Utente:Divudi85/testo
__MATCH__:Pagina:Jules Verne - Viaggio al centro della Terra, Milano, Treves, 1874.djvu/45=
modificaravigliato di simile stretta, egli che trovava semplicissimo di andare in Islanda: era il suo mestiere. Ma mio zio lo trovava sublime. Il degno capitano approfittò di tale entusiasmo per farci pagare doppio il passaggio sul suo bastimento, cosa a cui non guardammo tanto pel sottile. «Trovatevi a bordo martedì, alle sette del mattino,» disse il signor Bjarne dopo aver intascato un numero rispettabile di dollari. Ringraziammo allora il signor Thomson delle sue gentili cure e ritornammo all’albergo della Fenice. «Va benone! va benone! ripeteva mio zio. Qual felice combinazione di aver trovato questo bastimento pronto a partire! Ora facciamo colazione ed andiamo a visitare la città.» Ci recammo a Kongens-Nye-Torw, piazza irregolare dove trovasi un posto con due innocenti cannoni che non fanno paura a nessuno. Lì presso, al N. 5, vi era una restauration francese, condotta da un cuoco chiamato Vincent; vi facemmo una buona colazione per prezzo moderato di quattro marx a testa . Poi gustai una gioia infantile nel percorrere la città; mio zio si lasciava menare; peraltro egli non vide nulla, nè il meschino palazzo del re, nè il bel ponte del diciasettesimo secolo che scavalca il canale dinanzi al Museo, nè l’immenso cenotafio di Torwaldsen, adorno di pitture murali orribili e che contiene all’intorno le opere di questo statuario, nè nel mezzo d’un bel parco, il castello bomboniera di Rosenborg, nè l’ammirabile edifizio di stile del rinascimento della Borsa, nè il suo campanile fatto colle code intrecciate di quattro draghi di bronzo, nè i gran mulini dei bastioni, le cui larghe ale si gonfiavano come le vele d’una nave al vento di mare. Quali deliziose passeggiate avremmo fatto, la mia bella Virlandese ed io, dal lato del porto in cui le fregate e i bastimenti a due ponti dormivano tranquillamente sotto la loro rossa copertura, sulle spiaggie verdeggianti dello stretto, attraverso le fitte ombre in mezzo alle quali si nasconde la cittadella, i cui cannoni allungano la loro gola nera fra i rami del sambuco e dei salici! Ma ohimè, essa era lungi, la mia povera Graüben; e poteva io sperare di rivederla? Tuttavia se mio zio non ebbe sguardi per questi luoghi incantevoli, egli fu vivamente impressionato alla vista d’un certo campanile posto nell’isola Amak, che forma il quartiere sud-ovest di Copenaghen. Ebbi ordine di rivolgere i nostri passi da questo lato, salii in una piccola imbarcazione a vapore che faceva il servizio dei canali, e, in pochi istanti, fummo sulla ripa di Dock-Yard. Dopo aver attraversato alcune strette vie dove alcuni galeotti, vestiti di calzoni mezzati di giallo e di grigio, lavoravano sotto il bastone degli aguzzini, giungemmo innanzi a Vor-Frelsers-Kirk. Questa chiesa non aveva nulla di notevole. Ma ecco perchè il suo campanile abbastanza alto avea attirato l’attenzione del professore: incominciando dalla piattaforma, una scalinata esteriore girava intorno alla sua guglia e le spirali si svolgevano in pieno cielo. «Saliamo, disse mio zio. — Ma la vertigine? domandai. — Ragione di più, bisogna abituarvisi. — Pure... — Vieni, ti dico, non perdiamo tempo.» Fu d’uopo obbedire; un guardiano che abitava lì presso ci diede una chiave e l’ascensione incominciò. Mio zio mi precedeva a passi svelti; io lo seguiva non senza terrore, poichè la testa mi andava in giro con deplorabile facilità. Io non aveva nè la sicurezza delle aquile, nè l’insensibilità dei loro nervi. Finchè fummo imprigionati nella vite interna tutto andò a meraviglia; ma dopo cinquanta gradini, l’aria venne a battermi sul viso; eravamo giunti alla piattaforma del campanile. Quivi incominciava la scalinata aerea mal difesa da una fragile ringhiera i cui gradini sempre più, stretti sembravano salire verso l’infinito. «Io non potrò mai! esclamai. — Saresti tu poltrone, per caso? Sali!» rispose spietatamente il professore. Mi fu forza seguirlo aggrappandomi; l’aria mi stordiva; sentivo il campanile oscillare ai soffi impetuosi del vento; le mie gambe venivano meno; nè andò molto che mi arrampicai colle ginocchia, poi strisciando col ventre; chiusi gli occhi, provavo il male dello spazio. Bisognò che mio zio mi tirasse per il collare, perchè arrivassi presso la palla. «Guarda, mi diss’egli, guarda attento; convien prendere lezioni d’abisso!» Dovetti aprire gli occhi. Vidi le case schiacciate come per una caduta in mezzo alla nebbia del fumo; sopra il mio capo correvano nuvole scapigliate e per un contrasto d’ottica mi sembravano immobili, mentre il campanile, la palla ed io eravamo trascinati con fantastica velocità. In lontananza si stendeva da una parte la campagna verdeggiante, dall’altra il mare scintillava ai raggi del sole. Il Sund si svolgeva fino alla punta di Elseneur, con alcune vele bianche, vere ali di gabbiano, e nella bruma dell’est ondeggiavano le coste a mala pena sfumate della Svezia. Tutta questa immensità turbinava innanzi ai miei sguardi. Nondimeno mi toccò alzarmi, tenermi ritto e guardare, La mia prima lezione di vertigine durò un’ora e quando finalmente mi fa permesso di ridiscendere e di premere col piede il solido pavimento delle vie, io era tutto indolenzito. «Ricomincieremo domani,» disse il mio professore. Ed infatti, durante cinque giorni ricominciai questo esercizio vertiginoso, e, per amore o per forza, feci progressi rapidissimi nell’arte delle alte contemplazioni. IX. Venne il dì della partenza. Alla vigilia il compiacente signor Thomson ci aveva dato lettere di raccomandazioni per il signor Trampe, governatore dell’Islanda; per il signor Pictursson, coadiutore del vescovo, per il signor Finsen, podestà di Reykjawik. In ricambio, mio zio gli largheggiò caldissime strette di mano. Il 2, alle sei del mattino, i nostri preziosi bagagli si trovavano a bordo della Valkyrie; il capitano ci condusse ai nostri camerini, che erano abbastanza stretti. «Abbiamo buon vento? domandò mio zio. — Eccellente, rispose il capitano Bjarne; vento di sud-est, usciremo dal Sund con tutte le vele spiegate.» Da lì a pochi istanti, la goletta spiegò la vela di trinchetto, la brigantina, la vela di gabbia e quella di perrocchetto,me si cacciò nello stretto. Un’ora dopo la capitale della Danimarca sembrava sprofondarsi nei flutti lontani e la Valkyrie rasentava la costa di Elseneur. Io avea i nervi così agitati che mi aspettava di vedere l’ombra di Amleto errante sulla leggendaria terrazza. «Sublime insensato! dicevo io, tu certo ne approveresti, e ci seguiresti fors’anco per venire al centro della Terra a cercarvi una soluzione al tuo dubbio eterno!» Ma non apparve nulla sulle antiche muraglie ; e d’altra parte il castello è assai più giovane dell’eroico principe di Danimarca e serve oramai di alloggio sontuoso al custode di questo stretto del Sund, dove passano ogni anno quindicimila navi di tutte le nazioni. Il castello di Krongborg sparve bentosto nella nebbia, così come la torre di Helsinborg che sorge sulla spiaggia svedese, e la goletta s’inchinò lievemente sotto la brezza del Cattegat. La Valkyrie era una brava veliera, ma colle navi a vela non si sa mai su che contare. Essa trasportava a Reykjawik carbone, utensili domestici, stoviglie, vesti di lana e un carico di frumento. Cinque uomini d’equipaggio, danesi tutti, bastavano alla manovra. «Quanto durerà la traversata? domandò mio zio al capitano, — Una decina di giorni, rispose quest’ultimo, se non troviamo troppi nembi di nord-ovest nel passaggio delle Feroë. — Ma voi non andate già soggetto a ritardi molto gravi? — No, signor Lidenbrock, state tranquillo, arriveremo.» Verso sera la goletta oltrepassò il capo Skagen alla estremità nord della Danimarca. Attraversò durante la notte lo Skager-Rak, costeggiò l’estremità della Norvegia in vista del capo Lindness ed entrò nel mare del Nord, Due giorni dopo eravamo in vista della coste della Scozia all’altezza di Peterheade, e la Valkyrie si diresse verso le isole Feroë passando fra le Orcadi e le Seetland. Non andò molto che la nostra goletta fu flagellata dalle onde dell’Atlantico, e dovette bordeggiare contro il vento del nord fino a che ebbe raggiunto con molta fatica le isole Feroë. Il giorno 8 il capitano riconobbe Myganness, la più orientale di coteste isole, e da quel momento egli tirò dritto fino al capo Portland, situato sulla costa meridionale dell’Islanda. Il viaggio non offrì alcun incidente degno di nota: so ch’io sopportai con sufficiente disinvoltura le prove del mare, e che mio zio, a suo gran dispetto ed a sua maggiore vergogna, non cessò un istante d’essere ammalato. Egli non potè perciò interrogare il capitano Bjarne circa lo Sneffels, i mezzi di comunicazione e le facilità di trasporto, e dovette differire siffatte spiegazioni al suo arrivo, passando intanto tutto il suo tempo steso nella cabina, i cui tramezzi scricchiolavano ad ogni barcollamento della nave. A dire il vero egli aveva meritato la sua sorte. Il giorno 11 fummo in vista del capo Portland. Il tempo allora sereno permise di vedere il Myrdals Yokul, che lo signoreggia. Il capo consta d’un grosso picco a ripide balze, che sorge solitario sul lido. La Valkyrie si tenne a debita distanza dalle coste rasentandole verso l’ovest in mezzo a numerose frotte di balene e di pescicani. Presto ci apparve un’immensa roccia forata da parte a parte, attraverso la quale le onde schiumose passavano, frangendosi con impeto. Gl’isolotti di Westman parvero uscire dall’Oceano come un gruppo di roccie sulla liquida pianura. La goletta prese il largo per girare, in distanza conveniente, il capo Reykjaness, che forma l’angolo occidentale dell’Islanda. Il mare assai agitato impediva a mio zio di salire sul ponte per ammirare le coste frastagliate e battute dai venti di sudovest. Quarantott’ore dopo, passata una tempesta che forzò la goletta a fuggire, si scorsero nell’est i segnali della punta Skagen, i cui scogli pericolosi si prolungano a gran distanza sotto i flutti. Un pilota islandese venne a bordo, e tre ore dopo la Valkyrie gettava le ancore innanzi a Reykjawik nella baja di Faxa, Il professore uscì finalmente dal camerino; era alquanto pallido ed abbattuto, ma sempre entusiasta e gli brillava negli occhi la soddisfazione. La popolazione della città singolarmente interessata dell’arrivo d’una nave, nella quale ciascuno ha qualche cosa da prendere, si affollava sulla riva. Mio zio aveva fretta di uscire dalla sua prigione galleggiante, per non dire dal suo ospedale, ma innanzi di lasciare il ponte della goletta egli mi trascinò alla prora e quivi mi mostrò col dito al settentrione della baia un’alta montagna a due punte, un doppio cono coperto di nevi perpetue. «Lo Sneffels, sclamò egli, lo Sneffels! » Indi, dopo avermi raccomandato col gesto un silenzio assoluto, discese nel canotto che l’aspettava; io lo seguii e non andò molto che noi premevamo col piede il suolo islandese. A tutta prima apparve un uomo di bell’aspetto che vestiva l’uniforme di generale, ma non era altro che un semplice magistrato, il governatore dell’isola, il barone Trampe in persona. Il professore riconobbe subito con chi avesse a fare, consegnò al governatore le sue lettere di Copenaghen, ed appiccò con lui una conversazione in danese, alla quale io aveva le mie ragioni di non prendere alcuna parte. Il risultato di questo primo colloquio fu che il barone Trampe si metteva tutto a disposizione del professore Lidenbrock. Mio zio ebbe un’affabilissima accoglienza dal sindaco, il signor Finsen, non meno militare per l’uniforme del governatore, ma del pari pacifico per indole e per stato. Quanto al coadiutore, il signor Pictursson, egli faceva presentemente un giro episcopale nel baliaggio del Nord; noi dovevamo rinunciare provvisoriamente ad essergli presentati. Ma un carissimo uomo, e il cui aiuto ci riuscì prezioso, fu il signor Fridriksson, professore di scienze naturali alla scuola di Revkjawik. Questo scienziato modesto, non parlava che l’islandese e il latino: egli mi offerì i suoi servigi nella lingua di Orazio, ed io sentii ch’eravamo fatti per comprenderci, e fu infatti la sola persona colla quale io potessi intrattenermi durante il mio soggiorno in Islanda. Delle tre camere, ond’era composta la sua casa, l’eccellente uomo ne pose due a nostra disposizione; noi vi ci alloggiammo dopo avervi fatto trasportare i nostri bagagli, la cui quantità fu cagion di stupore per gli abitanti di Reykjawik. «Or bene, Axel, mi disse mio zio, la cosa procede benissimo, il più difficile è fatto. — Come, il più difficile ? esclamai, — Senza dubbio, non ne rimane altro che scendere. — Se voi vedete le cose a questa maniera, avete ragione; ma infine dopo essere discesi converrà risalire, mi pare? — Oh! questo non m’inquieta punto. Vediamo, non c’è tempo da perdere; vo’ recarmi alla biblioteca; può darsi che vi ritrovi qualche manoscritto di Saknussemm, e sarò lieto di consultarlo. — Quand’è così, durante questo tempo, io visiterò il paese. Non farete voi altrettanto? — Oh! ciò m’interessa mediocremente. Ciò che vi ha di curioso in questa terra d’Islanda non è già al disopra ma al disotto.» Uscii ed errai a caso. Smarrirsi nelle due vie di Reykjawik non sarebbe stato facile, Però io non fui obbligato a domandare la mia strada, cosa che nella lingua del gesti espone a molti errori. La città si stende sopra un suolo basso e paludoso fra due colline; un immenso canale di lave la copre da un lato e discende per dolci declivi verso il mare. Dall’altra parte si stende la vasta baia di Faxa limitata al nord dall’enorme ghiacciaio dello Sneffels, e nella quale la sola Valkyrie era in questo momento ancorata. Di solito le navi inglesi e francesi che invigilano le pesche se ne stanno al largo, ma esse erano allora di servizio sulle coste orientali dell’isola. La più lunga delle due strade di Reykjawik è parallela alla spiaggia; quivi abitano i mercanti e i negozianti in capanne di legno fatte di travi rosse disposte orizzontalmente; l’altra strada situata più all’ovest corre verso un laghetto fra le case del vescovo e delle altre persone estranee al commercio. Io ebbi ben presto misurato queste vie tristi e monotone: intravedevo a volte una zolla scolorita, simile ad un vecchio tappeto di lana consumato dall’uso, o alcun simulacro di verziere i cui rari legumi, patate, cavoli e lattughe avrebbero fatto una brava figura sopra una mensa lilliputiana. Alcune viole malaticcie s’ingegnavano di bevere alcuni raggi di sole. Verso il mezzo della strada non commerciale, trovai il cimitero pubblico, ricinto da un muro di terra, nel quale non mancava certo il posto. Poi in pochi passi giunsi alla casa del governatore, una topaia al paragone del palazzo civico di Amburgo, un palazzo appetto alle capanne della popolazione islandese. Fra il laghetto e la città sorgeva la chiesa, fabbricata secondo il gusto protestante, di pietre calcinate, di cui i vulcani fanno le spese di estrazione. Coi grandi venti di ovest il suo tetto di tegole russe doveva evidentemente disperdersi nell’aria con gran danno dei fedeli. Sur un’eminenza vicina vidi la scuola nazionale dove,come seppi più tardi dal nostro ospite, s’insegnava l’ebraico, l’inglese, il francese e il danese, quattro lingue di cui a mia vergogna non conoscevo sillaba. Sarei stato l’ultimo dei quaranta allievi di questo piccolo collegio e indegno di dormire con essi in certi armadi a due scompartimenti dove allievi più delicati morrebbero soffocati nella prima notte. In tre ore ebbi visitato non solo la città, ma anche i suoi dintorni, L’aspetto ne era singolarmente triste. Non alberi, e per così dire, non vegetazione di sorta; da per tutto le creste vive delle roccie vulcaniche, Le capanne degl’Islandesi sono fatte di terra e di torba, ed i loro muri piegano innanzi; hanno l’aria di tetti collocati sul terreno; solo che questi tetti sono praterie relativamente feconde, poichè in grazia del calore dell’abitato l’erba vi cresce con una certa perfezione e vien falciata con cura a suo tempo, per impedire che gli animali domestici si arrampichino a pascolare sopra le abitazioni verdeggianti. Durante la mia escursione, incontrai pochi abitanti; ritornando alla strada commerciale, vidi la maggior parte della popolazione intenta a disseccare, salare e caricare merluzzi, oggetto principale di esportazione. Gli uomini mi parevano robusti, ma pesanti, specie di tedeschi biondi, dall’occhio pensieroso, che si sentono alquanto fuori dell’umanità, poveri esiliati su questa terra di ghiaccio, che avrebbero fatto bene a nascere Eschimesi, poichè la natura li aveva condannati a vivere sul limite del circolo polare! Cercavo invano di cogliere sulla loro faccia un sorriso; essi ridevano tal fiata con una specie di contrazione involontaria dei muscoli, ma non sorridevano mai. Il loro abbigliamento consisteva in un giacchettone di lana nera, nota nei paesi scandinavi col nome di vadmel, in un cappello a larghe falde, in calzoni listati di rosso ed in un pezzo di cuoio ripiegato in forma di scarpa. Le donne, dalla faccia triste e rassegnata, dal tipo abbastanza piacevole ma senza espressione, erano vestite d’un corsetto o d’una giubba di vadmel di colore scuro; fanciulle portavano sui capelli intrecciati a foggia di ghirlanda una bruna cuffietta lavorata a maglia; maritate, avviluppavano la testa con un fazzoletto di colore, sormontato da un cimiero di tela bianca, Dopo una lunga passeggiata, rientrai nella casa del signor Fridrikson, dove mio zio era già in compagnia del suo ospite. X. Il desinare era pronto; fu divorato con avidità dal professore Lidenbrock, cui la dieta forzata del bastimento aveva trasformato lo stomaco in un abisso profondo. Questo pasto, più danese che islandese, non ebbe nulla di notevole per sè stesso; ma il nostro ospite, più islandese che danese, mi ricordò gli eroi dell’antica ospitalità. E mi parve cosa evidente che noi fossimo in casa sua tenuti più ch’egli stesso non era. La conversazione ebbe luogo in lingua indigena, che mio zio mescolava di tedesco e il signor Fridriksson di latino, perch’io potessi comprenderla. Si aggirò intorno a questioni scientifiche, come si conviene a gente dotta, ma il professore Lidenbrock tenne un rigoroso silenzio; che i suoi occhi mi raccomandavano d’imitare, circa i nostri disegni futuri. Prima di tutto, il signor Fridriksson s’informò presso mio zio del risultato delle sue ricerche alla biblioteca. «La vostra biblioteca! esclamò quest’ultimo; essa non si compone che di libri spajati sopra scaffali pressochè deserti! — Come! rispose il signor Fridriksson, noi possediamo ottomila volumi, molti dei quali preziosi e rari; opere scritte in vecchia lingua scandinava, e tutte le nuove pubblicazioni che ci vengono ogni anno mandate da Copenaghen. — Ma dove avete voi questi ottomila volumi? per parte mia... — Essi corrono pel paese. Si ama lo studio nella nostra vecchia isola di ghiaccio, e non vi ha fittaiolo o pescatore che non sappia leggere e che non legga. Noi crediamo che i libri, anzichè ammuffire dietro una grata di ferro, lungi dagli sguardi curiosi, sieno destinati a consumarsi sotto gli occhi dei lettori; così è che questi volumi passano di mano in mano sfogliati, letti e riletti, e soventi volte non ritornano al loro scaffale che dopo un anno o due d’assenza. — Frattanto, rispose mio zio con un certo dispetto, gli stranieri... — Che volete! gli stranieri hanno in casa le loro biblioteche e innanzi tutto conviene che i nostri compaesani si istruiscano. Ve lo ripeto, l’amore dello studio è nel sangue islandese, tanto è vero che nel 1816 noi abbiamo fondato una società letteraria che fiorisce e di cui molti dotti stranieri si onorano di far parte. Essa pubblica libri d’educazione ad uso dei nostri compatriotti e rende veri servigi al paese. Se volete essere uno dei nostri membri corrispondenti, signor Lidenbrock, ne farete un gran piacere.» Mio zio, che apparteneva già ad un centinaio di società scientifiche, accettò con una graziosa arrendevolezza che commosse il signor Fridriksson, «Ora, riprese costui, vogliate indicarmi i libri che speravate dr trovare nella nostra biblioteca; chi sa che io non possa darvene qualche notizia.» Io guardai mio zio. Egli esitò a rispondere. Ciò toccava direttamente i suoi disegni; tuttavia dopo aver riflettuto, si determinò a parlare. «Signor Fridriksson, diss’egli, volevo sapere se, fra le opere antiche, voi possediate quelle di Arne Saknussemm. — Arne Saknussemm? rispose il professore di Reykjawik; voi intendete parlare di quello scienziato del sedicesimo secolo, a un tempo gran naturalista, grande alchimista e gran viaggiatore? — Precisamente. — Una delle glorie della letteratura e della scienza islandese? — Per l’appunto. — Un uomo illustre quant’altri mai? — Ne convengo. — E la cui audacia agguagliava il genio? — Vedo che voi lo conoscete a meraviglia. Mio zio nuotava nella gioia nell’udir così parlare del suo eroe, e fissava gli occhi avidissimi in volto al signor Fridriksson. «Or bene, chiese egli, e le sue opere? — Le sue opere noi non le abbiamo. — Come! in Islanda? — Non esistono nè in Islanda nè altrove. — E perchè? — Perchè Arne Saknussemm fu perseguitato come eretico, e nel 1573 le sue opere furono arse a Copenaghen per mano del carnefice. — Benissimo! perfettamente! esclamò mio zio con grande scandalo del professore di scienze naturali. — Come? chiese costui. — Sì! ogni cosa si spiega, tutto s’incatena, tutto è chiaro, e comprendo ora perchè Saknussemm, posto all’indice e costretto a celare le scoperte del suo genio, dovesse nascondere in un incomprensibile criptogramma il segreto. — Qual segreto? domandò vivamente il signor Fridriksson. — Un segreto che... del quale... balbettò mio zio. — Forse che voi avete qualche documento particolare? chiese il nostro ospite. — No... facevo una semplice supposizione. — Bene, rispose il signor Fridriksson, il quale ebbe la bontà di non insistere, vedendo il turbamento del suo interlocutore. Spero che non lascerete la nostra isola senza aver preso la vostra parte delle sue ricchezze mineralogiche. — Certo, rispose mio zio; ma io arrivo un po’ tardi; altri dotti son passati per di qui. — Sì, signor Lidenbrock; i lavori dei signori Olafsen e Povelsen, eseguiti per ordine del re, gli studi di Troïl, la missione scientifica dei signori Gaimard e Robert, a bordo della corvetta francese, la Recherche , e ultimamente le osservazioni dei dotti imbarcati sulla fregata la Reine Hortense, hanno validamente contribuito alla esplorazione dell’Islanda. Tuttavia, credetemi, rimane ancora molto a fare, — Lo credete? chiese mio zio bonariamente e cercando di temperare il lampo de’ suoi occhi. — Sì. Quante montagne, quanti ghiacciai e vulcani poco noti rimangono ancora a studiare! Eccovi, senz’andar più lontano, vedete quella montagna che s’innalza sull’orizzonte? È lo Sneffels. — Ah! ripetè mio zio, lo Sneffels? — Sì, uno dei vulcani più curiosi e di cui si visita assai raramente il cratere. — Spento? — Da cinquecento anni. — Or bene, rispose mio zio incrociando freneticamente le gambe per non balzare in aria; sono desideroso d’incominciare i miei studi geologici da questo Seffel... Fessel... come lo chiamate? — Sneffels,» rispose l’eccellente signor Fridriksson. Questa parte della conversazione aveva avuto luogo in latino; io aveva capito tutto, e duravo fatica a mantenermi serio nel vedere gli sforzi di mio zio per trattenere la sua soddisfazione che straripava d’ogni parte. Egli cercava di darsi un’aria innocente che rassomigliava alla smorfia d’un vecchio diavolo, — Sì! disse, le vostre parole mi decidono; noi cercheremo di arrampicarci su questo Sneffels e fors’anche di studiare il suo cratere. — Duolmi tanto, rispose il signor Fridriksson, che le mie occupazioni non mi consentano d’assentarmi, chè altrimenti vi avrei accompagnato con piacere e con profitto. — Oh! no, oh! no, rispose vivamente mio zio; noi non vogliamo disturbare chicchessia, signor Fridriksson, io vi ringrazio di tutto cuore. La compagnia d’un dotto, qual voi siete, mi sarebbe stata utilissima; ma i doveri della vostra professione...» Amo credere che il nostro ospite nell’innocenza della sua anima islandese non comprendesse le grosse malizie di mio zio. «Vi approvo altamente, signor Lidenbrock, diss’egli, d’incominciare da questo vulcano; farete colà larga messe di curiose osservazioni. Ma ditemi, in qual modo contata voi di giungere alla penisola dello Sneffels ? — Per mare, attraversando la baia, quest’è la strada più breve. — Senza dubbio, ma è impossibile prenderla. — Perchè ? — Perchè non abbiamo neppure un canotto in Reykjawick. — Diancine! — Bisognerà andare per terra, seguendo la costa. Sarà cosa più lunga ma più interessante. — Sta bene. Io penserò a procurarmi una guida. — Ne ho per l’appunto una da offrirvi. — Un uomo sicuro, intelligente? — Sì, un abitante della penisola, un cacciatore di eider, abilissimo, di cui sarete contento; egli parla benissimo il danese, — E quando potrò io vederlo? — Domani, se vi accomoda. — E perchè non oggi? — Perchè non arriva che domani. — Quand’è così, a domani,» conchiuse mio zio con un sospiro. Quest’importante conversazione ebbe termine da lì a pochi istanti con caldi ringraziamenti del professore tedesco al professore islandese. Durante il desinare, mio zio aveva appreso cose importantissime, fra le quali la storia di Saknussemm, la ragione del suo misterioso documento, e come il suo ospite non potesse accompagnarlo nella spedizione, e come al domani egli avrebbe una guida al suoi ordini. XI. La sera, feci una breve passeggiata sulle spiaggie di Reykjawik, e ritornai di buon’ora a coricarmi sul mio letto di grosse tavole, dove dormii profondamente. Quando mi destai udii mio zio parlare copiosamente nella vicina stanza. Mi alzai e m’affrettai a raggiungerlo. Egli conversava in danese con un uomo d’alta statura e di forme vigorose, che pareva dotato di una forza poco comune. I suoi occhi, aperti sopra un testone molto ingenuo tiravano all’azzurro, e mi avevano l’aria d’essere intelligenti. Lunghi capelli che sarebbero passati per rossi anche in Inghilterra, ricadevano sulle sue atletiche spalle. Questo indigeno aveva movenze agili, ma teneva immobili le braccia da uomo che ignorasse o sdegnasse il linguaggio dei gesti. Ogni cosa rivelava in lui un’indole perfettamente serena non indolente ma tranquilla. Si comprendeva che non era nelle sue abitudini chieder nulla a chicchessia, che egli lavorava a piacer suo e che nulla al mondo poteva sbigottire o turbare la sua filosofia. Distinsi le sfumature di cotesto carattere dal modo con cui l’Islandese ascoltava il verbiloquio appassionato del suo interlocutore. Rimanevasi colle braccia in croce, immobile, in mezzo alle gesticolazioni moltiplicate di mio zio; per dir di no la sua testa girava da sinistra a diritta, s’inchinava per dir di sì, e così poco, che i suoi lunghi capelli quasi non si movevano – era l’economia del movimento portata fino all’avarizia? Vedendo quest’uomo non mi sarebbe mai venuto in mente che ei fosse cacciatore di professione; certo costui non era fatto per far paura alla selvaggina; e in qual guisa poteva egli raggiungerla! La cosa mi fu spiegata quando seppi dal signor Fridriksson che codesto tranquillo personaggio non era che un cacciatore di eider, uccello la cui piuma, che forma la maggior ricchezza dell’isola, si può raccogliere senza troppo gran spreco di movimenti. Nei primi giorni dell’estate la femmina dell’eider, specie di graziosa anitra, va a costrurre il suo nido fra le roccie dei fjords onde la costa è tutta frangiata; e non appena ha fabbricato il nido, lo tappezza con piume finissime che si strappa dal ventre. Tosto il cacciatore, o meglio il negoziante, arriva e s’impossessa del nido, e la femmina ricomincia il suo lavoro, e sempre inutilmente, finché le rimane qualche lanuggine. Quando è interamente spogliata, tocca al maschio di spennarsi alla sua volta; ma siccome le spoglie ruvide e grossolane di quest’ultimo non hanno valore commerciale, il cacciatore non si dà la fatica di rubargli il letto della sua nidiata; il nido adunque rimane, la femmina cova le sue uova, i pulcini nascono, e l’anno dopo ricomincia il raccolto delle piume. Ora siccome l’eider non sceglie le rupi scoscese per costruirvi il suo nido, ma piuttosto quelle roccie facili ed orizzontali che vanno a perdersi in mare, il cacciatore islandese poteva esercitare il suo mestiere senza gran fatica. Era come un fittaiuolo che non doveva nè seminare, nè falciare la sua messe, ma solo raccoglierla. Questo personaggio grave, flemmatico e silenzioso aveva nome Hans Bjelke; veniva raccomandato dal signor Fridriksson; doveva essere la nostra futura guida. Le sue maniere facevano un bizzarro contrasto con quelle di mio zio. Tuttavia si intesero facilmente. Nè l’uno nè l’altro badava al prezzo, l’uno era pronto ad accettare ciò che gli si offrisse e l’altro disposto a dare ciò che gli venisse chiesto; nè mai contratto fu più facile a conchiudere. Fu convenuto che Hans s’impegnava di condurci al villaggio di Stapi, sulla costa meridionale della penisola dello Sneffels, ai piedi dello stesso vulcano, distante ventidue miglia all’incirca; il qual viaggio mio zio era d’opinione si dovesse fare in due giorni. Ma quando seppe che si trattava di miglia danesi di ventiquattro mila piedi, dovette rifare il conto e, avuto riguardo alle asperità della via, starsene a sette od otto giorni di viaggio. Quattro cavalli dovevano essere posti a sua disposizione; due per uso nostro, due per i bagagli. Hans secondo il suo costume doveva andare a piedi. Egli conosceva perfettamente questa parte della costa e promise di prendere la via più corta. Il suo contratto con mio zio non spirava già al nostro arrivo a Stapi; egli doveva starsene al suo servizio durante tutto il tempo necessario alle sue scientifiche escursioni e ciò per il prezzo di tre risdalleri per settimana . Senonchè, fu espressamente convenuto che questa somma doveva essere pagata alla guida ogni sabato sera, condizione sine qua non del contratto. La partenza fu fissata pel 16 giugno. Mio zio volle consegnare al cacciatore la caparra del contratto, ma costui rifiutò con una sola parola: «Efter, diss’egli. — Dopo» mi disse il professore a modo di spiegazione. Non appena il contratto fu. conchiuso, Hans si allontanò tutto d’un pezzo. «Famoso uomo! esclamò mio zio; ma egli non s’aspetta guari la meravigliosa parte che gli è serbata in avvenire. — Egli ci accompagna dunque fino al... — Sì, Axel, fino al centro della Terra.» Dovevano ancora trascorrere quarantott’ore, e con mio sommo rammarico mi toccò spenderle nei preparativi; tutta la nostra intelligenza fu adoperata a collocare ogni oggetto nel modo più conveniente: gli strumenti da una parte, le armi dall’altra, qui gli utensili, là i viveri, quattro fardelli in tutto. Gli strumenti comprendevano: 1.° Un termometro centigrado di Eigel, graduato fino a 150 gradi, ciò che mi pareva o troppo o troppo poco; troppo se il calore avesse dovuto salire fino a quel punto, perchè in tal caso noi saremmo arrostiti; troppo poco se si trattava di misurare la temperatura delle sorgenti o qualche materia in fusione. 2.° Un manometro ad aria compressa disposto in guisa da indicare le pressioni superiori a quelle dell’atmosfera al livello dell’Oceano. Infatti il barometro ordinario non sarebbe bastato, perchè la pressione atmosferica doveva aumentare in proporzione della nostra discesa sotto la superficie della Terra. 3.° Un cronometro di Boissonas juniore di Ginevra, regolato appuntino col meridiano di Amburgo. 4.° Due bussole d’inclinazione e di declinazione. 5.° Un cannocchiale da notte. 6.° Due apparecchi di Ruhmkorff, i quali per mezzo di una corrente elettrica dovevano fornirci una luce portatile, sicura e poco imbarazzante . Le armi consistevano in due carabine di Purdley More e C., due revolver Colt. A qual pro le armi? noi non avevamo nè selvaggi, nè, immagino, bestie feroci da temere; ma mio zio sembrava tenere al suo arsenale non meno che ai suoi istrumenti, e in special modo ad una gran quantità di cotone fulminante inalterabile all’umidità e la cui forza espansiva supera di gran lunga quella della polvere ordinaria. Gli utensili comprendevano due picconi, due zappe, una scala di seta, tre bastoni ferrati, un’accetta, un martello, una dozzina di conii e di chiodi di ferro e lunghe corde a nodi. Tutto ciò formava un bel volume, poichè la scala era lunga trecento piedi. Infine vi erano le provvigioni; il fardello non era grosso, ma rassicurante, poichè io sapeva che in carne concentrata ed in biscotti conteneva viveri per sei mesi. Il ginepro formava tutta la parte liquida e l’acqua mancava del tutto, ma noi avevamo delle fiaschette e mio zio contava sulle sorgenti per riempirle. Le obbiezioni che io avevo potuto fare intorno alle loro qualità, alla loro temperatura ed anche sulla loro assenza, erano rimaste infruttuose. Per compiere la nomenclatura esatta dei nostri oggetti di viaggio, noterò una farmacia portatile contenente forbici e lame smussate, stecchette per fratture, una pezza di nastro di filo crudo, bende e compresse, sparadrappo, una scodeletta per salasso, tutte cose spaventevoli; inoltre una serie di boccettine contenenti arnica, alcool vulnerario, acetato di piombo liquido, aceto ed ammoniaca, tutte droghe di un uso poco rassicurante; infine le materie necessarie agli apparecchi di Ruhmkorff. Mio zio non aveva dimenticato la provvista di tabacco, di polvere da caccia e di esca e neppure una cintura di cuoio ch’egli portava attorno le reni e in cui si trovava una sufficiente quantità di monete d’oro, d’argento e di carta. Ottime calzature, rese impenetrabili da un intonaco di catrame e di gomma elastica, erano in numero di sei paia nel fardello degli utensili. «Così vestiti, calzati ed equipaggiati, non c’è nessuna ragione per non andare molto lontano,» mi disse mio zio. La giornata del 14 fu spesa tutta nel disporre questi diversi oggetti. La sera pranzammo in casa del barone Trampe, in compagnia del podestà di Reykjawik e del dottore Hyaltalin, il gran medico del paese. Il signor Fridriksson non era nel numero dei commensali; seppi di poi che egli era in disaccordo col governatore circa una questione amministrativa. Io non ebbi adunque occasione di comprendere sillaba di ciò che si disse durante questo pranzo semi-ufficiale; notai solo che mio zio parlò senza riposo. La domane, 15, i preparativi furono compiuti; il nostro ospite fece un servigio grandissimo al professore rimettendogli una carta dell’Islanda, incomparabilmente più perfetta di quella di Henderson, voglio dire la carta del signor Olaf Nikolas Olsen, ridotta a un 1/480,000 e pubblicata da una Società letteraria islandese, secondo i lavori geodesiaci del signor Schell Frisac, e il piano topografico del signor Bjorn Gumlaugsson. Era un prezioso documento per un mineralogista. L’ultima sera fu passata in intima conversazione col signor Fridriksson, per il quale io sentiva viva simpatia: alla conversazione succedette un sonno agitato, almeno per parte mia. Alle cinque del mattino, il nitrito di quattro cavalli che scalpitavano sotta la mia finestra mi svegliò. Mi vestii in fretta e discesi nella via. Lì, Hans terminava di caricare i nostri bagagli, per così dire senza muoversi e tuttavia son un’abilità poco ordinaria. Mio zio fece assai più rumore che fatti, e la guida non pareva darsi gran pensiero delle sue raccomandazioni. Alle sei tutto fu in ordine. Il signor Fridriksson ci strinse le mani, mio zio lo ringraziò in islandese e di gran cuore della sua benevola ospitalità; io col mio latino migliore storpiai qualche saluto cordiale, poi balzammo in sella, ed il signor Fridriksson, col suo ultimo addio, mi gettò questo verso di Virgilio che sembrava fatto apposta per noi, viaggiatori incerti del cammino: Et quacumque viam dederit fortuna sequamur. XII. Eravamo partiti con un tempo annuvolato, ma stabile. Non calori affaticanti da temere, nè pioggie disastrose. Faceva un vero tempo da toristi. Il piacere di correre a cavallo attraverso un paese ignoto mi rendeva di facile contentatura sul principio dell’intrapresa; io era tutto alla felicità dell’escursionista, fatta di desideri e di libertà, e cominciavo a darmi pace. «D’altra parte, dicevo a me stesso, che mai arrischio? di viaggiare in mezzo al paese più curioso, di arrampicarmi per una montagna notevolissima, e alla peggio di scendere in fondo d’un cratere spento! egli è certo che codesto Saknussemm non ha fatto di più; quanto all’esistenza d’una galleria che metta al centro della Terra è cosa immaginaria ed impossibile! Accettiamo adunque senza mercanteggiare ciò che questa spedizione ha di buono.» Siffatto ragionamento non era ancor finito che noi avevamo già lasciato Reykjawik. Hans andava innanzi a passo rapido, eguale e continuo. I due cavalli carichi dei nostri bagagli lo seguivano senza che fosse necessario guidarli; mio zio ed io venivamo dietro, e in fede mia non facevamo assai triste figura sopra le nostre cavalcature, piccole, ma vigorose. L’Islanda è una delle grandi isole d’Europa; misura, millequattrocento miglia di superficie e non conta che sessantamila abitanti. I geografi l’han divisa in quattro regioni e ci bisognava attraversare quasi obliquamente quella che porta il nome di Paese del quarto Sud-Ovest (Sudvestr Fjordùngr). Nel lasciare Reykjawik, Hans si era immediatamente posto lungo la spiaggia del mare. Attraversammo magri pascoli che stentavano ad esser verdi; il giallo riusciva meglio. Le vette rugose delle moli trachidiche si disegnavano nell’orizzonte fra le nebbie dell’est; ad intervalli alcune liste di neve, concentrando la luce diffusa, risplendevano sul versante delle alture lontane; certi picchi che si rizzavano più arditamente, foravano le nuvole grigie e riapparivano al di sopra dei vapori moventisi a somiglianza di scogli emersi nel cielo. Soventi volte queste catene di aride roccie facevano una punta verso il mare e si spingevano fino sul pascolo, ma rimaneva spazio sufficiente per passare. D’altra parte i nostri cavalli sceglievano istintivamente i luoghi propizi senza mai rallentare il passo; mio zio non aveva neppure la consolazione di eccitare la sua cavalcatura colla voce o collo scudiscio; non gli era concesso d’essere impaziente. A me non riusciva di trattenere il sorriso in vederlo così alto sul suo piccolo cavallo; e siccome colle gambe radeva il suolo, aveva tutta l’aria d’un centauro a sei piedi. «Brava bestia, brava bestia! diceva egli. Vedrai, Axel, che non vi ha animale che superi per intelligenza il cavallo islandese. Nevi, tempeste, sentieri impraticabili, roccie, ghiacciai, nulla lo arresta; esso è ardito, sobrio, sicuro, non mette mai piede in fallo, non si ribella mai. Aspetta che incontriamo qualche fiume o qualche fiörd che convenga attraversare (e ne troveremo senza dubbio) e tu lo vedrai gettarsi nell’acqua senza esitare, come un anfibio, e toccare la riva opposta. Ma non lo rampogniamo, lasciamolo fare, e percorreremo, su per giù, le nostre dieci leghe al giorno. — Noi senza dubbio, risposi, ma la guida? — Non mi dà alcun pensiero; costoro camminano senza avvedersene, e d’altra parte Hans si muove così poco che non deve punto affaticarsi; e poi, al bisogno, io gli cederò la mia cavalcatura, poichè mi buscherei i crampi se non mi dessi un po’ di moto. Le braccia si agitano per bene, ma bisogna pensare anche alle gambe.» Frattanto si andava innanzi a passo rapido. Già il paese era quasi deserto. Qua e là una fattoria isolata e qualche boër solitario fatto di legno, di (terra e di pazzi di lava, appariva come un mendicante sull’orlo d’un sentiero infossato. Queste capanne rovinate avevan l’aria d’implorare la carità dei passanti e per poco non si era tentati di far loro l’elemosina. In questo paese le strade e perfino i sentieri mancavano assolutamente, e la vegetazione, per quanto fosse lenta, cancellava presto i passi dei rari viaggiatori. Tuttavia questa parte della provincia posta a due passi della capitale, veniva annoverata fra le parti abitate e coltivate dell’Islanda, Che cosa erano adunque le regioni più deserta di siffatto deserto? Avevamo percorso mezzo miglio senza incontrare nè un fittaiuolo sulla porta della sua capanna, nè un pastore selvaggio che si spingesse innanzi un greggie meno selvaggio di lui; solo poche giovenche e alcuni montoni abbandonati a sè medesimi. Che cosa dovevano essere le regioni occidentali e scompigliate dai fenomeni eruttivi, opera