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«Vieni, disse mio zio, e pigliamo il largo.»

Hans diè una spinta vigorosa. La zattera si allontanò d’una ventina di tese dalla sponda. Era un momento d’ansietà. Il professore seguiva coll’occhio la lancetta del cronometro.

«Ancora cinque minuti, diceva egli. Ancora quattro, ancora tre!»

Il mio polso segnava i mezzi secondi.

«Ancora due! Uno!... Crollate montagne di granito!»

Che cosa avvenne allora? Il rumore dello scoppio credo ch’io non l’intesi; ma le roccie si trasformarono d’un subito a’ miei occhi e si aprirono come una tenda. Vidi un profondo abisso, che si scavava nella riva. Il mare, come preso da vertigine, non fu più che un’onda enorme sul dorso della quale la zattera si drizzò perpendicolarmente.

Fummo rovesciati tutti e tre. In meno d’un secondo la luce cedette alla più profonda oscurità; poi sentii l’appoggio solido mancare, non già sotto i miei piedi, ma sotto la zattera. Credetti che colasse a picco. Ma non fu così. Avrei voluto rivolgere la parola a mio zio, il muggito delle acque gli avrebbe tolto d’intendermi.

Nonostante le tenebre, il rumore, la meraviglia, la commozione, io compresi ciò che era avvenuto.

Al di là della roccia scoppiata esisteva un abisso; l’esplosione aveva cagionato una specie di terremoto in quel suolo tutto a crepacci: l’abisso si era aperto e il mare mutato in torrente ci trascinava seco.

Mi sentii perduto.

Un’ora, due ore, che so io! corsero di tal guisa. Noi ci stringevamo i gomiti e ci tenevamo per mano per non essere sbalzati fuor della zattera. Di tanto in tanto urtavamo violentemente contro la muraglia; ma codesti urti erano rari; donde io conclusi che la galleria si allargava di molto. Era senza alcun dubbio la via di Saknussemm; ma invece di discenderla da soli, avevamo con la nostra imprudenza trascinato un intero mare con noi.

Si capisce che queste idee si presentarono al mio spirito in forma vaga ed oscura. Io le associava con difficoltà durante quella corsa vertiginosa somigliante molto ad una caduta, perchè a giudicare dall’aria che mi flagellava il viso, doveva passare la velocità dei convogli più rapidi. Accendere una torcia in siffatte condizioni era [p. 179 modifica]impossibile, e il nostro ultimo apparecchio elettrico era stato spezzato nel momento dello scoppio.

Fui dunque meravigliato di vedere una luce brillare d’un tratto vicino a me. La serena figura di Hans fu rischiarata. L’abile cacciatore era riuscito ad accendere la lanterna, e benchè la fiamma vacillasse, minacciando d’estinguersi, gettò qualche bagliore nella spaventevole oscurità. La galleria era larga ed io aveva avuto ragione di giudicarla tale. La luce insufficiente non ci permette-va di scorgere ad un tempo le due muraglie. La furia delle acque che ci portavano, superava quella delle più insormontabili correnti dell’America. La loro superficie pareva fatta d’un fascio di freccie liquide scoccate con estrema violenza: non saprei tradurre la mia impressione con un paragone più acconcio.

La zattera travolta da certi gorghi, girava talvolta in-torno a sè stessa; e si accostava alle pareti della galleria; io vi dirigeva la luce della lanterna e poteva giudicare della mostra velocità vedendo le sporgenze delle roccie mutarsi in tratti continui, in guisa da poterci credere chiusi entro una rete di linee moventisi. Stimai che la nostra velocità dovesse raggiungere le trenta leghe all’ora.

Mio zio ed io ci guardavamo con occhio torbido, appoggiati all’albero che al momento della catastrofe s’era spezzato. Volgevamo le spalle all’aria, per non essere soffocati dalla rapidità d’un movimento che forza umana non poteva frenare. Intanto le ore passavano; la situazione non si mutava, ma un incidente venne a crescerne la complicazione.

Cercando di mettere un po’ d’ordine nel carico, m’accorsi che la maggior parte degli oggetti imbarcati erano spariti al momento dello scoppio, quando il mare ci assalì con tanta violenza.

