La Circe di Giovan-Batista Gelli

Autore:Giovanni Battista Gelli



ARGOMENTO.

Ritornandosene Ulisse dopo la guerra di Troja in Grecia sua patria, ed essendo da i venti contrarj a la sua navigazione sospinto io motli varj e diversi paesi, arrivò lilialmente ali' Isola di Circe, e da lei fu benignissimamente ricevuto; dove essendo, per le motte cortesie fattegli da lei, alcun tempo dimorato, desiderando di rivedere la sua patria, le domanda, licenzia di partirsi ; e insieme, che ella faccia tornare in uomini tutti i Greci che erano stati da lei trasmutati in varj animali, e si ritruovano quivi, acciocchè egli potessi rimenargli seco a le case loro. Concedegli Circe questa grazia, ma con questi patti: che quegli solamente che vogliono, ottenghino da lui questo, e gli altri si rinfanghino a finire quivi cosi in corpi di fiere la vila loro; e perchè egli possa saper questo da loro, concede il poter favellare a ciascheduno come quando egli era uomo.

Cerca Ulisse per tutta l'Isola, e parla con molti, i quali per varie cagioni si voglion piuttosto stare in quello stato, che tornare uomini. Finalmente ritruova uno, che, considerando bene la grandezza de l'uomo, e quanto egli sia, mediante l'intelletto, più nobile di ciascuno altro animale, desidera di ritornare uomo come egli era. Onde restituito da Ulisse nel primo esser suo (avendo prima, come è propio de l'uomo, riconosciuto e renduto grazie a Iddio optimo e grandissimo del tutto), si ritornano insieme allegramente a la patria loro.

LA CIRCE.

DIALOCO PRIMO.

ULISSE, CIRCE, OSTRICA E TALPA.

Ulisse. Ancora che l'amore che tu mi porti, famosissima Circe, e le infinite cortesie che io a tutte l'ore ricevo da te, siano cagione che io mi stia volentieri teco in questa tua bella ed amena isoletta; lo amore de la patria, e il desiderio di rivedere dopo si lunga peregrinazione i miei carissimi amici, mi sollecitano continuamente al partirmi da te, e ritornare a le mie case. Ma innanzi che io mi parta, vorrei sapere se in fra questi che sono stati da te trasmutati in Lioni, Lupi, Orsi ed altre fiere, ci è alcuno Greco.

Circe. Assai ce ne sono, Ulisse mio carissimo : ma perchè me ne domandi tu ?

Ulisse. Posiamoci a sedere in su questo scoglio, dove è la vista de le varie onde del mare, e la piacevolezza dei dolci venti che, trapassando fra tante piante odorifere, soavemente spirano, ci renderanno il ragionare insieme molto più dilettevole, ed io te lo dirò.

Circe. Facciamo quel che tu vuoi; chè io non desidero altro che compiacerli.

Ulisse. La cagione per la quale io t'ho domandato, bellissima Circe, se in fra questi che sono stati da te tramutati in fiere, ci è nessuno Greco, si è, perchè io desiderrei di impetrare (con i prieghi miei) da te, che e'sieno restituiti nel loro essere umano, e potergli rimenare meco a le case loro.

Circe. E perchè desideri tu questo?

Ulisse. Per lo amore che io porto loro, essendo noi d'una patria medesima, sperando di doverne essere appresso i miei Greci molto lodato: dove, per il contrario, intendendosi che io potendo trargli di stato cosi misero ed infelice, abbia lasciatogli guidar cosi miseramente la vita loro in corpi di fiere, penso che mi arrecherebbe non piccolo biasimo.

Circe. E se gli altri, come tu pensi, Ulisse, te ne lodassino, eglino le ne porterebbono tanto odio, per il danno che tu faresti loro, che tu te ne pentiresti mille volte il giorno.

Ulisse. Oh, è egli cosa dannosa far ritornare uno di fiera uomo?

Circe. Dannosissima; e che sia il vero, domandane loro, perchè io non voglio anche concederti questa grazia se eglino non se ne contentano.

Ulisse. O come posso io saperlo da loro, che, essendo fiere, non intendono, e non sanno o possono parlare? Io dubito che tu non voglia il giuoco di me.

Circe. Non ti alterare, chè io lo concederò loro.

Ulisse. Ed avranno eglino quel medesimo discorso che quando eglino erano uomini ?

Circe. Si, chè come io li trasmutai in fiere, cosi farò tornare in loro il conoscimento di veri uomini. E per non perder più tempo, vedi tu quei due nicchi appiccati a quel sasso, che s'aprono e riserrano? e quel monticel di terra, il quale è poco fuori de l'acque a piè di quella palma ?

Ulisse. Si, veggo.