di eruzioni vulcaniche e di commozioni sotterranee? Dovevamo apprenderlo più tardi; ma consultando la carta di Olsen, vidi che le evitavamo costeggiando il lembo sinuoso della spiaggia. Infatti il gran sommovimento plutonico avvenne sopratutto nell’interno dell’isola. Quivi gli strati orizzontali di roccie sovrapposte, chiamati trapps in lingua scandinava, le fasce trachitiche, le eruzioni di basalto, di tufi e d’ogni maniera di conglomerati vulcanici, i rivi di lava e di porfiro fuso, formarono un paese fantasticamente orrido. Io non sospettava allora lo spettacolo che ne attendeva alla penisola dello Sneffels, dove i guasti d’una natura infocata hanno prodotto un caos formidabile, Due ore dopo aver lasciato Reykjawik, giungemmo al borgo di Gufunes, chiamato Aoalkirkja o chiesa principale. Non aveva nulla di notevole; poche case in tutto; appena da fare un casale della Germania. Hans vi si trattene mezz’ora; divise il nostro pasto frugale, rispose sì o no alle domande di mio zio sulla natura della strada e quando gli fu richiesto dove intendesse passare la notte, rispose semplicemente: «Gardär.» Consultai la carta per sapere che si fosse Gardär e vidi una borgata sulla riva dell’Hvalfjörd, a quattro miglia da Reykjawik. La mostrai a mio zio. Quattro miglia soltanto, disse egli, quattro miglia sopra ventidue! ecco una bella passeggiata! Volle fare un’osservazione alla guida, la quale, senza rispondere, riprese il cammino precedendo i cavalli. Tre ore dopo, sempre calpestando le zolle scolorite dei pascoli, ci convenne girare intorno al Kollafiörd, giro più facile e più breve della traversata di questo golfo. Non andò molto che entrammo in un pingstaœr, luogo di giurisdizione comunale, chiamato Ejulberg, il cui campanile avrebbe battuto il mezzodì se le chiese islandesi potessero permettersi il lusso d’un orologio; in questo asse rassomigliano ai loro parocchiani che non hanno orologio e ne fanno senza. Quivi fu dato da mangiare ai cavalli, poi ci mettemmo per una riva stretta fra una catena di colline e il mare, e giungemmo in breve all’aoalkirkja di Brantär e un miglio più oltre a Saurböer «Annexia,» chiesa annessa, posta sulla zona meridionale del Hvalfiörd. Frano le quattro pomeridiane ed avevamo fatto quattro miglia . Il fiörd era largo in questo punto per lo meno mezzo miglio; le onde si frangevano rumorosamente contro le roccie acute; il golfo si allargava tra due muraglie di roccie, specie di scarpa a picco alta tremila piedi, notevole per gli strati bruni che separavano quelli di tufo di color rossastro. Per quanto i nostri cavalli fossero intelligenti, io non sapeva trar lieti pronostici d’una traversata d’un vero braccio di mare fatta sul dorso di un quadrupede. «Se, sono intelligenti, diss’io, non cercheranno di passare; in tutti i modi m’incarico io d’essere intelligente per essi.» Ma mio zio non voleva aspettare e diè di sprone. Il suo cavallo venne a lambire l’ultima ondulazione dei fiotti e si arrestò; mio zio lo spinse, lo eccitò vie più. Nuovo rifiuto dell’animale che scosse la testa. Allora giuramenti e scudisciate e calci della bestia che tentò balzar d’arcione il cavaliero. Alla fine il cavalluccio piegando i garetti si ritrasse dalle gambe del professore e lo lasciò in piedi piantato su due pietre della spiaggia come il colosso di Rodi. «Maledetto animale! gridò il cavaliero trasformato d’un subito in pedone e vergognoso come un ufficiale di cavalleria che ridiventasse fantaccino. — Färja, disse la guida toccandogli la spalla. — Che! una chiatta? — Der, rispose Hans mostrando una barca. — Sì, sclamai io, vi è una chiatta. — Bisognava dirlo! orbene, in cammino! — Tidvatten, aggiunse la guida. — Che cosa dice? — Dice marea, rispose mio zio, traducendo la parola danese. — Senza dubbio, converrà attendere la marea? — Förbida? chiese mio zio. — Ja» rispose Hans. Mio zio pestò i piedi mentre i cavalli si dirigevano verso la chiatta. Io compresi perfettamente come fosse necessario aspettare un certo momento della marea per intraprendere la traversata del fiörd, quella cioè in cui il mare giunto alla sua massima altezza non sale e non scende; allora il flusso e riflusso non ha più nessuna azione sensibile e la chiatta non rischia d’essere trascinata nè in fondo al golfo nè in alto mare. Il momento favorevole non giunse che alle sei pomeridiane; mio zio, io e la guida, due navalestri e i quattro cavalli c’eravamo acconciati alla meglio in una specie di barca bassa e fragilissima. Abituato com’ero ai traghetti a vapore dell’Elba, trovai i remi dei navichieri un assai meschino congegno meccanico; ci abbisognò più d’un’ora per attraversare il fiörd; ma infine il passaggio avvenne senza accidente. Mezz’ ora dopo, noi avevamo toccato l’aoalkirkja di Gardär. XIII. Avrebbe dovuto farsi notte, ma sotto il sessantacinquesimo parallelo, il chiarore diurno delle regioni polari non doveva meravigliarmi; in Islanda, durante i mesi di giugno e di luglio, il sole non tramonta mai. Nondimeno la temperatura si era abbassata; avevo freddo, e sopratutto fame. Benvenuto fu il boër che ci aprì ospitalmente le porte per riceverci. Era la casa d’un contadino, ma in fatto d’ospitalità valeva quella d’un re. Al nostro arrivo il padrone venne a tenderci la mano e senz’altre cerimonie ci fe’ segno di seguirlo. Seguirlo, diffatti , poichè accompagnarlo sarebbe stato impossibile. Un passaggio lungo, stretto, oscuro, dava accesso a quest’abitazione fabbricata con travi a mala pena squadrati, e permetteva d’arrivare a ciascuna delle camere; le quali erano quattro: la cucina, l’officina di tessitura, la badstofa, camera da letto della famiglia, e, migliore d’ogni altra, la camera dei forestieri. Nel fabbricare la casa non si aveva evidentemente pensato a mio zio, il quale non mancò di dar tre o quattro volte del capo contro gli sporti del soffitto. Fummo introdotti nella nostra camera, specie di ampia sala con un pavimento di terra battuta, e rischiarata da una finestra i cui vetri erano fatti di membrane di montone assai poco trasparenti. Il letto si componeva di fieno secco, gettato entro due telai di legno dipinti di rosso e adorni di sentenze islandesi. Io non m’aspettava tutti questi comodi; solo il mio olfato era offeso da un odore di pesce secco, di carne macerata e di latte inacidito che regnava in tutta la casa. Come avemmo messo in disparte tutte le nostre bardature di viaggio, udimmo la voce dell’ospite che ci invitava ad andare in cucina, sola stanza in cui si accendesse il fuoco anche durante i freddi più rigidi. Mio zio si affrettò d’ubbidire all’amichevole invito; io lo seguii. Il camino della cucina era di modello antico; nel mezzo della camera una pietra per focolare, nel tetto un buco conduttore del fumo. Codesta cucina serviva anche da sala da pranzo. Appena entrati, l’ospite, come se non ci avesse ancora veduti, ci salutò colla parola sællwertu, che significa siate felici e venne a baciarci in volto. La moglie dopo di lui pronunciò le stesse parole, accompagnate dallo stesso cerimoniale; poi i due conjugi ponendo la mano diritta sul cuore s’inchinarono profondamente. Mi affretto a dire che quella Islandese era madre di diciannove figli, i quali in quel momento, grandi e piccoli, brulicavano alla rinfusa in mezzo ai nugoli di fumo che riempivano la camera. Ad ogni istante io vedeva una testolina bionda alquanto melanconica che usciva da quella nebbia. Pareva una ghirlanda di angeli colla faccia un po’ sporca. Mio zio ed io accogliemmo con festa la nidiata, nè andò molto che tre o quattro di quei marmocchi si erano arrampicati sulle nostre spalle, altrettanti sulle nostre ginocchia ed il resto fra le gambe. Quelli che parlavano ripetevano sællvertu in tutti i toni immaginabili; quelli che non parlavano non si ristavano per questo dal gridare. Siffatto concerto fu interrotto dall’annunzio del pasto. In quel momento rientrò il cacciatore, il quale aveva provveduto economicamente al nutrimento dei cavalli, lasciandoli scorrazzare liberamente per i campi. Le povere bestie dovevano accontentarsi di rosicchiare il raro musco delle roccie, qualche fuco poco nutriente, ed alla domane non mancarono di venire da per sè a ripigliare il lavoro della vigilia. «Sællvertu,» disse Hans entrando. Poi tranquillamente, automaticamente, senza che un bacio fosse più caldo dell’altro, abbracciò l’ospite la moglie e i loro diciannove figliuoli. Terminata la cerimonia sedemmo al desco in numero di ventiquattro, e perciò gli uni addosso agli altri nel vero senso dell’espressione. I più favoriti avevano due soli marmocchi sulle ginocchia. Intanto il silenzio si fece profondo all’arrivo della zuppa, e la taciturnità, naturale anche ai biricchini islandesi, riprese il suo impero. Ci fu servita una zuppa di lichene non disaggradevole, poi un’enorme porzione di pesce secco nuotante nel burro inacidito da vent’anni e perciò assai preferibile al burro fresco, secondo le idee gastronomiche dell’Islanda. Vi era inoltre dello skyr, specie di latte quagliato, accompagnato da biscotto con sapore di sugo di bacche di ginepro; infine, a modo di bevanda, un latticello mescolato di acqua che ha nome blanda nel paese. Se questo singolare nutrimento fosse o no buono è cosa di cui io non posso giudicare. Avevo fame ed alle frutta ingollai fino all’ultimo boccone una grossa pasta di grano saraceno. Terminato il pasto, i fanciulli disparvero; gli adulti si posero in giro al focolare in cui ardeva torba, ceppi d’erica, stallatico di vacca e ossa di pesci, disseccati. Dopo esserci alquanto riscaldati, tutti si ritrassero nelle loro stanze. L’ostessa offrì di toglierci, secondo il costume, le calze, ma avendo noi rifiutato graziosamente essa non insistè ed io potei alla fine rannicchiarmi nel mio letto di fieno. La domane, alle cinque, noi dicevamo addio al contadino islandese; mio zio ebbe a durar molta fatica per fargli accettare un compenso conveniente, ed Hans diede il segnale della partenza. A cento passi da Gardär, il terreno cominciò a mutar d’aspetto, divenne pantanoso e difficile al cammino; alla diritta la catena di montagne si prolungava indefinitamente a somiglianza di un immenso sistema di fortificazioni naturali, di cui seguivamo la controscarpa; soventi volte ci trovammo innanzi ruscelli che bisognava necessariamente passare a guado senza troppo bagnare i bagagli. La solitudine diveniva sempre più profonda; talvolta tuttavia un’ombra umana sembrava involarsi in lontananza e quando l’improvviso piegare della via ci accostava inopinatamente ad uno di cotali spettri, io provava una specie di raccapriccio alla vista d’una testa gonfia, dalla pelle lucida, sprovveduta di capelli, a delle piaghe che apparivano ributtanti attraverso gli strappi di miserabili cenci. La disgraziata creatura non veniva a stender la sua mano deforme, al contrario fuggiva; ma non così presto che Hans non avesse tempo di salutarla col consueto sællvertu. «Spetelsk, diceva egli. — Un lebbroso!» ripeteva mio zio. Questa sola parola produceva un effetto ripulsivo. La lebbra è comune in Islanda; non è contagiosa, ma ereditaria; però il matrimonio a codesti miserabili è proibito. Queste apparizioni non erano di tal natura da rallegrare il paesaggio che s’ andava facendo profondamente triste. Gli ultimi ciuffi d’erba morivano sotto i nostri piedi, non un albero, tranne alcune betulle nane, simili a prunaie; non un animale, fuorchè qualche cavallo errante sulle cupe pianure in mancanza d’un padrone che potesse nutrirlo, Talvolta un falco si librava nelle nuvole dirigendosi verso le contrade del sud. Io mi abbandonava alla melanconia di questa natura selvaggia e i miei ricordi mi riconducevano al mio paese natale. Ci toccò presto attraversare molti piccoli fjords di nessuna importanza, e finalmente un vero golfo; la marea che allora era nella condizione richiesta ci permise di passare senza indugio e di giungere al casale di Halftanes, posto un miglio al di là. Alla sera dopo aver passato a guado due fiumi ricchi di trote e di lucci, l’Alfa e l’Heta, fummo obbligati a passar la notte in un casolare abbandonato, degno di essere praticato da tutti i folletti della mitologia scandinava; certo il genio del freddo vi aveva posto il suo domicilio e ne fece delle sue durante tutta la notte. Il giorno seguente non avvenne nulla di particolare; sempre lo stesso terreno pantanoso, la stessa uniformità, la stessa fisonomia assai triste. Alla sera avevamo percorso la metà della distanza e dormimmo nell’annexia di Krösolbt. Il 19 giugno, durante un miglio all’incirca, attraversammo un terreno di lava. Questa disposizione del suolo è detta hraun nel paese; la lava, rugosa alla superficie, aveva forma di gomene ora allungate, ora arrotolate intorno a sè stesse; un immenso rivone scendeva dalle montagne vicine, al presente vulcani spenti; ma di cui codesti avanzi attestavano la violenza d’un tempo. Alcuni vapori di sorgenti calde si levavano tuttavia qua e là, ma il tempo ci mancava per osservare tali fenomeni; conveniva tirare innanzi. Presto il terreno pantanoso riapparve sotto i piedi delle nostre cavalcature; alcuni laghetti lo intersecavano. Noi eravamo diretti allora verso l’ovest; infatti, dopo aver girato intorno alla gran baja di Faxa, la doppia vetta bianca dello Sneffels sorgeva nelle nuvole a meno di cinque miglia di distanza. I cavalli camminavano di buon passo, non trattenuti dalle asperità del suolo; per parte mia, io cominciava ad essere stanco, ma mio zio rimaneva fermo e diritto come nel primo giorno; io non poteva non ammirarlo al pari del cacciatore il quale considerava questa spedizione come una semplice passeggiata. Il sabato 20 giugno, alle sei pomeridiane, fummo a Büdir, borgata posta sulla riva del mare, e la guida volle la sua paga convenuta. Ci fu offerta ospitalità dalla famiglia dello stesso Hans, composta de’ suoi zii e cugini germani; fummo ben accolti, e senza abusare della bontà di quella brava gente io mi sarei volentieri rimesso in casa loro dalle fatiche del viaggio. Ma mio zio, che non aveva bisogno di rimettersi, non la pensava così, e la domane bisognò inforcare di nuovo le nostre cavalcature. Il terreno attestava la vicinanza della montagna, le cui radici di granito sporgevano qua e là come quelle d’una vecchia quercia, Noi giravamo intorno all’immensa base del vulcano. Il professore non ne distaccava gli occhi un momento e gesticolava come per sfidarlo e per dire: «Ecco adunque il gigante che io domerò!» Finalmente dopo quattro ore di viaggio i cavalli si arrestarono di per sè stessi alla porta del presbitero di Stapi. XIV. Stapi è una borgata composta di una trentina di capanne costrutte di lava sotto i raggi del sole riflessi dal vulcano. Essa si stende in fondo a un piccolo fjörd incassato in una muraglia basaltica del più bizzarro effetto. È noto che il basalto è una roccia bruna di origine ignea e che offre forme regolari che. meravigliano per la loro disposizione. Qui la natura procede geometricamente e lavora alla maniera umana, per così dire colla squadra, col compasso e col piombino. Altrove artefice dalle grandi masse gettate disordinatamente, dai coni appena abbozzati, dalle imperfette piramidi, dalla bizzarra successione di linee, qui invece volle dare l’esempio della regolarità, e precedendo gli architetti delle età primitive, creò un ordine severo che non fu superato nè dagli splendori di Babilonia, nè dalle meraviglie della Grecia. Io aveva udito parlare dell’argine dei giganti in Islanda a della grotta di Fingallo in una delle isole Ebridi, ma lo spettacolo di una substruzione basaltica non si era ancora offerto a’ miei sguardi. A Stapi questo fenomeno apparve in tutta la sua bellezza. La muraglia del fjörd, come tutta la costa della penisola, si componeva d’una serie di colonne verticali, alte trenta piedi; questi fusti diritti e di proporzioni purissime sorreggevano un archivolto, fatto di colonne orizzontali che s’inarcavano sopra il mare. A certi intervalli, l’occhio vedeva le apertura ogivali di disegno ammirabile attraverso le quali i flutti si precipitavano schiumosi. Alcuni tronchi di basalto strappati dai furori dell’Oceano, giacevano a terra come le rovine d’un tempio antico, rovine eternamente giovani sulle quali passavano i secoli senza pure scalfirle. Tale era l’ultima tappa del nostro viaggio terrestre. Hans ci aveva condotti con giudizio ed io mi sentiva alquanto rassicurato pensando che egli doveva accompagnarci ancora. Arrivando alla porta della casa del rettore, semplice tugurio basso, non più bello, nè più comodo de’ suoi vicini, vidi un uomo intento a ferrare dei cavalli col martello in mano e col grembiale di cuoio cinto intorno alle reni, «Sællvertu, gli disse il cacciatore. — God dag, rispose il maniscalco in perfetto danese. — Kyrkoherde, disse Hans volgendosi a mio zio. — Il rettore, ripetè quest’ ultimo; pare, Axel, che cotesto brav’uomo sia il rettore.» Intanto la guida istruiva il kyrkoherde intorno la situazione; costui, interrompendo il lavoro, gettò una specie di grido in uso senza dubbio fra cavalli e cozzoni, e tosto uscì dal tugurio una gran megera alta sei piedi o all’incirca. Io temeva ch’ella venisse ad offrire ai viaggiatori il bacio islandese; ma così non fu, anzi ella pose assai poca, buona grazia nell’introdurci in casa sua. La camera dei forestieri mi parve essere la peggiore del presbitero, stretta, sucida e fetida, ma bisognò accontentarsene. Il rettore non sembrava praticare l’antica ospitalità tutt’altro, e prima che il giorno fosse alla fine m’accorsi che noi avevamo a fare con un fabbro, con un pescatore, con un cacciatore e con un legnajuolo; ma niente affatto con un ministro del Signore. È vero che era un giorno feriale, e può darsi ch’egli facesse altrimenti alla domenica. Non voglio già dir male di quei poveri preti che in fin dei conti, sono miserabilissimi; essi ricevono dal Governo Danese un onorario ridicolo e riscuotono il quarto delle decime della loro parrocchia, ciò che non arriva a fare una somma di sessanta marx . D’onde la necessità di lavorare per vivere, senonchè pescando, cacciando e ferrando cavalli, si acquistano le maniere, il tono e gli abiti dei cacciatori, dei pescatori, dei maniscalchi e d’altre genti piuttosto rozze. Nella sera medesima m’avvidi che il nostro ospite non poneva la sobrietà nel novero delle sue virtù. Mio zio comprese subito con qual sorta d’uomo avesse a fare; invece d’un rispettabile scienziato, egli trovava un contadino tozzo e grossolano; però risolvette di cominciare al più presto la sua gran spedizione e di lasciare questa parrocchia poco ospitale. Egli non badava a fatiche e determinò di andar a passare alcuni giorni nella montagna, I preparativi della partenza furono fatti il domani stesso del nostro arrivo a Stapi; Hans procurò tre islandesi per sostituire i cavalli nel trasporto dei bagagli; una volta arrivati in fondo al cratere codesti indigeni dovevano ritornarsene ed abbandonarci a noi stessi. Questo punto fu stabilito espressamente. In tale occasione mio zio dovette informare il cacciatore come avesse intenzione di proseguire l’esplorazione del vulcano fino agli ultimi limiti. Hans non fece altro che inchinare la testa; andar quivi o altrove, cacciarsi nelle viscere della sua isola o percorrerla, per lui era tutt’uno; in quanto a me, distratto fino a quel punto dagli incidenti del viaggio, l’avvenire m’era un po’ passato di mente ed ora sentivo che la commozione mi riguadagnava peggio che mai. Che farci? dove pure avessi potuto tentar di resistere al professor Lidenbrock, avrei dovuto farlo ad Amburgo e non a’ piedi dello Sneffels. Un’idea fra le altre mi martellava, idea spaventosa e fatta per porre in tumulto nervi meno sensibili dei miei. «Vediamo, dicevo tra me e me, noi stiamo per ascendere lo Sneffels. Bene. Stiamo per visitare il suo cratere. Benissimo. Altri lo fecero e non sono morti; ma non è tutto. Se si offre un sentiero per discendere nelle viscere della terra, se questo malcapitato Saknussem ha detto il vero, noi ci perderemo in mezzo alle gallerie sotterranee del vulcano. Ora nulla prova che lo Sneffels sia spento! chi può dire che non ci prepari un’eruzione? Dal fatto che il mostro dorme dal 1229, risulta forse ch’egli non possa risvegliarsi? e se si risveglia che cosa diventeremo noi?» La cosa meritava ch’io ci riflettessi, ed io ci riflettevo. Non potevo dormire senza sognare eruzioni: ora l’essere trasformato in scoria mi sembrava piuttosto brutale. Alla fine non seppi più resistere e risolvetti di sottoporre il caso a mio zio con tutta accortezza, e sotto forma di ipotesi affatto inattuabile. Andai a trovarlo. Lo posi a parte de’ miei timori, ed indietreggiai per lasciarlo scoppiare a sua posta. «Ci pensavo,» rispose semplicemente. Che significavano queste parole? Stava egli per ascoltare la voce della ragione? Pensava a differire i suoi disegni? La cosa sarebbe stata troppo bella per essere possibile. Dopo alcuni istanti di silenzio, durante i quali non osavo interrogarlo, egli riprese a dire: «Ci pensavo. Fino dal nostro arrivo a Stapi io mi sono preoccupato della grave questione che tu mi proponi, perocchè non conviene agire da imprudenti. — No, risposi io con forza. — Sono seicento anni che lo Sneffels è muto; ma può parlare. Ora le eruzioni sono sempre precedute da fenomeni perfettamente noti; io ho quindi interrogato gli abitanti del paese, ho studiato il suolo e te lo posso assicurare, Axel, che non ci saranno eruzioni.» A tale affermazione io rimasi stupefatto, e non potei replicare. «Tu dubiti delle mie parole? disse mio zio, orbene! Seguimi.» Obbedii macchinalmente. Uscendo dal presbitero, il professore prese una via diretta, la quale, per un’apertura della muraglia basaltica, si allontanava dal mare. Non andò molto che noi fummo in campagna aperta, se si può dar questo nome ad un immenso accumulamento di dejezioni vulcaniche. Il paese pareva come schiacciato sotto una pioggia di enormi pietre, di trapp, di basalto, di granito e d’ogni sorta di roccie pirosseniche. Io vedeva qua a la delle fumaiole alzarsi nell’aria; questi vapori bianchi detti reykyr in lingua islandese, provenivano dalle sorgenti termali ed indicavano colla loro violenza l’azione vulcanica del suolo. Ciò mi pareva giustificare i miei timori, però non mi raccapezzai più quando mio zio disse: «Vedi tutti questi getti di fumo, Axel; ebbene essi provano che nulla abbiamo più a temere dei furori del vulcano. — Questo poi! esclamai. — Ricordati bene questo, rispose il professore all’approssimarsi di un’eruzione le fumaiole raddoppiano d’attività e spariscono completamente durante il fenomeno, perchè i fluidi elastici, non avendo più la necessaria tensione, prendono la via dei crateri, anzichè sfuggire attraverso le fessure del globo. Se dunque questi vapori si conservano nel loro stato abituale, se la loro energia non aumenta e se aggiungi a tale osservazione che il vento e la pioggia non sono sostituiti da un’aria pesante e tranquilla, tu hai tanto da affermare che non vi sarà eruzione prossima. — Ma... — Basta; quando la scienza ha parlato non rimane più che tacere.» Ritornai alla parrocchia colla testa bassa; mio zio mi aveva battuto con argomenti scientifici. Tuttavia io aveva ancora la speranza che arrivati in fondo al cratere ci sarebbe stato impossibile, in mancanza di galleria, di scendere più basso; e ciò a dispetto di tutti i Saknussemm del mondo. La notte seguente fu un incubo solo. Mi pareva d’essere in mezzo ad un vulcano e dalle profondità della terra mi sentivo slanciato negli spazii planetari in forma di roccia eruttiva. La domane, 23 giugno, Hans ci aspettava coi suoi compagni carichi di viveri, di utensili e strumenti. Due bastoni ferrati, due fucili e due cartucciere erano riserbati a mio zio ed a me: Hans da uomo cauto aveva aggiunto ai nostri bagagli un otre pieno che colle nostre fiaschette ci assicurava l’acqua per otto giorni. Erano le nove del mattino. Il rettore e la sua lunga megera aspettavano dinanzi alla porta. Volevano senza dubbio rivolgerci l’addio supremo dell’ospite al viaggiatore; ma questo addio prese la forma inaspettata d’una nota formidabile in cui si teneva conto perfino dell’aria della casa pastorale, aria infetta, oso dirlo. La degna coppia ci scorticava alla maniera d’un albergatore svizzero e metteva a caro prezzo la sua ospitalità. Mio zio pagò senza mercantaggiare. Un uomo che partiva per il centro della Terra non doveva lesinare per qualche risdallero. Fatto questo, Hans diede il segnale della partenza ed alcuni istanti dopo avevamo lasciato Stapi. XV. Lo Sneffels è alto cinquemila piedi, e termina col suo doppio cono una zona trachitica che si stacca dal sistema orografico dell’isola. Dal nostro punto di partenza non si potevano scorgere i suoi due picchi sul fondo grigio del cielo. Vedevo solo un’enorme calotta di neve abbassata sulla fronte del gigante. Noi camminavamo in fila, preceduti dal cacciatore, il quale si arrampicava per stretti sentieri dove due persone non avrebbero potuto andar di fronte. Ogni conversazione diveniva adunque pressochè impossibile. Al di là della muraglia basaltica del fjörd di Stapi ci imbattemmo dapprima in un terreno di torba erbacea e fibrosa, avanzo dell’antica vegetazione delle paludi della penisola. La massa di siffatto combustibile non ancora sfruttato sarebbe bastata a scaldare durante un secolo tutta la popolazione dell’Islanda. Questa vasta torbiera, misurata dal fondo di certi burroni, aveva spesso settanta piedi d’altezza ed era fatta a strati successivi di avanzi animali e vegetali carbonizzati, separati da pagine di tufo poroso. Da vero nipote del professore Lidenbrock e non ostante le mie preoccupazioni, osservavo con interesse le curiosità mineralogiche poste in mostra in quel vasto gabinetto di storia naturale, e allo stesso tempo rifacevo nel mio spirito tutta la storia geologica dell’Islanda. Quest’isola, tanto curiosa, è evidentemente uscita dal fondo delle acque in un tempo relativamente moderno; fors’anco essa s’innalza ancora con un movimento insensibile. Se così è non si può attribuire la sua origine che all’azione dei fuochi sotterranei. In tal caso adunque la teorica di Humphry-Davy, il documento di Saknussemm e le pretese di mio zio, tutto andava in fumo. Questa ipotesi mi portò ad esaminare attentamente la natura del suolo, ed in breve potei rendermi conto della successione dei fenomeni che presiedettero alla sua formazione. L’Islanda, assolutamente priva di terreno sedimentale, sì compone solo di tufo vulcanico, cioè a dire d’un agglomeramento di pietre e di roccie di struttura porosa. Prima dell’esistenza dei vulcani era fatta d’una massa sollevata lentamente sopra i flutti per opera delle forze centrali; il fuoco interno non avea ancora fatto irruzione al di fuori. Ma più tardi un largo crepaccio si aprì diagonalmente dal sud-ovest al nord-est dell’isola e da questo si versò a poco a poco tutta la pasta trachitica. Il fenomeno avveniva allora senza violenza, perocchè lo sbocco era enorme e le materie fuse rigettate dalle viscere della terra si sparsero tranquillamente in vasti strati o in masse a monticoli: e fu in questo tempo che apparvero i feldspati, i sieniti e i porfiri. Mercè tale versamento la grossezza dell’isola crebbe assai e la sua forza di resistenza del pari. Si comprende quale quantità di fluidi elastici si accogliesse nel suo seno quando non offrì più alcuna uscita dopo il raffreddamento della crosta trachitica. Venne dunque un momento in cui la potenza meccanica di questi gas fu tale ch’essi sollevarono la massiccia scorza e si aprirono alti sfiatatoi. D’onde il vulcano prodotto dal sollevamento della crosta, poi il cratere che si aprì d’un subito sulla vetta del vulcano. Allora i fenomeni eruttivi succedettero ai fenomeni vulcanici. Dalle aperture formate di fresco sgorgarono dapprima le direzioni basaltiche, di cui la pianura che noi attraversavamo offriva allo sguardo saggi meravigliosi. Camminavamo sopra queste roccie d’un grigio carico a cui il raffreddamento avea dato forma di prismi a base esagonale; in lontananza si vedevano gran numero di coni schiacciati che furono un tempo altrettante bocche ignivome. Poi, esaurita l’eruzione basaltica, il vulcano, la cui forza si accrebbe di quella dei crateri spenti, diede passaggio alle lave ed ai quei tufi di ceneri e di scorie di cui io vedeva i lunghi canali sparsi sui suoi fianchi come un’opulenta capigliatura. Tale fu la successione dei fenomeni che costituirono l’Islanda; tutti derivavano dall’azione dei fuochi interni, per modo che supporre che la massa centrale non fosse in uno stato permanente di incandescente liquidità, era follia; e sopratutto follia pretendere d’arrivare al centro della Terra! Così io m’andava rassicurando sull’esito della nostra intrapresa, pur movendo all’assalto dello Sneffels. La strada si faceva sempre più difficile, il terreno saliva, i frammenti di roccie si staccavano, e ci voleva una scrupolosa attenzione per evitare cadute, pericolosissime. Hans si avanzava tranquillamente come sopra un terreno liscio; talvolta spariva dietro i grandi macigni e lo perdevamo di vista un istante, ma un fischio acuto ch’egli faceva colle labbra, indicava la direzione da seguire. Soventi volte egli si arrestava, raccoglieva alcuni frammenti di roccia e li disponeva in maniera di riconoscerli e da formare degli indizii destinati ad indicare la strada del ritorno; precauzione buona per sè stessa, ma che gli avvenimenti futuri resero inutili. Tre faticose ore di cammino ci avevano portato non più oltre della base della montagna. Quivi Hans fe’ segno di arrestarci, ed una parca colazione fu divisa fra tutti. Mio zio faceva bocconi doppi per far più presto, ma questa sosta di refezione era ad un tempo sosta di riposo, ed egli dovette attendere il beneplacito della guida, la quale diè il segnale della partenza un’ora dopo. I tre Islandesi, non meno taciturni del loro camerata il cacciatore, non dissero verbo e mangiarono sobriamente. Cominciavamo ora a salire l’erta dello Sneffels. La sua vetta nevosa, per un’illusione ottica frequente nelle montagne, mi pareva vicinissima e tuttavia quante lunghe ore prima di raggiungerla! e qual fatica! le pietre non trattenute da alcun cemento di terra o di erba franavano sotto i nostri piedi e rotolavano alla pianura colla rapidità d’una valanga. In certi punti i fianchi della montagna facevano coll’orizzonte un angolo di 36° per lo meno; era impossibile arrampicarsi, per modo che ci conveniva girare, non senza difficoltà, queste erte petrose. In questo caso noi ci aiutavamo a vicenda coi nostri bastoni. Devo dire che mio zio si teneva vicino a me quanto più gli era possibile, che non mi perdeva di vista e che in molte occasioni il suo braccio mi offrì un valido sostegno. Per parte sua egli aveva senza dubbio il sentimento innato dell’equilibrio e non barcollava mai. Gli Islandesi, benchè carichi dei bagagli, s’arrampicavano con un’agilità da montanari. A vedere l’altezza della cima dello Sneffels, mi pareva impossibile che si potesse raggiungerla da questa parte, se l’angolo d’inclinazione delle erte non si arrestava. Per buona sorte, dopo un’ora di fatiche e di prodigi di forza, in mezzo al vasto tappeto di neve che si stendeva sulla groppa del vulcano, ci si aprì dinanzi all’improvviso una specie di scalinata la quale rese più facile la nostra ascensione. Era formata da uno di quei torrenti di pietre rovesciati dalle eruzioni, chiamati in Islandese stinâ. Se questo torrente non fosse stato arrestato nella sua caduta dalla disposizione dei fianchi della montagna, si sarebbe precipitato nel mare e vi avrebbe formato isole nuove. Tal qual’era, ci servì a meraviglia. La ripidità delle erte cresceva, ma i gradini di pietra permettevano di salirle facilmente e così presto che, essendomi rimasto un momento indietro mentre i miei compagni continuavano la loro ascensione, io li vidi ridotti dalla lontananza ad apparenze microscopiche. Alle sette di sera avevamo salito i duemila gradini della scalinata, a dominavamo una gobba della montagna, specie di base sulla quale si appoggiava il cono propriamente detto del cratere. Il mare si stendeva sotto di noi ad una profondità di tremila dugento piedi. Avevamo oltrepassato il limite delle nevi perpetue, poco alte in Islanda in causa dell’umidità costante del clima. Faceva un freddo vivo e il vento soffiava con violenza. Ero sfinito di forze. Il professore si avvide che le mie gambe si ribellavano ad ogni ufficio, e non ostante la sua impazienza deliberò di fermarsi. Fece dunque un segno al cacciatore il quale tentennò il capo dicendo: «Ofvanför. — Pare che bisogna andar più su, disse mio zio.» Poi chiese ad Hans il motivo della sua risposta. «Mistour, rispose la guida. — Ja, mistour, ripetè uno degl’Islandesi con accento spaventato. — Che cosa significa questa parola ? domandai inquieto. — Guarda,» disse mio zio. Volsi gli occhi alla pianura; un’immensa colonna di pietra pomice polverizzata, di sabbia e di polvere si elevava turbinando come una tromba, e il vento la spingeva contro il fianco dello Sneffels, al quale noi eravamo abbrancati. Questa cortina opaca stesa innanzi al sole, gettava una immensa ombra sulla montagna; se la tromba s’inclinava, doveva inevitabilmente involgerci nei suoi turbini. Tale fenomeno, frequente quando soffia il vento dei ghiacciai, piglia in Islandese il nome di mistour. «Hastigt! hastigt!» gridò la nostra guida. Senza intendere il danese compresi che dovevamo seguire Hans al più presto. Costui incominciò a girare intorno al cono del cratere, ma di sbieco, per modo di facilitare la strada. Non andò molto che la tromba si rovesciò contro la montagna, la quale tremò all’urto. Le pietre involte nelle spire del vento volarono in pioggia, come avviene nelle eruzioni. Noi eravamo per buona sorte sul versante opposto e al riparo d’ogni pericolo; ma se non era la precauzione della guida, i nostri corpi lacerati e ridotti in polvere sarebbero caduti assai lontano, come il prodotto di qualche meteora sconosciuta. Tuttavia Hans non giudicò cosa prudente passar la notte sui fianchi del cono e continuammo la nostra ascensione a zig-zag. I millecinquecento piedi che ne restavano a superare richiesero circa cinque ore; i giri, gli sbiechi e le contromarcie non misuravano meno di tre leghe. Io non ne poteva più: soccombeva al freddo ed alla fame, e l’aria alquanto rarefatta non bastava più ai miei polmoni. Alla fine, alle undici di sera, in fitta notte, raggiungemmo il vertice dello Sneffels, e prima di andare a pormi al riparo nell’interno del cratere, ebbi il tempo di vedere «il sole di mezzanotte », nel punto più basso della sua carriera, gettare i suoi pallidi raggi sull’isola addormentata ai miei piedi. XVI. La cena fu rapidamente divorata e la comitiva si acconciò alla meglio. Il letto era duro, il riparo poco solido, la nostra condizione penosa, a cinquemila piedi sopra il livello del mare, Tuttavia il mio sonno fu tranquillo durante la notte, una delle migliori ch’io avessi passato da gran tempo. Non sognai neppure. La domane ci svegliammo mezzo gelati da un’aria molto frizzante, ai raggi d’un bel sole; io lasciai il mio letto di granito e andai a godermi il magnifico spettacolo che si svolgeva innanzi ai miei sguardi. Io occupavo la vetta di uno dei due picchi dello Sneffels, quello del sud. Di là la mia vista si stendeva sulla maggior parte dell’isola. Per un effetto d’ottica, comune a tutte le grandi alture, le ripe si vedevano in rilievo, mentre le parti centrali sembravano sprofondarsi. Si sarebbe detto che una di quelle carte in rilievo di Helbesmer si spiegasse ai miei piedi; io vedevo le vallate profonde incrociarsi in tutte le direzioni; i precipizi scavarsi a somiglianza di pozzi, i laghi tramutati in stagni, i fiumi fatti rigagnoli, e alla mia destra si succedevano i ghiacciai innumerevoli e le molteplici vette, taluna delle quali aveva un lieve pennacchio di fumo. Le ondulazioni di queste montagne infinite, che i loro strati di neve parevano rendere schiumose, mi richiamavano in mente la superficie d’un mare agitato. Se mi volgevo verso l’ovest l’oceano si stendeva maestosamente come una continuazione dei vertici ondeggianti e il mio occhio distingueva a mala pena dove finisse la terra a dove incominciassero i flutti. Mi tuffai tutto in quell’estasi incantevole che danno le alte vette, e stavolta senza vertigine, perocchè io m’avvezzava finalmente a siffatte sublimi contemplazioni. I miei sguardi abbagliati si bagnavano nella trasparente irradiazione dei raggi solari; dimenticavo chi mi fossi, dove fossi per vivere la vita degli elfi o dei silfi, immaginari abitanti della mitologia scandinava. M’inebbriavo della voluttà delle altura senza pensare agli abissi nei quali il mio destino dovea piombarmi fra breve. Ma fui ricondotto al sentimento della realtà dall’arrivo del professore e di Hans, i quali mi raggiunsero alla sommità del picco. Mio zio, volgendosi verso l’ovest, m’indicò colla mano un leggiero vapore, una nebbia, un’apparenza di terra che sorgeva sulla superficie dei flutti. «La Groenlandia, diss’egli. — La Groenlandia? esclamai io. — Sì, ne siamo lontani appena trentacinque leghe, e durante lo sgelo, gli orsi bianchi si spingono fino all’Islanda portati dai ghiaccioni del nord. Ma ciò importa poco. Noi siamo al vertice dello Sneffels; ecco due picchi, l’uno al sud, l’altro al nord; Hans ne dirà con qual nome gl’Islandesi chiamano quello su cui ci troviamo.» Formulata la domanda, il cacciatore rispose; «Scartaris.» Mio zio mi gettò uno sguardo di trionfo. «Al cratere!» diss’egli. Il cratere dello Sneffels raffigurava un cono capovolto il cui orifizio poteva avere mezza lega di diametro, ed io lo stimava profondo duemila piedi all’incirca. Si giudichi dello stato di simile recipiente quando si riempiva di folgori e di fiamme. Il fondo dell’imbuto non doveva misurare più di cinquecento piedi di circuito, in guisa che vi si poteva giungere facilmente lungo un pendio dolcissimo. Senza volerlo, paragonavo questo cratere a un enorme trombone, e l’idea mi spaventava. «Discendere in un trombone, pensavo, mentre gli è forse carico e può partire il colpo al menomo urto, è cosa da pazzi.» Ma non era più possibile dare indietro; Hans indifferente nell’aspetto procedette innanzi ed io lo seguii senza dir parola. Affine di agevolare la discesa Hans descriveva nell’interno del cono delle ellissi molto allungate; era duopo camminare in mezzo a roccie eruttive, talune delle quali scosse nei loro alveoli si precipitavano rimbalzando sino al fondo dell’abisso. La loro caduta risvegliava ripercussioni di echi stranamente sonori. Certe parti del cono formavano ghiacciai interni; in questi casi Hans si avanzava con estrema precauzione, scandagliando il terreno col bastone ferrato per scoprirne i crepacci, e a certi passi pericolosi fu necessario legarci con una lunga corda affinchè quello a cui venisse a mancare il piede all’improvviso sì trovasse sostenuto dai suoi compagni. Questa solidarietà era cosa prudente ma non escludeva ogni pericolo. Tuttavia, malgrado le difficoltà della discesa sovra pendii che la guida non conosceva, la strada fu fatta senza accidenti, tranne la caduta d’un rotolo di cordami che sfuggì dalle mani d’un Islandese ed andò per la via più breve fino al fondo dell’abisso. Al mezzodì eravamo giunti. Alzai la testa e vidi l’orifizio superiore del cono che incorniciava un pezzo di cielo in forma di circolo quasi perfetto, e singolarmente ridotto nelle proporzioni. In un punto solo si staccava il picco dello Scartaris tuffandosi nell’immensità. In fondo al cratere si aprivano tre bocche dalle quali, durante l’eruzione dello Sneffels, il focolare centrale cacciava le lave e i vapori; ciascuna di queste bocche avea circa cento piedi di diametro. Esse erano là, spalancate ai nostri piedi, nè io ebbi il coraggio di gettarvi lo sguardo. Il professore Lidenbrock, invece, avea fatto un rapido esame della loro disposizione; era ansante e correva dall’una all’altra gesticolando e pronunziando parole incomprensibili. Hans e i suoi compagni, seduti sopra pezzi di lava, lo seguivano collo sguardo prendendolo evidentemente per un pazzo. Di repente mio zio gettò un grido; credetti che egli avesse posto il piede in fallo e fosse caduto in una delle tre voragini; ma no, ch’io lo vidi colle braccia stese, colle gambe aperte, in piedi dinanzi ad una roccia di granito posta nel centro del cratere come un enorme piedestallo fatto per la statua di Plutone. Egli era nell’atteggiamento d’uomo