Volli sapere esattamente che cosa pensare sui nostri mezzi, e colla lanterna in mano cominciai le mie ricerche. Degli strumenti non rimaneva più che la bussola e il cronometro: le scale e le corde si riducevano a un pezzo di gomena legata intorno all’albero; non una zappa, non un piccone, nè un martello; e per somma disgrazia non ci rimanevano viveri che per un giorno. Frugai negl’interstizii della zattera, negli angoli formati dalle travi e le commessure delle assi. Nulla! i nostri vi-veri consistevano solo in un pezzo di carne secca e [p. 180 modifica]in pochi biscotti. Guardavo stupidamente! non volevo comprendere. E pure di qual pericolo mi dava io pensiero? quando pure i viveri fossero stati sufficienti per mesi e per anni, come mai uscire dagli abissi in cui ci trascinava l’irresistibile torrente? a che valeva temere le torture della fame, quando la morte si offriva di già in tante altre forme? Morire d’inedia! forse che ne avevamo il tempo? Pure per un’inesplicabile bizzarria dell’immaginazione, io dimenticava il pericolo immediato per le minaccie dell’avvenire che mi apparve in tutto il suo orrore. D’altra parte, chi sa che non potessimo sfuggire ai furori del torrente e ritornare alla superficie del globo? In qual modo? lo ignoro. Dove? che monta! Una probabilità sopra mille è tuttavia una speranza, mentre la morte per fame non ci lasciava speranza di sorta. Mi venne il pensiero di dire tutto a mio zio, di mostrargli a qual penuria noi fossimo ridotti, e di far l’esatto calcolo del tempo che ci rimaneva a vivere. Ma ebbi il coraggio di tacermi, volendo lasciargli intera la sua serenità. In quella la luce della lanterna si oscurò a poco a poco, e si estinse del tutto. Il lucignolo s’era consumato: l’oscurità divenne un’altra volta assoluta e non bisognava più pensare a dissipare le tenebre impenetrabili. Ci rimaneva ancora una torcia, ma non avrebbe potuto tenersi accesa. Chiusi gli occhi come un fanciullo per non vedere tutta quella tenebria.

Dopo lungo tratto di tempo la velocità della corsa raddoppiò; me ne avvidi all’aria che mi batteva sul viso. Il pendio delle acque diveniva eccessivo; credo proprio che non scivolassimo più; cadevamo. Provavo l’impressione d’una caduta quasi verticale. La mano di mio zio e quella di Hans afferrandomi per le braccia mi trattenevano con vigore.

Di repente, dopo un tempo incalcolabile, sentii come un cozzo. La zattera non aveva urtato contro un corpo duro, ma s’era d’un tratto arrestata nella sua caduta. Una tromba d’acqua, un’immensa colonna liquida si rovesciò alla sua superficie. Fui soffocato. Annegavo.

Ma l’improvvisa inondazione non durò molto. In pochi secondi mi ritrovai all’aria libera che aspirai a pieni polmoni. Mio zio ed Hans mi stringevano il braccio fino a spezzarlo e la zattera ci portava ancora tutti e tre. [p. 181 modifica]

XLII.

Suppongo dovessero essere allora le dieci di sera. Il primo senso che entrò in funzione, dopo l’ultimo assalto, fu l’udito. Intesi subito, e fu un atto di vera audizione, intesi il silenzio succedere nella galleria ai muggiti che da molte ore intronavano le mie orecchie. Alla fine queste parole di mio zio mi giunsero come un murmure:

«Risaliamo...

— Che intendete dire? esclamai.

— Risaliamo, risaliamo.»

Stesi il braccio, toccai la muraglia; la mia mano fu rotta a sangue. Risalivamo con estrema rapidità.

«La torcia, la torcia!» gridò il professore.

A gran fatica Hans riuscì ad accenderla; la fiamma mantenendosi dal basso in alto nonostante il movimento d’ascensione gettò abbastanza luce per rischiarare tutt’intorno.

«È appunto ciò che io pensava, disse mio zio; siamo in un pozzo stretto che non ha quattro tese di diametro. L’acqua, giunta in fondo all’abisso, ripiglia il suo livello e ci porta in alto con essa.

