali sabbiolimosi che compongono un terreno di medio impasto, un terreno, cioè, di perfetta fertilità fisica. Su quei terreni di straordinaria fertilità, ideali per il melo ed il pero, prorompe, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, la stagione travolgente della frutticoltura, una stagione che sarà tanto straordinaria quanto effimera. Fertilità dei suoli, vastità delle aziende, disponibilità illimitata di manodopera, vivace richiesta del mercato: una sommatoria singolare di fattori favorevoli determina i fasti della frutticoltura ferrarese, una sfera produttiva che nel 1945, alla conclusione della guerra, interessa 3.980 ettari, che nel 1967 ne interessa 42.200. In vent’anni sono stati ricoperti di meleti e pereti 38.000 ettari, che per l’entità della produzione fanno di Ferrara una delle province agricole più ricche d’Italia. Con la stessa fulminea rapidità con cui si è dilatata, la frutticoltura ferrarese percorre, singolarmente, la strada del declino: nel 1985 meleti e pereti si sono contratti a 23.180 ettari, allo spirare del secolo non ne ricoprono che 18.300 Quali le ragioni di una contrazione che ha avuto i caratteri dell’autentico collasso? Corrisponde, probabilmente, ad una legge economica che in un’economia industriale le produzioni frutticole si realizzino in aziende di coltivatori che nelle annate in cui i prezzi cadano non debbano retribuire costosa manodopera salariata, che nelle annate favorevoli possano accantonare per quelle negative. La frutticoltura aveva animato, peraltro, nelle campagne ferraresi, la più ampia gamma di attività correlate alla frutticoltura, dal commercio di antiparassitari alla fabbricazione degli imballaggi, dai trasporti alla vendita e manutenzione degli impianti frigoriferi necessari alla conservazione della produzione durante i mesi successivi alla raccolta, un ricco indotto che si è dissolto con le colture cui era collegato. Al tramonto della frutticoltura Ferrara conserva ancora, per due decenni, il primato bieticolo, ma, dopo avere toccato, nel 1981, il primato di 45.000 ettari, anche le bietole abbandonano, progressivamente, i campi ferraresi, minacciando la vitalità dei grandi stabilimenti cui erano destinate, che in successione sono costretti a chiudere. Seppure, a differenza della canapa e dei fruttiferi, la coltura della bietola sia completamente meccanizzabile, il mancato aggiornamento tecnico e genetico, causa del ristagno della produzione di saccarosio per ettaro, la ragione dell’inferiorità della bieticoltura italiana, erode, progressivamente, i margini economici della coltura, che lentamente perde il ruolo antico. Abbattuti i frutteti, i campi ferraresi sono ricoperti da frumento, bietola e mais, ai quali all’alba degli anni Ottanta, si aggiunge, per celebrare fasti anch’essa effimeri, la soia. Al declino della bietola, e alla scomparsa della soia, coincide quello del frumento, al quale i sussidi comunitari inducono gli agricoltori a sostituire il mais, l’autentico dominatore delle campagne ferraresi all’alba del nuovo Millennio, la coltura che esercita la propria signoria tanto sulle terre di più antica coltura quanto su quelle di coltura più recente, accomunate, ormai, da un unico destino agronomico ed economico. Come la canapa costituiva, peraltro, il simbolo di una civiltà, non è meno emblematico di equilibri peculiari tra l’uomo e le risorse agrarie il mais, la pianta che evoca le distese del Middle West, seminata e raccolta dai giganti meccanici con cui un uomo può dominare mille ettari, perno un’economia agraria fondata sul negoziante di mais e fertilizzanti la cui batteria di silo interrompe la distesa dei campi di mais e soia a decine di chilometri dalle installazioni del concorrente più vicino. L’economia del mais non è l’economia del melo, che anima un villaggio di potatori, raccoglitori, meccanici e fabbricanti di cassette, non è neppure l’economia della bietola, che pretende passaggi successivi di una pluralità di macchine, alimenta grandi stabilimenti per rifornire i quali le campagne sono percorse da schiere di autotreni. Abbattuti i meleti, chiusi gli zuccherifici, l’economia agricola ferrarese ha perduto la vitalità degli anni Cinquanta e Sessanta, in piccola parte recuperata da una certa diffusione delle orticole di pieno campo e da una coltura nuova, il pomodoro, che negli anni più recenti ha occupato qualche spazio nel Mezzano. Tramutata in distesa di mais l’immensa pianura sottratta alle acque si è convertita nella Pampa italia.