stupefatto, ma il suo stupore diè luogo ben presto a una gioia insensata. «Axel! Axel! gridò, vieni, vieni!» Accorsi. Nè Hans nè gli Islandesi non si mossero. «Guarda!» mi disse il professore. E condividendo il suo stupore se non la sua contentezza, lessi sulla faccia occidentale del macigno, in caratteri runici, mezzo ròsi dal tempo, questo nome mille volte maledetto: «Arne Saknussem? esclamò mio zio dubiterai tu ancora?» Non risposi e ritornai costernato al mio sedile di lava. L’evidenza mi schiacciava. Quanto tempo rimanessi immerso così nelle mie riflessioni, lo ignoro. Tutto ciò che so è che alzando il capo vidi mio zio ed Hans soli nel fondo del cratere. Gl’Islandesi erano stati congedati ed ora ridiscendevano le balze esteriori dello Sneffels per riguadagnare Stapi. Hans dormiva tranquillamente a’ piedi d’una roccia in un canale di lava in cui s’era improvvisato un letto. Mio zio girava intorno al cratere come una bestia selvatica nella fossa d’un trappoliere. Io non ebbi nè voglia nè forza di levarmi, e seguendo l’esempio della guida mi abbandonai a un doloroso sopore parendomi d’udire dei rumori e di sentire dei fremiti nei fianchi della montagna. Così passò la prima notte in fondo al cratere. Alla domane un cielo grigio, annuvolato, pesante, si abbassò sul vertice del cono. Io non me ne avvidi tanto per l’oscurità della voragine quanto per la collera di mio zio. Ne compresi la ragione e un’ultima speranza mi tornò al cuore. Ecco perchè: Delle tre strade aperte ai nostri piedi, una sola era stata seguita da Saknussemm, e per quello che diceva il dotto Islandese si doveva riconoscere da questo fatto segnalato nel criptogramma, che l’ombra dello Scartaris veniva a lambirne gli orli gli ultimi giorni del mese di giugno. Si poteva in fatti considerare questo picco acuto, siccome l’ago d’un immenso quadrante solare, la cui ombra a un giorno determinato segnasse la via al centro della Terra. Ora se il sole venisse a mancare, mancava l’ombra e perciò l’indicazione. Eravamo al 25 giugno; solo che il cielo rimanesse coperto durante sei giorni e si avrebbe dovuto differire l’osservazione a un altro anno. Io rinunzio a dipingere l’ira impotente del professore Lidenbrock. La giornata passò e non ci fu ombra di sorta sul fondo del cratere. Hans non si mosse dal suo posto, e sì ch’egli doveva domandare a sè stesso che cosa attendissimo, se pure egli si domandava alcuna cosa! Mio zio non mi rivolse mai la parola; i suoi sguardi invariabilmente rivolti al cielo, si smarrivano in quella tinta grigia e brumosa. Il 26, nulla ancora. Una pioggia mista a neve, cadde durante tutto il giorno; Hans costrusse una capanna con pezzi di lava, ed io provai un certo diletto a seguire coll’occhio le migliaia di cascatelle improvvisate sui fianchi del cono e di cui ciascuna pietra cresceva l’assordante mormorio. Mio zio non si conteneva più. C’era in fatti di che irritare un uomo più paziente, perchè gli era proprio un arenarsi in porto. Ma ai grandi dolori il cielo unisce le grandi gioie: e riservava al professore Lidenbrock una soddisfazione pari alle sue noie disperanti. La domane il cielo fu ancora coperto, ma la domenica, 28 giugno, l’antipenultimo giorno del mese, col cambiamento di luna si mutò pure il tempo. Il sole versò a onde i suoi raggi nel cratere. Ogni monticolo, ogni masso, ogni pietra, ogni asperità ebbe la sua parte di questo benefico effluvio e allungò istantaneamente la sua ombra sul suolo. Fra le altre, quella dello Scartaris si disegnò come un angolo e andò in giro insensibilmente coll’astro radioso. Mio zio girava con essa. Al mezzodì, quando era fatta più breve, venne a lambire dolcemente l’orlo della bocca centrale. «È là! esclamò il professore; è là! al centro del globo!» aggiunse in danese. Io guardava Hans. «Forüt! disse tranquillamente la guida, — Avanti,» rispose mio zio. Era la una e tredici minuti pomeridiane. XVII. Il vero viaggio incominciava. Fino allora le fatiche avevano superato le difficoltà; oramai queste dovevano nascere sotto i nostri passi. Io non aveva ancora gettato lo sguardo in quel pozzo senza fondo in cui stava per inabissarmi. Era venuto il momento; potevo ancora rassegnarmi all’intrapresa o ribellarmi, ma ebbi vergogna di dare indietro dinanzi al cacciatore. Hans accettava così tranquillamente l’avventura, con tanta indifferenza e con sì perfetta noncuranza d’ogni pericolo, ch’io arrossii al pensiero di parere meno coraggioso di lui. Se fossi stato solo, avrei certo fatto valere i miei più validi argomenti, ma dinanzi alla guida mi tacqui; tornai per un istante colla memoria alla mia bella Virlandese e mi accostai alla bocca centrale. Ho detto ch’essa misurava cento piedi di diametro, o trecento piedi di circuito. Io m’inchinai al di sopra di una roccia e guardai; mi si rizzarono i capelli. Il sentimento del vuoto s’impadronì del mio essere; sentii che il mio centro di gravità andava fuori di posto e la vertigine mi salì al capo come un’ebbrezza; nulla sbalordisce più di siffatta attrazione dell’abisso; io stava per cadere, ma una mano mi trattenne, quella di Hans. Assolutamente non pare ch’io avessi preso abbastanza lezioni d’abissi nella Frelsers-kirk di Copenaghen. Pure, per poco che avessi arrischiato gli sguardi in quel pozzo, io mi era reso conto della sua conformazione. Le pareti tagliate quasi a picco avevano però molte sporgenze che dovevano rendere facile la discesa; ma se la scalinata non mancava, mancava però la ringhiera. Una corda attaccata all’orificio avrebbe potuto bastare a sorreggerci: ma come distaccarla quando si fosse giunti all’estremità inferiore? Mio zio adoperò un mezzo semplicissimo per rimediare a questa difficoltà. Egli svolse una corda grossa un pollice, lunga quattrocento piedi, ne lasciò scorrere la metà, la fece passare intorno ad un masso sporgente di lava e lasciò cadere l’altra metà. Ciascuno di noi poteva di tal guisa discendere, raccogliendo nella mano le due metà della corda; e una volta discesi per dugento piedi nulla di più facile che il riaverla, abbandonando un capo e tirando l’altro. Tale esercizio doveva essere ricominciato ad infinitum. «Ed ora, disse mio zio dopo aver fatto questi preparativi, occupiamoci dei bagagli. Essi saranno divisi in tre fardelli e ciascuno di noi se ne attaccherà uno sul dorso; parlo solo degli oggetti fragili.» L’audace professore non ci comprendeva evidentemente in questa ultima categoria. «Hans, ripres’egli si caricherà degli utensili e d’una parte di viveri; tu, Axel, d’un’altra parte di viveri e delle armi; io del resto dei viveri e degli strumenti delicati. — Ma, diss’io, e le vesti? e questo mucchio di cordami e di scale, chi lo porterà abbasso? — Discenderanno da sè. — In qual modo? domandai tutto sorpreso. — Lo vedrai.» Mio zio adoperava volentieri i grandi mezzi senza esitare. A un suo ordine, Hans riunì in un solo pacco gli oggetti non fragili, li legò solidamente e li precipitò come la cosa più naturale, nell’abisso. Udii quel muggito sonoro, prodotto dagli spostamenti degli strati dell’aria: mio zio, inchinato sulla bocca, seguiva con occhio soddisfatto la discesa de’ suoi bagagli e non si rilevò prima di averli perduti di vista. «Bene, diss’egli. A noi ora.» Io domando a qualunque uomo di buona fede se fosse possibile udire tali parole senza fremere! Il professore si legò sul dorso il pacco degli strumenti; Hans, quello degli utensili; io quello delle armi. La discesa cominciò nell’ordine seguente: Hans, mio zio, ed io. Il silenzio profondo era solo turbato dalla caduta dei frammenti di roccia che si precipitavano nell’abisso. Io mi lasciai calare, per così dire, stringendo freneticamente con una mano la doppia corda e coll’altra appoggiandomi al mio bastone ferrato. Non avevo che un pensiero: il timore che il punto d’appoggio mi venisse meno. La corda mi pareva assai debole per sostenere il peso di tre persone, e me ne servivo il meno possibile facendo miracoli di equilibrio, sopra le sporgenze di lava che il mio piede cercava di afferrare come una mano. Se avveniva che uno di quei gradini sdrucciolevoli si distaccasse sotto i passi di Hans, egli diceva colla sua tranquilla voce: «Gif akt! — Attenzione,» ripeteva mio zio. Dopo una mezz’ora eravamo arrivati alla superficie di una roccia fortemente incassata nelle pareti della gola. Hans tirò la corda per uno dei capi; l’altro si elevò nell’aria e dopo di aver passato la roccia superiore, ricadde tirandosi dietro pezzi di pietra e di lava, specie di pioggia, o dirò meglio, di grandine molto pericolosa. Inchinandomi al di sopra del nostro stretto poggio notai che il fondo dell’abisso era ancora invisibile. La manovra della corda ricominciò, e in capo d’una mezz’ora avevamo percorso una nuova profondità di dugento piedi. Io non so se il più arrabbiato geologo avesse potuto studiare, durante la discesa, la natura dei terreni che lo circondavano; per parte mia non me ne davo alcun pensiero, e o ch’essi fossero pliocenici, miocenici, eocenici, cretacei, giurassici, triasici, permiani, carboniferi, devoniani, siluriani, o primitivi, la cosa mi era affatto indifferente. Ma senza dubbio il professore fece le sue osservazioni perchè, in una delle fermate, mi disse: «Più vado innanzi, più ho fiducia. La disposizione di questi terreni vulcanici dà assolutamente ragione alla teorica di Davy; noi siamo in un terreno assolutamente primordiale, terreno in cui avvenne l’operazione chimica dei metalli infiammati al contatto dell’aria e dell’acqua. Io rifiuto assolutamente l’ipotesi del calore centrale, e d’altra parte noi vedremo coi nostri occhi.» Sempre la medesima conclusione, e si capisce come io non mi divertissi a discutere. Il mio silenzio fu preso per assenso e la discesa ricominciò. Da lì a tre ore, io non scorgeva ancora il fondo della voragine. Quando alzavo la testa vedevo il suo orifizio decrescere sensibilmente. Le pareti, per causa della loro lieve inclinazione, tendevano a riaccostarsi; l’oscurità si faceva vie più fitta. Eppure scendevamo sempre: parevami che la pietre che si staccavano dalle pareti si inabissassero con una ripercussione più sorda e che dovessero incontrare presto il fondo dell’abisso. Siccome avevo avuto cura di tener conto esatto delle manovre di corda, potei farmi un’idea della profondità a cui eravamo giunti e del tempo trascorso. Avevamo allora ripetuto quattordici volte la manovra che durava una mezz’ora: erano dunque sette ore, quattordici quarti d’ora di riposo, ovvero tre ora a mezzo; in tutto, dieci ore mezzo. Eravamo partiti alla una, dovevano essere le undici in quel momento. Quanto alla profondità a cui eravamo discesi, le quattordici lunghezze di una corda di dugento piedi, davano due mila e ottocento piedi. A questo punto udimmo la voce di Hans: «Alt!» diss’egli. Mi arrestai di botto mentre stavo per urtare coi piedi la testa di mio zio. «Siamo giunti, disse questi. — Dove? domandai lasciandomi andare fin presso a lui. — Al fondo della bocca perpendicolare, — Non vi ha dunque altra uscita? — Sì, una specie di corridoio ch’io intravedo appena e che si dirige obliquamente a diritta. Vedremo ciò domani. Intanto ceniamo; dormiremo dopo.» L’oscurità non era ancora completa. Aprimmo il sacco dei viveri, mangiammo, poi ciascuno si coricò alla meglio sopra un letto di pietre e di frammenti di lava. E quando, steso supino, aprii gli occhi, vidi un punto splendido all’estremità di quel lungo tubo di tremila piedi, che si trasformava in un gigantesco cannocchiale, Era una stella priva d’ogni scintillazione, e secondo i miei calcoli, doveva essere β della Orsa minore. Poi caddi in sonno profondo. XVIII. Alle otto del mattino, un raggio di luce venne a ridestarci. Le mille faccette di lava delle pareti lo raccoglievano nel suo passaggio e lo riversavano come una pioggia di scintille. Questa luce era abbastanza intensa per permettere di distinguere gli oggetti circostanti. «E così, Axel, che ne dici? sclamò mio zio fregandosi le mani; hai tu mai passato una notte più tranquilla nella nostra casa di Konigstrasse? Nessun rumore di carri, nè grida di rivenduglioli, nè vociare di battellieri! — Senza dubbio che noi siamo molto tranquilli in fondo a questo pozzo, ma la stessa calma ha qualche cosa di spaventevole, — E via! sclamò mio zio; se tu ti spaventi di già, che avverrà più tardi? Noi non siamo ancora entrati di un pollice nelle viscere della terra. — Che intendete dire? — Voglio dire che abbiamo appena raggiunto la superficie dell’isola! Questo lungo tubo verticale che mette al cratere dello Sneffels, si arresta press’a poco al livello del mare. — Ne siete voi certo? — Certissimo. Consulta il barometro e vedrai.» Infatti il mercurio dopo d’essere mano mano risalito nello strumento a misura che noi discendevamo, si era arrestato a ventinove pollici. «Lo vedi, riprese a dire il professore; noi non abbiamo ancora che la pressione d’un’atmosfera, ed io non vedo l’ora che il manometro venga a sostituire il barometro.» Questo strumento doveva infatti divenire inutile dal momento che il peso dell’aria avesse superato la sua pressione calcolata al livello del mare. «Ma, diss’io, non è a temersi che tale pressione sempre crescente diventi penosissima? — No, noi discenderemo lentamente, e i nostri polmoni sì avvezzeranno a respirare aria più compressa. Gli areonauti vengono a mancar d’aria negli strati superiori; noi invece ne avremo forse di troppo; ma io lo preferisco. Via, non perdiamo un istante. Dov’è il fardello che ci ha preceduti al fondo della montagna?» Mi rammentai allora come l’avessimo invano cercato la sera prima. Mio zio interrogò Hans, il quale dopo aver guardato attentamente co’ suoi occhi di cacciatore, rispose: «Der huppe! — Lassù.» Infatti l’involto si era appeso ad una sporgenza della roccia ad un centinaio di piedi sopra il nostro capo. Tosto l’agile Islandese sì arrampicò come un gatto, e in pochi minuti l’involto fu con noi. «Ed ora, disse mio zio facciamo colazione; ma alla maniera di gente che può avere una lunga corsa da fare.» Il biscotto e la carne secca furono inaffiati da alcuni sorsi d’acqua mescolata con ginepro. Finita la colazione, mio zio trasse di tasca un taccuino destinato alle osservazioni; prese l’un dopo l’altro i suoi varii strumenti e notò i dati che seguono: Lunedì 1.° luglio: Cronometro : Ore 8.17 minuti del mattino Barometro: 29 p. e 7 l. Termometro : 6° Direzione: E-S-E. Quest’ultima osservazione si applicava alla galleria oscura, e fu indicata dalla bussola. «Ora Axel, sclamò il professore con voce entusiasmata, noi stiamo per cacciarci davvero nelle viscere della terra! Quest’è adunque il momento preciso in cui comincia il nostro viaggio.» Ciò detto, mio zio prese con una mano l’apparecchio di Ruhmkorff, sospeso al suo collo; coll’altra pose in comunicazione la corrente elettrica col serpentino della lanterna, ed una luce abbastanza viva dissipò le tenebre della galleria. Hans portava il secondo apparecchio , che fu del pari messo in azione. Cotale ingegnosa applicazione dell’elettricità ci permetteva di camminare lungamente, creandoci una luce artificiale, anche frammezzo ai gas più infiammabili. «In cammino!» comandò mio zio. Ciascuno riprese il suo fardello; Hans si tolse il carico di spingersi dinanzi l’involto di cordami e di vestimenta, e, rimanendo io dietro a tutti, entrammo nella galleria. Nell’atto di inabissarmi in quel corridoio oscuro, sollevai il capo, e vidi per l’ultima volta, nel campo dell’immenso tubo, il cielo d’Islanda «che io non doveva più rivedere.» Nell’ultima eruzione del 1229, la lava si era aperto il passo attraverso quel tunnel, poichè ne tappezzava l’interno con un intonaco fitto e lucente, che rifletteva: i raggi della luce elettrica centuplicandone l’intensità. Tutte le difficoltà del cammino si riducevano a questa: di non sdrucciolare troppo rapidamente sovra un pendìo inclinato pressochè a quarantacinque gradi; fortunatamente, alcune erosioni e alcune gobbe tenevano le veci di gradini, e non avevamo a far altro che discendere abbandonando i nostri bagagli, trattenuti da una lunga corda. Se non chè, ciò che ai nostri piedi faceva l’ufficio di gradino, era stalattite alle pareti. La lava, porosa in alcune parti, pigliava aspetto di ampolle arrotondate; cristalli di quarzo opaco, ornati di limpide goccie di cristallo, e sospese alla vòlta come lampadari, sembravano accendersi al nostro passaggio. Si sarebbe detto che i genii dell’abisso illuminassero il loro palazzo per accogliere gli ospiti della terra. « Magnifico! esclamai involontariamente. Quale spettacolo, mio zio! Ammirate quelle tinte della lava che passa dal rosso carico al giallo splendido per gradazioni insensibili! E quei cristalli che ne appariscono come globi luminosi? — Ah! ci sei, Axel! rispose mio zio. Tu trovi tutto ciò splendido, giovanotto mio! vedrai ben altre cose, spero; camminiamo! camminiamo!» Egli avrebbe detto più propriamente: scivoliamo; perchè ci lasciavamo andare senza fatica di sorta sopra la rapida china. Era il facilis descensus Averni di Virgilio. La bussola, che io consultava di frequente, indicava la direzione sud-est con imperturbabile rigore; cotesto canale di lava non piegava da nessuna banda, aveva l’inflessibilità della linea retta. Pure il calore non aumentava in modo sensibile, la qual cosa dava ragione alle teoriche di Davy. Più volte aveva consultato il termometro con stupore; due ore dopo la partenza, non segnava che 10°, vale a dire un accrescimento di 4°. Ciò mi dava ragione di credere, che la nostra discesa fosse piuttosto orizzontale che verticale; quanto a conoscere appuntino la profondità raggiunta nulla di più facile. Il professore misurava esattamente gli angoli di deviazione e d’inclinazione della strada, ma egli teneva per sè il risultato delle sue osservazioni. La sera, verso le otto, egli diede il segnale di fermata. Hans si assise d’un subito e noi appendemmo le lampade ad una sporgenza di lava. Eravamo in una specie di caverna in cui l’aria non faceva difetto, al contrario ci battevano in viso certi soffi che non sapevo a quale agitazione atmosferica attribuire. Nè mi affannavo a risolvere la quistione, perchè la fame e la stanchezza mi rendevano incapace di ragionare. Sette ore consecutive di discesa non si possono fare senza gran perdita di forze, ed io era sfinito; perciò udii con piacere il segnale della fermata. Hans sciorinò alcune vettovaglie sopra un masso di lava, e ciascuno mangiò con appetito; solo una cosa mi dava pensiero: la nostra provvista d’acqua era mezzo consumata. Mio zio faceva conto di rinnovarla attingendo alle sorgenti sotterranee, ma fino a quel punto non ne avevamo incontrato alcuna. Non potei trattenermi dal chiamare la sua attenzione intorno a questo argomento. «Cotesta assenza di sorgenti ti meraviglia? diss’egli. — Senza dubbio, ed anzi m’inquieta pure poichè non abbiamo acqua se non per cinque giorni. — Tienti tranquillo, Axel; troveremo dell’acqua assai più del bisogno, ne rispondo io. — E quando? — Quando avremo lasciato la corteccia di lava. In qual modo vuoi tu che le sorgenti si facciano strada, traverso queste pareti? — Ma chi sa se lo strato di lava non si prolunghi a grande profondità. Parmi che noi non abbiamo ancora fatto molto cammino verticalmente. — Che cosa ti fa supporre ciò? — Gli è che se fossimo molto addentro nella scorza terrestre, il calore sarebbe più intenso. — Secondo il tuo sistema, rispose mio zio; che cosa segna il termometro? — Quindici gradi appena, vale a dire un aumento di soli nove gradi dalla nostra partenza. — Or bene, conchiudi. — Ecco la mia conclusione. Secondo le osservazioni più esatte, l’aumento della temperatura all’interno del globo è d’un grado ogni cento piedi. Certe condizioni di località possono modificare questa proporzione; così a Yakust, in Siberia, si è osservato che l’accrescimento d’un grado aveva luogo ogni trentasei piedi. Questa differenza dipende evidentemente dalla conducibilità delle roccie. Aggiungerò inoltre che in vicinanza d’un vulcano spento e attraverso lo gneis fu notato che l’elevazione della temperatura era d’un grado ogni centoventicinque piedi. Prendiamo dunque quest’ultima ipotesi come la più favorevole, e calcoliamo. — Calcola, giovinotto mio. — La cosa è facilissima, dissi, disponendo alcuni numeri sul mio taccuino; nove volte centoventicinque piedi danno mille centoventicinque piedi di profondità. — Nulla di più esatto. — Ebbene? — Ebbene, secondo le mie osservazioni, noi siamo arrivati a diecimila piedi sotto il livello del mare. — Possibile? — Certo; o i numeri non sono più numeri!» I calcoli del professore erano esatti. Noi avevamo di già sorpassato di seimila piedi le maggiori profondità raggiunte dall’uomo, quali le miniere di Kitz-Bahl nel Tirolo, e quelle di Würtemberg in Boemia. La temperatura che a questo punto avrebbe dovuto essere di 81° era di 15° appena. La qual cosa mi dava molto a pensare. XIX. La domane, martedì 30 giugno, alle sei ci rimettemmo a discendere. Seguivamo sempre la galleria di lava, vera discesa naturale, dolce come que’ piani inclinati che sostituiscono ancora oggi la scalinata nelle vecchie case; e ciò fino al mezzodì e diciasette minuti, momento preciso in cui raggiungemmo Hans che s’era arrestato. «Ah! esclamò mio zio, noi siamo giunti alle estremità del camino.» Mi guardai intorno; eravamo al centro d’un bivio al quale mettevano due strade alquanto cupe e strette. Quale conveniva prendere ? Quest’era assai difficile determinare. Tuttavia mio zio non volle mostrare esitazione nè dinanzi a me nè dinanzi alla guida; egli indicò la galleria dell’est per la quale ci mettemmo. D’altra parte ogni esitazione in mezzo a quel doppio sentiero avrebbe potuto prolungarsi all’infinito, perchè non vi era indizio che potesse determinare la scelta dell’uno piuttosto che dell’altro! ci conveniva dunque rimetterci al caso. Il pendìo di questa nuova galleria era poco sensibile, e la sua direzione assai ineguale. A volte una successione di archi si stendeva dinanzi a noi come le navate d’una cattedrale gotica. Gli artisti del medio evo vi avrebbero potuto studiare tutte le forme di quell’architettura religiosa che ha per generatrice l’ogiva. Un miglio più oltre dovevamo piegare il capo sotto le centine schiacciate dello stile romano; grossi pilastri incassati nel massiccio piegavano sotto il peduccio delle vôlte. In certi luoghi siffatta disposizione cedeva il posto a basse substruzioni che rassomigliavano alle opere del castoro, e ci conveniva strisciare serpeggiando come per entro a stretti budelli. Il calore si manteneva a un grado sopportabile. Involontariamente io pensava alla sua intensità nel momento in cui le lave vomitate dallo Sneffels si precipitavano per questa via oggi così tranquilla e m’immaginavo torrenti di fuoco che si frangevano agli angoli della galleria, e la condensazione di ardenti vapori in un luogo così stretto. «Purchè, pensai, al vecchio vulcano non torni un tardivo capriccio di ricominciare!» Queste riflessioni io non la comunicava allo zio Lidenbrock, il quale non le avrebbe comprese. Il suo unico pensiero era di andare innanzi. Egli camminava, strisciava, capitombolava anche con una convinzione che in fin dei conti era meglio ammirare. Alle sei ore della sera, dopo una passeggiata poco faticosa, noi avevamo percorso due leghe verso il sud, ma solo un quarto di miglio in profondità. Mio zio diede il segnale del riposo; si mangiò senza molte ciancie e ci addormentammo senza star lì a pensare. Le nostre disposizioni per la notte erano semplicissime; una coperta di viaggio nella quale ci involgevamo, serviva da letto. Non avevamo a temere nè freddo, nè visite importune. I viaggiatori che si cacciano in mezzo ai deserti dell’Africa o nelle foreste del Nuovo Mondo, sono costretti a vegliare gli uni per gli altri, durante le ore del sonno. Qui invece solitudine assoluta e sicurezza intera: non erano a temere nè selvaggi, nè bestie feroci, nè alcun’altra razza malefica. Ci risvegliammo la domane, freschi e ben disposti, e ci rimettemmo in viaggio seguendo un sentiero di lava come alla vigilia; era impossibile riconoscere la natura dei terreni che attraversavamo. Il tunnel, invece di sprofondarsi nelle viscere del globo, tendeva a farsi assolutamente orizzontale e mi parve persino di notare che risalisse verso la superficie della Terra. Tale disposizione si fe’ così manifesta verso le dieci del mattino, e perciò così faticoso il camminare, ch’io fui costretto a rallentare il passo. «Ebbene, Axel? disse impazientemente il professore. — Ebbene, non ne posso più, risposi. — Come! dopo tre sole ore di passeggiata per una strada così facile! — Facile, non dico di no, ma faticosa certo. — Come! se non facciamo che discendere! — Salire, con vostra grazia. — Salire? fe’ mio zio stringendosi nelle spalle. — Senza dubbio; da una mezz’ora le pendenze si sono così modificate, che continuando così ritorneremo certamente alla Terra d’Islanda.» Il professore tentennò il capo da uomo che non vuole essere convinto. Io cercai di ripigliar la conversazione, ma egli non mi rispose, e diede il segnale della partenza. M’avvidi che il suo silenzio non era altro che mal umore concentrato. Intanto io aveva ripreso il mio fardello coraggiosamente e seguivo rapidamente Hans, che precedeva mio zio. Non volevo rimaner indietro; la mia grande preoccupazione era di non perdere di vista i compagni. Fremevo all’idea di smarrirmi nelle profondità di quel labirinto. D’altra parte, se la strada ascendente diveniva più penosa, me ne consolavo pensando che mi riaccostava alla superficie della Terra. Era una speranza che si avvalorava ad ogni passo, ed io mi rallegrava al pensiero di rivedere la mia piccola Graüben. Al mezzodì, le pareti della galleria mutarono aspetto. Mi avvidi, per l’indebolimento della luce elettrica riflessa dalle muraglie, che all’intonaco di lava succedeva la viva roccia. Il masso si componeva di strati inclinati e spesso disposti verticalmente. Eravamo in piena epoca di transizione, in pieno periodo siluriano . È evidente! sclamai; i sedimenti delle acque formarono nella seconda epoca della Terra questi schisti questi calcari e queste pietre arenarie! Noi voltiamo le spalle alla massa granitica! Assomigliamo a chi da Amburgo prendesse la via dell’Hannover per andare a Lubecca.» Io avrei dovuto tenermi dentro le mie osservazioni, ma la mia natura di geologo vinse la prudenza e lo zio Lidenbrock intese le mie esclamazioni. «Che cos’hai? diss’egli. — Osservate! risposi mostrandogli la variata successione di pietre arenarie, di calcari ed i primi indizii delle ardesie. — Ebbene? — Eccoci giunti a quel periodo durante il quale apparvero le prime piante ed i primi animali. — Ah! tu credi? — Guardate adunque, esaminate, osservate.» Costrinsi il professore a guardare colla lampada le pareti della galleria. M’aspettavo qualche esclamazione, ma non disse verbo e continuò la strada. M’aveva egli compreso o no? Non voleva convenire, per amor proprio di zio e di scienziato, d’essersi ingannato scegliendo il tunnel dell’est, oppure voleva riconoscere il passaggio fino all’estremo? Era evidente che noi avevamo lasciato la strada delle lave e che quel sentiero non poteva condurre al focolare dello Sneffels. Frattanto io mi domandava se non attribuissi troppo grande importanza a siffatta modificazione dei terreni, e se per avventura non m’ingannassi io stesso. Attraversavamo noi davvero quegli strati di roccie sovrapposte alla massa granitica? «Se ho ragione, pensai, devo trovare qualche avanzo di pianta primitiva, ed allora bisognerà pure arrendersi all’evidenza. Cerchiamo.» Non avevo fatto cento passi che mi si offrirono allo sguardo prove incontrastabili. Così doveva essere, perchè all’epoca siluriana i mari contenevano oltre mille e cinquecento specie vegetali o animali. I miei piedi, avvezzi al suolo duro delle lave, calpestavano d’un tratto un terriccio composto di avanzi di piante e di conchiglie. Sulle pareti si vedevano chiaramente impronte di fuchi e di iocopodi. Il professore Lidenbrock non poteva ingannarsi, ma egli chiudeva gli occhi, immagino, e continuava il suo cammino con passo invariabile. Era ostinazione spinta oltre tutti i limiti. Non ne potei più, e, raccolta una conchiglia perfettamente conservata, che aveva appartenuto a un animale press’a poco simile al cloporto attuale, raggiunsi mio zio e gli dissi: «Guardate! — Ebbene, rispos’egli tranquillamente, è la conchiglia d’un crostaceo dell’ordine dei trilobiti ora scomparso; null’altro. — Ma non ne deducete voi? — Ciò che ne deduci tu stesso. È vero, noi abbiamo abbandonato lo strato di granito e il canale delle lave. Può essere che io mi sia ingannato, ma non sarò certo del mio errore, se non quando avrò raggiunto l’estremità di questa galleria. — Voi avete ragione di far così ed io vi approverei se non avessimo a temere un pericolo vie più minaccioso. — Quale? — La mancanza d’acqua. — Ebbene, ci metteremo a razione, Axel.» XX. Infatti, bisognò mettersi a razioni. La nostra provvigione non poteva durare più di tre giorni. Gli è ciò che io riconobbi alla sera durante il pasto e, disastrosa condizione, non avevamo alcuna speranza d’incontrare qualche sorgente viva in questi terreni dell’epoca di transizione. Durante tutta la domane la galleria svolse innanzi a noi i suoi archi interminabili, Camminavamo quasi senza dir parola; il mutismo di Hans c’invadeva. La strada non saliva, almeno in maniera sensibile; talvolta anzi pareva inchinarsi, ma questa lieve pendenza non doveva già rassicurare il professore, poichè la natura degli strati non si modificava e il periodo di transizione si affermava sempre più. La luce elettrica faceva scintillare splendidamente gli schisti, i calcari e le vecchie pietre arenarie rosse delle pareti. Pareva d’essere in un canale aperto nel mezzo del Devonshire che diede il suo nome a questo genere di terreni. Magnifici marmi rivestivano le muraglie, gli uni d’un grigio-agata venati capricciosamente di bianco, altri di colore incarnato o d’un giallo macchiato di rosso; più oltre erano campioni di nischio, dalle tinte cupe, nei quali il calcare spiccava con vivi colori. La maggior parte di questi marmi avevano impronte d’animali primitivi. Dalla «vigilia» la creazione aveva fatto un progresso evidente ; invece dei trilobiti rudimentali, io vedeva gli avanzi di un ordine più perfetto; fra gli altri i pesci ganoidi e quei sauropteridi nei quali l’occhio del paleontologo seppe scoprire le prime forme del rettile. I mari devoniani erano abitati da gran numero d’animali di questa specie e li deponevano a migliaia sopra le roccie nuovamente formate. Appariva mano mano evidente che noi risalivamo la scala della vita animale di cui l’uomo occupa la sommità. Ma il professore Lidenbrock non pareva porvi mente. Egli aspettava due cose: o che un pozzo verticale venisse ad aprirsi sotto i suoi piedi e gli permettesse di ricominciare la discesa, o che un ostacolo gl’impedisse di continuare quella strada. Ma venne la sera senza che alcuna di tali speranze si fosse avverata. Il venerdì, dopo una notte durante la quale incominciai a sentire i tormenti della sete, la nostra piccola comitiva si internò di nuovo nelle giravolte della galleria. Dopo dieci di ore di viaggio, notai che la riflessione della lampada sulle pareti diminuiva singolarmente. Il marmo, lo schisto, il calcare e il gres delle muraglia cedevano ad un intonaco cupo e senza splendore. A un certo punto che il tunnel divenne strettissimo, m’appoggiai sulla parete sinistra e nel ritrarne la mano vidi che era interamente nera. Guardai più davvicino e conobbi che eravamo in pieno terreno carbonifero. «Una miniera di carbone! sclamai. — Una miniera senza minatori! rispose mio zio. — Eh! chi sa? — Io lo so, replicò il professore in tono reciso; io sono certo che questa galleria aperta attraverso gli strati di carbon fossile, non fu fatta dalle mani dell’uomo. Ma sia o no opera della natura, ciò importa assai poco. È l’ora della cena; ceniamo.» Hans presentò alcuni alimenti; io mangiai appena e bevvi le poche goccie d’acqua che formavano la mia razione. La fiaschetta della guida a mezzo piena, era tutto ciò che ne rimaneva per dissetare tre uomini. Dopo il pasto i miei due compagni si stesero sulle coperte e trovarono nel sonno un rimedio alle loro fatiche; io solo non potei dormire e contai le ore fino al mattino. Il sabato alle sei si ripartì. Venti minuti dopo arrivammo ad una vasta cava; allora conobbi che la mano dell’uomo non poteva aver scavato questa miniera; le vôlte sarebbero state puntellate; esse non reggevano in fatti se non per un miracolo di equilibrio. Questa specie di caverna era larga cento piedi e alta cinquanta. Il terreno era stato violentemente aperto da una commozione sotterreanea, e la massa terrestre, cedendo a qualche spinta poderosa, aveva lasciato quel largo vuoto in cui gli abitanti della terra penetravano per la prima volta. Tutta la storia del terreno carbonifero era scritta su quelle cupe pareti, e un geologo ne poteva seguire facilmente le diverse fasi. Gli strati di carbone erano separati da strati di gres o di argilla compatta e come schiacciati dagli strati superiori. A quest’età del mondo che precedette l’epoca secondaria, la terra si ricoprì d’immense vegetazioni dovute alla doppia azione d’un calore tropicale e d’un’umidità persistente. Un’atmosfera di vapori involgeva il globo d’ogni parte, nascondendogli ancora i raggi del sole. D’onde questa conclusione, che le alte temperature non provenivano da quel nuovo focolare. Fors’anche l’astro del giorno non era ancora pronto a rappresentare la sua splendida parte. I «climi» non esistevano ancora, ed un calore torrido si spandeva sopra tutta la superficie del globo, uguale all’equatore e ai poli. D’onde veniva? Dall’interno della Terra. A dispetto delle teoriche del professore Lidenbrock, un fuoco violento covava nelle viscere dello sferoide; la sua azione si faceva sentire fino agli ultimi strati della scorza terrestre; le pianta prive dei benefici effluvi del sole, non davano fiori nè profumi, ma le loro radici attingevano una vita vigorosa nei terreni ardenti dei primi giorni. Vi erano pochi alberi e solo piante erbacee e immense piote, felci, licopodi, sigillarie, asterofilliti – famiglie rare le cui specie allora si contavano a migliaia. Ora è appunto a siffatta esuberante vegetazione che il carbon fossile deve la sua origine. La scorza tuttavia elastica del globo, obbediva ai movimenti della massa liquida che conteneva; d’onde fessure e avvallamenti numerosi. Le piante trascinate sotto le acque formavano a poco a poco masse considerevoli. Allora intervenne l’azione della chimica naturale; in fondo ai mari le masse vegetali divennero dapprima torba, poi sotto l’influenza dei gas e al fuoco della fermentazione si mineralizzarono affatto. Così si formarono gli immensi strati di carbone che il consumo di tutti i popoli per lungi secoli ancora non giungerà ad esaurire. Queste riflessioni mi venivano alla mente mentre consideravo le ricchezze carbonifere accumulate in quella parte della massa terrestre, Senza dubbio non saranno mai poste allo scoperto, chè la coltivazione di miniere così profonde richiederebbe sacrifici enormi; e a qual pro d’altra parte, se il carbon fossile è ancora sparso per così dire alla superficie della Terra in molte contrade? Tal quale io li vedeva, così quegli strati rimarrebbero fino a che fosse suonata l’ultima ora del mondo. Frattanto andavamo innanzi. Io solo, fra i miei compagni, dimenticava la lunghezza della strada per smarrirmi nelle considerazioni geologiche. La temperatura rimaneva qual’era stata durante il nostro passaggio in mezzo alle lave ed agli schisti. Solo il mio odorato era offeso da un odore assai acuto di proto-carburo d’idrogeno. Riconobbi immediatamente nella galleria la presenza di gran quantità di questo fluido pericoloso, al quale i minatori hanno dato nome di grisou e la cui esplosione ha così di frequente cagionato spaventevoli catastrofi. Per buona sorte noi eravamo rischiarati dagli ingegnosi apparecchi di Ruhmkorff; ma se avessimo esplorato imprudentemente la galleria colle torcie, uno scoppio terribile avrebbe posto termine al viaggio, sopprimendo i viaggiatori. Questa escursione nella miniera durò fino a sera. Mio zio tratteneva appena l’impazienza cagionatagli dal vedere che il sentiero si manteneva orizzontale. Le tenebre sempre, profonde a venti passi, impedivano di calcolare la lunghezza della galleria ed io cominciava già a crederla interminabile, quando all’improvviso, alle sei, ci si rizzò innanzi un muro. A diritta, a mancina, in alto, in basso non era alcuna uscita, Eravamo giunti al fondo d’un chiasso. «Ebbene! tanto meglio! esclamò mio zio; ora so almeno il fatto mio. Noi non siamo sulla strada di Saknussemm e non ci rimane più che ritornare indietro. Riposiamo una notte e prima di tre giorni avremo riguadagnato il punto in cui le due gallerie si bipartiscono. — Sì, diss’io, se ne avremo la forza. — E perchè no? — Perchè domani l’acqua mancherà del tutto. — E il coraggio mancherà egli del pari? domandò il professore guardandomi con occhio severo.» Io non osai rispondergli. XXI. La domane, la partenza ebbe luogo di buon mattino. Bisognava affrettarsi, poichè eravamo a cinque giorni di strada dal bivio. Non insisterò sulle sofferenze del nostro ritorno. Mio zio le sopportò colla collera di un uomo che non si sente il più forte; Hans, colla rassegnazione della sua natura pacifica; io, lo confesso, gemendo e disperandomi; il cuore mi veniva meno contro la cattiva fortuna. Come avevo preveduto, l’acqua ci mancò affatto alla fine del primo giorno di cammino; la nostra provvista liquida si ridusse allora al ginepro, ma quest’infernale liquore bruciava la gola ed io non poteva neppur sopportarne la vista. La temperatura mi pareva soffocante. La fatica mi paralizzava. Più volte fui ad un pelo di cadere senza movimento. Allora ci arrestavamo, e mio zio e l’Islandese mi confortavano come meglio sapevano. Ma io m’avvedeva che il primo lottava già penosamente contro l’estrema stanchezza e le torture prodotte dalla privazione di acqua. Alla fine, il martedì 8 luglio, trascinandoci carponi, arrivammo più morti che vivi al punto di congiunzione delle due gallerie. Quivi io rimasi come una massa inerte, steso sul suolo di lava. Erano le dieci del mattino. Hans e mio zio, addossati alla parete, cercarono di rosicchiare qualche pezzo di biscotto. Lunghi gemiti sfuggivano dalle mie labbra tumefatte. Caddi in un profondo assopimento. Dopo qualche tempo, mio zio mi si accostò e mi sollevò fra le sue braccia: «Povero ragazzo!» mormorò egli con sincero accento di pietà. Io fui commosso a tali parole, non essendo abituato alle tenerezze del fiero professore. Strinsi le sue mani frementi nelle mie, ed egli lasciò fare guardandomi cogli occhi inumiditi. Lo vidi allora prendere la fiaschetta che aveva al fianco. Con mio grande stupore, egli l’accostò alle mie labbra: «Bevi,» diss’egli. Avevo io inteso bene, o mio zio era pazzo? Lo guardai come inebetito, non volevo comprendere. «Bevi,» replicò egli. E sollevando la fiaschetta, la vuotò tutta fra le mie labbra. O godimento infinito! una boccata d’acqua venne ad umettare la mia bocca rovente, una sola boccata, ma bastò a richiamare la vita che mi sfuggiva. Ringraziai mio zio congiungendo le mani. «Sì, diss’egli, una boccata d’acqua! l’ultima! l’intendi bene? l’ultima! io l’aveva serbata preziosamente in fondo alla fiaschetta. Venti volte, cento volte mi convenne resistere allo spaventevole desiderio di berla, ma io la conservai per te, Axel. — Zio mio! mormorai, e grosse lagrime mi bagnavano gli occhi. — Sì, povero fanciullo, io sapeva, che giunto a questo bivio, tu saresti caduto semivivo, ed ho conservato le mie ultime goccie d’acqua per rianimarti. — Grazie, grazie!» esclamai. La mia sete era stata appena calmata, e nondimeno io aveva ricuperato un po’ di forza. I muscoli contratti della gola si stendevano e l’infiammazione delle labbra si era raddolcita; potevo parlare. «Vediamo, dissi; non ci rimane che un partito; poiché l’acqua ci manca bisogna ritornare sui nostri passi.» Mentr’io così parlava, mio zio evitava di guardarmi, abbassava il capo ed i suoi occhi fuggivano i miei. «Bisogna ritornare indietro, esclamai, e ripigliare il cammino dello Sneffels, Che Dio ci dia la forza di risalire fino alla sommità del cratere! — Ritornare? disse mio zio come rispondendo a sè stesso, — Sì, ritornare, e senza perdere un istante.» Vi fu un momento di silenzio abbastanza