— Dove?

— Non so, ma bisogna tenerci pronti a qualunque evento. Noi risaliamo con una velocità ch’io stimo di due tese al secondo, ossia di centoventi tese al minuto, più di tre leghe e mezzo all’ora; di questo passo si fa molto cammino.

— Sì, se nulla ci arresta e se il pozzo ha un’uscita! Ma s’esso è chiuso? se l’aria si comprime a poco a poco sotto la pressione della colonna d’acqua? Se noi stiamo per essere schiacciati?

— Axel, rispose il professore con voce severa, la situazione è quasi disperata; ma vi hanno alcune probabilità di salvezza e sono quelle che io esamino. Se ad ogni istante possiamo perire, ad ogni istante pure possiamo essere salvati. Poniamoci dunque in grado di profittare dei più piccoli incidenti.

— Ma che fare? [p. 182 modifica]

— Riparare le nostre forze mangiando.»

A tali parole io guardai mio zio con occhio smarrito; ciò che non avevo voluto confessare mi bisognava dirlo.

«Mangiare? ripetei; — Sì, senza indugio.»

Il professore aggiunse qualche parola in danese; Hans tentennò il capo.

«Come, esclamò mio zio, i nostri viveri sono perduti?

— Sì; ecco ciò che ne rimane di viveri: un pezzo di carne secca in tre!»

Mio zio mi guardava senza voler comprendere le mie parole.

«Ebbene, dissi, credete che possiamo ancora essere salvati?»

La mia dimanda non ottenne risposta.

Passò un’ora ed incominciavo a provare una fame violenta, i miei compagni soffrivano anch’essi, e nessuno di noi osava toccare quel miserabile resto d’alimento.

Intanto salivamo sempre con estrema rapidità; alle volte l’aria ci toglieva il respiro come agli areonauti la cui ascensione è troppo rapida. Ma se costoro provano un freddo proporzionale a misura che si sollevano negli strati atmosferici, noi subivamo un effetto assolutamente contrario. Il calore cresceva in maniera inquietante, e doveva certamente toccare allora i quaranta gradi.

Che cosa significava tale mutamento?

Fin qui i fatti avevano dato ragione alle teoriche di Davy e di Lidenbrock; fin qui condizioni particolari di roccie refrattarie, d’elettricità, di magnetismo, avevano modificato le leggi generali della natura, creando una temperatura moderata, perocchè la teorica del fuoco centrale rimaneva ai miei occhi la sola vera, la sola esplicabile.

Ritornavamo noi dunque in un mezzo dove tali fenomeni si compivano in tutto il loro rigore e in cui il calore riduceva le roccie ad un perfetto stato di fusione?

Così temevo e lo dissi al professore.

«Se non siamo annegati o frantumati e se non moriamo di fame, ci rimane sempre la speranza di essere arsi vivi.»

Egli si accontentò di stringersi nelle spalle e ricadde nelle sue riflessioni.

Trascorse un’ora e tranne un leggiero accrescimento [p. 183 modifica]di temperatura, nessun incidente modificò la nostra situazione.

Infine mio zio ruppe il silenzio.

«Vediamo, diss’egli, convien prendere un partito.

— Prendere un partito? ribattei.

— Sì, convien riparare le nostre forze. Se noi cerchiamo, risparmiando questi avanzi di nutrimento, di prolungare la nostra esistenza di alcune ore, saremo deboli sino alla fine.

— Sì, fino alla fine, che non si farà molto aspettare.

— Ebbene, se una probabilità di salvezza si presenti, se sia necessario un momento di azione, dove troveremo noi la forza di agire, lasciandoci così indebolire dall’inedia?

— E quando avremo divorato questo pezzo di carne che cosa ci rimarrà?

— Nulla, Axel, nulla; ma nutrirà forse di più mangiandolo cogli occhi? Tu ragioni come un uomo senza volontà, come un essere senza energia!

— Non disperate voi dunque? esclamai irritato.

— No, replicò fermamente il professore.

— Come, voi credete ancora alla salvezza?

— Sì, certo; fino a tanto che il suo cuore batte e la sua carne palpita, io non ammetto che una creatura do-tata di volontà ceda alla disperazione.»