Circe. Ne l' uno è una Ostrica e ne l' altro una Talpa, che già furono uomini e Greci: parlerai con loro; e perchè tu possa più liberamente farlo, io mi discosterò di qui, andandomene a spasso su per questo lito; e dipoi che tu arai intesa la voglia loro, vieni a me, ed io farò quel che tu vorrai.

Ulisse. Gran cosa certamente è questa, che m'ha detto Circe; che costoro, stando cosi in questi corpi di fiere, potranno discorrere e ragionare meco (mediante però l'opera sua). E parmi tanto incredibile, che io non mi ardisco quasi a tentarla, temendo, se ella non mi riesce, come pare ragionevole, di essere reputato stolto. Ma qui non è però chi possa biasimarmene, se non ella; ed ella non può ragionenevolmente farlo, avendomene consigliato. Adunque io non voglio mancare di provare. Ma come ho io a chiamargli? Io per me non saprei come, se non per il nome che eglino hanno, cosi animali. Facciamo adunque cosi. Ostrica, o Ostrica.

Ostrica. Che vuoi tu da me, Ulisse?

Ulisse. Ancora io ti chiamerei per il tuo nome, se io lo sapessi; ma se tu sei Greco, come m'ha detto Circe, piacciati dirmelo.

Ostrica. Greco fui io innanzi ch' io fussi trasmutato da lei in Ostrica, e fui d' un luogo presso ad Atene, e il nome mio fu Ittaco, e perchè io era poveretto fui pescatore.

Ulisse. Rallègrati adunque, chè la compassione che io ho di te, sapendo che tu nascesti uomo, e l' amore che io ti porto per esser de la mia patria, mi ha fatto supplicare a Circe di restituirti ne la tua prima forma, e di poi rimenarti meco in Grecia.

Ostrica. Non seguir più là, Ulisse, chè questa tua prudenza e questa tua eloquenza, per le quali tu sei lanto lodalo in fra i Greci, non arebbono forza alcuna presso di me: si che, non lentare di consigliarmi con l'una, che io lasci tanti beni che io mi godo così felicemente in questo stalo senza pensiero alcuno; nè di persuadermi con l'altra, che io ritorni uomo, conciossiacosachè egli sia il più infelice animale che si ritruovi ne l' universo.

Ulisse. Eh, Ittaco mio, quando tu perdesti la forma d'uomo, tu dovesti perdere ancor la ragione, a dir così.

Ostrica. Tu non la puoi già perder tu, Ulisse, perchè tu non l' hai, a credere quel che tu di'. Ma lasciamo star da parte le ingiurie, e ragioniamo alquanto insieme amichevolmente; e vedrai se io, che ho provala l' una e l'altra vita, ti mostrerò che quel che io dico è vero.

Ulisse. Oh questo vorrei io ben vedere.

Ostrica. Stammi adunque a udire. Ma vedi, io vo'che tu mi prometta, che mentre ch' io m'apro come tu vedi per favellare teco, di stare avvertilo che non venisse alcuno di questi traditorelli di questi Granchi marini, e gittassimi un sassolino fra l'un nicchio e l'altro, onde io non potessi poi riserrargli.

Ulisse. O perchè questo ?

Ostrica. Per tirarmi poi fuori con le sue bocche, e cibarsi di me, chè così usano fare quando ci veggono aperte.

Ulisse. Oh odi sottile astuzia ! e chi vi ha insegnato guardarvi da loro, e fuggire cosi questi loro inganni?

Ostrica. La natura, la quale non manca ad alcuno mai de le cose necessarie.

Ulisse. Sta senza sospetto alcuno, e parla sicuramente, chè io starò avvertito.

Ostrica. Orsù, stammi a udire. Dimmi un poco, Ulisse : voi uomini che vi gloriate tanto d'esser più perfetti e più prudenti di noi, per avere il discorso de la ragione, non istimate voi più quelle cose che voi giudicate essere migliori che l'altre?

Ulisse. Si certamente: anzi questo è uno di quei segni, donde si può conoscere la perfezione e la prudenza nostra ; conciossiacosachè l'apprezzare ciascuna cosa egualmente nasca dal poco conoscere la natura e la bontà loro, e sia manifesto segno di stoltizia.

Ostrica. E non l'amate voi più che l'altre?

Ulisse. Si; perchè sempre alla cognizione sèguita o l' amore o l' odio. Perchè tutte quelle cose che ci si dimostrano buone, si amano e si desiderano: e per il contrario, quelle che ci appariscono ree, si odiano e si fuggono.

Ostrica. Ed amandole più che l'altre, non tenete voi ancora maggior cura di loro?

Ulisse. O chi ne dubita di questo ?

Ostrica. O non pensi tu che faccia ancora questo medesimo la Natura, o quella intelligenzia che la guida? e con molta più ragione di voi, non possendo ella errare; secondo che io udi' già di molte volte dir a quei filosofi d'Atene, mentre che io, per vendere i pesci che io pigliava, mi stava appresso a quei portici dove eglino si stavano buona parte del giorno a disputare e ragionare insieme.