lungo. «Dunque, Axel, riprese il professore con accento singolare, queste poche goccie d’acqua non t’hanno restituito il coraggio e l’energia? — Il coraggio? — Io ti vedo abbattuto come prima e ti odo ripetere ancora parole disperate.» Con qual uomo avevo io a fare, e quali disegni formava ancora la sua mente audace? «Come, voi non volete?... — Rinunziare alla spedizione nel momento in cui tutto annunzia che può riuscire? Giammai! — Allora bisogna rassegnarsi a morire. — No, Axel, no! parti. Hans ti accompagni; lasciami solo. — Abbandonarvi? — Lasciami, ti dico! io ho incominciato questo viaggio e lo compirò fino alla meta, oppure non ritornerò. Vattene, Axel, vattene! » Mio zio parlava con fuoco; la sua voce, per un istante intenerita, ridiveniva aspra e minacciosa. Egli lottava con cupa energia contro l’impossibile. Io non voleva abbandonarlo in fondo a quell’abisso, e d’altra parte l’istinto della conservazione mi eccitava a fuggirlo. La guida assisteva a siffatta scena colla sua consueta indifferenza. Egli comprendeva tuttavia quel che avveniva fra i suoi compagni, perchè i nostri gesti indicavano abbastanza la via diversa in cui ciascuno di noi cercava di trascinar l’altro; ma non pareva prendere molto interesse alla quistione in cui era in gioco la sua vita – pronto a partire se si dava il segnale della partenza, pronto a restare al minimo cenno del suo padrone. Perchè non m’era dato in quell’istante di farmi comprendere da lui? le mie parole, i miei gemiti, il mio accento, avrebbero commosso la sua fredda natura; i pericoli che la guida non pareva sospettare, io glieli avrei fatti comprendere e toccar con mano, e tutti e due insieme avremmo forse saputo convincere l’ostinato professore, o al bisogno costringerlo a riguadagnare le vette dello Sneffels! M’accostai ad Hans e posi la mia mano sulla sua. Egli non fe’ moto, Gli mostrai la via del cratere: rimase immobile. La mia faccia ansante diceva tutte le mie sofferenze; l’Islandese tentennò lievemente la testa ed additando placidamente mio zio: «Master! diss’egli. — Il padrone! esclamai; insensato! no, egli non è il padrone della tua vita! bisogna fuggire, bisogna trascinarlo! intendi?» Avevo afferrato Hans per il braccio. Io voleva costringerlo ad alzarsi. Mentr’io lottava con lui, intervenne mio zio. «Calma, Axel, diss’egli. Tu non otterrai nulla da questo impassibile servitore; ascolta dunque ciò ch’io ti propongo.» Incrociai le braccia guardando fisso in volto mio zio. «La mancanza d’acqua, disse egli, è il solo ostacolo al compimento de’ miei disegni. In questa galleria dell’est, fatta di lave, di schisti, di carbon fossile, noi non abbiamo incontrato neppure una molecola liquida: è possibile che siamo più fortunati seguendo il tunnel dell’ovest.» Scossi la testa in aria di profonda incredulità. «Ascoltami fino alla fine, riprese il professore alzando la voce. Mentre tu giacevi qui senza movimento, io fui a riconoscere la conformazione di questa galleria. Essa s’interna direttamente nelle viscere del globo e in poche ore ci condurrà alla massa granitica; quivi dobbiamo incontrare sorgenti copiose. La natura della roccia così vuole; l’istinto è d’accordo colla logica per avvalorare la mia convinzione. Or ecco ciò che ho da proporti. Quando Colombo chiese tre giorni al suo equipaggio per trovare nuove terre, i suoi uomini malati, sbigottiti, acconsentirono tuttavia alla sua domanda, ed egli scoprì il nuovo mondo. Io, il Colombo della regioni sotterranee, io ti domando un giorno solo, e se passato questo tempo non ho trovato l’acqua che ci manca, ritorneremo alla superficie della Terra.» Non ostante la mia irritazione, fui commosso da tali parole a dallo sforzo che faceva mio zio per adoperare simile linguaggio. «Ebbene, sclamai, sia fatto come desiderate e che Dio ricompensi la vostra sovrumana energia! Non ci rimangono più che poche ore per tentare la sorte. In cammino!» XXII. La discesa ricominciò stavolta nella nuova galleria. Hans camminava dinanzi secondo la sua abitudine, Non avevamo fatto cento passi, che il professore facendo scorrere la lampada lungo la muraglia, sclamava: «Ecco i terreni primitivi! siamo sulla buona strada! camminiamo! camminiamo!» Allorchè, nei primi giorni del mondo, la Terra si raffreddò a poco a poco, la diminuzione del suo volume produsse nella sua scorza spostamenti, rotture, restringimenti e crepacci. Il corridoio per cui c’eravamo messi, era una fessura di questo genere per la quale sfuggiva un tempo il granito eruttivo. I suoi mille giri formavano un labirinto inestricabile attraverso il suolo primordiale. Più discendevamo e più la successione degli strati componenti il terreno primitivo, appariva con chiarezza. La scienza geologica considera il terreno primitivo siccome la base della scorza minerale ed ha riconosciuto che si compone di tre strati differenti, gli schisti, gli gneiss, i micaschisti, riposanti sulla roccia irremovibile che si chiama granito. Ora non mai mineralogisti si erano trovati in condizioni così meravigliose per studiare la natura sul luogo. Ciò che lo scandaglio, macchina brutale e senza intelligenza, non poteva dire alla superficie del globo intorno alla sua struttura interna, noi stavamo per istudiarlo coi nostri occhi e per toccarlo colle nostre mani. Attraverso lo strato degli schisti colorati di belle gradazioni verdi, serpeggiavano filoni metallici di rame e di manganese, con qualche traccia di platino ed oro. Io pensava a tante ricchezze nascoste nelle viscere della Terra e di cui l’avida umanità non potrà giammai godere, poichè i cataclismi dei primi giorni hanno seppellito siffatti tesori a tali profondità che non vi sarà zappa, vanga o piccone che possa strapparli alla loro tomba. Agli schisti succedettero gli gneiss di struttura stratiforme, notevoli per la regolarità e per il parallelismo delle loro pagine; poi i micaschisti disposti a gran lamine poste in evidenza dallo scintillio del mica bianco. La luce degli apparecchi, ripercossa dalle faccette della massa rocciosa, incrociava i suoi raggi in tutte le direzioni, e mi pareva di viaggiare attraverso un diamante vuoto, nel quale la luce sì frangesse con mille bagliori. Verso le sei di sera questa luminaria diminuì grado grado fin quasi a cessare; le pareti presero una tinta cristallina ma cupa; il mica si mescolò più intimamente al feldspato ed al quarzo per formare la roccia per eccellenza, la pietra dura più d’ogni altra, quella che sopporta senza essere schiacciata i quattro piani di terreno del globo. Noi eravamo murati nell’immensa prigione di granito. Erano le otto pomeridiane. L’acqua mancava sempre ed io soffriva orribilmente. Mio zio andava innanzi senza volersi arrestare: egli tendeva l’orecchio per cogliere i mormorii di qualche sorgente, ma non udiva nulla! Intanto le gambe mi venivano meno. Io resisteva alle mie torture per non obbligare mio zio a fermarsi. Sarebbe stato per lui il colpo disperato, poichè la giornata, ch’era al termine, era l’ultima che gli appartenesse. Alla fine tutte le forze mi abbandonarono, gettai un grido e caddi. «Aiuto! io muoio.» Mio zio ritornò indietro, mi guardò incrociando le braccia, poi pronunziò con voce sorda queste parole: «Tutto è finito.» I miei sguardi videro per l’ultima volta uno spaventoso gesto di collera, ed io chiusi gli occhi. Quando li riaprii, vidi i miei due compagni immobili avvoltolati nella loro coperta. Dormivano essi? per me non potevo provare un istante di sonno; soffrivo assai, e più pensando che il mio male doveva essere senza rimedio. Le ultime parole di mio zio si ripercotevano nel mio orecchio. Ohimè, sì, «tutto era finito» perchè in quello stato di debolezza non bisognava neppur pensare a risalire alla superficie della Terra. Sopra di noi era una lega e mezza di scorza terrestre! Mi pareva che questa massa premesse con tutto il suo peso sulle mie spalle. Mi sentivo schiacciato e mi sfibravo in sforzi violenti per voltarmi sul mio letto di granito. Passarono alcune ore; intorno a noi era un silenzio di tomba; non giungeva alcun rumore attraverso quelle muraglie di cui la più sottile aveva cinque miglia di spessore. E tuttavia così assopito com’ero, credetti di udire un rumore. Il tunnel si oscurava; guardai più intento e mi parve di vedere l’Islandese che spariva tenendo in mano la lampada. Perchè questa partenza? forse che Hans. ci abbandonava? Mio zio dormiva; volli gridare, ma la voce non potè uscire dalle mie labbra arse. L’oscurità s’era fatta profonda e gli ultimi rumori s’erano estinti. «Hans ci abbandona, gridai; Hans, Hans!» Queste parole, io le gridava dentro di me e non andarono più lontano. Peraltro, passato il primo istante di terrore, ebbi vergogna de’ miei sospetti contro un uomo la cui condotta non aveva avuto fino a quel giorno nulla che potesse ispirar diffidenza. La sua partenza non poteva essere una fuga, poichè, invece di risalire la galleria, egli la discendeva. Cattivi disegni l’avrebbero condotto in su, non già abbasso. Questo ragionamento mi calmò un poco e ritornai a un altr’ordine d’idee. Hans, uomo tranquillo, non poteva essere stato tolto al suo riposo se non da un motivo grande. Andava egli alla scoperta? aveva egli udito durante la notte silenziosa qualche murmure che non era giunto fino a me? XXIII. Durante un’ora, immaginai nel mio cervello in delirio tutte le ragioni che avevano potuto smovere il tranquillo cacciatore. Le più assurde idee si avvicendarono nella mia testa. Credetti che fossi per divenir pazzo! Ma alla fine un rumore di passi si fe’ udire nella profondità dell’abisso; Hans risaliva. La luce incerta cominciava a strisciare sulle pareti, poi sboccò dall’orifizio del corridoio, e Hans apparve. Egli si accostò a mio zio, gli pose una mano sulla spalla e lo svegliò dolcemente. Lo zio si alzò. «Che c’è? chiese egli. — Vaten,» rispose il cacciatore. Convien credere che sotto l’ispirazione di violenti dolori, ciascuno diventi poliglotta, poichè, senza sapere sillaba di danese, compresi per istinto la parola della nostra guida. «Dell’acqua, dell’acqua! esclamai battendo palma a palma le mani e gesticolando come un insensato. — Dell’acqua? ripetè mio zio e domandò all’Islandese: Hvar? — Nedät,» rispose Hans. Dove? Dabbasso! Io comprendeva tutto. Avevo afferrato le mani del cacciatore a le stringevo mentre egli mi guardava placidamente. I preparativi della partenza non furono lunghi, e non andò molto che noi camminavamo entro un corridoio il cui pendìo era di due piedi ogni tesa. Da lì a un’ora avevamo fatto mille tese all’incirca e disceso duemila piedi. Allora udii distintamente un rumore inconsueto correre entro i fianchi della muraglia granitica, specie di sordo muggito, e come un tuono lontano. Durante la prima mezz’ora di viaggio, non incontrando la sorgente annunziata, io sentiva di nuovo le angosce, ma allora mio zio mi apprese l’origine di quei rumori. «Hans non si è ingannato, diss’egli; ciò che tu intendi è il muggito d’un torrente. — Un torrente? gridai. — Non vi ha dubbio di sorta; un fiume sotterraneo gira intorno a noi.» Affrettammo il passo eccitati dalla speranza. Io non sentiva più la stanchezza; il mormorio dell’acqua pareva darmi ristoro. Il rumore aumentava sempre più. Il torrente, dopo essersi lungamente tenuto sopra di noi, correva ora lungo la parete sinistra, muggendo e rimbalzando. Io toccava di frequente la roccia, sperando trovarvi traccia di trasudamento o di umidità; ma invano. Passò un’altra mezz’ora; percorremmo un’altra mezza lega. Fu allora evidente che il cacciatore durante la sua assenza, non aveva potuto prolungare più oltre le sue ricerche. Guidato da un istinto proprio dei montanari e degli idroscopi, egli sentì il torrente attraverso la roccia, ma certo non aveva visto il prezioso liquido, nè si era cavato la sete. Nè andò molto che avemmo la certezza che, continuando il nostro cammino, ci saremmo allontanati dalla corrente il cui murmure cominciava a diminuire. Ritornammo indietro. Hans si arrestò nel punto preciso in cui il torrente sembrava essere più vicino. Io sedetti presso alla muraglia mentre le acque scorrevano a due piedi da me con estrema violenza. Ma un muro di granito ce ne separava ancora. Senza riflettere, senza domandarmi se non esistesse alcun mezzo di procurarsi quest’acqua, io mi abbandonai ad un primo momento di disperazione. Hans mi guardò ed io credetti di vedere un sorriso spuntare sulle sue labbra. Egli si alzò e prese la lampada. Lo seguii. Si diresse verso la muraglia, appoggiò l’orecchio alla pietra asciutta ed origliò qua e là attento. M’avvidi ch’egli cercava il punto preciso in cui il torrente si faceva udire con maggiore rumore. Codesto punto gli parve averlo incontrato nella parete sinistra a tre piedi sul livello del suolo. Com’ero commosso! non osavo indovinare ciò che il cacciatore volesse fare. Ma bisognò pure ch’io lo comprendessi e l’applaudissi e gli prodigassi le mie carezze quando vidi prendere il piccone per intaccare la roccia. «Siamo salvi! esclamai. — Sì, ripeteva mio zio con frenesia; Hans ha ragione; ah! il bravo cacciatore! certo a noi non sarebbe venuta siffatta idea!» Sfido io! simile mezzo per quanto fosse semplice, non ci sarebbe venuto in mente, perocchè non v’ha nulla di più pericoloso che il dare un colpo di zappa in questa armatura del globo. Pensate se fosse avvenuta qualche frana e ci avesse schiacciati! O se il torrente, aprendosi il passo attraverso la roccia, ci avesse annegati! Questi pericoli non erano punto chimerici, ma allora i timori di frana o di inondazione non potevano trattenerci e la nostra sete era così intensa che per calmarla avremmo scavato perfino il letto dell’Oceano. Hans si pose all’opera a cui non saremmo bastati né mio zio, nè io; la nostra mano, fuorviata dall’impazienza, avrebbe battuto colpi precipitati, tali da frantumare la roccia; al contrario la guida, tranquilla e moderata, rôse a poco a poco il sasso con una serie di colpetti ripetuti, scavando un’apertura larga mezzo piede. Udivo il rumore del torrente farsi più intenso e mi pareva che l’acqua benefica zampillasse già sulle mie labbra. Non andò molto che il piccone si cacciò per due piedi entro la muraglia di granito. Il lavoro durava da oltre un’ora. Io mi arrovellava d’impazienza. Mio zio voleva adoperare i mezzi eroici e durai fatica a trattenerlo, mentre dava di piglio al suo piccone; quando all’improvviso udimmo un fischio. Un getto d’acqua balzò dalla muraglia e venne a frangersi contro la parete opposta. Hans, quasi rovesciato dall’urto, non potè trattenere un grido di dolore, che io compresi quando, poste le mani nel getto liquido, mandai alla mia volta una violenta esclamazione, Quell’acqua era bollente. «Acqua a 100°! esclamai. — Ebbene, si raffredderà» rispose mio zio. Il corridoio si empiva di vapori, mentre un ruscello si formava sotto i nostri piedi e si smarriva nelle sinuosità sotterranee; da lì a un momento vi attingemmo la nostra prima sorsata. Ah! quale godimento! quale incomparabile voluttà! Che cos’era quest’acqua? d’onde veniva ? Poco importava; era acqua, e benchè ancora calda, rianimava la vita che stava per sfuggire. Io beveva senza posa, senza nemmeno gustare, e non fu che dopo un minuto di tanto diletto, che esclamai: «Ma è acqua ferrugginosa! — Eccellente per lo stomaco, replicò mio zio, poichè è molto mineralizzata! Ecco un viaggio che ne varrà tanto com’essere andati a Spa o a Toeplitz. — Com’è buona! — Lo credo io! acqua attinta a due leghe sotto terra! ha un sapore d’inchiostro non punte disaggradevole. Il gran conforto che ne ha procurato Hans! io propongo di dare il suo nome a questo ruscello salutare. — Benissimo!» esclamai. E il nome di Hans Bach fu subito adottato. Hans non ne fu già più orgoglioso, e dopo essersi moderatamente rinfrescato, si rincantucciò in un angolo colla sua calma abituale. «Ora, diss’io, non bisognerebbe lasciar perdere que- st’acqua. — A qual pro? rispose lo zio; immagino che la sorgente sarà perenne. — Che monta! riempiamo l’otre e la fiaschetta; poi cercheremo di otturare l’apertura.» Il mio consiglio fu seguito; Hans, per mezzo di scaglie di granito e di stoppa, tentò di chiudere l’apertura fatta nella parete; ma non fu cosa facile e si scottava le mani senza riuscirvi, La pressione era troppo violenta ed i nostri sforzi rimanevano infruttuosi. «È evidente, diss’io, che gli strati superiori del corso d’acqua sono posti a grand’altezza a giudicare dalla forza del getto. — Non v’ha dubbio di sorta, replicò mio zio. Se la colonna d’acqua ha trentaduemila piedi d’altezza, vi hanno mille atmosfere di pressione. Ma mi viene un’idea. — Quale? — Perchè ostinarci a chiudere questa apertura? — Ma perchè...» Io sarei stato imbarazzato a trovare una ragione. «Quando le nostre fiaschette saranno vuote, siamo noi certi di poterle riempire? — Evidentemente no. — Or bene, lasciamo scorrere l’acqua! essa discenderà naturalmente; ne guiderà e ne rinfrescherà per via! — Ciò è ben immaginato! esclamai; con un ruscello per compagno non vi è più nessuna ragione per non riescire nel nostro intento. — Tu ci vieni, giovinotto mio! disse il professore ridendo. — Faccio di meglio, ci sono. — Un momento! incominciamo dal prendere qualche ora di riposo.» Io dimenticava a ver dire che fosse notte e fu il cronometro che me lo apprese. Nè andò molto che ciascuno di noi, sufficientemente rifocillato, si addormentò d’un sonno profondo. XXIV. La domane avevamo già dimenticato i passati dolori. In sulle prime mi meravigliai di non aver più sete e ne domandavo la cagione; il rigagnolo, che scorreva a’ miei piedi, mi rispose col suo mormorio. Si fece colazione e si bevette di quell’eccellente acqua ferrugginosa. Io mi sentiva tutto rinvigorito e disposto ad andar lontano. Perchè mai un uomo convinto come mio zio non doveva riuscire, con una guida industriosa come Hans, ed un nipote determinato come me? Ecco le belle idee che mi venivano in mente! e se mi si avesse proposto di risalire alla vetta dello Sneffels, certo avrei disdegnosamente rifiutato. Ma non si trattava per buona sorte che di discendere. «Partiamo!» esclamai ridestando coi miei accenti di entusiasmo i vecchi echi del globo. Ci rimettemmo in viaggio il giovedì alle otto del mattino. Il corridoio di granito, contorcendosi in giri sinuosi, ci mostrava gomiti inaspettati ed aveva tutta l’aria d’un labirinto, ma infine la sua direzione principale era sempre il sud-est; mio zio non cessava di consultare con gran cura la bussola per rendersi conto della via percorsa. La galleria si cacciava quasi orizzontalmente con due pollici di pendio al più ogni tesa; il ruscello scorreva senza precipitazione mormorando sotto i nostri piedi, ed io lo paragonava ad un genio famigliare che ci guidasse attraverso la terra, ed accarezzavo colla mano la tiepida najade, i cui canti accompagnavano i nostri passi. Il mio buon umore prendeva volentieri una tinta mitologica. Quanto a mio zio, egli infuriava contro l’orizzontalità della strada; egli, l’uomo delle linee verticali. Il cammino si allungava indefinitamente, e invece di strisciare lungo il raggio terrestre, secondo la sua espressione, si andava per l’ipotenusa. Ma non c’era lasciata la scelta, e fino a tanto che si guadagnava qualche cosa verso il centro, per poco ch’ei fosse, non bisognava lamentarsi. D’altra parte, ogni tanto i pendii si abbassavano; la najade capitombolava muggendo, e noi discendevamo con essa più profondamente. Ma infine, tutto quel dì e la domane facemmo molta strada orizzontale, e, relativamente, poca in linea verticale. La sera del venerdì 10 luglio, a calcoli fatti, dovevamo trovarci a trenta leghe al sud-est di Reykjawick e alla profondità di due leghe e mezzo. Allora si spalancò sotto i nostri piedi un pozzo spaventevole; mio zio non potè trattenersi dal batter le mani, calcolando la rapidità delle sue chine. «Ecco una strada che condurrà lontano! esclamò; e facilmente, poichè le sporgenze della roccia formano una vera scalinata.» Hans dispose le corde per modo da prevenire ogni accidente, e la discesa incominciò. Non oso dirla pericolosa, poichè m’ero di già fatto famigliare a tal genere d’esercizio. Quel pozzo, era una fessura stretta, aperta nella massa. L’aveva evidentemente prodotta la contrazione della scorza terrestre all’epoca del suo raffreddamento; e se servì altre volte di passaggio alle materie eruttive vomitate dallo Sneffels, io non sapeva darmi ragione del come queste non vi avessero lasciato alcuna traccia. Discendevamo una specie di vite girante che si sarebbe creduta opera della mano dell’uomo. Ogni quarto d’ora ci bisognava fermarci per prendere un riposo necessario e ridonare ai nostri garetti la loro elasticità. Ci assidevamo allora su qualche sporgenza colle gambe penzoloni; cianciavamo mangiando e ci dissetavamo al rigagnolo. S’intende che in questo crepaccio, l’ Hans-Bach s’era fatto cascata a danno del suo volume; ma bastava ancora, e ne avanzava, a spegnere la nostra sete. D’altra parte, non appena i declivi fossero stati meno ripidi, avrebbe ripreso il suo corso tranquillo. In questo momento mi dava l’idea del mio degno zio colle sue impazienze e colle sue collere, mentre nei lievi pendii raffigurava la calma del cacciatore islandese. Il 6 ed il 7 luglio seguimmo le spirali di quel crepaccio, penetrando per altre due leghe nella scorza terrestre, il che formava quasi cinque leghe sotto il livello del mare. Ma il giorno 8, verso mezzodì, la fessura prese nella direzione del sud-est un’inclinazione assai più dolce di circa 45°, La strada divenne allora facile, perfettamente monotona, Nè doveva essere altrimenti, poichè il viaggio non poteva allegrarsi degli incidenti del paesaggio. Alla fine, il mercoledì 15, ci trovavamo a sette leghe sotterra e a cinquanta leghe circa dallo Sneffels. Benchè fossimo alquanto stanchi, ci conservavamo sani, e la farmacia di viaggio era ancora intatta. Mio zio notava ad ogni ora le indicazioni della bussola, del cronometro, del manometro e del termometro, quelle stesse che ha pubblicato nel racconto scientifico del suo viaggio. Poteva dunque rendersi conto facilmente della sua situazione. Quando mi disse che ci trovavamo ad una distanza orizzontale di cinquanta leghe, non potei trattenere un’esclamazione. «Che hai? diss’egli. — Nulla, faccio solo una riflessione, — Quale? — Questa, che se i vostri calcoli sono esatti, noi non siamo più sotto l’Islanda. — Lo credi? — È facile accertarlo.» Presi col compasso le misure sulla carta. «Non m’ingannavo, diss’io; abbiamo passato il capo Portland, e queste cinquanta leghe verso il sud-est ci mettono in alto mare. — Sotto l’alto mare! replicò mio zio fregandosi le mani. — Dunque, esclamai, l’Oceano si stende sopra le nostra testa! — Nulla di più naturale, Axel; non vi sono forse a Newcastle miniere di carbone che s’inoltrano un gran tratto sotto i flutti?» Il professore poteva per conto suo trovar semplicissima la nostra condizione; ma il pensiero di passeggiare sotto la massa delle acque mi affliggeva. E tuttavia, sia che fossero sospese sulla nostra testa le pianure e le montagne dell’Islanda, o i flutti dell’Atlantico, la cosa differiva assai poco, poichè la crosta granitica era solida. Del rimanente, io m’abituai presto a quest’idea, perchè il corridoio ora diritto, ora sinuoso, capriccioso ne’ suoi pendii, siccome ne’ suoi giri, ma sempre seguendo la direzione del sud-est e sprofondandosi vie più, ci condusse rapidamente a gran profondità, Quattro giorni dopo, la sera del sabato 18 luglio, noi arrivammo ad una specie di grotta abbastanza vasta. Mio zio consegnò ad Hans i suoi tre risdalleri ebdomadari e fu determinato che la domane dovesse essere giorno di riposo. XXV. Mi svegliai dunque, la domenica mattina, senza la solita preoccupazione d’una partenza immediata; e benchè fossimo nel più profondo degli abissi, la cosa non era perciò meno piacevole. D’altra parte c’eravamo fatti a questa esistenza da trogloditi. Nè io pensava guari al sole, alle stelle, alla luna, agli alberi, alle case, alla città, a tutte codeste superfluità terrestri di cui l’essere sublunare si è fatto una necessità. Nella nostra qualità di fossili disprezzavamo cotali inutili meraviglie. La grotta formava una vasta sala. Sul suo suolo granitico scorreva dolcemente il fedele rigagnolo, che, giunto a tanta distanza dalla sorgente, non aveva più se non la temperatura dell’ambiente e si lasciava bere senza difficoltà. Dopo la colazione, il professore volle consacrare qualche ora a porre in ordine le sue note quotidiane. «Prima di tutto, diss’egli, farò dei calcoli per rilevare esattamente la nostra posizione. Voglio al mio ritorno tracciare una carta del nostro viaggio, una specie di sezione verticale del globo che darà il profilo della spedizione. — Ciò sarà assai curioso; ma le vostre osservazioni saranno poi abbastanza precise? — Si, ho notato con cura gli angoli e le discese; sono sicuro di non ingannarmi. Vediamo dapprima dove siamo; prendi la bussola ed osserva la direzione che indica.» Guardai l’istrumento, e dopo attento esame, risposi: «Est, quarto sud-est. — Bene, disse il professore, notando l’osservazione e facendo rapidamente alcuni calcoli. Concludo da ciò che abbiamo percorso ottantacinque leghe dal nostro punto di partenza. — Dunque viaggiamo sotto l’Atlantico? — Perfettamente. — E in questo momento una tempesta si scatena forse sulla nostra testa, e delle navi sono battute dai flutti e dall’uragano? — Ciò è possibile, — E le balene vengono a battere colla loro coda le muraglie della nostra prigione? — Sta tranquillo, Axel, che non riusciranno mai a rimuoverle. Ma ritorniamo ai nostri calcoli. Siamo al sud-est a ottantacinque leghe dalla base dello Sneffels, e secondo i miei calcoli precedenti stimo sedici leghe la profondità raggiunta. — Sedici leghe! esclamai. — Senza dubbio. — Ma questo è l’estremo limite assegnato dalla scienza allo spessore della crosta terrestre. — Non dico di no. — E qui stando alla legge dell’accrescimento della temperatura dovrebbe esistere un calore di 1500°. — «Dovrebbe» giovinotto mio. — E tutto questo granito non potrebbe mantenersi allo stato solido e sarebbe tutto in fusione. — Tu vedi che nulla di tutto ciò è vero, e che i fatti secondo la loro abitudine vengono a smentire le teoriche. — Deggio convenirne, tuttavia ciò mi sbalordisce. — Che cosa indica il termometro? — Ventisette gradi e sei decimi. — Non mancano adunque che mille e quattrocentosettantaquattro gradi e quattro decimi, perchè gli scienziati abbiano ragione; dunque l’aumento proporzionale di temperatura è un errore; dunque Humphry-Davy non s’ingannava; dunque non ebbi torto di dargli ascolto. Che hai tu da rispondere? — Nulla.» A dire il vero avrei avuto molte cose a dire. Io non ammetteva la teorica di Davy in nessuna maniera e mi stavo sempre all’ipotesi del calore centrale, benchè non ne risentissi gli effetti. Amavo meglio ammettere che quel camino d’un vulcano spento, coperto dalle lave d’un intonaco refrattario, non permettesse alla temperatura di propagarsi attraverso le sue pareti. Ma senza arrestarmi a cercare argomenti nuovi, mi acconciavo a prendere la situazione qual’era. «Zio, ripresi a dire, credo esatti tutti i vostri calcoli, ma permettetemi di tirarne una conseguenza rigorosa. — Va là, fa pure, giovinotto mio. — Nel punto in cui siamo, sotto la latitudine dell’Islanda, il raggio terrestre non è egli di mille e cinquecentoottantatrè leghe all’incirca? — Mille e cinquecent’ottantatrè leghe e un terzo. — Mettiamo mille e seicento leghe per far conto rotondo. Ora, sopra un viaggio di mille e seicento leghe noi ne abbiamo fatto dodici? — Per l’appunto. — E ciò al prezzo di ottantacinque leghe di diagonale? — Perfettamente, — In circa venti giorni? — In venti giorni. — Ora sedici leghe sono la centesima parte del raggio terrestre, Continuando così, noi impiegheremo due mila giorni, vale a dire circa cinque anni a mezzo a discendere!» Il professore non rispose. «Senza contare che, se una verticale di sedici leghe si paga con una orizzontale di ottanta, ciò formerà otto mila leghe nel sud-est, ond’è che noi saremo usciti da gran tempo da un punto della circonferenza prima di averne raggiunto il centro! — Al diavolo i tuoi calcoli! replicò mio zio con un movimento di collera; al diavolo le tue ipotesi! chi ti dice che questo corridoio non vada direttamente alla nostra meta? D’altra parte io ho dalla mia un precedente. Ciò ch’io faccio, un altro l’ha fatto, e là dove un altro è riuscito, io riuscirò alla mia volta. — Così spero; ma infine mi è permesso... — T’è permesso di tacerti, Axel, quando tu voglia sragionare in tal guisa.» M’accorsi che il terribile professore minacciava di riapparire sotto la pelle dello zio; a mi tenni per avvisato. «Ora, soggiunse egli, consulta il manometro; che cosa segna? — Una pressione enorme. — Benissimo. Tu vedi che discendendo lentamente, avvezzandoci a poco a poco alla densità dell’atmosfera, noi non ne soffriamo punto. — Salvo qualche dolore di orecchio. — Cosa da nulla che tu farai sparire mettendo l’aria esterna in comunicazione rapida coll’aria contenuta nei tuoi polmoni. — Perfettamente, risposi determinato a non più contraddire mio zio. Vi è persino un vero piacere a sentirsi tuffato in una atmosfera più densa. Avete osservato con quale intensità vi si propaga il suono? — Senza dubbio, un sordo udrebbe a meraviglia. — Ma la densità aumenterà certo procedendo oltre. — Sì, secondo una legge poco determinata. È vero che l’intensità del peso diminuirà mano mano che noi discenderemo; tu sai che è alla superficie della terra che si fa sentire più vivamente, e che al centro del globo gli oggetti non pesano più. — Lo so; ma ditemi, l’aria non finirà per acquistare la densità dell’acqua? — Senza dubbio, sotto una pressione di settecento dieci atmosfere. — E più sotto? — E più sotto siffatta densità crescerà ancora. — E in tal caso come faremo a discendere? — Metteremo ciottoli nelle tasche. — In fede mia voi avete risposta a tutto.» Io non osava spingermi più oltre nel campo delle ipotesi, perchè mi sarei ancora imbattuto in qualche impossibilità che avrebbe fatto balzare il professore. Era per altro evidente che l’aria, sotto una pressione di migliaia di atmosfere, finirebbe per passare allo stato solido e allora, anche ammettendo che i nostri corpi potessero resistere, avremmo dovuto arrestarci a dispetto di tutti i ragionamenti del mondo. Ma io non feci valere siffatto argomento, al quale mio zio avrebbe ancora risposto col suo eterno Saknussemm; precedente di nissun valore poichè, anche tenendo per vero il viaggio dello scienziato islandese, vi era una cosa semplicissima a rispondere: «Non essendo al sedicesimo secolo inventati nè il barometro, nè il manometro, in qual modo Saknussemm avea potuto determinare il suo arrivo al centro della terra?» Ma io tenni per me anche questa obbiezione, ed aspettai gli avvenimenti. Il resto della giornata passò in calcoli ed in conversazioni. Io fui sempre del parere del professore Lidenbrock, invidiando la perfetta indifferenza di Hans il quale, senza darsi pensiero degli effetti e delle cause, se ne andava ciecamente dove lo conduceva il destino. XXVI. Convien confessarlo, le cose fin qui andavano a meraviglia ed avrei avuto torto di lamentarmi. Se la media delle difficoltà non si accresceva, non potevamo non raggiungere la nostra meta. E qual gloria allora! Ero giunto fino a far di cotali ragionamenti alla Lidenbrock. Io chiedo sul serio: dipendeva ciò dallo strano ambiente nel quale io viveva? Può darsi. Durante alcuni giorni, chine più rapide, talune anche spaventosamente verticali, ci cacciarono nel profondo della massa interna, Vi erano giorni in cui guadagnavamo da una lega e mezza a due leghe verso il centro della terra, discese perigliose durante le quali l’abilità di Hans e il suo mirabile sangue freddo ci furono utilissimi. L’impassibile Islandese si consacrava alla spedizione con una incomprensibile disinvoltura e fu suo merito se potemmo uscire da certi cattivi passi. Per esempio, il suo mutismo aumentava di giorno in giorno. Io credo anzi che si attaccasse a noi. Gli oggetti esteriori hanno un’azione reale sopra il cervello. Chi si chiude fra quattro mura finisce a perdere la facoltà di associare le idee e le parole. Quanti prigionieri cellulari non divennero imbecilli, per non dir pazzi, per mancanza d’esercizio delle facoltà pensanti! Durante le due settimane che seguirono la nostra ultima conversazione non avvenne alcun incidente degno d’essere riferito. Io non trovo nella mia memoria, e ci ho le mie ragioni, che un solo avvenimento di estrema gravità di cui mi sarebbe difficile dimenticare il menomo particolare. Il 7 agosto, le nostre successive discese ci aveano condotto ad una profondità di trenta leghe, vale a dire che vi erano sulla nostra testa trenta leghe di roccie, di mari, di continenti e di città. Noi dovevamo essere allora a duecento leghe dall’Islanda. Quel giorno il tunnel seguiva un piano poco inclinato. Io camminava innanzi portando uno degli apparecchi di Ruhmkorff, mentre mio zio portava l’altro, ed esaminavo gli strati di granito. D’un tratto volgendomi m’avvidi d’esser solo. «Ecco, pensavo, ho camminato troppo in fretta, oppure Hans e mio zio si son fermati per via. Convien raggiungerli. Per buona sorte la salita non è molto faticosa.» Tornai indietro. Camminai durante un quarto d’ora, spingendo lo sguardo innanzi: nessuno; chiamai: nessuna risposta. La mia voce si perdeva in mezzo agli echi cavernosi che risvegliavo all’improvviso. Cominciavo a sentirmi inquieto. Un brivido mi percorse tutto il corpo. «Calma, calma! dissi ad alta voce. Sono sicuro di ritrovare i miei compagni. Non vi sono già due strade! Ora poichè ero innanzi, mi bisogna tornare indietro.» Risalii per una mezz’ora, ascoltai sperando di udire la voce de’ miei compagni che in quell’atmosfera così densa poteva giungermi da lontano; ma un silenzio profondo regnava nell’immensa galleria. M’arrestai. Non potevo credere al mio isolamento. «Vediamo, ripetevo; poichè non vi ha che una strada, poichè essi la seguono io devo raggiungerli, e mi basterà di risalire ancora; se pure, non vedendomi e dimenticando che io li precedeva, essi non ebbero il pensiero di ritornare indietro. Ma anche in tal caso affrettandomi li ritroverò; quest’è evidente.» Ripetevo quest’ultime parole come uomo non convinto. D’altra parte per associare idee così semplici e riunirle in forma di ragionamento mi convenne impiegare un tempo assai lungo. Allora mi venne un dubbio; era io proprio innanzi? Certamente, poichè Hans mi seguiva precedendo mio zio. Egli si era persino arrestato alcuni istanti per assicurare i suoi bagagli sulle spalle. Questo particolare mi ritornava in mente; è certo in quel momento medesimo ch’io aveva dovuto continuare la mia strada. «D’altra parte, pensai, ho un mezzo sicuro di non smarrirmi, un filo per guidarmi nel labirinto e un filo che non si spezza: il mio fedele ruscello. Sol ch’io rimonti il suo corso e ritroverò senza dubbio le traccie de’ miei compagni.» Questo ragionamento mi rianimò e risolvetti di rimettermi in cammino senza perdere un momento. Come benedissi allora la previdenza di mio zio che avea impedito al cacciatore di otturare l’apertura fatta nella parete di granito! Di tal guisa la benefica sorgente, dopo averci dissetati durante la strada, stava per guidarmi attraverso le sinuosità della scorza terrestre. Prima di risalire pensai che un’abluzione mi gioverebbe. Mi abbassai per tuffare la fronte nell’acqua dell’Hans-Bach. Si pensi il mio stupore: io premeva un granito asciutto e scabro – il ruscello non scorreva più a’ miei piedi! XXVII. Non posso dipingere la mia disperazione; nessuna parola dell’umana favella esprimerebbe i miei sentimenti. Io era sepolto vivo, colla prospettiva di morire fra le torture della fame e della sete. Palpai macchinalmente colle mani ardenti il terreno. Come mi parve disseccato! Ma come avevo io fatto ad abbandonare il corso del ruscello ? Poichè insomma esso non era più là! Compresi allora la ragione di quel silenzio strano, quando tesi l’ultima volta l’orecchio per ascoltare se non mi giungesse qualche richiamo de’ miei compagni. Di tal guisa, al momento in cui posi il primo passo nella via imprudente, non m’avvidi dell’assenza del ruscello, E certo a quel punto una biforcazione della galleria si aprì innanzi a me, mentre l’Hans-Bach, obbediente ai capricci d’un altro pendio, se ne andava co’ miei compagni verso sconosciute profondità! In qual modo ritornare? Traccie non ce n’erano. Il mio piede non lasciava alcuna impronta sul granito. Mi arrovellavo a cercare la spiegazione di questo insolubile problema. La mia condizione sì riassumeva in una sola parola: perduto. Sì! perduto a una profondità che mi pareva incommensurabile! Le trenta leghe di scorza terrestre pesavano spaventevolmente sulle mie spalle. Mi sentivo schiacciato. Cercai di ricondurre le idee alle cose della terra. Fu a gran stento che vi riuscii. Amburgo, la casa di Königstrasse, la mia povera Graüben, tutto quel mondo sotto il quale io mi smarriva, passò rapidamente dinanzi alla mia memoria scompigliata. Rividi come in una viva allucinazione gli incidenti del viaggio, la traversata, l’Islanda, il signor Fridricksson, lo Sneffels. Dissi a me stesso che serbare l’ombra d’una speranza era indizio di pazzia; che valeva meglio disperarsi! Infatti, quale forza umana avrebbe potuto ricondurmi alla superficie del globo ed aprire le vôlte enormi che s’inarcavano sopra la mia testa? Chi poteva rimettermi sulla via del ritorno e riunirmi ai miei compagni? «Oh mio zio!» esclamai coll’accento della disperazione. Fu questa la sola parola di rimprovero che mi venisse alle labbra, perch’io compresi ciò che il disgraziato uomo doveva soffrire cercandomi. Quando mi vidi così lungi da ogni soccorso umano, incapace di nulla tentare per la mia salvezza, pensai al soccorso del cielo. Mi ritornarono in mente-i ricordi della mia infanzia, quelli di mia madre ch’io non aveva conosciuto se non nell’età dei baci. Ricorsi alla preghiera, e per quanto lievi fossero i miei diritti d’essere ascoltato dal Dio al quale io mi rivolgeva così tardi, lo implorai con fervore. Siffatto ritorno verso la Provvidenza mi ridonò un po’ di calma e potei concentrare tutte le forze dell’intelligenza intorno alla mia condizione. Mi rimanevano viveri per tre giorni, e la mia fiaschetta era piena; ma non potevo restar solo più oltre. Doveva io salire o discendere? Salire evidentemente, salire sempre. Sarei così giunto al luogo in cui aveva abbandonato la sorgente, alla funesta biforcazione; colà, una volta che m’avessi il ruscello sotto i piedi, potrei sempre riguadagnare la vetta dello Sneffels. Come mai non v’avevo pensato prima! Quivi era evidentemente una speranza di salvezza. Ciò che più premeva era dunque di ritrovare il corso dell’Hans-Bach. Mi alzai, ed appoggiandomi sul bastone ferrato risalii la galleria. Il pendio era ripido; salivo tuttavia con speranza e senza imbarazzo come uomo che non ha la scelta della via da seguire. Durante una mezz’ora-non mi trattenne alcun ostacolo. Cercai di riconoscere la strada dalla forma del tunnel, dalla sporgenza di alcune roccie, dalla disposizione delle cavità, ma non vidi alcun segno particolare, nè andò molto che riconobbi che quella galleria non poteva ricondurmi alla biforcazione, poichè era senza uscita. Urtai contro un muro impenetrabile e caddi sulla roccia. Non saprei dipingere lo spavento e la disperazione ond’io fui preso: rimasi come annientato. La mia ultima speranza si spezzava contro quella muraglia di granito! Perduto in quel labirinto, le cui sinuosità s’ incrociavano in tutte le direzioni, era impossibile tentare di salvarmi. Una morte spaventevole mi attendeva. E, cosa bizzarra, mi venne in mente che se il mio corpo fossilizzato si fosse trovato un giorno, a trenta leghe entro le viscere della terra, la sua scoperta avrebbe cagionato gravi quistioni scientifiche. Volli parlare ad alta voce, ma solo rauchi accenti uscirono dalle mie labbra disseccate. Anelavo. In mezzo a tali angosce un nuovo terrore s’impadronì del mio spirito. La mia lampada si era guastata nel cadere, ed io non aveva alcun mezzo di ripararla; la sua luce impallidiva e stava per venirmi meno. Guardai la corrente luminosa che scemava nel serpentino dell’apparecchio. Una processione d’ombre moventisi si svolse sulle pareti oscurate. Io non osava più battere palpebra temendo di perdere un atomo della luce fuggitiva e ad ogni istante mi pareva ch’essa mi mancasse e che il buio