L’irrigazione
modificaL’acqua è condizione di vita delle piante: se il suo eccesso ne impedisce lo sviluppo la sua carenza non costituisce ostacolo meno grave, se intensa e prolungata, alla loro produttività. Espulse dal comprensorio le acque stagnanti, le esigenze dell’agricoltura moderna, che non accetta le alee dell’irregolarità delle precipitazioni, hanno imposto di realizzare gli strumenti per irrigare le colture realizzate nelle antiche terre palustri. Giorgio Ravalli, dirigente del Consorzio tra gli anni Sessanta e Settanta, presidente tra gli anni Ottanta e Novanta, ha sottolineato che nell’Ottocento le uniche esigenze di acqua delle campagne ferraresi erano correlate alle necessità di riempimento dei maceri, che richiedevano acque pulite, e a quelle di abbeverata dal bestiame. Necessità modeste, quindi, che venivano soddisfatte mediante piccole derivazioni dal Reno e dal Panaro. Acque in quantità maggiore sarebbero state assicurate alla pianura ferrarese dalle chiaviche realizzate dal Consorzio di Burana alle Pilastresi, dalle quali una convenzione con il Magistrato del Po assicurava agli utenti ferraresi, il 19 aprile 1910, la disponibilità di 4 metri cubi al secondo. Non era un volume sufficiente alle esigenze di un territorio vasto quale la pianura ferrarese. Illustra, nei termini più problematici, la carenza d’acqua della pianura ferrarese, l’anno successivo, l’ingegner Pietro Pasini in una relazione sulle opere necessarie al compimento delle reti di bonifica: “E’ fenomeno comune a gran parte delle bonifiche la deficienza delle acque e la loro pessima natura nei periodi estivi e di siccità. Le acque che a malapena rimangono nei canali in queste epoche, riscaldate dal sole, non mosse e rinfrescate da afflussi sotterranei, si guastano ed imputridiscono a segno di non poter essere utilizzate neanche per la macerazione della canapa.” E’ un quadro desolante: dall’analisi che ha sviluppato Pasini desume la proposta di realizzare quattro sifoni nell’argine del Po, capaci di sommare il prelievo di 1 metro cubo al secondo. La misura dimostra che l’approvvigionamento idrico che i responsabili dell’epoca intendono assicurare non corrisponde ancora alle esigenze di distribuzione sistematica alle colture che pretende un’agricoltura moderna, per la quale l’irrigazione è elemento essenziale e imprescindibile. Autentiche esigenze irrigue emergono tra le ragioni ispiratrici del progetto che, sollecitato da un memoriale del 1926, prevede la ristrutturazione della grande chiavica delle Pilastresi alla Stellata di Bondeno per rendere possibile l’attingimento di 67 metri cubi al secondo. Per la realizzazione viene costituito, nel 1930, un consorzio di secondo grado tra i consorzi ferraresi, il Consorzio generale di bonifica della Provincia di Ferrara. La concessione dell’attingimento sarà suggellata, peraltro, solo nel 1959. Nella ripartizione del volume complessivo tra i consorzi ferraresi, al Secondo circondario viene assegnata la disponibilità di 18,80 metri cubi secondo. L’utilizzazione pressoché esclusiva dell’acqua irrigua nel comprensorio è, alla fine degli anni Cinquanta, la sommersione delle risaie. Il riso è coltura di tradizione antichissima nel Polesine di San Giorgio, dove per secoli è stata realizzata impiegando le acque stagnanti dei bacini privi di scolo. Nel comprensorio la coltura del riso è stata dichiarata insostituibile, tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, da agronomi, pedologi e ingegneri idraulici, si può ricordare il professor Aldrovandi, su tutti i terreni anomali del comprensorio, di cui solo la sommersione può correggere le peculiarità negative: la salinità, la propensione all’aridità, conseguenze dell’ossidazione delle torbe. Nel 1953 i tecnici del Consorzio stimano che i terreni per i quali la risaia costituisce l’unica soluzione agronomica o la migliore utilizzazione possibile si estendano a 10.000 ettari, 2.850 posti a Valle Volta, 1.700 a Corba e Bastione, 3.800 nel bacino di Trebba, 2.400 nel bacino Ponti. Considerando che il riso può essere coltivato in rotazione, si calcola una superficie annuale di 2.600 ettari di risaie. I computi idraulici prevedono che la sommersione delle medesime superfici richieda la disponibilità di 15 metri cubi al secondo, la quasi totalità, quindi, dell’acqua a disposizione del Consorzio. Nel 1947, l’irrigazione imponendosi sempre più come condizione per l’esercizio di un’agricoltura di produttività elevata e di redditività costante, il Consorzio intraprende un vasto programma per la distribuzione di acqua irrigua. Viene prevista l’irrigazione di 1.400 ettari a Valle Volta, di 2.700 a Corba e Bastione, di 6.200 nelle valli Trebba-Ponti e Gallare, di 2.300 nel comprensorio Masi. Le aree interessate corrispondono in parte cospicua alle superfici identificate per la coltura del riso, ma la corrispondenza non è assoluta. Il progetto esecutivo per Valle Volta viene siglato nel 1947. Prevede la captazione dal Naviglio del Volano a Vecchio Sostegno di Tieni. Le opere sono ultimate nel 1955 con la spesa di lire 162.500.000. Il progetto per Corba e Bastione è