Quali parole! Certo l’uomo che le pronunciava in siffatta occorrenza era di tempra poco comune.

«Infine, diss’io, che pretendete di fare?

— Mangiare ciò che rimane di nutrimento fino all’ultima briciola, per riparare le forze perdute. Questo pasto sarà l’ultimo, sia; ma almeno invece di essere sfiniti, ridiverremo uomini.

— Ebbene divoriamo,» esclamai.

Mio zio prese il pezzo di carne e i pochi biscotti scampati al naufragio, fece tre porzioni eguali e le distribuì.

Mangiammo. Hans aveva, rifrugando bene, trovato un fiaschetto semipieno di ginepro; ce l’offrì, ed il bene-fico liquore ebbe il potere di rianimarci alquanto.

«Förtrafflig! disse Hans bevendo a sua volta.

— Eccellente! rispose mio zio.»

Io aveva ripreso qualche speranza, ma il nostro ultimo pasto era finito. Erano allora le cinque del mattino.

Ciascuno si abbandonò alle sue riflessioni. Per parte mia i miei pensieri non erano fatti che di ricordi, e questi mi riconducevano alla superficie della Terra che [p. 184 modifica]non avrei giammai dovuto lasciare. La casa di Königstrasse, la mia povera Graüben e la buona Marta mi passarono come visioni innanzi agli occhi, e nei murmuri lugubri che correvano attraverso la massa terrestre io credeva d’udire i rumori delle città della Terra.

Quanto a mio zio, sempre intento ai suoi negozi, colla torcia in mano esaminava attento la natura dei terreni, cercando di riconoscere la sua posizione dall’osservazione degli strati sovrapposti.

«Granito eruttivo, diceva egli; siamo ancora nell’epoca primitiva; ma noi saliamo, noi saliamo; chissà, chissà!»

Egli sperava sempre; tastava colla mano la parete verticale e alcuni istanti dopo ricominciava così:

«Ecco lo gneis, ecco i micaschisti! benissimo, presto avremo i terreni dell’epoca di transizione, ed allora...»

Che voleva dire il professore? poteva egli misurare lo spessore della scorza terrestre sospesa sul nostro capo? Possedeva egli un mezzo qualunque di fare codesto calcolo? No, chè il manometro gli mancava, e nessuna stima poteva supplirne l’uffizio.

Intanto la temperatura aumentava in forti proporzioni, ed io mi sentiva bagnato in mezzo ad un’atmosfera ardente.

Nè sapevo altrimenti paragonarla che al calore man-dato dai fornelli d’una fonderia nell’ora del getto. A poco a poco, Hans, mio zio ed io, avevamo dovuto spogliare i nostri abiti e i nostri panciotti. La menoma veste diveniva causa di malessere, per non dire di sofferenza.

«Risaliamo noi dunque verso un focolare incandescente? esclamai a un punto ove il calore raddoppiava.

— No, rispose mio zio, è impossibile, è impossibile.

— Tuttavia, dissi toccando la parete, questa mura-glia è ardente!»

Mentre pronunciavo tali parole, la mia mano sfiorò l’acqua e dovetti ritrarla rapidamente.

«L’acqua scotta!» esclamai.

Il professore stavolta non rispose che con un gesto di collera.

Allora, uno spavento invincibile s’impadronì del mio cervello e non lo lasciò più. Avevo il sentimento d’una prossima catastrofe, quale la più audace immaginazione non avrebbe potuto concepire. Alla luce pallida delle torcie osservai movimenti disordinati negli strati quarziarii; evidentemente stava per prodursi un fenomeno [p. 185 modifica]nel quale l’elettricità dovea avere una parte. Eppoi il calore eccessivo... l’acqua bollente... volli osservare la bussola.

Era impazzata.


XLIII.

Sì, impazzata! L’ago balzava da un polo all’altro con brusche scosse, percorreva tutti i punti del quadrante, e girava come se fosse stato colto da vertigine.