invadesse. Alla fine un’ultima luce tremolò nella lampada: la seguii, l’aspirai collo sguardo, concentrai sovr’essa tutta l’attenzione de’ miei occhi, come sull’ultima sensazione di luce che fosse loro concessa, a rimasi avvolto nelle immense tenebre. Mi sfuggì un terribile grido. Sulla superficie della terra, in mezzo alla più profonda notte, la luce non cede mai del tutto i suoi diritti; è diffusa, è sottile, ma per poco che ne rimanga, la retina dell’occhio si avvezza a percepirla. Qui al contrario nulla; la tenebra assoluta faceva di me un cieco nel vero senso della parola. Allora la mia testa si smarrì; tesi le braccia innanzi e mi diedi a fuggire tentone precipitando i passi a casaccio in quell’inesplicabile labirinto, discendendo sempre, correndo attraverso la crosta terrestre, come un abitante delle regioni sotterranee, chiamando, gridando, urlando, pesto contuso contro le sporgenze delle roccie, cadendo e risollevandomi insanguinato, cercando di bere il sangue che mi innondava il volto e aspettando sempre che qualche muraglia impreveduta offrisse alla mia testa un ostacolo perchè vi si spezzasse contro! Dove mi condusse quella corsa insensata? Lo ignorerò sempre. Dopo molte ore, sfinito di forze, caddi come una massa inerte lungo la parete e perdetti ogni sentimento dell’esistenza. XXVIII. Risensando, il mio viso era bagnato di lagrime. Non saprei dire quanto durasse quello stato d’insensibilità, poichè non mi rimaneva alcun mezzo di rendermi conto del tempo. Non mai solitudine fu pari alla mia, abbandono così completo! La caduta mi aveva fatto perdere molto sangue e me ne sentivo sempre inondato. Come mi doleva di non essere morto, « e che la cosa fosse ancora da fare!» Non volevo più pensare, cacciavo ogni idea e vinto dal dolore mi rotolai presso la parete opposta. Già mi sentivo svenir daccapo, e questa volta per sempre, quando un rumore violento mi ferì l’orecchio. Rassomigliava al rullo prolungato del tuono e intesi le onde sonore perdersi a poco a poco nelle lontane profondità dell’abisso. D’onde proveniva quel rumore? Da qualche fenomeno senza dubbio che si compiva per entro la massa terrestre, dallo scoppio d’un gas o dalla caduta di qualche poderoso sostegno del globo! Ascoltai ancora. Volli sapere se il rumore si rinnovasse; ma un quarto d’ora passò e il silenzio regnò nella galleria e non intesi nemmeno più i battiti del mio cuore. D’un tratto il mio orecchio appoggiato per caso sulla muraglia credette di cogliere alcune parole vaghe, inafferrabili, lontane. Sobbalzai. «È un’allucinazione!» pensai. Ma no. Ascoltando con maggior attenzione, udii proprio un murmure di voci. Ma di comprendere quello che si diceva, fu ciò che la debolezza non mi permise. Pure si parlava. Ne ero certo. Forse io aveva gridato a mia insaputa. Per un istante ebbi il timore che quelle parole fossero le mie stesse, riportate da un’eco; avevo forse gridato senz’avvedermene? Serrai forte le labbra ed appoggiai di nuovo l’orecchio alla parete. «Sì, certo, si parla! si parla!» Spingendomi alcuni piedi più oltre lungo la muraglia mi riuscì di udire alcune parole incerte, bizzarre, incomprensibili, che mi giungevano come se fossero pronunziate a voce bassa, e per così dire mormorate. La parola förlorad veniva ripetuta molte volte con accento di dolore. Che cosa significava? Chi la pronunciava! Evidentemente mio zio od Hans; ma se io li intendeva essi pure potevano intendermi. «Aiuto! gridai con tutte le mie forze; aiuto!» Ascoltai, spiai nell’ombra una risposta, un grido, un sospiro; ma nulla si fe’ udire. Passarono alcuni minuti; un mondo d’idee s’era schiuso nel mio spirito; pensai che la mia voce indebolita non potesse arrivare: fino ai miei compagni. «Perchè sono essi, ripetei; e qual altri mai potrebbe trovarsi a trenta leghe sotterra?» Mi rifeci ad ascoltare, ed appoggiando qua e là l’orecchio alle pareti, trovai un punto matematico dove le voci parevano raggiungere la massima intensità. Udii ancora la parola förlorad e poi quel rullo di tuono che m’avea tratto dal mio torpore. «No, diss’io, non è già traverso la parete di granito . che le voci si fanno udire, poich’essa non permetterebbe alla più forte detonazione di attraversarla. Questo rumore giunge dalla galleria stessa! Conviene che qui vi sia un effetto d’acustica del tutto speciale. Ascoltai di nuovo e questa volta, sì, questa volta udii distintamente il mio nome attraverso lo spazio. Era mio zio che lo pronunziava; egli parlava colla guida, e la parola förlorad era danese. Allora compresi tutto. Per farmi udire bisognava parlare precisamente lungo la muraglia, la quale doveva servire a condurre la mia voce, come il filo conduce l’elettricità. Ma non avevo tempo da perdere; per poco che i miei compagni si fossero allontanati di qualche passo, il fenomeno acustico sarebbe stato distrutto. Mi accostai dunque alla muraglia e pronunciai queste parole, più nettamente che mi fu possibile: «Zio Lidenbrock!» Aspettai con vivissima ansietà. Il suono non è molto rapido e la densità degli strati d’aria non ne accresce punto la velocità; solo l’intensità ne è aumentata. Passarono alcuni secondi che mi parvero secoli; alla fine mi giunsero all’orecchio queste parole: «Axel, Axel, sei tu?» ...................... « Sì, sì,» rispos’io. ...................... «Fanciullo mio, dove sei?» ...................... «Perduto nella più profonda oscurità.» ...................... «Ma la tua lampada?» ...................... «Spenta.» ...................... «Ed il ruscello?» ...................... «Sparito.» ...................... «Axel, mio povero. Axel, fatti cuore.» ...................... «Aspettate, io sono stanco, non ho più forza di rispondere, ma parlatemi.» ...................... «Coraggio, soggiunse mio zio: non parlare, ascoltami. Noi ti abbiamo cercato risalendo e discendendo la galleria. Impossibile trovarti. Ah! io ti ho ben pianto, fanciullo mio! Alla fine credendoti sempre sulla strada dell’Hans-Bach siamo ridiscesi sparando colpi di fucile; ora se le nostre voci possono congiungersi è effetto di acustica! le nostre mani non possono toccarsi, ma non disperare, Axel, è già qualche cosa potersi udire.» ...................... In questo frattempo io aveva riflettuto; una speranza, vaga tuttavia, mi ritornava al cuore. Prima di tutto vi era una cosa che m’importava di conoscere: però accostai le labbra alla muraglia e dissi: «Zio.» ...................... «Figlio mio,» mi fu risposto dopo alcuni istanti. ...................... «Bisogna prima di tutto sapere che distanza ci separa.» ...................... «La cosa è facile.» ...................... «Avete. il vostro cronometro?» ...................... «Sì.» ...................... «Ebbene, prendetelo; pronunziate il mio nome notando, esattamente il secondo in cui parlerete; io lo ripeterò appena l’avrò udito, e voi osserverete del pari il momento preciso in cui vi giungerà la mia risposta.» ...................... «Sta bene, e la metà del tempo compreso tra la domanda e la risposta indicherà quello che la mia voce impiega per arrivare fino a te.» ...................... «Appunto, zio.» ...................... «Sei tu pronto?» ...................... «Sì.» ...................... «Ebbene, fa attenzione, che io pronuncierò il tuo nome.» Appoggiai l’orecchio alla parete, e appena udii la parola «Axel», tosto ripetei «Axel»; poi aspettai. ...................... «Quaranta secondi, disse allora mio zio; sono passati quaranta secondi fra le due parole; il suono impiega adunque venti secondi da te fino a me; ora a mille e venti piedi per secondo fa venti mila e quattrocento piedi, vale a dire una lega e mezza, più un ottavo.» ...................... «Una lega e mezza!» mormorai. ...................... «Non è difficile percorrerla, Axel!» ...................... « Ma bisogna salire o discendere?» ...................... «Discendere, ed ecco perchè, Noi siamo arrivati a un vasto spazio, a cui fan capo gran numero di gallerie; quella che tu hai seguito deve guidarti fino a noi, poichè pare che tutti questi crepacci, queste fratture del globo siano come altrettanti raggi che partano dall’immensa caverna che noi occupiamo. Risollevati dunque e rimettiti in cammino; trascinati, se fa bisogno, lasciati andare giù per le rapide balze, e troverai le nostre braccia per riceverti. In cammino fanciullo mio, in cammino!» ...................... ...................... Queste parole mi rianimarono. «Addio zio, esclamai, io parto! Le nostre voci non potranno più comunicare fra loro non appena avrò lasciato questo luogo. Addio dunque.» ...................... «Arrivederci, Axel, arrivederci.» ...................... Tali furono le ultime parole che udii. La meravigliosa conversazione, fatta attraverso la massa terrestre a oltre una lega di distanza, si conchiuse con queste parole di speranza. Resi grazie a Dio perch’egli m’avesse condotto, in mezzo a quale tetre immensità, al solo punto forse in cui la voce de’ miei compagni potesse giungermi. Cotale effetto d’acustica si spiegava facilmente colle sole leggi fisiche; proveniva dalla forma del corridoio e dalla conduttibilità della roccia. Si hanno molti esempii di siffatte propagazioni di suoni non percettibili negli spazi intermedi; e mi sovvenni che tale fenomeno fu osservato in molti luoghi e fra gli altri nella galleria interna del Duomo di S. Paolo a Londra e più di tutto entro le curiose caverne di Sicilia, latomie poste presso Siracusa, la più meravigliosa delle quali in siffatto gemere è conosciuta col nome d’Orecchio di Dionigi. Mi ritornarono in mente questi ricordi e vidi chiaro come, poichè la voce di mio zio arrivava fino a me, nessun ostacolo esistesse fra di noi, e seguendo il cammino del suono io dovessi logicamente arrivare, se pure le forze non mi tradivano. Mi alzai adunque e mi trascinai piuttosto che non camminassi, e siccome il pendio era rapido mi lasciai scivolare. Nè andò molto che la velocità della mia discesa si accrebbe in proporzione spaventevole, tanto che minacciava di rassomigliare ad una caduta. Non avevo più la forza di arrestarmi. D’un tratto il terreno mi mancò sotto i piedi e caddi rimbalzando sulle asperità d’una galleria verticale, – un vero pozzo. Battei del capo sopra una roccia acuta e svenni. XXIX. Quando tornai in me, mi trovai in una semi-oscurità, steso sopra grosse coperte. Mio zio vegliava, spiando sul mio volto un indizio di vita. Al mio primo sospiro mi prese la mano ed al mio primo sguardo mandò un grido di gioia. «Egli vive, vive! esclamò. — Si, risposi con voce debole. — Fanciullo mio, disse mio zio stringendomi al seno, eccoti salvo!» Fui vivamente commosso dall’accento con cui queste parole furono pronunciate e più dalle cure che l’accompagnarono. Occorrevano tali prove per provocare nel professore tanta espansione! In questo momento giunse Hans. Egli vide la mia mano in quella di mio zio ed i suoi occhi, oso affermarlo, espressero viva contentezza. «God dag, diss’egli. — Buon giorno, Hans, buon giorno, mormorai; ed ora, zio, ditemi dove ci troviamo. — Domani, Axel, domani: oggi sei ancora troppo debole; t’ho fasciato la testa di compresse che non bisogna disordinare; dormi adunque e domani saprai tutto. — Ma almeno, insistei, qual’ora, qual giorno è ? — Undici ore pomeridiane, ed oggi è domenica 9 agosto, ma non ti permetto più d’interrogarmi prima del 10 del corrente mese.» In verità io era così debole che i miei occhi si chiusero involontariamente. Mi abbisognava una notte di riposo; però m’addormentai pensando che il mio isolamento era durato quattro lunghi giorni. La domane, appena desto, volsi l’occhio in giro. Il mio giaciglio fatto con tutte le coperte da viaggio era in una grotta deliziosa, adorna di magnifiche stalagmiti ed il cui suolo era coperto di sabbia. Non vi era accesa nè torcia nè lampada e tuttavia venivano dal di fuori, passando per una stretta apertura della grotta, alcuni chiarori inesplicabili. Intendevo pure un mormorio vago ed indefinito, simile al gemito dei flutti che s’infrangono sopra una spiaggia arenosa, e talvolta il fischio della brezza. Domandavo a me stesso se fossi ben desto, o se sognassi ancora, o se il mio cervello guastato nella caduta non udisse rumori puramente immaginarii. Per altro nè i miei occhi nè le mie orecchie potevano ingannarsi a tal punto. «È un raggio di luce, pensai, quello che passa per quella fessura di roccie. Ecco appunto il mormorio delle onde! e questo è il fischio della brezza! m’inganno io o siamo ritornati alla superficie della terra? Mio zio ha dunque rinunciato alla sua spedizione, oppure l’ha felicemente terminata?» Io mi proponeva siffatti quesiti insolubili quando mio zio entrò. «Buon giorno, Axel, diss’egli allegramente, scommetterei volentieri che tu stai bene! — Ma si, diss’io rizzandomi. — Così doveva essere, perchè hai dormito tranquillamente. Hans ed io ti abbiamo vegliato dandoci il cambio, ed abbiamo visto i progressi della tua guarigione. — Infatti io mi sento rinvigorito e in prova farò onore alla colazione che vorrete prepararmi. — Tu mangerai, giovinotto mio; la febbre ti ha abbandonato; Hans ha sparso sulle tue piaghe non so quale unguento di cui gl’Islandesi hanno il segreto e che le ha cicatrizzate a meraviglia. È uomo che sa il fatto suo il nostro cacciatore!» Così parlando mio zio preparava alcuni alimenti che io divorai non ostante le sue raccomandazioni, non cessando di fargli delle domande alle quali egli si affrettò di rispondere. Seppi allora che la mia caduta provvidenziale mi aveva precisamente condotto all’estremità d’una galleria quasi perpendicolare; e siccome io era arrivato nel mezzo di un torrente di pietre di cui la meno grossa sarebbe bastata a schiacciarmi, bisognava conchiudere che una parte della roccia era scivolata con me. Lo spaventevole veicolo mi trasportò di tal guisa, fin nelle braccia di mio zio, nelle quali io caddi insanguinato e privo di sensi. «Davvero, mi diss’egli, è sorprendente che non ti sia ucciso le mille volte, ma per Iddio, non ci separiamo più, perocchè rischieremmo di non rivederci più mai.» «Non ci separiamo più!» Il viaggio non era dunque finito? Spalancai tanto d’occhi meravigliati, il che provocò immediatamente questa domanda: «Che cosa hai dunque, Axel? — Una domanda da farvi; voi dite ch’io sono sano e salvo? — Senza dubbio! — Ho tutte le mie- membra intatte? — Certamente. — E la testa? — La testa, tranne qualche contusione, è perfettamente a posto sulle tue spalle. — Quand’è così, ho paura che il mio cervello sia guasto. — Guasto? — Sì; non siamo noi ritornati alla superficie del globo? — No certo. — Allora, io son pazzo, perchè vedo la luce del giorno, odo il rumore del vento che soffia e quello del mare che s’infrange contro la spiaggia. — Ah! non è che questo? — Mi spiegherete voi?... — Non ti spiegherò nulla, poichè la cosa è inesplicabile; ma tu stesso vedrai e comprenderai che la scienza geologica non ha ancora detto la sua ultima parola. — Usciamo dunque! esclamai alzandomi bruscamente. — No, Axel, no; l’aria aperta potrebbe farti male. — L’aria aperta? — Si, il vento soffia con una certa violenza, ed io non voglio che tu ti arrischi così. — Ma vi assicuro che sto a meraviglia. — Un po’ di pazienza, giovinotto mio. Una ricaduta ci metterebbe in imbarazzo e non bisogna già perder tempo poichè la traversata può esser lunga. — La traversata? — Si; riposati ancora oggi, e c’imbarcheremo domani. — Imbarcarci!» Quest’ultima parola mi fe’ dare un balzo. Come! imbarcarci! avevamo dunque un fiume, un lago, o un mare a nostra disposizione? Un bastimento era esso ancorato in qualche porto interno? La mia curiosità fu sommamente eccitata. Mio zio cercò invano di trattenermi e quando vide che l’impazienza poteva farmi più male che la soddisfazione de’ miei desiderii, cedette Mi vestii in fretta; per soprappiù di precauzione mi ravvolsi in una coperta ed uscii dalla grotta. XXX. Da principio non vidi nulla; gli occhi disavvezzi alla luce si chiusero bruscamente. Quando potei riaprirli rimasi più stupefatto che meravigliato. «Il mare! esclamai. — Sì, rispose mio zio, il mare Lidenbrock, ed io credo che nessun navigatore mi disputerà l’onore d’averlo scoperto e il diritto di battezzarlo col mio nome!» Un’ampia distesa d’acqua, il principio d’un lago o d’un oceano, si spingeva oltre i limiti della vista. La riva intagliata largamente offriva alle ultime ondulazioni dei flutti una sabbia fina, dorata, cosparsa di quelle piccole conchiglie in cui vissero i primi esseri della creazione. Quel mare vi si frangeva col lungo mormorio proprio ai luoghi chiusi ed immensi. Una lieve schiuma fuggiva al soffio d’un vento moderato, e alcuni vapori mi battevano sul viso. Sulla spiaggia lievemente inclinata, a cento tese circa dal lembo delle onde, morivano i contrafforti di roccie enormi che salivano allargandosi ad incommensurabile altura. Taluni, fendendo la spiaggia colle loro punte acute, formavano capi o promontori rosi dal dente del risucchio. Più lungi l’occhio seguiva la loro massa che si disegnava nettamente sul fondo brumoso dell’orizzonte. Era un vero oceano col contorno capriccioso delle rive terrestri, ma deserto e d’aspetto spaventevolmente selvaggio. Se i miei sguardi potevano portarsi lontani sopra quel mare gli è che una luce speciale ne rischiarava i menomi particolari. Non già la luce del sole cogli sprazzi abbaglianti e la splendida irradiazione de’ suoi raggi, nè la luce pallida e vaga dell’astro delle notti che non è se non una riflessione senza calore: no; l’intensità di quella luce, la sua tremula diffusione, la sua bianchezza limpida e secca, la sua temperatura poco elevata, e il suo splendore più vivo di quello della luna, segnalavano evidentemente una origine elettrica. Era una specie di aurora boreale, un fenomeno cosmico continuo che riempiva la caverna capace di contenere un oceano. La vôlta sospesa sopra il mio capo, il cielo, se così si vuole, sembrava fatto di gran nuvole, vapori mobili e mutevoli che condensandosi dovevano qualche volta risolversi in pioggie torrenziali. Avrei creduto che sotto una pressione atmosferica così forte non potesse avvenire l’evaporazione dell’acqua, e nondimeno per una ragione fisica che m’era ignota, larghe nubi si stendevano nell’aria. Pure allora il cielo era sereno; l’elettricità produceva meravigliosi giuochi di luce sulle volute inferiori. Soventi volte, fra due strati disgiunti, un raggio giungeva fino a noi con notevole intensità. Ma infine non era il sole poichè la sua luce era priva di calore. Lo spettacolo era triste, sovranamente melanconico. Invece d’un firmamento scintillante di stelle, io sentiva al disopra di quelle nuvole una vôlta di granito che mi schiacciava con tutto il suo peso; e questo spazio, per quanto fosse immenso, non sarebbe bastato alla passeggiata del meno ambizioso dei satelliti. Mi sovvenni allora di quella teorica di un capitano inglese, il quale assomigliava la Terra ad una vasta sfera vuota, nell’interno della quale l’aria si manteneva luminosa per la sua pressione, mentre due astri, Plutone e Proserpina, vi percorrevano le loro orbite misteriose. Avrebb’egli detto il vero? Noi eravamo realmente imprigionati in un cavo enorme di cui non potevamo misurare la larghezza, poichè la riva andava allargandosi fino a sottrarsi alla nostra vista, nè la sua lunghezza, poichè lo sguardo era ben presto arrestato da una linea d’orizzonte alquanto indeterminata. Quanto alla sua altezza, essa doveva essere di molte leghe. L’occhio non poteva vedere dove la vôlta si appoggiasse sui contrafforti di granito; ma vi aveva tal nuvola sospesa nell’atmosfera la cui elevazione doveva essere stimata di duemila tese, altezza maggiore di quella dei vapori terrestri, e dovuta senza dubbio alla densità considerevole dell’aria. La parola caverna non riproduce il mio pensiero per dipingere l’immenso spazio; ma le parole del linguaggio umano non bastano a chi si avventura negli abissi del globo. Io non sapeva, d’altra parte, con qual fatto geologico spiegare l’esistenza di un simile cavo. Poteva il raffreddamento del globo averlo prodotto? M’erano note dai racconti de’ viaggiatori certe caverne celebri, ma nessuna era di cotali dimensioni. Se la grotta di Guacharo nella Colombia, visitata da Humboldt, non aveva rivelato il segreto della sua profondità al dotto che la scandagliò-per uno spazio di duemila cinquecento piedi, verisimilmente non si estendeva molto al di là. L’immensa caverna del Mammouth nel Kentucky aveva certo proporzioni gigantesche, poichè la sua vôlta si elevava ben cinquecento piedi sopra un lago inscandagliabile e alcuni viaggiatori la percorsero per oltre dieci leghe senza incontrare la fine. Ma che cosa erano codeste cavità appetto a quella ch’io mirava allora, col suo cielo di vapori, colle sue irradiazioni elettriche e un vasto mare chiuso nei suoi fianchi. La mia immaginazione si sentiva impotente innanzi a tale immensità. Tutte quelle meraviglie, io le contemplavo in silenzio. Le parole mi venivano meno per esprimere le mie sensazioni. Parevami di assistere in qualche lontano pianeta, Urano o Nettuno, a fenomeni di cui la mia natura terrestre non avesse coscienza. A sensazioni nuove occorrevano parole nuove, e l’immaginazione non me le forniva. Guardavo, pensavo, ammiravo con uno stupore misto di spavento. Quello spettacolo impreveduto aveva richiamato sul mio volto i colori della salute; io stava per far cura dello sbalordimento e per operare la mia guarigione col mezzo di questa nuova terapeutica; d’altra parte la vivacità dell’aria densissima mi rianimava, fornendo maggior quantità d’ossigeno ai miei polmoni. Si comprenderà senza fatica come, dopo un imprigionamento di quarantasette giorni in una stretta galleria, fosse godimento senza fine quello di aspirare la brezza carica di umide emanazioni saline. Però non ebbi a pentirmi di aver lasciato la mia grotta oscura. Mio zio, già avvezzo a quelle meraviglie, non stupiva più. «Ti senti forza di passeggiare un poco? mi dimandò. — Sì, certo, risposi, e nulla mi parrà più piacevole. — Ebbene, dammi il braccio, Axel, e seguiremo le sinuosità della spiaggia.» Accettai con premura e cominciammo a costeggiare quel nuovo oceano. Alla sinistra, roccie scoscese, sovrapposte le une alle altre, formavano una massa titanica di effetto prodigioso. Sui loro fianchi scorrevano cascate innumerevoli che se ne andavano in corpi limpidi e sonori. Lievi vapori rimbalzanti da una roccia all’altra segnavano sorgenti calde, ed alcuni ruscelli scorrevano lentamente verso il bacino comune, cercando nei pendii occasione di mormorare più piacevolmente. Fra quei rigagnoli riconobbi il nostro fedele compagno di viaggio, l’’Hans-Bach, che veniva a perdersi tranquillamente nel mare come se non avesse mai fatto altro sin dal principio del mondo. «Quind’innanzi esso ci mancherà, diss’io con un sospiro. — Oibò! disse il professore; esso o un altro che monta?» Trovai la risposta un po’ ingrata. Ma in quel momento la mia attenzione fu fermata da uno spettacolo inatteso. A cinquecento passi, allo svolto d’un alto promontorio, apparve ai nostri occhi una foresta fitta di alberi di mezzana grandezza tagliati in forma di ombrelli regolari, a contorni netti e geometrici; le correnti atmosferiche non mi parevano poter nulla sul loro fogliame, poichè in mezzo ai soffi si rimanevano immobili e come pietrificati. Affrettai il passo. Io non sapeva dare un nome a quegli esseri singolari; non facevano essi parte delle dugentomila specie vegetali conosciute fino allora, o mi bisognava classificarli a parte nella flora delle vegetazioni lacustri? No. Quando arrivammo sotto la loro ombra la mia meraviglia si mutò in ammirazione. Infatti io aveva innanzi agli occhi prodotti della terra, ma tagliati secondo un modello gigantesco. Mio zio li chiamò immediatamente col loro nome. «Non è che una foresta di funghi» diss’egli. E non s’ingannava. Si giudichi lo sviluppo acquistato dalle piante proprie dei luoghi caldi ed umidi. Io sapeva che il Lycoperdon giganteum raggiunge, al dire di Bulliard, da otto a nove piedi di circonferenza; ma si trattava qui di funghi bianchi alti da trenta a quaranta piedi con una calotta d’un diametro eguale. Si contavano a migliaia. La luce non riusciva a vincere la loro fitta ombra, ed una oscurità perfetta regnava sotto quelle cupole sovrapposte come i tetti rotondi d’una città africana. Nondimeno volli addentrarmi. Un freddo mortale scendeva dallo volte carnose. Errammo in quell’umido tenebrore durante una mezz’ora, e fu con un vero sentimento di benessere che rivenni alla spiaggia del mare. Ma la vegetazione della sotterranea regione non si arrestava a quelle specie di funghi. Più lungi sorgevano gran numero di altri alberi dalle foglie scolorite. Era facile riconoscere che non erano se non gli umili arbusti della terra con dimensioni fenomenali, licopodi alti cento piedi, sigillarie gigantesche, felci arborescenti grandi come i pini delle alte latitudini, lepidodendri a rami cilindrici biforcati, terminati da lunghe foglie e irti di ruvidi peli a mo’ di mostruose piante grasse. «Meraviglioso, magnifico, splendido! esclamò mio zio. Ecco la flora della seconda epoca del mondo, dell’ epoca di transizione. Ecco le umili piante dei nostri giardini che erano alberi nei primi secoli de globo! Osserva, Axel; ammira, giammai botanico si trovò a tal festa! — Avete ragione, zio. La provvidenza sembra aver voluto conservare entro questa serra immensa le piante antidiluviane che la pazienza sagace degli scienziati ha ricostruito con tanta fortuna. — Tu dici benissimo, giovinotto mio; è una serra; ma diresti meglio aggiungendo che è forse anche un serraglio. — Un serraglio! — Sì, senza dubbio; vedi la polvere che noi calpestiamo, queste ossa sparse sul suolo. — Delle ossa, esclamai; sì, delle ossa di animali antidiluviani.» Io m’era precipitato su tali reliquie secolari, fatte d’una sostanza indistruttibile , e dava senza esitare un nome a quelle ossa gigantesche che rassomigliavano a tronchi d’alberi disseccati. «Ecco la mascella inferiore del mastodonte, diceva, ecco i molari del dinoterio, ecco un femore che non può esser stato se non del più grande di cotesti animali, del megaterio. Sì, certo, è proprio un serraglio, poichè queste ossa non sono state di certo trasportate fin qui de un cataclisma. Gli animali a cui esse appartengono vissero certamente sulle rive di questo mare sotterraneo, all’ombra di queste piante arborescenti. Ecco, io vedo scheletri intieri e tuttavia... — Tuttavia? disse mio zio. — Non so comprendere la presenza di simili quadrupedi in questa caverna di granito. — Perchè? — Perchè la vita animale non ha esistito sulla terra se non nei periodi secondarii, quando il terreno sedimentario fu formato dalle alluvioni e sostituì le roccie incandescenti dell’epoca primitiva. — Ebbene, Axel, vi ha una risposta semplicissima alla tua obbiezione, ed è che questo terreno è un terreno sedimentario. — Come! a tanta profondità sotto la superficie della terra? — Senza dubbio, ed il fatto può essere spiegato geologicamente. A una cert’epoca la terra non era formata che da una scorza elastica soggetta a movimenti alternativi dall’alto e dal basso, in virtù delle leggi dell’attrazione; è probabile che sia avvenuto un crollamento di suolo e che una parte di terreno sedimentario sia stata trascinata in fondo agli abissi spalancati d’un subito. — Così dev’essere. Ma se animali antidiluviani hanno vissuto in tali regioni sotterranee, chi ne dice che taluno di quei mostri non erri ancora in mezzo alle tetre foreste o dietro le roccie a picco?» A quest’idea guardai non senza spavento nei vari punti dell’orizzonte, ma sulle roccie deserte non apparve creatura viva. Ero un po’ stanco, ed andai a sedermi all’estremità di un promontorio ai piedi del quale i flutti si frangevano con rumore. Di là il mio sguardo abbracciava tutta la baia, formata da una tacca della costa. In fondo, una specie di porto era scavato fra le roccie piramidali; le sue acque tranquille dormivano al riparo del vento; un brick e due o tre golette avrebbero potuto gettarvi le ancore comodamente. Per poco io non m’aspettava di vedere qualche naviglio uscirne fuori a vele spiegate e prendere il largo spinto dalla brezza del sud. Ma siffatta illusione sparve ben presto. Noi eravamo pure le sole creature di quel mondo sotterraneo. Quando il vento s’acquetava, un silenzio più profondo dei silenzi del deserto scendeva su quelle roccie aride, e pesava sulla superficie dell’oceano. Allora io spingeva l’occhio entro le brume lontane, tentando di stracciare il velo gettato sul fondo dell’orizzonte, e mille domande mi venivano alle labbra: dove finiva quel mare? dove conduceva? potremmo noi mai conoscerne le rive opposte? Quanto a mio zio egli non ne dubitava punto. Io lo desiderava e lo temevo insieme. Dopo un’ora passata a contemplare il meraviglioso spettacolo, riprendemmo il cammino della spiaggia per riguadagnare la grotta ove mi addormentai d’un profondo sonno popolato dai più bizzarri fantasmi. XXXI. La domane mi risvegliai completamente guarito. Pensando che un bagno dovesse riescirmi salutare andai a tuffarmi per qualche minuto nelle acque di quel Mediterraneo. Certo quel mare meritava più di tutti tal nome. Ritornai a far colazione con molto appetito. Hans spendeva la sua scienza culinaria intorno al nostro desinare: aveva acqua e fuoco a sua disposizione in guisa che potè variare alquanto il nostro ordinario. Alle frutta ci servì alcune tazze di caffè, nè mai la deliziosa bevanda mi parve così piacevole al palato. «Ecco, disse mio zio, l’ora della marea, e non bisogna lasciarci sfuggire l’occasione di studiare siffatto fenomeno. — Come, la marea? esclamai. — Senza dubbio. — L’influenza della luna e del sole si fa sentire fin qui? — Perchè no? I corpi non sono forse soggetti nel loro complesso all’attrazione universale? Questa massa d’acqua non può dunque sottrarsi alla legge generale! Epperò, non ostante la pressione atmosferica che gravita alla sua superficie, la vedrai sollevarsi al pari dell’Atlantico.» In questo momento noi premevamo la sabbia della riva e le onde guadagnavano a poco a poco la spiaggia. «Ecco appunto il flusso che incomincia! Esclamai. — Sì, Axel, e dagli intervalli di schiuma, tu puoi vedere che il mare si alza dieci piedi all’incirca. — È meraviglioso. — No, è naturale. — Avete un gran dire, zio, ma tutto ciò mi sembra così straordinario che appena è s’io credo ai miei occhi. Chi mai avrebbe immaginato entro la scorza terrestre un vero oceano coi flussi e riflussi, colle brezze e colle tempeste! — E perchè no? vi è forse una ragione fisica che vi si opponga? — Io non ne vedo alcuna, poichè mi abbisogna abbandonare il sistema del calore centrale. — Dunque fin qui la teorica di Davy è giustificata? — Evidentemente; e quindi nulla si oppone all’esistenza di mari e di regioni nell’interno del globo. — Senza dubbio, ma disabitati. — E perchè queste acque non potrebbero dare asilo a qualche pesce d’una specie sconosciuta — Almeno non ne abbiamo visto neppur uno finora. — Ebbene, noi possiamo fabbricare delle lenze e vedere se l’amo avrà quaggiù tanta fortuna quanta ne ha negli oceani sublunari. — Proveremo, Axel; ci bisogna penetrare tutti i segreti di queste nuove regioni. — Ma dove siamo noi, poichè io non vi ho ancora fatto questa domanda alla quale i vostri strumenti han pure dovuto rispondere? — Orizzontalmente, a trecentocinquanta leghe dall’Islanda. — Proprio? — Sono sicuro di non ingannarmi di cinquecento tese. — E la bussola indica sempre il sud-est? — Sì, con una declinazione occidentale di diciannove gradi e quarantadue minuti. — Assolutamente come sulla terra. Quanto alla sua inclinazione avviene un fatto curioso che ho osservato con gran cura. — E quale? — Che l’ago invece d’inclinarsi verso il polo come fa nell’emisfero boreale si rialza. — Conviene dunque concludere che il punto di attrazione magnetica si trova compreso tra la superficie del globo e il luogo in cui noi siamo pervenuti? — Per l’appunto; ed è probabile che se arriviamo verso la regione polare, al settantesimo grado, là dove James Ross ha scoperto il polo magnetico, vedremo l’ago drizzarsi verticalmente. Dunque il misterioso centro dell’attrazione non si trova a gran profondità. — Ecco un fatto che la scienza non ha presentito. — La scienza, giovinotto mio, è fatta di errori, ma di errori che è bene commettere perchè essi conducono a poco a poco al vero. — E a qual profondità siamo noi? — A trentacinque leghe. — Così dunque, diss’io considerando la carta, la parte montuosa della Scozia è sopra di noi, e colà i monti Grampiani elevano le loro vette coperta di neve. — Sì, rispose il professore ridendo, è un po’ pesante da sopportare, ma la vôlta è solida; il grande architetto dell’universo l’ha fabbricata con buoni materiali, nè mai uomo avrebbe potuto farla così forte! Che sono mai gli archi dei ponti e le arcate delle cattedrali appetto di questa navata che ha tre leghe di raggio e sotto la quale può starsene comodamente un oceano colle sue tempeste? — Io non temo già che il cielo mi caschi sulla testa; ed ora, zio, quali sono i nostri disegni? Non fate voi conto di ritornare alla superficie del globo? — Ritornare! mai no; poichè tutto andò così bene finora bisogna, al contrario continuare il nostro viaggio. — Per altro io non vedo in qual modo potremo penetrare sotto questa liquida pianura! — Oh io non intendo già di precipitarmivi entro a capo fitto. Ma se a parlar più propriamente gli oceani non sono che laghi, poichè la terra li circonda, con più ragione questo mare interno è circondato dalla massa granitica. — Intorno a ciò non v’ha dubbio. — Or bene, io sono sicuro di trovare sulle rive opposte nuove uscite. — E quanto supponete voi che sia lungo quest’oceano? — Trenta o quaranta leghe. — Ah! esclamai, immaginando che tale stima doveva essere inesatta. — Così non abbiamo tempo da perdere e da domani ci metteremo in mare.» Involontariamente cercai cogli occhi la nave che doveva trasportarci. «Ah, dissi, c’imbarcheremo; sta bene, ma su qual bastimento? — Non sarà già sopra un bastimento, giovinotto mio, ma sopra una solida zattera. — Una zattera! Non è più facile costrurre una zattera d’un naviglio; ed io non vedo... — Tu non vedi, Axel, ma se tu ascoltassi potresti intendere. — Intendere! — Sì, certi colpi di martello i quali ti apprenderebbero che Hans è già all’opera. — Costruisce egli una zattera? — Come! ed ha già atterrato degli alberi colla sua accetta? — No, gli alberi erano già a terra. Vieni e lo vedrai all’opera.» Dopo un quarto d’ora di strada, dall’altro lato del promontorio che formava il piccolo porto naturale, vidi Hans al lavoro. Alcuni passi ancora e gli fui accanto. Con mia gran meraviglia una zattera a metà compiuta si stendeva sulla sabbia; era fatta di travi di un legno speciale, e gran numero di panconi, di curvature e di fianchi di navi d’ogni sorta ingombravano letteralmente il suolo. Vi era di che costrurre una intiera marina. «Zio, esclamai, che legno è questo? — Pino, abete, betulla, tutte le specie delle conifere del nord mineralizzate sotto l’azione delle acque del mare. — È egli possibile? — È ciò che si chiama surtarbrandur o legno fossile. — Ma allora, al pari delle ligniti, deve avere la durezza della pietra e non potrà galleggiare. — Qualche volta ciò avviene. Vi han di cotali legni che son divenuti veri antraciti; ma altri al pari di questi non hanno subito se non un principio di trasformazione fossile. Guarda,» aggiunse mio zio gettando in mare uno dei preziosi rottami. Il pezzo di legno dopo esser sparito ritornò alla superficie dei flutti e galleggiò secondo le loro ondulazioni. «Sei convinto? disse mio zio. — Convinto tanto più che la cosa non è credibile.» Il domani, alla sera, in grazia dell’abilità della guida, la zattera era compiuta; aveva dieci piedi di lunghezza e cinque di larghezza. Le travi di surtarbrandur, collegate fra di loro per mezzo di forti corde, offrivano una superficie solida; e una volta varata, la scialuppa improvvisata galleggiò tranquillamente sulle onde del mare Lidenbrock. XXXII. Il 13 agosto ci risvegliammo di buon mattino. Si trattava d’inaugurare un nuovo genere di locomozione rapida e poco faticosa. Un albero fatto di due bastoni lapazzati, un’antenna formata d’un terzo bastone, e le nostre coperte ad uso di vela componevano gli attrezzi della zattera. Non mancavano le corde, ed il tutto era solido. Alle sei il professore diede il segnale dell’imbarcazione. I viveri, i bagagli, gl’istrumenti, le armi ed una gran quantità di acqua dolce erano a posto. Hans aveva preparato un timone che gli permetteva di dirigere il suo apparecchio galleggiante. Si mise alla barra; io staccai l’ormeggio che ci tratteneva alla spiaggia, mettemmo le vele al vento e ci scostammo dalla riva. Nel momento di lasciare il piccolo porto, mio zio, che aveva cara la sua nomenclatura geografica, volle dargli un nome, il mio fra gli altri. «In fede mia, dissi, ne ho un altro a proporvi. — Quale? — Il nome di Graüben. Porto Graüben, starà assai bene sulla carta. — Accettato Porto Graüben.» Ed ecco in qual guisa il ricordo della mia cara Virlandese si collegò alla nostra avventurosa spedizione. La brezza soffiava da nord-est; noi filavamo col vento in poppa, rapidissimamente. Gli strati densissimi dell’atmosfera aveano una spinta enorme ed agivano sulle vela come un potente ventilatore. Dopo un’ora mio zio aveva potuto valutare abbastanza esattamente la nostra velocità. «Se continuiamo a camminare così, disse, faremo almeno trenta leghe ogni ventiquattr’ore e non tarderemo a riconoscere la riva opposta.» Non risposi ed andai a collocarmi a prora della zattera. Già la costa settentrionale si abbassava all’orizzonte; le due braccia della riva si aprivano largamente come per renderci facile la partenza. Un immenso mare si stendeva innanzi ai miei occhi. Nuvoloni enormi passavano rapidamente gettando sulla sua superficie la loro ombra grigiastra che pareva pesare sopra quell’acqua scolorita. I raggi argentati della luce elettrica riflessi qua e colà da qualche gocciolina facevano sbocciare punti luminosi nei risucchii dell’imbarcazione. Ben presto perdemmo di vista la terra, ogni punto di segnale disparve, e senza il solco schiumoso della zattera avrei potuto credere ch’essa se ne rimanesse perfettamente immobile. Verso il mezzodì immense alghe vennero ad ondulare alla superficie dei flutti. M’era nota la forza vegetativa di queste piante che si arrampicano da una profondità di dodicimila piedi in fondo ai mari, e sì riproducono a una pressione di quattrocento atmosfere e formano soventi volte banchi così considerevoli da serrare il passo alle navi; ma non mai, io credo, vi furono alghe più gigantesche di quelle del mare Lidenbrock. La nostra zattera rasentò fuchi lunghi tre o quattromila piedi, immensi serpenti che svolgevano le loro spire a perdita di vista. Io mi dilettava a seguire collo sguardo i loro nastri interminabili, credendo sempre di raggiungerne l’estremità, e per intere ore la mia pazienza era delusa, ma non la mia meraviglia. Qual forza naturale poteva produrre tali piante e quale doveva essere l’aspetto della terra nei primi secoli della sua formazione, quando, sotto l’azione del calore e della umidità, il solo regno vegetale si sviluppò alla sua superficie! Giunse la sera, e come avevo notato la vigilia, lo stato luminoso dell’aria non scemò punto; era un fenomeno costante e potevamo contare sulla sua durata. Dopo la cena mi stesi a piedi dell’albero e non tardai ad addormentarmi in mezzo ad indolenti fantasticherie. Hans immobile al timone lasciava correre la zattera, che d’altra parte spinta dal vento in poppa non aveva bisogno d’essere diretta. Fino dalla partenza dal porto Graüben, il professore mi aveva incaricato di tenere il giornale di bordo, di notare le più piccole osservazioni, i fenomeni interessanti, la direzione del vento, la velocità acquistata, la via percorsa, tutti gl’incidenti insomma della bizzarra navigazione. Mi limiterò dunque a riprodurre qui quelle note quotidiane scritte per così dire sotto la dettatura degli avvenimenti, per dare un racconto esatto della nostra traversata. Venerdì, 14 agosto. — Vento eguale di nord-ovest, la zattera cammina rapidamente in linea retta, la costa rimane a trenta leghe sottovento; nulla all’orizzonte; l’intensità della luce non varia. Bel tempo, vale a dire che le nuvole sono elevatissime, poco dense e si bagnano in un’atmosfera biancastra che pare d’argento fuso. Termometro: + 32° centigradi. Al mezzodì