Ulisse. Questo credo io ancora.

Ostrica. Oh se tu mi concedi questo, tu mi hai concesso ancora che noi siamo migliori e più nobili di voi.

Ulisse. E in che modo?

Ostrica. Perchè, tenendo la Natura più conto di noi che ella non ha fatto di voi, ne segue che ella ci ami più ; ed amandoci più, ella non lo fa per altra cagione, che per quella che io I' ho detto.

Ulisse. Oh tu mi pari il primo logico d'Atene.

Ostrica. Io non so che cosa sia logica; pensa come io posso esser logico: io favello in quel modo che m'ha insegnato la Natura. E questa ragione se la saprebbe fare ognuno che ha il discorso de la ragione, ed è verissima.

Ulisse. Si, se fusse vero che la natura avesse tenuto più conto di voi, che ella non ha fatto di noi.

Ostrica. Oh, questo è facile a provarlo; e se tu vuoi ch'io te lo dimostri, stammi a udire. E perchè tu ne sia più capace, io voglio che noi ci cominciamo dal primo giorno che ella produce e voi e noi al mondo, che è quel del nostro nascimento: dove, dimmi un poco, che cura ha ella dimostrato di tener di voi, facendovi nascere ignudi? Dove, per il contrario, ha dimostrato di stimar noi assai, facendoci venire al mondo vestiti chi di cuoio, chi di peli, chi di squame, chi di penne, e chi d'una cosa e chi d'un'altra; segno certamente che le è stato molto a cuore la conservazion nostra.

Ulisse. Questa 'non è la ragione; perchè, se ella ci ha fatti ignudi e coperti d'una pelle tanto sottile che noi siamo offesi da ogni minima cosa, ella lo ha fatto perchè, avendo noi a esercitare la fantasia e gli altri nostri sensi interiori, molto più diligentemente che non avete voi, per aver dipoi a servire a l'intelletto, fu conveniente che i nostri membri, e particularmente quegli organi e quegli istrumenti dove si fanno queste operazioni, fussino di materia più gentile e più agile, e cosi ancora più sottili i sangui e più caldi che non sono i vostri; donde ne nasce questa debolezza de la complession nostra. Che se noi fussimo composti di colesti umori rozzi, e di colesti sangui grossi che siete voi (donde nasce che voi siete più forti, e di più gagliarda complessione di noi, ma non già di più lunga vita; chè questo nasce da la temperatura de la complessione, ne la qual cosa noi vi trapassiamo di gran lunga: e però abbiamo il sentimento del toccare molto più perfetto di voi, perchè sente ogni minima differenzia), e' ne seguirebbe che noi saremmo di poco conoscimento e di poco ingegno come siete voi. Imperocchè, come dicono questi fisonomisti, i costumi de l'animo seguono la complessione del corpo; onde sempre si vede a membra di Leone seguire costumi di Leone, e a membra d'Orso costumi d'Orso. E che questo sia il vero, pon mente infra gli uomini che tu vedrai, che quei che sono composti d'umori grossi, sono ancora grossi, sono ancora grossi d'ingegno; e per il contrario, quelli che hanno le carni sottili ed agili, sono ancora sottili d'ingegno. Si che la natura, volendoci fare ragionevoli e di cognizione perfettissima, fu quasi forzata a farci cosi.

Ostrica. Oh questo non vo' io già credere, che ella fussi forzata, perchè avendo ella fatto tutte le cose ella poteva farle a suo modo; e poteva molto bene tenere un' altra regola ed un altro modo in quelle, e fare, verbigrazia, che fusse l'acqua che cocesse, ed il fuoco che rinfrescasse.

Ulisse. Oh, e' non sarebbe stato ne l' universo questo ordine tanto mirabile che si ritruova in fra le creature, donde ciascheduno confessa che proceda la bellezza sua.

Ostrica. Ei ci sarebbe stato quell' altro, dal quale sarebbe nata una bellezza d'un' altra sorte, che sarebbe stata forse molto più bella di questa.

Ulisse. Oh come noi siamo in sul forse, noi caminiamo per perduti. Ma che importa che la natura ci abbia fatti ignudi, se ella ci ha dato tanto sapere e tante forze, che noi ci copriamo de le vesti vostre?

Ostrica. Si, ma con che pericolo? Quanti n'è egli già capitali male di voi per volerci pigliare, per servirvi de le cose nostre? E oltre a questo, con quanta fatica? perchè se voi volete servirvi de le nostre pelli, e' vi bisogna conciarle; i nostri peli vi bisogna filargli, tessergli, e far loro mille altre cose innanzi che voi gli riduciate di maniera che voi possiate servirvene.

Ulisse. Oh coteste fatiche ci son dolci e piacevoli: anzi ci son quasi un passatempo.