Sapevo benissimo che, secondo le teoriche più accettate, la scorza minerale del globo non è mai in uno stato di riposo assoluto. Le modificazioni cagionate dalla decomposizione delle materie interne, l’agitazione proveniente dalle grandi correnti liquide, l’azione del magnetismo, tutto ciò che tende incessantemente a commuoverla, anche quando gli esseri disseminati alla sua superficie non ne hanno sospetto. Questo fenomeno non mi avrebbe dunque spaventato o almeno non avrebbe fatto nascere nel mio spirito un’idea terribile.

Ma altri fatti, certi particolari sui generis, non poterono ingannarmi più lungamente, Le detonazioni si moltiplicavano con spaventevole intensità, nè io potei paragonarle che al rumore di un gran numero di carri trascinati rapidamente sul suolo. Era uno scroscio continuo di tuono.

Eppoi la bussola imbizzarrita, scossa dai fenomeni elettrici, mi confermava nella mia opinione. La scorza minerale minacciava di frangersi, le masse granitiche di ricongiungersi, l’abisso di colmarsi, e noi poveri atomi stavamo per essere schiacciati nella formidabile stretta.

«Zio, zio! esclamai, siamo perduti!

— Che cosa è questo nuovo terrore? mi rispose con una serenità ammirabile; che hai tu dunque?

— Che ho? osservate le muraglie che si agitano, queste masse che si muovono, questo calore torrido, quest’acqua che ribolle, questi vapori che si raddensa-no, e quest’ago pazzo! Tutti gli indizi d’un terremoto!»

Mio zio tentennò lentamente la testa.

«Un terremoto? diss’egli. [p. 186 modifica]

— Giovinotto mio, credo che t’inganni.

— Come! non riconoscete i sintomi?...

— D’un terremoto? no, io m’aspetto di meglio.

— Che volete dire?

— Un’eruzione, Axel.

— Un’eruzione! dissi: noi siamo adunque nel camino d’un vulcano in azione!

— Così credo, disse il professore sorridendo, ed è la massima fortuna che possa toccarci.»

La massima fortuna! Mio zio era dunque diventato pazzo! Che cosa significavano quelle parole? perchè quella calma e quel sorriso?

«Come! esclamai, noi siamo in mezzo ad un’eruzione! la fatalità ci ha gettato sul cammino delle lave incandescenti, delle roccie infuocate, delle acque bollenti, di tutte le materie eruttive! Noi stiamo per essere respinti, espulsi, rigettati, vomitati, espettorati nell’aria, insieme coi massi di roccie, colla pioggia di ceneri e di scorie, in un turbine di fiamme; e questa è la nostra massima fortuna?

— Sì, rispose il professore guardandomi per di sopra ai suoi occhiali, poichè è il solo mezzo di ritornare alla superficie della Terra.»

Sorvolo alle mille idee che si avvicendarono nel mio cervello. Mio zio aveva ragione, assolutamente ragione, nè mai egli mi parve più audace, nè più convinto, di questo momento in cui aspettava tranquillo e misurava la probabilità d’un’eruzione.

Intanto salivamo sempre; passò la notte in siffatto movimento d’ascensione. Era evidente che noi eravamo portati in alto da una spinta eruttiva. Sotto la zattera vi erano acque bollenti e sotto le acque una pasta di lava, un aggregato di roccie, che giunto al sommo del cratere si disperderebbero in tutte le direzioni. Eravamo dunque nella strada d’un vulcano. Su ciò non v’era dubbio di sorta.

Ma questa volta invece dello Sneffels, vulcano spento, si trattava d’un vulcano in azione. Ora io mi domandavo quale potesse essere codesta montagna e in qual parte di mondo noi saremmo espulsi.

Nelle regioni settentrionali, non v’era alcun dubbio. Prima che impazzisse, la bussola non aveva mai variato e dal capo Saknussemm eravamo stati trascinati direttamente al nord per centinaia di leghe. Eravamo noi ritornati [p. 187 modifica]sotto l’Islanda? Dovevamo essere espulsi dal cratere dell’Ecla, o da uno di quelli dei sette altri monti ignivomi dell’isola? Per un raggio di settecentoventi leghe all’ovest, io non vedevo sotto questo parallelo, se non i vulcani poco noti della costa nord-ovest dell’America. Nell’est uno solo ne esisteva sotto l’80° di latit.: l’Esk, nell’isola di Jean-Mayen non lungi dallo Spitzberg. Certo i crateri non facevano difetto, erano abbastanza ampi per eruttare un intero esercito! Ma quale di essi ci servirebbe d’uscita, questo io mi adoperava ad indovinare.