Hans prepara un amo all’estremità d’una corda, lo adesca con un pezzetto di carne e lo getta in mare. Durante due ore non prende nulla; queste acque sono dunque disabitate? no; una scossa avverte Hans il quale tira la lenza a cui è attaccato un pesce che si dibatte vigorosamente. «Un pesce! esclama mio zio. — Uno storione! esclamo alla mia volta; un piccolo storione!» Il professore guarda attentamente l’animale e non è della mia opinione; quel pesce ha la testa schiacciata, arrotondata e la parte anteriore del corpo coperta di scaglie e d’ossa; la sua bocca è priva di denti; ha pinne pettorali molto sviluppate ed è sprovvisto di coda. Certo quell’animale appartiene a un ordine in cui i naturalisti hanno classificato lo storione, ma ne differisce essenzialmente per più rispetti. Mio zio non s’inganna poichè, dopo un breve esame, dice: «Questo pesce appartiene a una famiglia estinta da secoli e di cui si ritrovano solo le traccie fossili nei terreni devoniani. — Come? dico io; noi abbiamo potuto prender vivo un abitante dei mari primitivi? — Sì, risponde il professore continuando le sue osservazioni, e tu vedi che questi pesci fossili non hanno alcuna identità colle specie d’oggidì. Ora aver nelle mani vivo uno di tali esseri è una vera fortuna per un naturalista. — Ma a qual famiglia appartiene? — All’ordine dei ganoidi, famiglia dei cefalaspidi, genere... — Ebbene? — Genere dei pterychtis, lo giurerei! ma questo ha una particolarità che, per quanto si dice, s’incontra nei pesci delle acque sotterranee. — Quale? — È cieco. — Cieco! — Non solo cieco, ma l’organo della vista gli manca affatto.» Guardo; la cosa è verissima. Ma può forse essere un caso speciale. La lenza adunque nuovamente adescata, è rigettata in mare. Senza dubbio quell’oceano è ricco di pesci, perchè in due ore noi prendiamo gran quantità di pterychtis, oltre a molti pesci appartenenti ad una famiglia spenta del pari, i dipteridi; di cui però mio zio non seppe riconoscere il genere. Tutti sono privi dell’organo della vista. La pesca insperata rinnova molto opportunamente le nostre vettovaglie. La cosa pare dunque accertata; questo mare non contiene se non specie fossili, nelle quali i pesci, come i rettili, sono tanto più perfetti, quanto più antica è la loro creazione. Forse incontreremo taluno di quei sauriani che la scienza ha saputo ricostruire con un frammento d’ossa o di cartilagine? Prendo il cannocchiale ed esamino il mare: è deserto. Certamente siamo ancora troppo vicini alle coste. Guardo per aria. Perchè mai taluno di quegli uccelli ricostrutti dall’immortale Cuvier non fenderebbe colle ali i pesanti strati atmosferici? I pesci fornirebbero loro sufficiente nutrimento, Osservo nello spazio; ma l’aria è disabitata al pari delle rive. Nondimeno la mia immaginazione mi trasporta nelle meravigliose ipotesi della paleontologia. Sogno ad occhi aperti, e mi pare di vedere alla superficie delle acque quegli enormi chersiti, quelle tartarughe antidiluviane, simili ad isole galleggianti; passano sulle spiagge rincupite i gran mammiferi delle prime età, il leptoterio, ritrovato nelle caverne del Brasile, il mericoterio, venuto dalle agghiacciate regioni della Siberia; più lungi il pachiderma lophiodono, tapiro gigantesco, si nasconde dietro le roccie, pronto a contendere la sua preda all’anoploterio, bizzarro animale che partecipa del rinoceronte, del cavallo, dell’ippopotamo e del cammello, come se il Creatore, frettoloso nelle prime ore del mondo, avesse molti animali riunito in uno solo. Il mastodonte gigantesco muove in giro la sua tromba e stritola colle zanne le roccie della spiaggia, mentre il megaterio inarcato colle enormi zampe fruga nella terra svegliando co’ suoi ruggiti l’eco di quei graniti sonori, Più su il protopiteco, la prima scimmia apparsa alla superficie del globo, si arrampica sulle ardue cime; e più su ancora, il pterodactylo dalla mano alata scivola come un grosso pipistrello sull’aria compressa; infine, negli ultimi strati, enormi uccelli, più poderosi del casoaro, più grandi dello struzzo, spiegando le loro larghe ali vanno a battere del capo contro la parete della vôlta granitica. Tutto codesto mondo fossile rinasce nella mia immaginazione. Ritorno col pensiero alle età bibliche della creazione, assai prima della nascita dell’uomo, quando la terra incompiuta non poteva ancora bastargli. Il mio sogno anticipa allora all’apparizione degli esseri animati. Spariscono i mammiferi, poi gli uccelli, poi i rettili dell’epoca secondaria; infine i pesci, i crostacei, i molluschi e gli articolati. Gli zoofiti dal periodo di transizione alla lor volta ritornano al nulla. Tutta la vita della terra si riassume in me; e il mio cuore è solo a battere in quel mondo spopolato. Non più stagioni, non più climi; il calore proprio della terra si accresce incessantemente e neutralizza quello del sole; la vegetazione si esagera. Io passo come un’ombra in mezzo alle felci arborescenti; calpesto con piede incerto le marne iridescenti e la creta screziata del suolo. Mi appoggio al tronco delle immense conifere e mi sdraio all’ombra dei sfenofylli, degli asterofylli, dei licopodi alti cento piedi. Passano i secoli come fossero giorni! risalgo la serie delle terrestri trasformazioni. Le piante spariscono, le roccie granitiche perdono la loro durezza, lo stato liquido si sostituisce al solido per l’azione d’un calore più intenso; le acque scorrono alla superficie del globo, bollono, si volatilizzano. I vapori avviluppano la terra, la quale a poco a poco non forma più che una massa gassosa, riscaldata al calore bianco, grossa come il sole e splendida del paro. Al centro di questa nebulosa, un milione e quattrocentomila volte più grande del globo ch’essa deve formare un giorno, io mi sento trascinato negli spazi planetari. Il mio corpo si assottiglia, si sublima alla sua volta e si mesce come un atomo imponderabile a quegli immensi vapori che tracciano nell’infinito la loro orbita infiammata. Qual sogno! dove mi trasporta? la mia mano febbrile ne scrive sulla carta i bizzarri particolari! io ho tutto dimenticato, professore, guida, zattera; il mio spirito è in preda a viva allucinazione... «Che cosa hai?» mi dimanda mio zio. I miei occhi spalancati si fissano sopra di lui senza vederlo, «Bada, Axel, tu cadrai in mare!» In pari tempo mi sento afferrare vigorosamente dalla mano di Hans; senza di lui, sotto il fascino del mio sogno, mi precipitavo nei flutti. «Forse che diventa pazzo? disse il professore. — Che cosa c’è? diss’io risensando. — Sei tu malato? — No, ebbi un istante di allucinazione, ma è passato. Tutto va bene? ; — Sì, buon vento, bel mare. Noi veleggiamo rapidamente e, se non erro, non tarderemo a toccar terra.» A queste parole, mi levo in piedi e guardo all’orizzonte: – ma la linea delle acque si confonde sempre con quella delle nuvole. XXXIII. Sabato, 15 agosto. — Il mare conserva la suo monotona uniformità; non abbiamo alcuna terra in vista. L’orizzonte pare immensamente lontano. Ho la testa tuttavia sbalordita dal mio sogno. Quanto a mio zio, egli non ha sognato, ma è di malumore. Percorre tutti i punti dello spazio col cannocchiale e incrocia dispettosamente le braccia. Osservo che il professore Lidenbrock tende a ridiventare l’uomo impaziente d’una volta, e segno il fatto nel mio giornale. Ci vollero i miei pericoli e i miei dolori per strappargli qualche scintilla d’umanità; ma dopo la mia guarigione la natura ha ripreso il sopravvento. E poi, perchè adirarsi? forse che il viaggio non si compie nelle condizioni più favorevoli? forse che la zattera non naviga con meravigliosa rapidità? «Mi sembrate inquieto, diss’io vedendolo spesso accostare il cannocchiale agli occhi. — Inquieto? no. — Impaziente, allora? — Ne avrei ben donde. — Nondimeno noi camminiamo con una velocità... — Che m’importa? non è già che la velocità sia piccola, è il mare che è troppo grande!» Mi sovvenni allora che il professore, prima della nostra partenza, aveva stimato la lunghezza di quest’oceano sotterraneo una trentina di leghe; ora avevamo percorso una strada tre volte più lunga, e le spiaggie del sud non apparivano ancora. «Noi non discendiamo! ripigliò a dire il professore, tutto questo è tempo perduto, ed io non sono già venuto così lontano per fare una gita di piacere sopra uno stagno.» Egli chiama questa traversata una gita di piacere, e questo mare uno stagno! «Ma, diss’io, poichè abbiam seguito la strada indicata da Saknussemm... — Quest’è il quesito: abbiam noi seguito la sua strada? Saknussemm ha egli incontrato questa distesa d’acqua, e l’ha egli attraversata? Il ruscello che abbiamo preso per guida, non ci ha forse sviati del tutto? — In ogni caso non possiamo dolerci d’esser venuti fin qui: lo spettacolo è magnifico e... — Non si tratta già di vedere; io mi sono proposto uno scopo e voglio raggiungerlo; non mi parlare d’ammirazione.» Me l’ho per detto, e lascio che il professore si morda le labbra d’impazienza; alle sei pomeridiane Hans vuole la sua paga, ed i tre risdalleri gli sono contati. Domenica, 16 agosto. — Nulla di nuovo, tempo uguale, il vento tende lievemente a frescare; nel ridestarmi mia prima cura è di accertare l’intensità della luce; temo sempre che il fenomeno elettrico non si oscuri e si spenga. Ma non è così. L’ombra della zattera si disegna nettamente alla superficie dei flutti. Davvero questo mare è senza confini! deve avere la larghezza del Mediterraneo, se pure non ha quella dell’Atlantico: e perchè no? Mio zio getta lo scandaglio più volte; attacca uno dei picconi più pesanti all’estremità di una corda che lascia scorrere per dugento braccia; non tocca fondo, e duriamo gran fatica a ritrarre lo scandaglio. Quando il piccone è risalito a bordo, Hans mi fa notare sulla sua superficie alcune impronte profonde; si direbbe che il pezzo d: ferro sia stato stretto vigorosamente fra due corpi duri. Guardo il volto del cacciatore. «Tänder!» dice egli. Io non capisco e mi volto verso mio zio, il quale è tutto assorto nelle sue riflessioni. Non vo’ disturbarlo, e ritorno verso l’Islandese; costui aprendo e chiudendo più volte la bocca mi fa comprendere il suo pensiero. «Denti!» dico con stupore esaminando più attento la sbarra di ferro. Sì, sono proprio denti, la cui impronta s’è incavata nel metallo. Le mascelle che essi guerniscono devono possedere una forza prodigiosa. Che sia un mostro delle specie perdute, il quale sì agiti sotto il profondo strato delle acque, più vorace del pesce cane, più spaventevole della balena? Non posso staccare gli occhi dalla sbarra mezzo rosicchiata. Il mio sogno della notte passata sta forse per avverarsi. Questi pensieri mi conturbano per tutto il giorno, la mia immaginazione si calma appena in un sonno di alcune ore. Lunedì, 17 agosto. — Cerco di ricordarmi gli istinti proprii degli animali antidiluviani dell’epoca secondaria, i quali succedendo ai molluschi, ai crostacei ed ai pesci, precedettero l’apparizione dei mammiferi sulla terra. Il mondo apparteneva allora ai rettili, i quali regnavano da padroni nei mari giurassici . La natura aveva loro accordato un organismo compiuto. Quale gigantesca struttura, qual forza prodigiosa! I più grossi e spaventevoli dei sauriani d’oggi, alligatori o coccodrilli, non sono che modelli impiccioliti dei loro padri delle prime età. Mi viene un brivido alla evocazione ch’io faccio di siffatti mostri; occhio umano non li vide mai vivi poichè apparvero sulla terra mille secoli prima dell’uomo, ma le loro ossa fossili, ritrovate in quel calcare argilloso che gli Inglesi chiamano lias, hanno permesso di ricostruirli anatomicamente e di conoscerne la colossale conformazione. Ho visto al museo di Amburgo lo scheletro d’uno di codesti sauriani che misura trenta pedi di lunghezza. Dovrò io abitante della terra trovarmi faccia a faccia con tali rappresentanti d’una famiglia antidiluviana? No, è impossibile, Tuttavia il segno di denti poderosi è inciso sulla sbarra di ferro ed alla loro impronta riconosco che sono conici come quelli del coccodrillo. I miei occhi si fissano con spavento sul mare. Temo di veder slanciarsi uno di questi abitanti delle caverne sottomarine. Immagino che il professore Lidenbrock abbia le mie idee, se non i miei timori: poichè dopo aver esaminato il piccone, egli percorre l’oceano collo sguardo. «Al diavolo, diss’io dentro di me, codesto pensiero ch’egli ebbe di gettare lo scandaglio! Ha forse turbato qualche animale nel suo covo, e se non siamo assaliti per vial...» Getto uno sguardo sulle armi, e mi assicuro che sono in buono stato. Mio zio mi vede fare, e approva col gesto. Di già larghe agitazioni prodotte alla superficie dei flutti indicano il turbamento degli strati lontani; il pericolo è vicino, conviene vegliare. Martedì, 18 agosto. — Giunge la sera, o piuttosto il momento in cui il sonno pesa sulle nostre palpebre, poichè la notte manca in questo oceano, e l’implacabile luce affatica ostinatamente i nostri occhi, come se navigassimo sotto il sole dei mari artici. Hans è al timone, Durante il suo quarto io mi addormento. Due ore dopo sono ridestato da una scossa spaventevole. La zattera è stata sollevata fuor dei flutti con indescrivibile potenza e gettata a venti tese più oltre. «Che cosa c’è? esclama mio zio; abbiamo urtato?» Hans mostra col dito, a una distanza di dugento tese, una massa nerastra che si solleva di tanto in tanto. Guardo ed esclamo: «È un porco-marino colossale! — Sì, replica mio zio, ed ecco ora una lucertola di mare d’una grossezza poco comune. — E più oltre un coccodrillo mostruoso! Osservate la sua larga mascella e la fila di denti di cui è armato; ma, egli sparisce! — Una balena, una balena! esclama allora il professore; vedo le sue enormi pinne, osserva l’aria e l’acqua ch’essa spinge in alto dagli sfiatatoi.» Infatti due colonne liquide si elevano ad un’altezza considerevole sopra il livello del mare. Rimaniamo sbigottiti, stupefatti, spaventati alla presenza di quel branco di mostri marini: essi hanno una dimensione soprannaturale, ed il più piccolo spezzerebbe la zattera con una dentata. Hans vuol mettere la barra al vento per fuggire il vicinato pericoloso; ma egli vede dall’altra parte altri nemici non meno spaventevoli; una tartaruga larga quaranta piedi e un serpente lungo trenta, che drizza la testa enorme sopra i flutti. È impossibile fuggire; quei rettili s’accostano, girano intorno alla zattera con tal rapidità che convogli spinti a gran velocità non potrebbero eguagliare, e tracciano intorno a noi cerchi concentrici; ho preso la mia carabina, ma quale effetto può produrre una palla sulla scaglie onde i corpi di quegli animali sono coperti? Lo spavento ci rende mutoli, eccoli che si accostano da una parte il coccodrillo, dall’altra il serpente; il resto del branco marino è sparito. Sto per far fuoco, ma Hans mi trattiene con un gesto. I due mostri passano a cinquanta tese dalla zattera, si precipitano l’uno sull’altro e il furore impedisce loro di vederci. S’impegna una lotta a cento tese da noi; vediamo distintamente i due mostri alle prese. Ma parmi che ora gli altri animali vengono a prender parte alla lotta; il porco-marino, la balena, la lucertola, la tartaruga. Io li intravedo ad ogni istante, li mostro all’Islandese, ma costui tentenna negativamente il capo. «Tva, dice egli. — Come! due? egli pretende che sono due animali... — Ed ha ragione! esclama mio zio, il quale non ha lasciato un istante il cannocchiale. — Questo poi! — Sì, il primo di questi mostri ha il muso d’un porcomarino, la testa d’una lucertola, i denti d’un coccodrillo, ed ecco ciò che ci ha ingannati. È il più spaventevole dei rettili antidiluviani, l’ictiosauro. — E l’altro? — L’altro è un serpente nascosto entro il guscio d’una tartaruga, il terribile nemico del primo, il plesiosauro.» Hans ha detto il vero, due mostri soltanto turbano in tal guisa la superficie del mare, e mi stanno innanzi due rettili degli oceani primitivi. Vedo l’occhio sanguigno dell’ictiosauro, grosso come la testa d’un uomo. La natura lo ha dotato d’un apparecchio ottico estremamente potente, capace di resistere alle pressioni degli strati d’acqua della profondità in cui abita. Fu giustamente detto la balena dei Sauriani poichè ne ha la rapidità e il volume. Questo che noi vediamo non misura meno di cento piedi ed io posso giudicare della sua grandezza quando drizza sopra i flutti le pinne verticali della coda. La sua mascella è enorme e secondo i naturalisti non ha meno di centottantadue denti. Il plesiosauro, serpente dal tronco cilindrico, dalla coda corta, ha le zampe disposte in forma di remi. Il suo corpo è interamente rivestito d’un guscio e il suo collo flessibile come quello del cigno, si rizza a trenta piedi fuor dei flutti. Questi animali si assalgono con furia indescrivibile; sollevano montagne liquide che rifluiscono fino alla zattera; venti volte corriamo pericolo di essere capovolti. Udiamo fischi d’una prodigiosa intensità; le due teste sono allacciate nè io posso distinguerle l’una dall’altra; convien tutto temere dalla rabbia del vincitore. Un’ora passa, ne passan due, e la lotta continua sempre accanita. I combattenti di quando in quando si accostano alla zattera e se ne allontanano. Noi ce ne stiamo immobili pronti a far fuoco. D’improvviso l’ictiosauro e il plesiosauro spariscono scavando un vero maëlstrom nei flutti. Passano molti minuti; il combattimento sta egli per terminare nella profondità del mare? D’un tratto una testa enorme si slancia al di fuori, la testa del plesiosauro; il mostro è ferito mortalmente; io non vedo più il suo immane guscio. Solo l’immenso collo si rizza, si piega, si risolleva a si ricurva, sferza i flutti come uno scudiscio gigantesco e si contorce come un verme tagliato in due. L’acqua sprizza a distanza considerevole e ne accieca. Ma ben presto l’agonia del rettile tocca la fine, i suoi movimenti diminuiscono, le sue contorsioni si acquetano, ed il lungo tronco del serpente si stende come massa inerte sopra i flutti appianati. Quanto all’ictiosauro, ha egli riguadagnato la sua caverna sottomarina o sta per riapparire alla superficie del mare? XXXIV. Mercoledì, 19 agosto. — Fortunatamente il vento, che soffia con forza, ci ha permesso d’involarci presto dal teatro della lotta. Hans è sempre al timone. Mio zio, tolto alle sue meditazioni dagli incidenti di quel combattimento, ricade nella sua impaziente contemplazione del mare. Il viaggio ripiglia la sua monotona uniformità, che pure io non amo rompere a prezzo dei pericoli d’ieri. Giovedì, 20 agosto. — Brezza nord-nord-est piuttosto ineguale: Temperatura calda. Camminiamo con una velocità di tre leghe e mezzo all’ora. Verso mezzodì udiamo un rumore molto lontano. Noto qui il fatto senza poterne dare la spiegazione. È un muggito continuo. «C’è in lontananza, dice il professore, qualche scoglio o qualche isolotto contro il quale s’infrangono le onde.» Hans si arrampica sulla cima dell’albero, ma non vede alcuno scoglio. L’oceano appare liscio fino alla linea dell’orizzonte. Trascorrono tre ore: i muggiti sembrano prodotti da una cascata d’acqua lontana. Faccio osservare la cosa a mio zio, il quale tentenna il capo. Ho tuttavia la certezza di non ingannarmi. Corriamo noi incontro a qualche cateratta che ci precipiterà nell’abisso ? Che questa maniera di discendere piaccia al professore, poichè si accosta alla linea verticale, è cosa possibile; ma in quanto a me... In ogni caso è certo che un fenomeno rumoroso deve prodursi a qualche lega in direzione del vento, poichè oramai i muggiti si fanno intendere con gran violenza: vengon essi dal cielo o dall’oceano? Dirigo i miei sguardi verso i vapori sospesi nell’atmosfera e cerco di scrutarne la profondità. Il cielo è tranquillo. Le nuvole trasportate nel culmine della vôlta, sembrano immobili e si perdono nell’intensa irradiazione della luce; conviene adunque cercare altrove la causa di tale fenomeno. Interrogo allora l’orizzonte chiaro e sgombro da ogni nebbia. Il suo aspetto non ha mutato. Ma se questo rumore deriva da una cascata, da una cateratta, se tutto l’oceano si precipita in un bacino inferiore, se i muggiti sono prodotti da una massa che cade, deve prodursi una corrente e la sua velocità crescente può darmi la misura del pericolo da cui siamo minacciati. Consulto la corrente. È nulla: una bottiglia vuota che io getto in mare rimane sotto vento. Verso le quattro Hans si alza e s’arrampica fino all’estremità dell’albero; di lì il suo sguardo percorre l’arco di cerchio che l’oceano descrive dinanzi alla zattera e si arresta sopra un punto. La sua fisonomia non esprime meraviglia, ma l’occhio è divenuto fisso. «Egli ha visto qualche cosa, dice lo zio. — Così credo.» Hans ridiscende, poi dirige il braccio verso il sud dicendo: «Der nere! — Laggiù?» risponde mio zio. E prendendo il cannocchiale guarda attentamente durante un minuto che mi pare un secolo. — Sì, sì! esclama. — Che cosa vedete? — Uno sprazzo immenso che si eleva sopra i flutti. — Qualche altro animale marino? — Può darsi. — Allora, dirigiamoci più verso l’ovest, poichè sappiamo a quali pericoli esponga l’incontro di siffatti mostri antidiluviani. — Lasciamo andare,» risponde mio zio. Mi volto verso Hans, ma costui mantiene la sua barra con inflessibile rigore. Peraltro, se dalla distanza che ci separa da quell’animale, distanza non certo minore di dodici leghe, si può vedere la colonna d’acqua spinta in alto da’ suoi sfiatatoi, ei dev’essere d’una statura soprannaturale. Fuggire non sarebbe se non conformarsi alle leggi della più volgare prudenza. Ma non siamo già venuti qui per essere prudenti. Si va dunque innanzi, e più ci accostiamo più lo sprazzo ingrandisce. Quel mostro può riempirsi di cotal quantità d’acqua ed espellerla così senza interruzione? Alle otto pomeridiane non siamo più distanti che dieci leghe. Il suo corpo nerastro, enorme, montuoso, si stende nel mare come un’isola; è illusione, è spavento? La sua lunghezza parmi che sorpassi le mille tese; qual’è adunque questo cetaceo non preveduto da Cuvier, nè da Blumembach? Se ne sta immobile e come addormentato. Il mare sembra non possa sollevarlo e sono al contrario i flutti che ondeggiano ai suoi fianchi. La colonna d’acqua spinta ad un’altezza di cinquecento piedi, ricade in pioggia con un rumore assordante. Noi corriamo pazzamente incontro alla massa poderosa che cento balene al giorno non basterebbero a nutrire. ll terrore m’invade. Non voglio andar più oltre! Taglierò se fa duopo, la drizza della vela! Mi rivolto contro il professore il quale non mi risponde. Di repente Hans si alza, ed additando il punto minaccioso: «Holme! dice egli. — Un’isola! esclama mio zio. — Un’isola! dico alla mia volta stringendomi nelle spalle. — Evidentemente, risponde il professore dando in un clamoroso scoppio di risa. — Ma questa colonna d’acqua? — Geyser, dice Hans. — Senza dubbio, geyser! soggiunse mio zio: un geyser simile a quello dell’Islanda .» Io non voglio dapprima essermi ingannato così grossolanamente ed aver preso un’isola per un mostro marino ma mi tocca cedere all’evidenza e convenire finalmente del mio errore. Non vi è in tutto ciò se non un fenomeno naturale. Mano mano che ci accostiamo le dimensioni del zampillo divengono grandiose: l’isola rappresenta in modo da ingannare un cetaceo immenso, la cui testa domina i flutti ad un’altezza di dieci tese, Il geyser, parola che gl’Islandesi pronunciano geysir e che significa furore, si eleva maestosamente alla sua estremità. Sorde detonazioni scoppiano ad intervalli, e l’enorme zampillo, come acceso da più violenti collere, scuote il suo pennacchio di vapori balzando infino ai primi strati delle nuvole, È solo. Non lo circondano nè fumarole, nè sorgenti calde, e tutta la forza vulcanica si riassume in esso. I raggi della luce elettrica si mescono a quello zampillo abbarbagliante di cui ogni goccia si tinge di tutti i colori dell’iride. «Accostiamoci,» dice il professore. Ma bisogna evitare con cura la tromba d’acqua che manderebbe a fondo la zattera in un momento. Hans manovrando abilmente ci conduce all’estremità dell’isola. Balzo sulla roccia; mio zio mi segue lestamente, mentre il cacciatore da uomo superiore a tali meraviglie, se ne sta tranquillo al suo posto, Camminiamo sopra un granito misto di tufo siliceo; il suolo trema sotto i nostri piedi come i fianchi d’una caldaja in cui si contorce il vapore ardente. Scotta, Arriviamo in vista d’un piccolo bacino centrale da cui si eleva il geyser. Tuffo nell’acqua, che scorre ribollendo, un termometro a versamento, e segna un calore di centosessantatrè gradi. Dunque quest’acqua proviene da un focolare ardente. Ciò contraddice singolarmente le teoriche del professore Lidenbrock, ed io non posso trattenermi dal farne l’osservazione. «Ebbene cosa prova ciò contro la mia dottrina? — Nulla, rispondo in tuono asciutto, vedendo che cozzo contro un’ostinazione assoluta. Nondimeno devo confessare che noi siamo finora singolarmente favoriti e che, per una ragione che mi sfugge, questo viaggio si compie in condizioni di temperatura affatto speciali. Parmi per altro evidente che arriveremo un giorno o l’altro a quelle regioni in cui il calore centrale tocca i più alti limiti e passa tutte le gradazioni dei termometri. Staremo a vedere. Quest’è il ritornello del professore, il quale dopo aver battezzato l’isola vulcanica col nome di suo nipote dà il segnale della partenza. Io rimango durante alcuni minuti a contemplare ancora il geyser. Osservo che il suo getto è irregolare, e che diminuisce talvolta di intensità e prorompe poi con nuovo vigore. La qual cosa attribuisco alle variazioni di pressione dei vapori accumulati nel suo serbatoio. Finalmente partiamo girando intorno alle roccie, appoggiando al sud, Hans ha approfittato del riposo per rimettere la zattera in buono stato. Ma prima di staccarci dalla roccia, io faccio alcune osservazioni per calcolare la distanza percorsa e le noto nel mio giornale. Abbiamo percorso dugentosessanta leghe di mare, dal porto Graüben, e siamo a seicentoventi leghe dall’Islanda sotto l’Inghilterra. XXXV. Venerdì, 21 agosto. — ll magnifico geyser è scomparso. Il vento ha frescato e ci ha rapidamente allontanati all’isola Axel. I muggiti si sono estinti a poco a poco. Il tempo, se è permesso di così esprimerci, muterà fra poco. L’atmosfera si fa grave di vapori che trasportano l’elettricità formata dall’evaporazione delle acque saline. Le nuvole si abbassano sensibilmente e si tingono uniformemente d’un colore olivastro. I raggi elettrici possono appena passare la cortina opaca che nasconde il teatro in cui sta per esser rappresentato il dramma delle tempeste. Io mi sento particolarmente impressionato, come è sulla terra ogni creatura all’approssimarsi d’un cataclisma. I cumulus ammucchiati nel sud hanno un aspetto sinistro e serbano quell’apparenza spietata ch’io soventi volte ho notato nel principio degli uragani; l’aria è greve, il mare tranquillo. In lontananza i nuvoli rassomigliano a grosse balle di cotone ammonticchiate in disordine; a poco a poco si gonfiano e perdono in numero ciò che guadagnano in grandezza. Il loro peso è tale che non possono staccarsi dall’orizzonte. Ma al soffio delle correnti elevate, si fondono a poco a poco insieme, si rincupiscono e si presentano in breve come uno strato unico di aspetto spaventevole. A volte un gomitolo di vapori ancora rischiarato rimbalza sopra quel tappeto grigiastro e si perde nella massa opaca. Evidentemente l’atmosfera è satura di fluidi. Io ne sono tutto impregnato: i capelli mi si rizzano sul capo come al contatto d’una macchina elettrica. Parmi che se i miei compagni mi toccassero in questo momento riceverebbero una scossa violenta. Alle dieci del mattino i sintomi dell’uragano sono più determinati. Si direbbe che il vento si allenti per riprender vigore: la nuvola rassomiglia a un otre immenso in cui si accumulano gli uragani. Non vo’ già credere alle minaccie del cielo, e tuttavia non posso trattenermi dal dire: «Ecco un cattivo tempo che si prepara.» Il professore non risponde: il vedere l’oceano prolungarsi indefinitamente dinanzi a’ suoi occhi lo rende d’umore insopportabile. Alle mie parole non fa che stringersi nelle spalle. «Avremo un uragano, dico, indicando l’orizzonte. Quelle nuvole si abbassano sul mare come per schiacciarlo!» Silenzio generale. Il vento tace; la natura sembra morta e non respira più. La vela ricade in pesanti pieghe sull’albero alla cui cima incomincio a vedere un lieve fuoco di S. Elmo. La zattera se ne sta immobile nel mezzo d’un mare massiccio, senza ondulazioni. Ma se non camminiamo più, a qual pro serbare questa tela che può perderci al primo urto della tempesta? «Ammainiamo, dico io: abbattiamo l’albero, sarà cosa prudente. — No, per mille diavoli! grida mio zio; cento volte no! Che il vento c’incolga, che l’uragano ci trasporti, ma che io veda una buona volta le roccie d’una costa quando pure la nostra zattera dovesse spezzarvisi contro in mille frantumi!» Queste parole non sono ancora pronunciate che l’orizzonte del sud muta d’un subito d’aspetto. I vapori accumulati si risolvono in acqua, e l’aria accorrendo con violenza per colmare i vuoti prodotti dalla condensazione diventa uragano. Essa viene dalla estremità più remota della caverna. L’oscurità raddoppia, ed è a gran fatica ch’io posso prendere qualche nota incompiuta. La zattera si solleva e rimbalza. Mio zio stramazza di peso, io mi trascino fino a lui: egli si è aggrappato fortemente a un capo della gomena e sembra osservare con piacere lo spettacolo degli elementi scatenati. Hans non si muove. I lunghi capelli spinti dall’uragano intorno alla faccia immobile gli danno una fisonomia bizzarra, perchè ogni estremità è irta di scintille luminose. Il suo aspetto spaventevole è quello d’un uomo antidiluviano contemporaneo degli ictiosauri e del megaterio; nondimeno l’albero resiste; la vela si gonfia come una bolla che sta per scoppiare. La zattera fila con una velocità che non posso stimare, ma meno presto tuttavia delle goccie d’acqua che rimuove, la cui rapidità percorre delle linee rette e distinte. «La vela, dico io, facendo segno di abbassarla. — No! risponde mio zio. — Nej,» aggiunge Hans, tentennando dolcemente la testa. Intanto la pioggia forma una cateratta muggente all’orizzonte verso il quale noi corriamo pazzamente, ma prima ch’essa arrivi fino a noi il velo delle nuvole si straccia, il mare ribolle e l’elettricità, prodotta da una vasta azione chimica che avviene negli strati superiori, è posta in gioco. Al rumore del tuono si mescolano i bagliori scintillanti della folgore; lampi innumerevoli s’incrociano in mezzo alle detonazioni; la massa dei vapori diviene incandescente; la gragnuola che batte il metallo dei nostri utensili e delle armi, si fa luminosa; le onde sollevate sembrano altrettanti monticoli ignivomi sotto i quali cova un fuoco interno e di cui ogni cresta è impennacchiata di fiamme. Ho gli occhi abbarbagliati dall’intensità della luce e le orecchie rotte dal rumore della folgore; bisogna ch’io m’afferri all’albero il quale piega come una canna sotto la violenza dell’uragano!!!.................... ..................................... ..................................... Qui le mie note di viaggio divennero incompiute: non ho più ritrovato che alcuni appunti fuggitivi presi per così dire meccanicamente; ma nella loro brevità, ed oscure come sono ritraggono la situazione meglio che non saprebbe fare la mia memoria............... ............................................................................................................... Domenica, 23 agosto. — Dove siamo noi? Trasportati con incommensurabile rapidità. La notte fu spaventevole. L’uragano non ha tregua. Viviamo in mezzo a rumori, a scoppi incessanti; le nostre orecchie fanno sangue; non è possibile scambiar parola. I lampi non cessano un momento. Vedo saette retrograde che dopo una rapida discesa risalgono dal basso in alto e vanno a battere nella vôlta di granito. Se mai crollasse! Altri lampi si biforcano e prendono forma di globi di fuoco che scoppiano come bombe. Nè il rumore generale sembra accrescersi; esso ha passatoi limiti di intensità che orecchio umano può percepire, e quando pure tutte le polveriere del mondo scoppiassero in una volta sola noi non potremmo intendere di più. Vi ha emissione continua di luce alla superficie delle nuvole. L’elettricità si sprigiona incessantemente dalle loro molecole, Evidentemente i principii gasosi dell’aria sono alterati; colonne innumerevoli d’acqua si slanciano nell’atmosfera e ricadono spumeggiando. Dove andiamo noi?... Mio zio è sdraiato all’estremità della zattera; il calore raddoppia: guardo il termometro che indica.......(Il numero è cancellato). Lunedì, 24 agosto. — Non la finiremo mai? E non potrebbe lo stato di questa atmosfera così densa, modificato una volta, farsi definitivo? Siamo affranti di stanchezza, Hans come al solito. La zattera corre invariabilmente verso il sud-est. Abbiamo fatto più di dugento leghe dall’isola Axel. A mezzodì la violenza dell’uragano raddoppia. Ci bisogna assicurare solidamente tutti gli oggetti che compongono il nostro carico; noi stessi ci leghiamo, i flutti passano sopra il nostro capo. Da tre giorni non ci riesce di rivolgerci una sola parola; apriamo la bocca, muoviamo le labbra, ma non ne esce alcun suono apprezzabile; non possiamo intenderci nemmeno parlandoci all’orecchio. Mio zio si è accostato a me; ha pronunziato qualche parola; credo che m’abbia detto: «siamo perduti.» Non ne sono certo. Prendo il partito di scrivergli queste parole: «ammainiamo la vela.» Mi fa segno che acconsente. Egli non ha avuto tempo di risollevare il capo dal basso in dito, quando un disco di fuoco apparisce sull’orlo della zattera. L’albero e la vela si sono staccati insieme involandosi a prodigiosa altezza, a somiglianza del pterodactilo, fantastico uccello dei primi secoli. Lo spavento ci agghiaccia. La palla per metà bianco per metà azzurro, grosso come una bomba di dieci pollici, si muove lentamente girando con meravigliosa velocità; s’accosta e si allontana, si posa sopra una delle assi della zattera, balza sul sacco delle provvigioni, ridiscende leggiermente, rimbalza, sfiora il barile di polvere Orrore! Lo scoppio è imminente! No. Il disco abbarbagliante se ne scosta; va presso ad Hans, il quale lo guarda fissamente; presso a mio zio, che si precipita in ginocchio per evitarlo; poi presso a me; impallidisco e fremo; mi danza vicino ai piede che cerco di ritirare senza riuscirvi, Un odore di gas nitroso impregna l’atmosfera, penetra nella gola, nei polmoni. Si soffoca. Perchè non mi riesce di ritirare il piede? Gli è come se fosse inchiodato alla zattera! Ah! la caduta di questo globo elettrico ha calamitato tutto il ferro di bordo; gli strumenti, gli utensili, le armi si agitano, si urtano; i chiodi delle mie scarpe aderiscono con forza ad una lastra di ferro incrostata nel legno. Non posso distaccare il mio piede! Alla fine mi vien fatto di liberarlo con uno sforzo disperato, nel momento in cui la palla stava per afferrarlo e trascinarmi nel suo movimento giratorio. Ah! qual luce intensa! il globo scoppia! noi siamo coperti da un getto di fiamme! Poi tutto si spegne. Ho appena il tempo di vedere mio zio disteso sulla zattera, ed Hans sempre al timone, sputando fuoco sotto l’influenza dell’elettricità che lo compenetra. Dove andiamo noi? dove andiamo noi?.......... ..................................... Martedì, 25 agosto. — Mi ridesto da un lungo svenimento, l’uragano continua; i lampi si scatenano come una nidiata di serpenti lanciati nell’atmosfera. Siamo noi sempre in mare? Sì, e trasportati con una velocità incalcolabile. Siamo passati sotto l’Inghilterra, sotto la Manica, sotto la Francia, sotto tutta l’Europa forse. Un nuovo rumore si fa udire! Evidentemente, il mare che si frange contro delle roccie!.... Ma allora..... ............................................................................................................... XXXVI. Qui termina ciò che io ho chiamato giornale di bordo avventurosamente scampato al naufragio. Riprendo a narrare come prima. Ciò che accadde all’urto della zattera contro gli scogli della costa, non saprei dire. Io mi sentii precipitato nelle onde, e se sfuggii alla morte, se il mio corpo non andò a lacerarsi contro le roccie acute, fu solo perchè il braccio vigoroso di Hans mi ritrasse dall’abisso. Il coraggioso Islandese mi trasse fuor di portata dalle onde sopra una sabbia ardente in cui mi trovai a fianco di mio zio. Poi ritornò presso alle roccie contro le quali battevano i flutti, per vedere di salvare qualche reliquia del naufragio. Non potevo parlare; ero affranto per la commozione e per la fatica, e mi bisognò una buona ora per rimettermi. Intanto continuava a piovere a diluvio, ma con quella maggior violenza che annunzia la fine degli uragani. Alcune roccie sovrapposte ci offrivano un riparo contro i torrenti del cielo. Hans preparò alcuni alimenti che non assaggiai neppure; poi ciascuno di noi, sfinito dalla veglia dì tre notti, cadde in un doloroso sonno. La domane il tempo era magnifico. Il cielo ed il mare si erano tranquillati di comune accordo, ed ogni traccia della burrasca era sparita. Fui tolto al sonno dalle parole gioconde del professore, il quale era in preda ad una allegria che metteva i brividi. «Ebbene, giovinotto mio, hai tu dormito?» Si sarebbe detto che fossimo nella casa di Königstrasse, e che io scendessi tranquillamente a far colazione, e che le mie nozze colla povera Graüben dovessero compiersi nello stesso giorno, Oimè! Sol che la tempesta avesse gettato la zattera verso l’est, noi saremmo passati sotto la Germania, sotto la mia cara città di Amburgo, sotto la strada dove abitava tutto ciò che io avevo al mondo di caro. Quaranta leghe soltanto me ne avrebbero separato! Ma quaranta leghe verticali d’un muro di granito, e in realtà più di mille leghe di viaggio! Tutte queste dolorose riflessioni attraversarono rapidamente il mio spirito prima che io rispondessi alla domanda di mio zio. «Vediamo, ripetè egli, tu non vuoi dire se hai dormito bene? — Benissimo, risposi, sono ancora affranto, ma non sarà nulla. — Assolutamente nulla, un po’ di stanchezza, null’altro. — Voi mi sembrate molto allegro stamane! — Contentone, giovanotto mio, contentone! Siamo arrivati! — Al termine della nostra spedizione? — No, ma al confine di questo mare che non terminava mai. Ora riprenderemo la via di terra e ci caccieremo davvero entro le viscere della Terra. — Zio, permettetemi di farvi una dimanda, — Te lo permetto, Axel. — E il ritorno? — Il ritorno? Ah! tu pensi al ritorno prima ancora d’arrivare? — No, voglio solo domandare in qual modo lo faremo. — Semplicissimamente, Giunti al centro dello sferoide, o troveremo una nuova strada per risalire alla sua superficie, o ritorneremo da buoni borghesi per la via che abbiamo percorso. Spero che non si chiuderà dietro di noi. — Quand’è così bisognerà riattare la zattera. — Necessariamente. — Ma ci rimangono provvigioni abbastanza per compiere queste grandi imprese? — Sì. Hans è un giovinotto ingegnoso, ed io sono sicuro che ha posto in salvo gran parte del carico. Andiamo ad accertarcene.» Lasciammo quella grotta aperta a tutti i venti. Io aveva una speranza che era a un tempo un timore; mi pareva impossibile che l’urto terribile della zattera non avesse annientato tutto il carico. M’ingannavo. Giunto sulla spiaggia, vidi Hans in mezzo a gran numero di oggetti collocati con ordine. Mio zio gli strinse la mano con vivo sentimento di gratitudine. Quell’uomo, affezionato come non si troverebbe forse altro esempio, aveva lavorato mentre noi dormivamo, e tratti alla riva col pericolo della vita gli oggetti più preziosi. Certo noi avevamo fatto perdite gravi; le nostre armi a mo’ d’esempio; ma dopo tutto potevamo farne di meno. La provvista di polvere era rimasta intatta, dopo aver corso rischio di scoppiare durante l’uragano. «Ebbene, esclamò il professore, poichè mancano i fucili, tutto il danno sarà che non potremo andare a caccia. — Sì, ma gl’istrumenti? — Ecco il manometro, che è il più utile, e per il quale avrei dato tutti gli altri! Con esso posso calcolare la profondità e sapere quando avremo raggiunto il centro. Senza di esso, rischieremmo di andare al di là e di venir fuori dagli antipodi!». Siffatta allegria era ferocia. «Ma la bussola? chiesi. — Eccola, sovra questa roccia, in ottimo stato, e così pure il cronometro e i termometri. Il cacciatore è uomo prezioso!» Bisognava