approvato nel 1948, prevede una presa a Massafiscaglia. Nel 1955 i lavori hanno realizzato il 70 per cento delle opere, che saranno completate successivamente. Viene approvato nel 1948, inverce, il progetto per le Gallare e Trebba Ponti, dove entro il 1955 sarà speso 1,5 miliardi di lire, con la realizzazione di metà delle opere previste. Gli impianti saranno completati negli anni successivi. Nella realizzazione della rete di Trebba Ponti e Gallare viene impiantata un moderno sistema di condutture in pressione per l’irrigazione “a pioggia”, la pratica che consente un risparmio ingente di acqua rispetto alla “sommersione” diffusa nel comprensorio. Purtroppo la rete, che era stata estesa, con uno sforzo finanziario ingente, su 2.700 ettari, presenterà cospicui inconvenienti, e sarà abbandonata. Una nuova rete di distribuzione di acqua in pressione per l’impiego “a pioggia” sarà realizzata, successivamente, sui 2.500 ettari di Valle Pega. Nel 1950 il Consorzio del Secondo circondario redige, in collaborazione con quello di Valle Isola, non ancora accorpato, un progetto per l’irrigazione nel medesimo comprensorio, che verrà realizzato mediante l’appalto di tre lotti successivi di lavori, che saranno compiuti, relativamente, nel 1957, nel 1962 e nel 1970. Dove vengono coltivate piante fruttifere l’acqua non serve solo, in estate, per irrigare, serve altresì, all’inizio della primavera, nella prevenzione degli effetti del gelo. Quando le gemme hanno iniziato il rigonfiamento che precede il germogliamento l’abbassamento di temperatura sotto lo zero ne provoca l’alterazione o la morte. In condizioni meteoriche favorevoli alle gelate, irrorando, la notte, le chiome fino a quando la temperatura dell’ambiente si innalzi, si produce un velo di ghiaccio la cui formazione stabilizza la temperatura degli organi vegetali. Il Consorzio conduce le prime esperienze di servizio dei canali per distribuire l’acqua nel periodo del rischio, che non portano a scelte definitive per rendere la disponibilità idrica primaverile sistematica siccome distribuire acqua in funzione antibrina richiede un cospicuo impegno organizzativo, essendo le aziende frutticole disseminate sul territorio, e dovendosi utilizzare un numero cospicuo di canali per raggiungerne la totalità. Il pericolo delle brinate si manifesta, peraltro, sulle soglie della primavera, in una stagione in cui l’eventualità di grandi piogge impone un uso irriguo dei canali oltremodo controllato, per assicurarne comunque, in occasione di precipitazioni, la funzionalità primaria, costituita dallo scolo. All’alba del nuovo Millennio il Consorzio dispone di una dotazione complessiva dal Po di circa 32 metri cubi al secondo, gestisce e manovra 37 prese di derivazione (23 chiaviche e 14 sifoni) e distribuisce l’acqua all’interno del comprensorio mediante una rete irrigua indipendente da quella di scolo, a quota dominante rispetto al piano campagna, dello sviluppo complessivo di 400 chilometri, e mediante l’impiego complementare di 1.200 chilometri di canali di scolo. L’acqua viene distribuita sul 40% della superficie mediante i tradizionali “rotoloni”, su un ulteriore 40% mediante la subirrigazione realizzata usando a scopo irriguo le reti di drenaggio, un sistema di grande economicità che nel comprensorio ha conosciuto la più vasta diffusione, caratterizzato, peraltro, da consumi idrici ingenti, sul 5% della superficie mediante moderni apparati ranger e pivot. Nello scenario del nuovo Millennio l’acqua costituisce bene conteso da una pluralità di impieghi concorrenti, civili ed industriali, e si deve prevedere che sarà in futuro sempre più difficile assicurare all’irrigazione i volumi che è stato possibile fornirle in passato. Distinguendo, peraltro, il volume necessario ai processi fisiologici, 250 litri per chilogrammo di sostanza secca di una coltura di frumento, 166 per una coltura di mais, 700 per una coltura di medica, e verificato che i sistemi irrigui tradizionali impongono, a ragione della dispersione nel terreno e dell’evaporazione, di raddoppiare o triplicare i volumi richiesti in termini biologici, è palese che il contrarsi delle disponibilità imporrà la diffusione dei sistemi di microirrigazione, i soli in grado di avvicinare i volumi erogati a quelli corrispondenti alle esigenze fisiologiche. Nel primo decennio del Duemila la microirrigazione è diffusa, nel comprensorio, per la frutta, esperienze pionieristiche sono state realizzate, per le piante di pieno campo, per il pomodoro: in futuro è verosimile che la pratica dovrà estendersi anche a colture diverse, tra le quali la prima a sperimentare le nuove tecniche potrebbe essere quella del mais. Il contrarsi delle disponibilità di acqua rispetto alle esigenze ha indotto il Consorzio, negli anni più recenti, a verificare le possibilità e le modalità di impiego delle acque reflue dei depuratori urbani, acque che uniscono ad un carico fertilizzante potenzialmente favorevole un carico inquinante che può comprendere sostanze nocive il cui accumulo nel suolo ne può determinare il progressivo degrado.
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