pur convenirne; in fatto d’istrumenti, non ne mancava uno; quanto agli utensili ed agli apparecchi, vidi, sparsi sulla sabbia, picconi, scale, corde, vanghe, ecc. Rimaneva ancora da chiarire la questione dei viveri. «E le provviste? Domandai, — Vediamo le provviste,» rispose mio zio. Le casse che le contenevano erano schierate sulla spiaggia perfettamente conservate; il mare le aveva rispettate in massima parte; però, tutto sommato, tra biscotti, carne salata, ginepro e pesce secco, si poteva contare di aver viveri per quattro mesi. «Quattro mesi! esclamò il professore. Abbiam tempo di andare e ritornare, e cogli avanzi vo’ dare un gran banchetto a tutti i miei colleghi dello Johannaeum!» Da gran tempo avrei dovuto essermi avvezzo all’indole di mio zio; pure egli mi sbalordiva sempre. «Ora, disse, rifaremo la nostra provvista d’acqua colla pioggia che l’uragano ha versato in tutti questi bacini di granito; non abbiamo da temer la sete. Quanto alla zattera, raccomanderò ad Hans di riattarla come può meglio, benchè non debba servirci, immagino! — Cha intendete di dire ? — È una mia idea, giovinotto mio; ho in mente che non usciremo per dove siamo entrati.» Guardai il professore con diffidenza, domandandomi se non gli avesse dato di volta il cervello. «Andiamo a far colazione,» soggiunse. Poi che ebbe dato le sue istruzioni al cacciatore, lo seguii sovra un’altura. Quivi carne secca, biscotto e the ci offrirono un pasto eccellente, uno dei migliori, devo confessarlo, della mia vita, Il digiuno, l’aria aperta e la calma succeduta alle agitazioni, ogni cosa contribuiva ad aguzzarmi l’appetito. Durante la colazione, chiesi a mio zio dove ci trovassimo. «La cosa, dissi, parmi difficile a determinare. — A determinare esattamente, sì, rispose; fors’anche impossibile, poichè in questi tre giorni d’uragano non potei tener conto della velocità e direzione della zattera; per altro possiamo rilevare la nostra posizione a un dipresso. — Infatti, l’ultima osservazione fu fatta all’isola del geyser... — All’isola Axel; giovinotto mio. Non rinunziare all’onore di aver battezzato col tuo nome la prima isola scoperta nel centro della massa terrestre. — E sia pure. All’Isola Axel, noi avevamo percorso non meno di dugento ottanta leghe di mare, e ci trovavamo a più di seicento leghe dall’Islanda. — Bene! Moviamo da questo punto e contiamo quattro giorni d’uragano, durante i quali la velocità della nostra corsa non fu certo inferiore a ottanta leghe ogni ventiquattro ore. — Lo credo. Converrebbe adunque aggiungere altre trecento leghe. — Appunto; onde il mare Lidenbrock avrebbe circa seicento leghe da una riva all’altra! Non sai, Axel, che può gareggiare di grandezza col Mediterraneo? — Sopratutto se non l’abbiamo attraversato che in larghezza! — Il che è possibilissimo! — E, cosa curiosa, aggiunsi, se i nostri calcoli sono esatti. abbiamo ora questo Mediterraneo sulla testa! — Davvero? — Davvero, perchè siamo a novecento leghe da Reykjawik! — Una bella camminata, giovinotto mio, ma non possiamo dire di trovarci piuttosto sotto il Mediterraneo che sotto la Turchia o sotto l’Atlantico, se non siamo certi di non aver deviato? — Il vento pareva costante; credo dunque che questa riva debba essere posta a sud-est del porto Graüben. — È facile assicurarcene consultando la bussola. Consultiamo la bussola!» Il professore si diresse verso lo scoglio sul quale Hans aveva deposto gli strumenti. Era gajo, allegro, si fregava le mani, si pavoneggiava? Pareva un giovinotto! Io lo seguii, curioso di sapere se non m’ingannassi nel mio calcolo. Giunto allo scoglio, mio zio prese la bussola, la pose orizzontalmente e osservò l’ago, che dopo aver oscillato si arrestò in una posizione fissa sotto l’influenza magnetica. Mio zio guardò, si stropicciò gli occhi e guardò ancora, in fine si rivolse verso di me stupefatto. «Che cosa c’è?» domandai. Mi fe’ segno d’esaminare lo strumento. Un’esclamazione di meraviglia mi uscì dalle labbra. L’ago indicava il nord dove noi supponevamo il mezzodì. Si rivolgeva verso la spiaggia anzi che mostrare l’alto mare Rimossi la bussola, l’esaminai; era in ottimo stato; e in qualunque posizione mettessi l’ago, ei riprendeva ostinatamente quell’inaspettata direzione. Però, non rimaneva dubbio di sorta, che durante la tempesta il vento s’era improvvisamente mutato senza che ce ne avvedessimo ed aveva riportato la zattera verso la riva a cui mio zio credeva di volgere le spalle. XXXVII. Mi sarebbe impossibile dipingere la successione di sentimenti che agitarono il professore Lidenbrock, lo stupore, l’incredulità e finalmente la collera. Non vidi mai uomo così imbarazzato da prima, poi così irritato. Le fatiche della traversata, i pericoli corsi, tutto era da ricominciare! Avevamo indietreggiato invece di andare innanzi! Ma mio zio riprese ben presto il sopravvento. «Ah! la fatalità mi giuoca di siffatti tiri! Esclamò; gli elementi cospirano contro di me! L’aria, il fuoco e l’acqua uniscono i loro sforzi per opporsi al mio passaggio! Ebbene! si vedrà ciò che possa il mio volere. Non cederò punto, non darò indietro d’una linea, e vedremo chi la spunterà, se l’uomo o la natura!» In piedi sullo scoglio, irritato, in atteggiamento minaccioso, Otto Lidenbrock, simile al fiero Ajace pareva sfidare gli dei. Se non che io credetti opportuno di porre un argine alla sua fuga insensata. «Ascoltatemi, gli dissi con fermo accento. Vi ha quaggiù un confine ad ogni ambizione, non conviene lottare contro l’impossibile. Noi siamo mal in arnese per un viaggio in mare: cinquecento leghe non sì percorrono sopra un cattivo ammasso di travi, con una coperta a mo’ di vela, un bastone per albero, incontro ai venti scatenati. Non possiamo governare, siamo in balìa della tempesta,e sarebbe impresa da pazzi tentare una seconda volta questa impossibile traversata!» Mi riuscì di svolgere, senza essere interrotto, la serie di cotali ragionamenti incontrastabili durante dieci minuti, ma solo perchè il professore distratto non udì una sillaba della mia argomentazione. «Alla zattera!» esclamò egli. Tale fu la sua risposta. Ebbi un bel fare, supplicare, adirarmi; io dava di cozzo in una volontà più dura del granito, Hans finiva in quel momento di riattare la zattera. Pareva che quella bizzarra creatura indovinasse gl’intendimenti di mio zio. Con alcuni pezzi di surtarbrandur, egli aveva consolidato l’imbarcazione, nel mezzo della quale la vela sventolava di già. Il professore disse alcune parole alla guida, e questa pimbarcò subito i bagagli e dispose ogni cosa per la partenza. L’atmosfera era piuttosto pura e il vento di nordovest persisteva. Che poteva io fare ? Lottare solo contro due? Impossibile. Avesse almeno Hans preso le mie parti! Ma no; pareva che l’Islandese, messa da banda ogni volontà personale, avesse fatto voto d’annegazione. Non potevo ottenere nulla da un servitore così infeudato al suo padrone. Bisognava andare innanzi. Stavo dunque per prendere nella zattera il mio posto consueto, quando mio zio mi trattenne con una mano. «Non partiremo che domani,» disse. Feci l’atto d’uomo rassegnato a tutto. «Non devo trascurare nulla, soggiunse, e poichè la fatalità mi ha spinto in questa parte della costa, non la lascierò senza averla perlustrata.» Per comprendere siffatta osservazione, giova sapere che noi eravamo bensì ritornati alla spiaggia del nord, ma non già allo stesso luogo d’onde eravamo partiti. Il porto Graüben doveva trovarsi più all’ovest. Era adunque cosa ragionevolissima che esaminassimo diligentemente i dintorni. «Andiamo alla scoperta!» diss’io. E, lasciando Hans alle sue occupazioni, eccoci per via. Lo spazio compreso fra il mare e il piede dei contrafforti era larghissimo, tanto che si poteva camminare una buona mezz’ora prima di arrivare alla parete delle roccie. I nostri piedi schiacciavano innumerevoli conchiglie d’ogni forma e d’ogni grandezza, in cui vissero gli animali delle prime età. Vedevo pure enormi gusci, il cui diametro passava soventi volte quindici piedi. Avevano appartenuto a quei giganteschi gliptodoni del periodo pliocenico, di cui la tartaruga d’oggidì non è più che una mostra in piccolo. Inoltre il suolo era seminato di gran quantità di frantumi petrosi, specie di ciottoli. arrotondati dalle onde ed ordinati in linee successive. Fui adunque portato a fare questa osservazione, che il mare dovesse un tempo occupare quello spazio. Sulle roccie sparse ed ora lontane, i flutti avevano lasciato evidenti traccie del loro passaggio. Ciò poteva spiegare fino a un certo punto l’esistenza di quell’oceano a quaranta leghe sotto la superficie del globo. Ma, a parer mio, la massa liquida doveva perdersi a poco a poco nelle viscere della terra e proveniva evidentemente dalle acque dell’oceano, che si aprirono il varco attraverso qualche crepaccio. Per altro bisognava concedere che siffatto crepaccio fosse al presente otturato, perchè tutta quella caverna, o meglio quell’immenso serbatoio, si sarebbe riempito in un tempo piuttosto breve. Fors’anche quell’acqua, dovendo lottare contro-fuochi sotterranei, s’era in parte evaporata. Da ciò la spiegazione delle nuvole sospese sul nostro capo, e lo sviluppo di quella elettricità che creava tempeste nell’interno della massa terrestre. Questa teorica dei fenomeni di cui eravamo stati testimoni, mi pareva soddisfacente, perocchè, per quanto grandi sieno le meraviglie della natura, sono sempre spiegabili con ragioni fisiche. Noi camminavamo sopra una specie di terreno sedimentare, formato dalle acque al pari di tutti i terreni di questo periodo, così largamente distribuiti alla superficie del globo. Il professore esaminava attentamente ogni interstizio della roccia. Se esisteva una fessura era per lui cosa importantissima scandagliarne il fondo. Per un miglio avevamo costeggiato le spiaggie del mare Lidesbrock, quando il suolo mutò improvvisamente d’aspetto. Pareva lacerato e sconvolto dal sommovimento degli strati inferiori; in molti luoghi avvallamenti e sollevamenti attestavano una dislocazione poderosa della massa terrestre. Avanzavamo difficilmente sovra quelle fratture di granito, mescolato di silice, di quarzo e di depositi d’alluvioni, quando all’improvviso apparve ai nostri occhi un campo, meglio che un campo una pianura di ossami. Lo si sarebbe detto un immenso cimitero, in cui le generazioni di venti secoli confondessero la loro polvere eterna. Si schieravano a mucchi elevati in lontananza, ondulavano fino ai confini dell’orizzonte e vi si smarrivano in una nebbia trasparente. Quivi, sopra tre miglia quadrate, si accumulava forse tutta la storia della vita animale, appena scritta nei terreni troppo recenti del mondo abitato. Una impaziente curiosità ci trascinava. I nostri piedi schiacciavano con rumore secco gli avanzi di quegli animali preistorici e fossili, di cui i Musei delle grandi città si contendono le rare ed interessanti reliquie. L’esistenza di mille Cuvier non avrebbe bastato a ricomporre gli scheletri degli esseri organizzati che riposavano in quel magnifico ossario. Ero stupefatto. Mio zio aveva alzato le lunghe braccia verso la vôlta massiccia che ci serviva di cielo. La bocca spalancata oltre misura, gli occhi sfolgoranti sotto gli occhiali, il moto del capo dall’alto in basso e da diritta a mancina, tutto infine il suo atteggiamento esprimeva uno stupore senza confini. Si trovava innanzi una collezione preziosa di Leptoterii, di Mericoterii, di Lofodioni, d’Anoploterii, di Megaterii, di Mastodonti, di Protopitechi, di Pterodattili, d’ogni maniera di mostri antidiluviani ammucchiati per dargli gusto. S’immagini un bibliomane trasportato improvvisamente nell’immensa biblioteca d’Alessandria arsa da Omar e rinata dalle sue ceneri per opera d’un miracolo. Tale era mio zio, il professore Lidenbrock. Ma fu ben altra meraviglia, quando, correndo attraverso quella polvere organica, egli raccolse un cranio denudato, ed esclamò con voce fremente: «Axel! Axel! una testa umana! — Una testa umana! zio mio, risposi non meno stupefatto. — Sì, nipote! Ah! signor Milne-Edwards! Ah! Signor de Quatrefages! perchè non siete voi dove sono io, Otto Lidenbrock!» XXXVIII. Per intendere questa evocazione di mio zio agli illustri scienziati francesi giova sapere che, poco tempo prima la nostra partenza, era avvenuto un fatto di somma importanza in paleontologia. Il 28 marzo 1863, alcuni operai sterrando sotto la direzione di Perthes le cave di Moulin-Quignon, presso Albeville, nel dipartimento della Somma, in Francia, trovarono una mascella umana a quattordici piedi sotto la superficie del suolo. Era il primo fossile di siffatta specie ricondotto alla luce del giorno. Accanto ad esso si trovarono accette di pietra e di silice, colorate e rivestite dal tempo d’una patina uniforme. Il rumore di questa scoperta fu grande, non solo in Francia. ma anche in Inghilterra ed in Germania. Parecchi scienziati dell’Istituto francese, in ispecie i signori Milne Edwards e de Quatrefages, presero la cosa a cuore e dimostrarono l’incontrastabile autenticità dell’osso in quistione e si fecero ardentissimi patrocinatori della causa della mascella, secondo l’espressione inglese. Ai geologi del Regno Unito che ebbero il fatto come certo, Falconer, Busk, Carpenter, ecc., si aggiunsero scienziati tedeschi, fra i quali in prima fila, ardente ed entusiasta più di tutti, mio zio Lidenbrock. L’autenticità d’un fossile umano dell’epoca quaternaria sembrava adunque dimostrata ed ammessa. Siffatto sistema, peraltro, aveva avuto un avversario accanito nel signor Elia de Beaumont. Questo scienziato autorevolissimo affermava che il terreno di Moulin-Quignon non apparteneva già al diluvio, ma ad uno strato meno antico, e d’accordo in ciò con Cuvier, non ammetteva che la specie umana fosse stata contemporanea degli animali dell’epoca quaternaria. Mio zio Lidenbrock, colla maggioranza dei geologi, aveva tenuto duro, disputato, discusso, ed il signor Elia de Beaumont era rimasto quasi solo dalla sua parte. Ci erano noti tutti questi particolari della faccenda, ma ignoravamo che dopo la nostra partenza la questione aveva fatto nuovi progressi, e che altre mascelle identiche, benchè appartenenti ad individui di tipo diverso e di nazioni differenti, furono trovate nelle terre leggiere e grigie di certe grotte; in Francia, in Isvizzera, nel Belgio, oltre ad armi, utensili, strumenti, ossami di fanciulli di adolescenti, di uomini e di vecchi. L’esistenza dell’uomo quaternario s’affermava dunque ogni giorno più. E non era tutto. Altri frammenti esumati dal terreno terziario pliocenico avevano permesso a scienziati ancor più audaci di assegnare alla razza umana un’antichità maggiore. Questi frammenti non erano a dir vero ossa umane, ma solo oggetti della sua industria, tibie, fémori d’animali fossili, striati regolarmente, per così dire scolpiti e che portavano l’impronta d’un lavoro umano. Così, d’un balzo, l’uomo risaliva la scala del tempo di gran numero di secoli; esso precedeva il mastodonte; diveniva contemporaneo dell’elephas meridionalis; aveva centomila anni d’esistenza, che tal’è l’età attribuita dai più rinomati geologi al terreno pliocenico. Tale era allora lo stato della scienza paleontologica, e ciò che noi ne conoscevamo bastava a spiegare la nostra attitudine innanzi all’ossario del mare Lidenbrock. Si comprenderà lo stupore e la gioia di mio zio, sopratutto quando venti passi più oltre, si trovò al cospetto, faccia a faccia per così dire, con un campione dell’uomo quaternario. Era un corpo umano assolutamente riconoscibile. Forse un terreno di natura speciale, al par di quello del cimitero San Michele a Bordeaux, l’aveva così conservato per secoli? Non saprei dirlo. Ma questo cadavere, dalla pelle tesa e ridotta allo stato di cartapecora, dalle membra tuttavia morbide, – almeno a giudicarne dall’aspetto, – dai denti intatti, dalla capigliatura abbondante, dalle unghie delle mani e dei piedi spaventevolmente lunghe, appariva ai nostri occhi quale aveva vissuto, Io era muto in faccia a quella apparizione d’un’altra età; mio zio, di solito così loquace e parlatore così impetuoso, taceva anch’esso. Avevamo sollevato quel corpo, lo avevamo raddrizzato, ed esso ci guardava colle vuote occhiaie. Palpavamo il suo torso sonoro. Dopo alcuni istanti di silenzio, lo zio fu vinto dal professore, e Otto Lidenbrock, trasportato dal suo temperamento, dimentico delle peripezie del nostro viaggio, del luogo in cui eravamo, dell’immensa caverna che ci circondava, credendosi senza dubbio allo Johanneaum, per far scuola ai suoi allievi, parlò con accento dottorale, volgendosi ad un uditorio immaginario, così: «Signori, diss’egli, ho l’onore di presentarvi un uomo dell’epoca quaternaria. Grandi scienziati hanno negato la sua esistenza, altri non meno grandi l’hanno affermata. Se i San Tomasi della paleontologia fossero qui lo toccherebbero con mano e sarebbero pur costretti a riconoscere il loro errore. So bene che la scienza deve diffidare delle scoperte di siffatta natura, e non ignoro qual traffico di uomini fossili abbiano fatto i Barnum ed altri ciarlatani della stessa farina. Mi è nota la storia della rotella di Ajace, del preteso corpo d’Oreste ritrovato dagli Spartani, e del corpo di Asterius lungo dieci cubiti, di cui parla Pausania. Ho letto i rapporti sullo scheletro di Trapani scoperto nel secolo XIV e in cui si voleva riconoscere Polifemo, e la storia del gigante disseppellito durante il secolo XVI nei dintorni di Palermo. Voi non ignorate al pari di me, signori, l’analisi fatta presso Lucerna nel 1577 dei grandi ossami che il celebre medico Felice Plater dichiarò appartenere a un gigante di diciannove piedi. Ho letto avidamente i trattati di Cassanione e tutte le memorie, gli opuscoli, i discorsi e i contro-discorsi pubblicati in proposito dello scheletro del re dei Cimbri, Teutobochus, re della Gallia, disseppellito da una cava di sabbia nel Delfinato, nel 1613. Nel XVIII secolo io avrei combattuto con Pietro Campet l’esistenza dei preadamiti di Scheuchzer. Ebbi tra le mani lo scritto intitolato Gigans...» Qui riapparve l’infermità naturale di mio zio il quale in pubblico non poteva pronunciare le parole difficili, «Lo scritto intitolato Gigans...» riprese a dire. Egli non poteva andar oltre. «Giganteo...» Impossibile! La parola. malcapitata non voleva venirgli fuori. Si avrebbe riso di gran cuore allo Johannaeum. «Gigantosteologia!» finì di dire il professore Lidenbrock fra due imprecazioni. Poi continuando con nuova lena e infervorandosi: «Sì, o signori, io so tutte queste cose, e so pure che Cuvier e Blumembach hanno riconosciuto in questi ossami semplici ossa di mammuth. e d’altri animali dell’epoca quaternaria. Ma qui il dubbio sarebbe ingiuria alla scienza! Il cadavere è là; voi potete vederlo e toccarlo, e non e già una scheletro ma un corpo intatto conservato per un fine unicamente antropologico.» Io non ebbi certo il pensiero di contraddire questa asserzione. «S’io potessi lavarlo in una soluzione d’acido solforico, disse altresì mio zio, ne farei sparire tutte le parti terrose e le conchiglie splendenti che sono incrostate sopra di lui, ma non ho il prezioso dissolvente; pure così com’è questo corpo ci racconterà la sua propria storia.» A questo punto il professore prese il cadavere fossile e lo maneggiò colla destrezza d’uno spiegatore di curiosità. «Lo vedete, ripresa a dire, non ha sei piedi di lunghezza e siamo lontani dai pretesi giganti. Quanto alla razza a cui appartiene è incontrastabilmente caucasica; è la razza bianca, è la nostra. «Il cranio di questo fossile è regolarmente ovoide, senza sviluppo di zigomi, senza projezione delle mascelle, e non presenta carattere di prognatismo che modifichi l’angolo facciale . Misurate quest’angolo; esso è quasi di 90°. Ma io andrò più lungi nella via delle deduzioni ed oserò dire che appartiene alla famiglia giapetica sparsa dalle Indie fino ai confini dell’Europa occidentale. Non sorridete, signori!» Nessuno sorrideva, ma il professore aveva l’abitudine di vedere i volti rischiarati dal sorriso durante le sue dotte dissertazioni. «Sì, proseguì egli con nuova animazione, gli è codesto un uomo fossile contemporaneo dei mastodonti i cui ossami ingombrano questo anfiteatro. Dirvi per qual via sia giunto qui e come gli strati in cui era nascosto siano scivolati fino in questa enorme cavità del globo, questo io non farò. Certo nell’epoca quaternaria commozioni straordinarie si manifestavano ancora nella scorza terrestre; il continuo raffreddamento del globo produceva delle fratture, dei crepacci in cui si sprofondava assai probabilmente una parte del terreno superiore. Io non affermo nulla, ma infine eccovi l’uomo circondato dalle opere della sua mano, accette, selci tagliate che hanno formato l’età della pietra, e se pure egli non è venuto qui, al pari di me, da torista e da operaio della scienza, io non posso più dubitare della autenticità della sua antica origine.» Il professore tacque ed io uscii in applausi unanimi. D’altra parte mio zio aveva ragione, e scienziati assai più dotti di suo nipote sarebbero stati imbarazzati a combatterlo. Altro indizio; il corpo fossilizzato non era il solo dell’immenso ossario. Ad ogni passo che facevamo in quella polvere incontravamo nuovi corpi e mio zio poteva scegliere i campioni più meravigliosi per convincere gli increduli, Davvero, era pure un meraviglioso spettacolo questo di tante generazioni d’uomini e d’animali confuse in quel cimitero. Rimaneva una sola quistione e non osavamo risolverla. Codesti esseri sventurati eran essi per una convulsione del suolo scivolati verso le rive del mare Lidenbrock, in un tempo ch’erano già ridotti in polvere? Oppure vissero essi in questo mondo sotterraneo, sotto questo cielo fittizio, nascendo e morendo come gli abitanti della terra? Finora mostri marini, pesci soltanto c’erano apparsi viventi. Ma chi sa se qualche uomo dell’abisso non errava ancora lungo le spiagge deserte? XXXIX. Durante un’altra mezz’ora, i nostri piedi calpestarono quegli strati d’ossami. Andavamo innanzi spinti da un’ardente curiosità, Quali altre meraviglie conteneva quella caverna, quali tesori per la scienza? Il mio sguardo era preparato a tutte le sorprese, la mia immaginazione a tutte le maraviglie. Le rive del mare erano da un pezzo sparite dietro le colline dell’ossario, e l’imprudente professore, punto timoroso di smarrirsi mi trascinava seco. C’inoltravamo in silenzio, illuminati dalle onde elettriche. Per un fenomeno ch’io non seppi spiegare, e grazie alla sua diffusione perfetta, la luce rischiarava uniformemente le diverse faccie degli oggetti. Il suo focolare non esisteva più in un punto determinato nello spazio e non produceva alcun effetto d’ombra C’era da credersi in pien meriggio ed in piena estate, nelle regioni equatoriali, sotto i raggi verticali del sole. Non traccia di vapori. Le roccie, le montagne distanti, alcune masse confuse di foreste lontane prendevano un bizzarro aspetto per l’eguale distribuzione del fluido luminoso. Noi rassomigliavamo a quel fantastico personaggio di Hoffmann che aveva perduta la sua ombra. Dopo un miglio di cammino apparve il limite d’una immensa foresta ma non più uno di quei boschi di funghi che esistevano vicino a porto Graüben. Era la vegetazione dell’epoca terziaria in tutta la sua magnificenza. Alti palmizi di specie scomparse oggidì, superbe palmaciti, pini, cipressi, tassi, tuie, rappresentavano la famiglia delle conifere e si legavano fra di loro con una rete di liane inestricabili, Un tappeto di muschi e di epatiche rivestiva mollemente il suolo. Alcuni ruscelli mormoravano al piede di codeste piante che quasi non producevano ombra. Sulle loro rive crescevano felci arboree simile a quelle delle serre calde del globo abitato. Senonchè, questi alberi, questi arbusti, queste piante, prive del calore vivificante del sole, erano scoloriti. Tutto si confondeva in una tinta uniforme, grigiastra e come, appassita. Le foglie erano sprovvedute, del loro verde e gli stessi fiori, in così gran numero nell’epoca terziaria che li vide nascere, allora senza colori e senza profumi sembravano fatti di carta scolorita sotto l’azione dell’atmosfera. Mio zio si avventurò sotto quelle macchie gigantesche ed io lo seguii non senza una certa apprensione. Poichè la natura aveva fatto quivi le spese d’un’alimentazione vegetale, perchè mai non vi sarebbero ancora gli spaventevoli mammiferi? Io vedeva attraverso larghi spazi scoperti che lasciavano gli alberi abbattuti erosi dal tempo, le leguminose, le acerine, le robiacee, e mille arboscelli commestibili, cari ai ruminanti d’ogni tempo. Poi apparivano, confusi e mescolati, gli alberi delle contrade così diverse della superficie del globo; la quercia cresceva presso alla palma, l’eucalipto dell’Australia si appoggiava al pino della Norvegia, la betulla del Nord intrecciava i suoi rami con quelli del kauris zelandese. C’era da confondere la ragione dei più ingegnosi classificatori della botanica terrestre. D’un tratto m’arrestai e colla mano trattenni mio zio. La luce diffusa permetteva di vedere. i minimi oggetti nelle profondità dei boschi; m’era parso di vedere... No! Realmente coi miei occhi io vedeva forme immense che si agitavano sotto gli alberi! Infatti erano animali giganteschi, un intero branco di mastodonti, non già fossili ma vivi, e simili a quelli i cui avanzi furono scoperti nel 1801 nelle paludi dell’Ohio! Vedevo questi grandi elefanti le cui trombe brulicavano sotto gli alberi come una legione di serpenti; udivo il rumore delle loro lunghe zanne il cui avorio scavava i vecchi tronchi. I rami scricchiolavano e le foglie strappate a mucchi enormi s’inabissavano nella vasta gola di quei mostri. Infine dunque quel sogno in cui avevo veduto rinascere tutto il mondo dei tempi preistorici, delle epoche ternarie e quaternarie, si avverava. E noi eravamo là soli, entro le viscere del globo, alla mercè de’ suoi feroci abitatori. Mio zio guardava. «Andiamo, diss’egli d’un tratto afferrandomi il braccio; avanti, avanti! — No, gridai, no! siamo senz’armi; che faremmo noi in mezzo a quel gruppo di quadrupedi giganteschi? Venite zio, venite; non v’ha creatura umana che possa sfidare impunemente quei mostri. — Nessuna creatura: umana? rispose mio zio abbassando la voce; t’inganni, Axel guarda laggiù; parmi di vedere un essere vivente, una creatura simile a noi – un uomo!» Guardai stringendomi nelle: spalle, determinato a spingere l’incredulità fino agli ultimi limiti. Ma mi convenne pure arrendermi all’evidenza. A meno d’un quarto di miglio, appoggiato ad un kauris enorme, un essere umano, un Proteo di quelle contrade sotterranee, un nuovo figlio di Nettuno, governava l’innumerevole gregge di mastodonti! Immanis pecoris custos, immanior ipse! Sì! immanior ipse! non era più l’uomo fossile di cui avevamo incontrato il cadavere nell’ossario, ma un gigante capace di comandare a quei mostri. La sua statura passava i dodici piedi, la sua testa grossa come quella d’un bufalo spariva nel cespuglio d’una capigliatura incolta – una vera criniera, simile a quella dell’elefante dell’età primitiva. Brandiva colla mano un ramo enorme, degna verga d’un pastore antidiluviano. Eravamo rimasti immobili, stupefatti. Ma potevamo essere veduti. Conveniva fuggire. «Venite, venite,» esclamai, trascinando mio zio, il quale per la prima volta lasciò fare. Un quarto d’ora dopo eravamo lungi dalla vista di quello spaventevole nemico. Ed ora che ci penso tranquillamente, ora che la calma è ritornata nel mio spirito, che son passati parecchi mesi dopo quel soprannaturale incontro, che cosa devo pensare, che cosa devo credere? No! è impossibile! i nostri sensi furono ingannati, i nostri occhi non hanno visto ciò che vedevano! Nessuna creatura umana esiste in quel mondo sotterraneo. Nessuna generazione d’uomini abita quelle caverne inferiori del globo, senza curarsi degli abitanti della sua superficie e senza comunicazione con essi. È cosa insensata, profondamente insensata. Amo meglio ammettere l’esistenza di qualche animale, la cui struttura si accosti a quella dell’uomo, di qualche scimmia delle prime epoche geologiche, di qualche protopiceco, di qualche mosopiteco, simile a quello scoperto dal signor Lartet nel letto ossifero di Sansan! Senonchè, questo superava per la sua statura tutte le misure date dalla Paleontologia moderna! Non monta, una scimmia sì, una scimmia per quanto la cosa sembri inverosimile! Ma un uomo, un uomo vivente e con lui tutta una generazione nascosta nelle viscere della terra, non mai! Intanto avevamo lasciato la foresta chiara e luminosa, muti di stupore, accasciati sotto uno sbalordimento che ci rendeva simili a bruti. Correvamo nostro malgrado; era una vera fuga; eravamo trascinati spaventevolmente come avviene in certi sogni. Per istinto ritornavamo verso il mare Lidenbrock e non so in quale divagazione il mio spirito si sarebbe smarrito, senza un pensiero che mi ricondusse ad osservazioni più pratiche. Bench’io fussi certo di calpestare un suolo vergine dei nostri passi, vedevo soventi volte aggregazioni di roccie la cui forma rammentava quelle di porto Graüben. Ciò confermava d’altra parte l’indicazione della bussola ed il nostro involontario ritorno al nord del mare Lidenbrock. Talvolta c’era da confondersi; ruscelli e cascatelle cadevano a centinaia dalle sporgenze delle roccie: io credeva di rivedere il letto del surtarbrandur, il nostro fedele Hans-Bach o la grotta dov’era ritornato alla vita. Ma alcuni passi più oltre la disposizione dei contrafforti, l’apparizione d’un ruscello e il profilo d’una roccia venivano a ripiombarmi nel dubbio. Feci nota allo zio la mia indecisione; egli esitò al pari di me; non poteva raccapezzarsi in mezzo a quel panorama uniforme «Evidentemente, gli dissi, noi non abbiamo approdato al nostro punto di partenza, ma la tempesta ci ha ricondotti un po’al disotto, di modo che seguendo la spiaggia ritroveremo porto Graüben. — Ma in questo caso, rispose mio zio, è inutile continuare l’esplorazione, e il meglio è far ritorno alla zattera. Ma non t’inganni tu, Axel? — È difficile asserire checchessia, perchè tutte queste roccie si rassomigliano. Credo peraltro di riconoscere il promontorio ai piedi dei quali Hans costrusse l’ imbarcazione. Noi dobbiamo essere vicini al piccolo porto se pure non ci siamo già, aggiunsi esaminando un seno che credetti di riconoscere. — No, Axel, noi ritroveremmo almeno le nostre stesse traccie ed io non vedo nulla. — Ma vedo ben io! sclamai slanciandomi verso un oggetto che splendeva sulla sabbia. — Che cosa è? — Ecco!» risposi, E mostrai a mio zio un pugnale arrugginito ch’io aveva raccolto. «To’, diss’egli, avevi dunque portato teco quest’arma? — Io? nient’affatto! ma voi... — No, ch’io mi sappia, rispose il professore, quest’oggetto non fu mai mio. — E tanto meno mio, zio. — Quest’è singolare! — Tutt’altro! è semplicissima; gl’Islandesi hanno spesso armi di siffatta natura, ed Hans a cui questa appartiene, l’avrà perduta... — Hans!» disse mio zio tentennando il capo. Poi esaminò l’arma con attenzione. «Axel, mi diss’egli in tuono grave, questo pugnale è un’arma del XVI secolo, una vera daga, di quelle che i gentiluomini portavano alla cintura per dare il colpo di grazia. È d’origine spagnuola, non appartiene nè a me, nè a te, nè al cacciatore. — Osereste voi dire?... — Ecco, essa non si è già intaccata cacciandosi nella gola delle genti. La sua lama è coperta da uno strato di ruggine che non data nè da un giorno, nè da un anno, nè da un secolo.» Il professore s’infervorava secondo la sua abitudine, lasciandosi andare ai voli della sua immaginazione. «Axel, riprese a dire, noi siamo sulla via della gran scoperta! Questa lama è rimasta abbandonata sulla sabbia da cento, dugento, trecent’anni, e si è intaccata sulle roccie di questo mare sotterraneo. — Ma non è già venuta da sola, esclamai, e non potè già torcersi da sè stessa. Qualcuno dunque ci ha preceduti! — Sì, un uomo. — E quest’uomo? — Quest’uomo ha inciso il suo nome con questo pugnale! Quest’uomo volle ancora una volta segnare colla propria mano la strada del centro; cerchiamo! cerchiamo!» Ed eccoci; prodigiosamente interessati, rasentare l’alta muraglia, interrogando le più piccole fessure che potassero mutarsi in galleria. Giungemmo così a un punto in cui la spiaggia si restringeva. Il mare bagnava quasi i piedi del contrafforte, lasciando appena un passaggio largo una testa, Fra due sporgenze di roccie, si vedeva l’entrata d’un tunnel oscuro. Quivi sopra una lastra di granito apparivano due lettere misteriose, mezzo rosicchiate, le due iniziali dell’ardito e fantastico viaggiatore: «A.S.!* esclamò mio zio, Arne Saknussemm! Sempre Arne Saknussemm!» XL. Dacchè m’ero posto in cammino, io era passato per molte meraviglie; dovevo credermi a prova d’ogni stupore. Pure, alla vista di quelle due lettere incise là da trecento anni, rimasi in uno sbigottimento vicino alla stupidità, E non solo si leggeva sulla roccia la sottoscrizione del dotto alchimista, ma io avevo fra le mani lo stile che l’aveva tracciata. Senza un’insigne malafede non poteva più mettere in dubbio l’esistenza del viaggiatore e la realtà del suo viaggio. Mentre queste riflessioni turbinavano nella mia testa, il professore Lidenbrock uscì in un impeto ditirambico all’indirizzo di Arne Saknussemm. «Maraviglioso genio? esclamava egli, tu non hai dimenticato nulla di ciò che doveva aprire ad altri mortali le vie della scorza terrestre, ed i tuoi simili possono trovar le traccie che i tuoi piedi hanno lasciato or sono tre secoli in fondo a questi oscuri sotterranei. Tu hai concesso ad altr’occhi la contemplazione di queste maraviglie. Il tuo nome inciso di tappa in tappa conduce diritto alla meta il viaggiatore così audace da seguirti; e certo nel centro stesso del nostro pianeta, si troverà ancora scritto di tua propria mano. Ebbene, anch’io andrò a sottoscrivere l’ultima pagina di granito! Ma quind’innanzi, questo capo visto da te, presso questo mare scoperto da te, sia per sempre chiamato il capo Saknussemm!» Ecco quello ch’io udii, o press’a poco, e mi sentii invadere dall’entusiasmo che era in tali parole. Un fuoco interno si rianimò nel mio petto. Dimenticai ogni cosa, e i pericoli del viaggio, e i pericoli del ritorno. Ciò che un altro aveva fatto anch’io volevo fare e nulla di ciò ch’era umano mi pareva impossibile. «Avanti, avanti!» sclamai. E già mi slanciavo verso la tetra galleria, quando il professore mi trattenne; egli, l’uomo degl’impeti, mi consigliò la pazienza e il sangue freddo. «Ritorniamo prima di tutto verso Hans, diss’egli, e portiamo la zattera in questo luogo.» Obbedii non senza dispiacere e corsi rapidamente verso le roccie della spiaggia. «Sapete voi, zio, dicevo camminando, che siamo stati singolarmente favoriti dal caso sinora? — Ti pare, Axel? — Senza dubbio, e persino la tempesta che ci ha rimesso nel diritto cammino. Benedetto sia l’uragano che ci ha ricondotti a questa costa, d’onde il bel tempo ci avrebbe allontanati. Supponete per poco che noi avessimo toccato con la nostra prua (la prua d’una zattera!), le spiaggie meridionali del mare Lidenbrock, che sarebbe stato di noi? il nome di Saknussemm non sarebbe apparso ai nostri occhi; ed ora ci troveremmo abbandonati sur una spiaggia senza uscita. — Si, Axel, vi ha qualcosa di provvidenziale in questo, che, veleggiando verso sud, noi siamo precisamente tornati al nord ed al capo Saknussemm. Dico che gli è più che meraviglioso, e che vi ha in ciò un fatto la cui spiegazione mi sfugge interamente. — Che monta! A noi non tocca spiegare i fatti, ma approfittarne. — Senza dubbio, giovinotto mio, ma... — Ma noi siamo per ripigliare la via del nord, per passare sotto le contrade settentrionali d’Europa, la Svezia, la Russia, la Siberia, che so io, invece di cacciarci sotto i deserti dell’Africa o i flutti dell’Oceano e non voglio saperne di più! — Si, Axel, tu hai ragione e tutto è per il meglio, poichè abbandoniamo questo mare orizzontale che non poteva condurre a nulla; stiamo per discendere, per discendere ancora, per discendere sempre! Sai tu che per arrivare al centro del globo non vi hanno più che millecinquecento leghe da percorrere? — Inezie! Non mette proprio il conto di parlarne. Incamminiamoci!» Questi discorsi insensati duravano tuttavia quando raggiungemmo il cacciatore. Ogni cosa era pronta per una partenza immediata. Non vi era fardello che non fosse imbarcato. Prendemmo posto sulla zattera, e issata la vela, Hans si diresse seguendo la costa verso il capo Saknussemm. Il vento non era propizio a siffatto genere d’imbarcazione. Però in molti lunghi ci convenne andare innanzi coll’aiuto di bastoni ferrati. Molte volte le roccie alzandosi a fior d’acqua ci costrinsero a far lunghi giri. Ma infine dopo tre ore di navigazione, vale a dire verso le sei pomeridiane, raggiungemmo un luogo adatto ad approdare. Saltai a terra, seguito da mio zio e dall’Islandese. La traversata non m’avea calmato. Tutt’altro. Io mi proponeva perfino di ardere le nostre navi per tagliarci ogni ritirata; ma mio zio vi si oppose ed io lo trovai ‘singolarmente tiepido. «Almeno, dissi, partiamo senza perdere un momento. — Sì, giovinotto mio, ma prima esaminiamo questa nuova galleria per sapere se ci bisognerà preparare le scale.» Mio zio mise in azione il suo apparecchio di Ruhmkorff; la zattera, legata alla riva, fu lasciata sola; d’altra parte l’apertura della galleria non distava venti passi, e la nostra brigatella, me alla testa, vi si recò senza ritardo. L’orifizio, quasi circolare, aveva un diametro di cinque piedi all’incirca; il tenebroso tunnel era scavato nel vivo sasso ed accuratamente lisciato dalle materie eruttive alle quali un tempo dava passaggio; la sua parte inferiore sfiorava il suolo di tal maniera, che vi si potè penetrare senza alcuna difficoltà. Seguivamo un piano quasi orizzontale, quando dopo sei passi il cammino fu interrotto da un masso enorme interposto. «Maledetto sasso!» gridai incollerito, vedendomi all’improvviso arrestato da quell’insuperabile ostacolo. Avemmo un bel cercare a dritta ed a mancina, in basso ed in alto: non esisteva passaggio, non biforcazione di sorta. Ero vivamente costernato e non volevo ammettere la realtà dell’ostacolo. Mi chinavo; guardavo sotto il macigno: nessun interstizio al di sopra; ma sempre la stessa barriera di granito. Hans diresse la luce della lampada sopra tutti i punti della parete; ma non gli riuscì di scorgere alcuna soluzione di continuità. Bisognava rinunziare ad ogni speranza di andar oltre. M’ero seduto per terra; mio zio misurava a gran passi la galleria. «Ma allora Saknussemm? esclamai. — Sì, rispose mio zio, fu egli arrestato da questa porta di sasso? — No! no! ripresi a dire vivamente. Certo questa roccia, per opera d’una scossa qualunque, o per uno di quei fenomeni magnetici che commuovono la scorza terrestre ha chiuso bruscamente il passo. Molti anni sono passati dal ritorno di Saknussemm alla caduta del macigno; ed è cosa evidente che questa galleria fu un tempo la via delle lave, e che allora le materie eruttive vi circolavano liberamente. Vedete: vi hanno fessure recenti che solcano la volta di granito, fatto di frammenti rapportati, di macigni enormi, come se la mano d’un gigante abbia lavorato a siffatta costruzione. Ma venne un dì che la spinta fu più forte, e questo masso, simile ad una chiave di volta che vien meno, ha scivolato fino a terra ed ha chiuso ogni passaggio. È un ostacolo accidentale che Saknussemm non ha incontrato, e se noi non lo rovesciamo siamo indegni di arrivare al centro della Terra!» Io parlava così, L’anima del professore era passata tutta entro di me; il genio delle scoperte m’inspirava; dimenticavo il passato, disprezzavo l’avvenire. Non esisteva più nulla per me alla superficie dello sferoide nel cui seno mi ero inabissato; nè città, nè campagne, nè Amburgo, nè Königstrasse, nè la mia povera Graüben la quale doveva credermi perduto per sempre nelle viscere della Terra. «Ebbene, riprese mio zio, a colpi di zappa e di piccone apriamoci il passo, rovesciamo queste muraglie. — È troppo duro per la zappa! esclamai. — Allora il piccone! — È troppo lungo per il piccone! — Ma... — Ebbene la polvere, la mina! miniamo e facciamo saltare in aria l’ostacolo! — La polvere! — Si, non si tratta che d’un frammento di roccia da spezzare. — Hans, all’opera!» gridò mio zio. L’Islandese tornò alla zattera e ritornò in breve con un piccone che gli servì per scavare un fornello di mina. Non era già lieve fatica; si trattava di fare un buco capace di contenere cinquanta libbre di polvere fulminante, la cui forza espansiva è quattro volte maggiore di quella della polvere da cannone. Il mio spirito era straordinariamente commosso. Mentre Hans lavorava, io dava mano a mio zio per preparare una lunga miccia fatta con polvere bagnata e chiusa in un budello di tela. «Passeremo! Dicevo. — Passeremo!» ripeteva mio zio. Alla mezzanotte la nostra fatica di minatori fu condotta a termine. La carica di cotone fulminante era seppellita nel fornello e la miccia scorrendo traverso la galleria veniva fino al di fuori. Una scintilla bastava oramai a porre in azione quel formidabile congegno. «A domani,» disse il professore. Dovetti rassegnarmi ad attendere ancora sei lunghe ore. XLI. La domane, giovedì, 27 agosto, fu una data celebre del viaggio subterrestre. Nè io so rammentarmene senza che lo spavento mi faccia ancora battere il cuore. Da quel momento la nostra ragione, il nostro giudizio, la nostra ingegnosità non poterono più nulla e diventammo gioco dei fenomeni della Terra. Alle sei, eravamo in piedi. S’accostava il momento di aprire colla polvere il passo attraverso la scorza di granito. Volli aver l’onore di appiccare il fuoco alla miccia. Ciò fatto, io doveva raggiungere i miei compagni sopra la zattera chè non era stata scaricata: poi dovevamo prendere il largo per metterci al riparo dai pericoli dello scoppio, i cui effetti potevano estendersi al di là della massa di granito. La miccia doveva ardere per dieci minuti, secondo i nostri calcoli, prima di appiccare il fuoco alla camera della polvere. Avevo dunque il tempo necessario per riguadagnare la zattera. Mi preparavo a fare la mia parte non senza una certa commozione. Dopo una spiccia refezione, mio zio ed il cacciatore s’imbarcarono, mentr’io rimaneva sulla spiaggia. Ero munito d’una lanterna accesa che doveva servirmi a mettere il fuoco alla miccia. «Va, giovinotto, disse lo zio, e ritorna immediatamente a raggiungerci. — State tranquillo, risposi, non mi trastullerò certo per via.» Mi diressi verso l’orifizio della galleria, aprii la lanterna e presi il capo della miccia. Il professore teneva il suo cronometro in mano. «Sei pronto? gridò. — Son pronto. — Ebbene, fuoco!» Io cacciai rapidamente nella fiamma la miccia che scoppiettò al suo contatto; poi a tutta corsa ritornai alla riva. «Vieni, disse mio zio, e pigliamo il largo.» Hans diè una spinta vigorosa. La zattera si allontanò d’una ventina di tese dalla sponda. Era un momento d’ansietà. Il professore seguiva coll’occhio la lancetta del cronometro. «Ancora cinque minuti, diceva egli. Ancora quattro, ancora tre!» Il mio polso segnava i mezzi secondi. «Ancora due! Uno!... Crollate montagne di granito!» Che cosa avvenne allora? Il rumore dello scoppio credo ch’io non l’intesi; ma le roccie si trasformarono d’un subito a’ miei occhi e si aprirono come una tenda. Vidi un profondo abisso, che si scavava nella riva. Il mare, come preso da vertigine, non fu più che un’onda enorme sul dorso della quale la zattera si drizzò perpendicolarmente. Fummo rovesciati tutti e tre. In meno d’un secondo la luce cedette alla più profonda oscurità; poi sentii l’appoggio solido mancare, non già sotto i miei piedi, ma sotto la zattera. Credetti che colasse a picco. Ma non fu così. Avrei voluto rivolgere la parola a mio zio, il muggito delle acque gli avrebbe tolto d’intendermi. Nonostante le tenebre, il rumore, la meraviglia, la commozione, io compresi ciò che era avvenuto. Al di là della roccia scoppiata esisteva un abisso; l’esplosione aveva cagionato una specie di terremoto in quel suolo tutto a crepacci: l’abisso si era aperto e il mare mutato in torrente ci trascinava seco. Mi sentii perduto. Un’ora, due ore, che so io! corsero di tal guisa. Noi ci stringevamo i gomiti e ci tenevamo per mano per non essere sbalzati fuor della zattera. Di tanto in tanto urtavamo violentemente contro la muraglia; ma codesti urti erano rari; donde io conclusi che la galleria si allargava di molto. Era senza alcun dubbio la via di Saknussemm; ma invece di discenderla da soli, avevamo con la nostra imprudenza trascinato un intero mare con noi. Si capisce che queste idee si presentarono al mio spirito in forma vaga ed oscura. Io le associava con difficoltà durante quella corsa vertiginosa somigliante molto ad una caduta, perchè a giudicare dall’aria che mi flagellava il viso, doveva passare la velocità dei convogli più rapidi. Accendere una torcia in siffatte condizioni era impossibile, e il nostro ultimo apparecchio elettrico era stato spezzato nel momento dello scoppio. Fui dunque meravigliato di vedere una luce brillare d’un tratto vicino a me. La serena figura di Hans fu rischiarata. L’abile cacciatore era riuscito ad accendere la lanterna, e benchè la fiamma vacillasse, minacciando d’estinguersi, gettò qualche bagliore nella spaventevole oscurità. La galleria era larga ed io aveva avuto ragione di giudicarla tale. La luce insufficiente non ci permetteva di scorgere ad un tempo le due muraglie. La furia delle acque che ci portavano, superava quella delle più insormontabili correnti dell’America. La loro superficie pareva fatta d’un fascio di freccie liquide scoccate con estrema violenza: non saprei tradurre la mia impressione con un paragone più acconcio. La zattera travolta da certi gorghi, girava talvolta intorno a sè stessa; e si accostava alle pareti della galleria; io vi dirigeva la luce della lanterna e poteva giudicare della mostra velocità vedendo le sporgenze delle roccie mutarsi in tratti continui, in guisa da poterci credere chiusi entro una rete di linee moventisi. Stimai che la nostra velocità dovesse raggiungere le trenta leghe all’ora. Mio zio ed io ci guardavamo con occhio torbido, appoggiati all’albero che al momento della catastrofe s’era spezzato. Volgevamo le spalle all’aria, per non essere soffocati dalla rapidità d’un movimento che forza umana non poteva frenare. Intanto le ore passavano; la situazione non si mutava, ma un incidente venne a crescerne la complicazione. Cercando di mettere un po’ d’ordine nel carico, m’accorsi che la maggior parte degli oggetti imbarcati erano spariti al momento dello scoppio, quando il mare ci assalì con tanta violenza. Volli sapere esattamente che cosa pensare sui nostri mezzi, e colla lanterna in mano cominciai le mie ricerche. Degli strumenti non rimaneva più che la bussola e il cronometro: le scale e le corde si riducevano a un pezzo di gomena legata intorno all’albero; non una zappa, non un piccone, nè un martello; e per somma disgrazia non ci rimanevano viveri che per un giorno. Frugai negl’interstizii della zattera, negli angoli formati dalle travi e le commessure delle assi. Nulla! i nostri viveri consistevano solo in un pezzo di carne secca e in pochi biscotti. Guardavo stupidamente! non volevo comprendere. E pure di qual pericolo mi dava io pensiero? quando pure i viveri fossero stati sufficienti per mesi e per anni, come mai uscire dagli abissi in cui ci trascinava l’irresistibile torrente? a che valeva temere le torture della fame, quando la morte si offriva di già in tante altre forme? Morire d’inedia! forse che ne avevamo il tempo? Pure per un’inesplicabile bizzarria dell’immaginazione, io dimenticava il pericolo immediato per le minaccie dell’avvenire che mi apparve in tutto il suo orrore. D’altra parte, chi sa che non potessimo sfuggire ai furori del torrente e ritornare alla superficie del globo? In qual modo? lo ignoro. Dove? che monta! Una probabilità sopra mille è tuttavia una speranza, mentre la morte per fame non ci lasciava speranza di sorta. Mi venne il pensiero di dire tutto a mio zio, di mostrargli a qual penuria noi fossimo ridotti, e di far l’esatto calcolo del tempo che ci rimaneva a vivere. Ma ebbi il coraggio di tacermi, volendo lasciargli intera la sua serenità. In quella la luce della lanterna si oscurò a poco a poco, e si estinse del tutto. Il lucignolo s’era consumato: l’oscurità divenne un’altra volta assoluta e non bisognava più pensare a dissipare le tenebre impenetrabili. Ci rimaneva ancora una torcia, ma non avrebbe potuto tenersi accesa. Chiusi gli occhi come un fanciullo per non vedere tutta quella tenebria. Dopo lungo tratto di tempo la velocità della corsa raddoppiò; me ne avvidi all’aria che mi batteva sul viso. Il pendio delle acque diveniva eccessivo; credo proprio che non scivolassimo più; cadevamo. Provavo l’impressione d’una caduta quasi verticale. La mano di mio zio e quella di Hans afferrandomi per le braccia mi trattenevano con vigore. Di repente, dopo un tempo incalcolabile, sentii come un cozzo. La zattera non aveva urtato contro un corpo duro, ma s’era d’un tratto arrestata nella sua caduta. Una tromba d’acqua, un’immensa colonna liquida si rovesciò alla sua superficie. Fui soffocato. Annegavo. Ma l’improvvisa inondazione non durò molto. In pochi secondi mi ritrovai all’aria libera che aspirai a pieni polmoni. Mio zio ed Hans mi stringevano il braccio fino a spezzarlo e la zattera ci portava ancora tutti e tre. XLII. Suppongo dovessero essere allora le dieci di sera. Il primo senso che entrò in funzione, dopo l’ultimo assalto, fu l’udito. Intesi subito, e fu un atto di vera audizione, intesi il silenzio succedere nella galleria ai muggiti che da molte ore intronavano le mie orecchie. Alla fine queste parole di mio zio mi giunsero come un murmure: « Risaliamo... — Che intendete dire? esclamai. — Risaliamo, risaliamo.» Stesi il braccio, toccai la muraglia; la mia mano fu rotta a sangue. Risalivamo con estrema rapidità. «La torcia, la torcia!» gridò il professore. A gran fatica Hans riuscì ad accenderla; la fiamma mantenendosi dal basso in alto nonostante il movimento d’ascensione gettò abbastanza luce per rischiarare tutt’intorno. «È appunto ciò che io pensava, disse mio zio; siamo in un pozzo stretto che non ha quattro tese di diametro. L’acqua, giunta in fondo all’abisso, ripiglia il suo livello e ci porta in alto con essa. — Dove? — Non so, ma bisogna tenerci pronti a qualunque evento. Noi risaliamo con una velocità ch’io stimo di due tese al secondo, ossia di centoventi tese al minuto, più di tre leghe e mezzo all’ora; di questo passo si fa molto cammino. — Sì, se nulla ci arresta e se il pozzo ha un’uscita! Ma s’esso è chiuso? se l’aria si comprime a poco a poco sotto la pressione della colonna d’acqua ? Se noi stiamo per essere schiacciati? — Axel, rispose il professore con voce severa, la situazione è quasi disperata ; ma vi hanno alcune probabilità di salvezza e sono quelle che io esamino. Se ad ogni istante possiamo perire, ad ogni istante pure possiamo essere salvati. Poniamoci dunque in grado di profittare dei più piccoli incidenti. — Ma che fare? — Riparare le nostre forze mangiando.»
A tali parole io guardai mio zio con occhio smarrito; ciò che non avevo voluto confessare mi bisognava dirlo.
«Mangiare? ripetei; — Sì, senza indugio.» Il professore aggiunse qualche parola in danese; Hans tentennò il capo. «Come, esclamò mio zio, i nostri viveri sono perduti? — Sì; ecco ciò che ne rimane di viveri: un pezzo di carne secca in tre!» Mio zio mi guardava senza voler comprendere le mie parole. «Ebbene, dissi, credete che possiamo ancora essere salvati?» La mia dimanda non ottenne risposta. Passò un’ora ed incominciavo a provare una fame violenta, i miei compagni soffrivano anch’essi, e nessuno di noi osava toccare quel miserabile resto d’alimento. Intanto salivamo sempre con estrema rapidità; alle volte l’aria ci toglieva ìl respiro come agli areonauti la cui ascensione è troppo rapida. Ma se costoro provano un freddo proporzionale a misura che si sollevano negli strati atmosferici, noi subivamo un effetto assolutamente contrario. Il calore cresceva in maniera inquietante, e doveva certamente toccare allora i quaranta gradi. Che cosa significava tale mutamento? Fin qui i fatti avevano dato ragione alle teoriche di Davy e di Lidenbrock; fin qui condizioni particolari di roccie refrattarie, d’elettricità, di magnetismo, avevano modificato le leggi generali della natura, creando una temperatura moderata, perocchè la teorica del fuoco centrale rimaneva ai miei occhi la sola vera, la sola esplicabile. Ritornavamo noi dunque in un mezzo dove tali fenomeni si compivano in tutto il loro rigore e in cui il calore riduceva le roccie ad un perfetto stato di fusione? Così temevo e lo dissi al professore. «Se non siamo annegati o frantumati e se non moriamo di fame, ci rimane sempre la speranza di essere arsi vivi.» Egli si accontentò di stringersi nelle spalle e ricadde nelle sue riflessioni. Trascorse un’ora e tranne un leggiero accrescimento di temperatura, nessun incidente modificò la nostra situazione. Infine mio zio ruppe il silenzio. «Vediamo, diss’egli, convien prendere un partito. — Prendere un partito? ribattei. — Sì, convien riparare le nostre forze. Se noi cerchiamo, risparmiando questi avanzi di nutrimento, di prolungare la nostra esistenza di alcune ore, saremo deboli sino alla fine. — Sì, fino alla fine, che non si farà molto aspettare. — Ebbene, se una probabilità di salvezza si presenti, se sia necessario un momento di azione, dove troveremo noi la forza di agire, lasciandoci così indebolire dall’inedia? — E quando avremo divorato questo pezzo di carne che cosa ci rimarrà? — Nulla, Axel, nulla; ma nutrirà forse di più mangiandolo cogli occhi? Tu ragioni come un uomo senza volontà, come un essere senza energia! — Non disperate voi dunque? esclamai irritato. — No, replicò fermamente il professore. — Come, voi credete ancora alla salvezza? — Sì, certo; fino a tanto che il suo cuore batte e la sua carne palpita, io non ammetto che una creatura dotata di volontà ceda alla disperazione.» Quali parole! Certo l’uomo che le pronunciava in siffatta occorrenza era di tempra poco comune. «Infine, diss’io, che pretendete di fare? — Mangiare ciò che rimane di nutrimento fino all’ultima briciola, per riparare le forze perdute. Questo pasto sarà l’ultimo, sia; ma almeno invece di essere sfiniti, ridiverremo uomini. — Ebbene divoriamo,» esclamai. Mio zio prese il pezzo di carne e i pochi biscotti scampati al naufragio, fece tre porzioni eguali e le distribuì. Mangiammo. Hans aveva, rifrugando bene, trovato un fiaschetto semipieno di ginepro; ce l’offrì, ed il benefico liquore ebbe il potere di rianimarci alquanto. «Förtrafflig! disse Hans bevendo a sua volta. — Eccellente! rispose mio zio.» Io aveva ripreso qualche speranza, ma il nostro ultimo pasto era finito. Erano allora le cinque del mattino. Ciascuno si abbandonò alle sue riflessioni. Per parte mia i miei pensieri non erano fatti che di ricordi, e questi mi riconducevano alla superficie della Terra che non avrei giammai dovuto lasciare. La casa di Königstrasse, la mia povera Graüben e la buona Marta mi passarono come visioni innanzi agli occhi, e nei murmuri lugubri che correvano attraverso la massa terrestre io credeva d’udire i rumori delle città della Terra. Quanto a mio zio, sempre intento ai suoi negozi, colla torcia in mano esaminava attento la natura dei terreni, cercando di riconoscere la sua posizione dall’osservazione degli strati sovrapposti. «Granito eruttivo, diceva egli; siamo ancora nell’epoca primitiva; ma noi saliamo, noi saliamo; chissà, chissà!» Egli sperava sempre; tastava colla mano la parete verticale e alcuni istanti dopo ricominciava così: «Ecco lo gneis, ecco i micaschisti! benissimo, presto avremo i terreni dell’epoca di transizione, ed allora...» Che voleva dire il professore? poteva egli misurare lo spessore della scorza terrestre sospesa sul nostro capo? Possedeva egli un mezzo qualunque di fare codesto calcolo? No, chè il manometro gli mancava, e nessuna stima poteva supplirne l’uffizio. Intanto la temperatura aumentava in forti proporzioni, ed io mi sentiva bagnato in mezzo ad un’atmosfera ardente. Nè sapevo altrimenti paragonarla che al calore mandato dai fornelli d’una fonderia nell’ora del getto. A poco a poco, Hans, mio zio ed io, avevamo dovuto spogliare i nostri abiti e i nostri panciotti. La menoma veste diveniva causa di malessere, per non dire di sofferenza. «Risaliamo noi dunque verso un focolare incandescente? esclamai a un punto ove il calore raddoppiava. — No, rispose mio zio, è impossibile, è impossibile. — Tuttavia, dissi toccando la parete, questa muraglia è ardente!» Mentre pronunciavo tali parole, la mia mano sfiorò l’acqua e dovetti ritrarla rapidamente. «L’acqua scotta!» esclamai. Il professore stavolta non rispose che con un gesto di collera. Allora, uno spavento invincibile s’impadronì del mio cervello e non lo lasciò più. Avevo il sentimento d’una prossima catastrofe, quale la più audace immaginazione non avrebbe potuto concepire. Alla luce pallida delle torcie osservai movimenti disordinati negli strati quarziarii; evidentemente stava per prodursi un fenomeno nel quale l’elettricità dovea avere una parte. Eppoi il calore eccessivo... l’acqua bollente... volli osservare la bussola. Era impazzata. XLIII. Sì, impazzata! L’ago balzava da un polo all’altro con brusche scosse, percorreva tutti i punti del quadrante, e girava come se fosse stato colto da vertigine. Sapevo benissimo che, secondo le teoriche più accettate, la scorza minerale del globo non è mai in uno stato di riposo assoluto. Le modificazioni cagionate dalla decomposizione delle materie interne, l’agitazione proveniente dalle grandi correnti liquide, l’azione del magnetismo, tutto ciò che tende incessantemente a commuoverla, anche quando gli esseri disseminati alla sua superficie non ne hanno sospetto. Questo fenomeno non mi avrebbe dunque spaventato o almeno non avrebbe fatto nascere nel mio spirito un’idea terribile. Ma altri fatti, certi particolari sui generis, non poterono ingannarmi più lungamente, Le detonazioni si moltiplicavano con spaventevole intensità, nè io potei paragonarle che al rumore di un gran numero di carri trascinati rapidamente sul suolo. Era uno scroscio continuo di tuono. Eppoi la bussola imbizzarrita, scossa dai fenomeni elettrici, mi confermava nella mia opinione. La scorza minerale minacciava di frangersi, le masse granitiche di ricongiungersi, l’abisso di colmarsi, e noi poveri atomi stavamo per essere schiacciati nella formidabile stretta. «Zio, zio! esclamai, siamo perduti! — Che cosa è questo nuovo terrore? mi rispose con una serenità ammirabile; che hai tu dunque? — Che ho? osservate le muraglie che si agitano, queste masse che si muovono, questo calore torrido, quest’acqua che ribolle, questi vapori che si raddensano, e quest’ago pazzo! Tutti gli indizi d’un terremoto! » Mio zio tentennò lentamente la testa. «Un terremoto? diss’egli. — Sì! — Giovinotto mio, credo che t’inganni. — Come! non riconoscete i sintomi?... — D’un terremoto? no, io m’aspetto di meglio. — Che volete dire ? — Un’eruzione, Axel. — Un’eruzione! dissi: noi siamo adunque nel camino d’un vulcano in azione! — Così credo, disse il professore sorridendo, ed è la massima fortuna che possa toccarci. » La massima fortuna! Mio zio era dunque diventato pazzo! Che cosa significavano quelle parole? perchè quella calma e quel sorriso? «Come! esclamai, noi siamo in mezzo ad un’eruzione! la fatalità ci ha gettato sul cammino delle lave incandescenti, delle roccie infuocate, delle acque bollenti, di tutte le materie eruttive! Noi stiamo per essere respinti, espulsi, rigettati, vomitati, espettorati nell’aria, insieme coi massi di roccie, colla pioggia di ceneri e di scorie, in un turbine di fiamme; e questa è la nostra massima fortuna? — Sì, rispose il professore guardandomi per di sopra ai suoi occhiali, poichè è il solo mezzo di ritornare alla superficie della Terra.» Sorvolo alle mille idee che si avvicendarono nel mio cervello. Mio zio aveva ragione, assolutamente ragione, nè mai egli mi parve più audace, nè più convinto, di questo momento in cui aspettava tranquillo e misurava la probabilità d’un’eruzione. Intanto salivamo sempre; passò la notte in siffatto movimento d’ascensione. Era evidente che noi eravamo portati in alto da una spinta eruttiva. Sotto la zattera vi erano acque bollenti e sotto le acque una pasta di lava, un aggregato di roccie, che giunto al sommo del cratere si disperderebbero in tutte le direzioni. Eravamo dunque nella strada d’un vulcano. Su ciò non v’era dubbio di sorta. Ma questa volta invece dello Sneffels, vulcano spento, si trattava d’un vulcano in azione. Ora io mi domandavo quale potesse essere codesta montagna e in qual parte di mondo noi saremmo espulsi. Nelle regioni settentrionali, non v’era alcun dubbio. Prima che impazzisse, la bussola non aveva mai variato e dal capo Saknussemm eravamo stati trascinati direttamente al nord per centinaia di leghe. Eravamo noi ritornati sotto l’Islanda? Dovevamo essere espulsi dal cratere dell’Ecla, o da uno di quelli dei sette altri monti ignivomi dell’isola? Per un raggio di settecentoventi leghe all’ovest, io non vedevo sotto questo parallelo, se non i vulcani poco noti della costa nord-ovest dell’America. Nell’est uno solo ne esisteva sotto l’80° di latit.: l’Esk, nell’isola di Jean-Mayen non lungi dallo Spitzberg. Certo i crateri non facevano difetto, erano abbastanza ampi per eruttare un intero esercito! Ma quale di essi ci servirebbe d’uscita, questo io mi adoperava ad indovinare. Verso il mattino, il movimento d’ascensione si accelerò, Se il calore crebbe anzichè diminuire nell’accostarci alla superficie del globo, gli è che era del tutto locale e dovuto ad un’influenza vulcanica. La nostra maniera di locomozione non poteva lasciarmi dubbio di sorta nello spirito. Eravamo spinti irresistibilmente da una forza enorme di parecchie centinaia di atmosfere, prodotta dai vapori accumulati nel seno della Terra. Ma a quali pericoli innumerevoli eravamo noi esposti! Non andò molto che rossastri riflessi penetrarono nella galleria verticale che si allargava vie più: vedevo a dritta ed a mancina profondi corridoi a somiglianza d’immensi tunnel donde sfuggivano densi vapori; lingue di fiamme ne lambivano le pareti scoppiettando. «Guardate, guardate, zio! esclamai. — Ebbene sono fiamme sulfuree. Nulla di più naturale in una eruzione. — Ma se ci avviluppano? — Non ci avvilupperanno. — E se soffochiamo? — Non soffocheremo. La galleria si allarga, e se farà bisogno abbandoneremo la zattera per ripararci in qualche crepaccio. — E l’acqua! e l’acqua che sale? — Non c’è più acqua, Axel, ma una specie di pasta di lava che ci solleva fino all’orifizio del cratere.» La colonna liquida era infatti sparita cedendo a materie eruttive, dense abbastanza sebben ribollenti. La temperatura diveniva insopportabile; un termometro esposto in quella atmosfera avrebbe segnato più di 70 gradi! Il sudore m’inondava, e certo se non era la rapidità della ascensione, noi saremmo stati soffocati. Tuttavia il professore non si attenne al partito di abbandonare la zattera e fece bene. Quelle poche assicelle mal connesse offrivano una superficie solida, un punto d’appoggio che altrove ci sarebbe mancato. Verso le otto del mattino un nuovo incidente avvenne per la prima volta. Il movimento d’ ascensione cessò d’improvviso e la zattera rimase assolutamente immobile. «Che avviene? domandai sbattuto dalla fermata subitanea come da un urto. — Una fermata, rispose mio zio. — Forse che l’eruzione si calma? — Spero di no.» Mi rizzai in piedi e cercai di vedere intorno a me. Forse la zattera, trattenuta da una sporgenza di roccia, opponeva una momentanea resistenza alla massa eruttiva, ed in tal caso conveniva affrettare a farla libera al più presto. Ma così non era. La colonna di cenere, di scorie e di frantumi petrosi aveva anch’essa cessato di salire. «Forse che l’eruzione si arresta? sclamai. — Tu lo temi, giovinotto mio? disse mio zio coi denti stretti; ma ti rassicura, questo momento di calma non può prolungarsi; ecco, sono già cinque minuti che dura; fra poco ricomincieremo la nostra ascensione verso l’orifizio del cratere.» ll professore così parlando non cessava di consultare il suo cronometro, e doveva ancora aver ragione ne’ suoi pronostici poichè non andò molte che la zattera fu sollevata di nuovo da un movimento rapido e disordinato che durò circa due minuti; poi s’arrestò un’altra volta. «Benissimo, disse mio zio osservando l’ora; fra dieci minuti si rimetterà in viaggio. — Dieci minuti? — Si, noi abbiamo a fare con un vulcano la cui eruzione è intermittente; egli ci lascia respirare con lui.» La cosa era verissima. Al minuto indicato fummo nuovamente lanciati con estrema rapidità e fu necessario ci avviticchiassimo alle travi per non essere sbalzati fuor della zattera. Poi la spinta s’arrestò. Ho di poi pensato a questo singolare fenomeno senza trovarne una spiegazione soddisfacente. Tuttavia mi pareva evidente che noi non occupavamo il camino principale del vulcano, ma piuttosto un condotto accessorio in cui si faceva sentire un effetto di contraccolpo. Quante volte si rinnovasse questa manovra non saprei dire. Solo posso affermare che ogni volta che ci rimettevamo in moto eravamo lanciati con forza crescente e come portati da una vera palla da cannone. Nei momenti di riposo si soffocava, e durante la corsa l’aria ardente mi toglieva il respiro. Non ho dunque serbato alcuna memoria precisa di ciò che avvenisse durante le ore seguenti. Mi rimane il sentimento confuso di continue detonazioni, dell’agitazione della massa terrestre e d’un movimento in giro da cui fu presa la zattera, la quale ondulò sopra flutti di lave in mezzo ad una pioggia di cenere e fu involta da fiamme muggenti. Un uragano che pareva eccitato da un immenso ventilatore ravvivava i fuochi sotterranei. Per l’ultima volta la faccia d’Hans m’apparve in un riflesso infuocato e non ebbi più altro sentimento tranne il sinistro terrore dei condannati attaccati alla bocca di un cannone nel momento in cui il colpo parte e disperde le loro membra nell’aria. XLIV. Quando riapersi gli occhi mi sentii stretto alla cintola dalla mano vigorosa della guida. Coll’altra mano egli sorreggeva mio zio. Non ero gravemente ferito, sibbene affranto da una stanchezza generale. Mi vidi coricato sul versante d’una montagna a due passi da un abisso nel quale il menomo movimento mi avrebbe precipitato. Hans m’aveva salvato da morte mentre io rotolava sui fianchi del cratere. «Dove siamo?» domandò mio zio il quale mi parve molto irritato d’essere ritornato sulla Terra. Il cacciatore alzò le spalle in segno d’ignoranza. «In Islanda? diss’io. — Nej, rispose Hans, — Come! no? esclamò il professore. — Hans s’inganna, diss’io sollevandomi. Dopo le innumerevoli sorprese di siffatto viaggio, una stupefazione m’era ancor serbata. Io m’aspettava di vedere un cono coperto di nevi eterne nel mezzo di aridi deserti delle regioni settentrionali, sotto i pallidi raggi d’un cielo polare, al di là delle più elevate latitudini; e contrariamente a tutte le previsioni, mio zio, l’Islandese ed io eravamo stesi a mezzo il fianco d’una montagna calcinata dagli ardori del sole che ci divorava co’ suoi raggi. Io non voleva credere a’ miei occhi, ma il bruciore del corpo non mi lasciava dubbio di sorta. Eravamo usciti seminudi dal cratere, e l’astro radioso, al quale non avevamo domandato nulla da due mesi, mostrandosi verso di noi prodigo di luce e di calore, ci versava a torrenti una splendida irradiazione. Quando i miei occhi furono avvezzi a tale splendore, di cui avevano perduto l’abitudine, me ne servii a correggere gli errori della mia immaginazione. Io voleva essere allo Spitzberg per lo meno, ed ero disposto a non cedere virgola. Il professore aveva preso la parola per il primo e disse: «Infatti, ecco un panorama che non rassomiglia all’Islanda. — Ma l’isola di Jean-Mayen? rispos’io. — Nemmeno, giovinotto mio, questo non è certo un vulcano del nord colle sue colline di granito e una calotta di neve. — Pure... — Guarda, Axel, guarda.» Sopra il nostro capo, a cinquecento piedi all’incirca, si apriva il cratere d’un vulcano dal quale sfuggiva ogni quarto d’ora, con uno scoppio rumoroso, un’alta colonna di fiamme miste a pietre pomici, a ceneri ed a lave. Sentivo le convulsioni della montagna che respirava alla maniera delle balene gettando ogni tanto il fuoco e l’aria dagli enormi sfiatatoi. Al di sotto, per una china rapida, gli strati di materie eruttive si stendevano alla profondità di sette a ottocento piedi, ciò che non dava al vulcano un’altezza totale di trecento tese. La sua base spariva in una vera cesta di alberi verdeggianti fra i quali distinguevo gli ulivi, i fichi e le viti cariche di grappoli vermigli. Bisognava pure convenirne, non era punto l’ aspetto delle regioni artiche. Lo sguardo, passata la cinta verdeggiante, giungeva rapidamente a perdersi nelle acque d’un mare ammirabile o di un lago, il quale faceva di questa terra incantata un’isola larga appena qualche lega. A levante si vedeva un piccolo porto preceduto da alcune case, nel quale si dondolavano ai capricci dei flutti azzurri alcune navicelle di forma speciale. Più oltre gruppi d’isole uscivano dalla limpida pianura e così numerose che rassomigliavano a un vasto formicaio. A ponente, coste lontane si disegnavano nell’orizzonte. Sulle une si scorgevano i profili di montagne azzurrognole conformate armonicamente: sulle altre più lontane appariva un cono prodigiosamente elevato, sul vertice del quale si agitava un pennacchio di fumo. Nel nord un’immensa distesa d’acque scintillava ai raggi del sole lasciando apparire qua e là l’estremità d’un’alberatura o la convessità d’una vela gonfiata dal vento. L’impreveduto centuplicava le meravigliose bellezze di simile spettacolo, «Dove siamo noi, dove siamo noi?» io ripeteva sotto voce. Hans chiudeva gli occhi indifferente e mio zio guardava senza comprendere, Qualunque sia questa montagna, diss’egli finalmente, vi fa un po’caldo. Le esplosioni non cessano, e non metterebbe davvero il conto d’essere usciti da una eruzione per ricevere un pezzo di roccia sulla testa. Discendiamo e sapremo il fatto nostro. D’altra parte io muoio di fame e di sete. Assolutamente il professore non era uno spirito contemplativo. Per parte mia, dimentico dei bisogni e delle fatiche, sarei rimasto in quel luogo per lunghe ore ancora, ma mi bisognò seguire i miei compagni. La scarpa del vulcano offriva rapidissimi pendii. Noi scivolavamo su vere frane di cenere evitando i rivi di lava che si allungavano come serpenti di fuoco. Nel discendere io parlava con volubilità, perchè la mia immaginazione era così piena che abbisognava proprio d’uno sfogo di parole. «Siamo in Asia, esclamai, sulle coste dell’India, nell’isole Malesi, nel mezzo dell’Oceania. Abbiamo attraversato la metà del globo per riuscire agli antipodi di Europa. — Ma la bussola? rispondeva mio zio. — Sì, la bussola, dicevo io imbarazzato; a prestarle fede noi abbiamo sempre camminato verso il nord; essa ha dunque mentito? — Oh! mentito! — Se pure questo non è il polo nord. — Il polo? No, ma...» Il fatto era inesplicabile. Io non sapeva che pensare. Frattanto ci accostavamo a quella verdura che appagava l’occhio. La fame mi tormentava e la sete anche: per buona sorte dopo due ore di viaggio una bella campagna si offrì ai nostri sguardi interamente coperta di ulivi, di melagrani e di viti che parevano appartenere a tutti. D’altra parte, nella nostra condizione non eravamo uomini da badare tanto pel sottile. Quale godimento fu quello di appressare i frutti saporiti alle labbra e di mordere i grappoli vermigli di quei vigneti! Poco lungi nell’erba, all’ombra deliziosa degli alberi, scoprii una sorgente d’acqua fresca in cui tuffammo voluttuosamente le mani ed il viso. Mentre ciascuno si abbandonava di tal guisa a tutte le dolcezze del riposo, un fanciullo apparve fra due macchie d’ulivi. «Ah! esclamai, ecco un abitante di questa felice contrada?» Era una specie di piccolo mendicante, vestito poverissimamente, d’aspetto infermiccio, e che parve molto spaventato nel vederci. Infatti, seminudi, colla barba incolta, avevamo fisonomie assai tristi, ed a meno che quel paese non fosse un paese di ladri eravamo fatti apposta per spaventare gli abitanti. Mentre quel ragazzo stava per prender la fuga, Hans gli corse dietro e lo ricondusse malgrado le sue grida e i suoi calci. Mio zio cominciò col rassicurarlo del suo meglio, e gli disse in buon tedesco: «Qual’è il nome di questa montagna, piccino mio? Il fanciullo non rispose. «Benissimo,» disse mio zio, non siamo in Germania. E gli ripetè la stessa domanda in inglese. Il fanciullo non rispose neppure. Io era imbarazzatissimo. «Sarebb’egli muto?» gridò il professore, il quale orgoglioso d’essere poliglotta ricominciò la stessa domanda in francese. Stesso silenzio del fanciullo. Proviamo l’italiano, e chiese in questa lingua. «Dove siamo? — Si! dove siamo noi?» ripetevo con impazienza. Ma il fanciullo non rispose. «Orsù! vorrai parlare sì o no? gridò mio zio vinto dalla collera e scuotendo il fanciullo per le orecchie: Che nome ha quest’isola? — Stromboli,» rispose il pastorello che sfuggì dalle mani di Hans e guadagnò la pianura attraverso gli ulivi. Non ci davamo più pensiero di lui. Lo Stromboli! quale effetto produsse sulla mia immaginazione questo nome inaspettato! Noi eravamo nel Mediterraneo, nel mezzo dell’arcipelago eolio di mitologica memoria, nell’antico Strongile, in cui Eolo teneva incatenati i venti e le tempeste. E le montagne azzurre che si arrotondavano al levante erano le montagne della Calabria, e quel vulcano che si rizzava all’orizzonte verso il sud era l’Etna, proprio il fiero Etna! «Stromboli, Stromboli!» ripetevo. Mio zio mi accompagnava co’ gesti e colle parole; avevamo l’aria di cantare in coro. Ah! qual viaggio, qual maraviglioso viaggio! Entrati da un vulcano, eravamo usciti da un altro, e questo era posto a più di mille dugento leghe dallo Sneffels, da quell’arido paese dell’Islanda, posto ai confini del mondo! Le vicende della spedizione ci avevano trasportato in seno alle più armoniose contrade della terra. Avevamo lasciato le regioni delle nevi eterne per quelle verdure senza fine, e lasciato al disopra delle nostre teste le grigie nebbie delle zone agghiacciate per venire al cielo azzurro della Sicilia. Dopo un pasto delizioso, composto di frutta e d’acqua fresca, ci rimettemmo in cammino per guadagnare il porto di Stromboli. Non ci parve cosa prudente dire in che modo fossimo arrivati nell’isola. Lo spirito superstizioso degli Italiani avrebbe certo visto in noi demoni vomitati dall’inferno; bisognò dunque rassegnarsi a passare per umili naufraghi. Era meno glorioso ma più sicuro. Cammin facendo, intesi mio zio mormorare: «Ma la bussola la bussola che marcava il nord! Come spiegare questo fatto? — In fede mia, diss’io disdegnosamente, non bisogna spiegarlo; è più facile. — Questo poi! Un professore dell’Johannaeum, che non trovasse la ragione di un fenomeno cosmico sarebbe, sarebbe una vergogna!» Così parlando, mio zio, seminudo, colla sua borsa di cuojo attorno alle reni, appuntando gli occhiali al naso, ridivenne il terribile professore di mineralogia. Un’ora dopo aver lasciato il bosco degli ulivi, arrivammo al porto di S. Vincenzo, dove Hans reclamò il prezzo della sua tredicesima settimana di servigio, che gli fu contato con calorose strette di mano. In quel momento. s’egli non provò la commozione nostra, si lasciò per altro andare ad un movimento d’espansione straordinaria. Coll’estremità delle dita, egli strinse leggermente le nostre due mani e sorrise. XLV. Ecco la conclusione d’un racconto al quale non vorranno credere le persone più avvezze a non meravigliare di nulla. Ma io sono corazzato in anticipazione contro l’incredulità umana. Noi fummo ricevuti dai pescatori stromboliotti, coi riguardi dovuti a naufraghi. Essi ci diedero vesti e viveri. Dopo quarantott’ore di aspettazione, il 31 agosto, una navicella ci portò a Messina, dove alcuni giorni di riposo bastarono a rimetterci di tutte le nostre fatiche. Il venerdì 4 settembre, c’imbarcavamo a bordo del Volturno, uno dei vapori postali delle Messaggerie Imperiali di Francia, e tre giorni dopo approdavamo a Marsiglia, non avendo più se non un pensiero in mente, quello della nostra maledetta bussola. Questo fatto inesplicabile non mi dava requie. Il 9 settembre, alla sera, arrivammo ad Amburgo. Quale fu lo stupore di Marta, quale la gioia di Graüben, io rinuncio a descriverle. «Ora che tu sei un eroe, mi disse la mia diletta fidanzata, non avrai bisogno di lasciarmi, Axel.» Io la guardava. Essa piangeva sorridendo. Lascio pensare quale commozione producesse in Amburgo il ritorno del professore Lidenbrock. Per le indiscrezioni di Marta, la notizia della sua partenza pel centro della Terra si era sparsa nel mondo intero. Non vi si volle credere e rivedendolo non vi si credette meglio. Tuttavia la presenza di Hans e varie informazioni venute dall’Islanda modificarono a poco a poco l’opinione pubblica, Allora mio zio divenne un grand’uomo, ed io il nipote d’un grand’uomo, ed è già qualche cosa. Amburgo diede una festa in onor nostro. Allo Johannaeum ebbe luogo un’adunanza pubblica, in cui il professore raccontò la sua spedizione, non ommettendo se non i fatti relativi alla bussola. Nel medesimo giorno egli depose negli archivi della città il documento di Saknussemm, ed espresse il suo vivo dispiacere pel fatto che, avvenimenti più forti della sua volontà, non gli avessero permesso di seguire fino al centro della Terra le traccie del viaggiatore islandese. Fu modesto nella gloria, e la sua riputazione crebbe, Tanto onore doveva necessariamente suscitargli intorno degli invidiosi. Egli ne ebbe, e siccome le sue teoriche, fondate sopra fatti certi, contraddicevano i sistemi della scienza sulla questione del fuoco centrale, dovette sostenere colla penna e colla parola discussioni importantissime cogli scienziati d’ogni paese. Per parte mia, non posso ammettere la sua teorica del raffreddamento e, nonostante ciò che ho visto, credo e crederò sempre al calore centrale. Ma confesso che certe condizioni ancora mal definite possono modificare siffatta legge sotto l’azione di fenomeni naturali. «Färval» ci disse un giorno Hans: e con questa semplice parola d’addio parti per Reykjawick dove giunse felicemente. Eravamo singolarmente affezionati al nostro cacciatore di eider. La sua assenza non lo farà giammai dimenticare da coloro a cui egli ha salvato la vita, E certo io non morrò senza averlo riveduto un’altra volta. Per finire devo aggiungere che questo viaggio al centro della Terra fece grande impressione nel mondo. Fu stampato e tradotto in tutte le lingue. Cosa rara! mio zio godeva vivente di tutta la gloria ch’egli aveva acquistata, tanto che il signor Barnum gli propose di metterlo in mostra negli Stati dell’Unione a prezzo elevatissimo. Ma un pensiero o meglio un tormento si cacciava di mezzo a tanta gloria: un fatto rimaneva inesplicabile, quello della bussola; ora per uno scienziato, simile fenomeno misterioso è un supplizio dell’intelligenza. Ma il cielo serbava a mio zio una fortuna completa. Un giorno, ponendo in ordine una collezione di minerali del suo gabinetto, vidi la famosa bussola e l’osservai. Da sei mesi era là nel suo cantuccio, ignara degli affanni di cui era cagione. D’un tratto, qual fu il mio stupore! gettai un grido e il professore accorse, «Che c’è? domandò egli. — Questa bussola!... — Ebbene? — Il suo ago indica il sud e non il nord. — Che dici? — Guardate! i poli sono mutati. — Mutati!» Mio zio guardò, confrontò e fe’ tremare la casa con un balzo superbo. Qual luce rischiarava a un tempo il suo spirito e il mio! «Cosicchè, esclamò egli quando potè parlare, dal nostro arrivo al capo Saknussemm, l’ago di questa dannata bussola marcava il sud invece del nord. — Evidentemente. — Ora il nostro errore si spiega: ma qual fenomeno ha potuto produrre tale rovesciamento dei poli? — Nulla di più semplice. — Spiegati, giovinotto mio, — Durante l’uragano, sul mare Lidenbrock, quella palla di fuoco che calamitava il ferro della zattera aveva semplicemente disorientato la bussola. — Ah! esclamò il professore, scoppiando dalle risa, era dunque un tiro dell’elettricità!» Da quel giorno in poi, mio zio fu il più felice degli scienziati, ed io il più felice degli uomini, poichè la mia bella Virlandese, abdicando al suo stato di pupilla, prese posto nella casa di Königstrasse, nella doppia qualità di nipote e di sposa. Inutile aggiungere che suo zio fu l’illustre professore Otto Lidenbrock, membro corrispondente di tutte le società scientifiche, geografiche e mineralogiche delle cinque parti del mondo. FINE.