Verso il mattino, il movimento d’ascensione si accelerò, Se il calore crebbe anzichè diminuire nell’accostarci alla superficie del globo, gli è che era del tutto locale e dovuto ad un’influenza vulcanica. La no-stra maniera di locomozione non poteva lasciarmi dubbio di sorta nello spirito. Eravamo spinti irresistibilmente da una forza enorme di parecchie centinaia di atmosfere, prodotta dai vapori accumulati nel seno della Terra. Ma a quali pericoli innumerevoli eravamo noi esposti!

Non andò molto che rossastri riflessi penetrarono nella galleria verticale che si allargava vie più: vedevo a dritta ed a mancina profondi corridoi a somiglianza d’immensi tunnel donde sfuggivano densi vapori; lingue di fiamme ne lambivano le pareti scoppiettando.

«Guardate, guardate, zio! esclamai.

— Ebbene sono fiamme sulfuree. Nulla di più naturale in una eruzione.

— Ma se ci avviluppano?

— Non ci avvilupperanno.

— E se soffochiamo?

— Non soffocheremo. La galleria si allarga, e se farà bisogno abbandoneremo la zattera per ripararci in qualche crepaccio.

— E l’acqua! e l’acqua che sale?

— Non c’è più acqua, Axel, ma una specie di pasta di lava che ci solleva fino all’orifizio del cratere.»

La colonna liquida era infatti sparita cedendo a materie eruttive, dense abbastanza sebben ribollenti. La temperatura diveniva insopportabile; un termometro esposto in quella atmosfera avrebbe segnato più di 70 gradi! Il sudore m’inondava, e certo se non era la rapidità della ascensione, noi saremmo stati soffocati.

Tuttavia il professore non si attenne al partito di abbandonare la zattera e fece bene. Quelle poche assicelle [p. 188 modifica]mal connesse offrivano una superficie solida, un punto d’appoggio che altrove ci sarebbe mancato.

Verso le otto del mattino un nuovo incidente avvenne per la prima volta. Il movimento d’ascensione cessò d’improvviso e la zattera rimase assolutamente immobile.

«Che avviene? domandai sbattuto dalla fermata subitanea come da un urto.

— Una fermata, rispose mio zio.

— Forse che l’eruzione si calma?

— Spero di no.»

Mi rizzai in piedi e cercai di vedere intorno a me. Forse la zattera, trattenuta da una sporgenza di roccia, opponeva una momentanea resistenza alla massa eruttiva, ed in tal caso conveniva affrettare a farla libera al più presto. Ma così non era. La colonna di cenere, di scorie e di frantumi petrosi aveva anch’essa cessato di salire.

«Forse che l’eruzione si arresta? sclamai.

— Tu lo temi, giovinotto mio? disse mio zio coi denti stretti; ma ti rassicura, questo momento di calma non può prolungarsi; ecco, sono già cinque minuti che dura; fra poco ricomincieremo la nostra ascensione verso l’orifizio del cratere.»

Il professore così parlando non cessava di consultare il suo cronometro, e doveva ancora aver ragione ne’ suoi pronostici poichè non andò molte che la zattera fu sollevata di nuovo da un movimento rapido e disordinato che durò circa due minuti; poi s’arrestò un’altra volta.

«Benissimo, disse mio zio osservando l’ora; fra dieci minuti si rimetterà in viaggio.

— Dieci minuti?

— Si, noi abbiamo a fare con un vulcano la cui eruzione è intermittente; egli ci lascia respirare con lui.»

La cosa era verissima. Al minuto indicato fummo nuovamente lanciati con estrema rapidità e fu necessario ci avviticchiassimo alle travi per non essere sbalzati fuor della zattera. Poi la spinta s’arrestò.

Ho di poi pensato a questo singolare fenomeno senza trovarne una spiegazione soddisfacente. Tuttavia mi pareva evidente che noi non occupavamo il camino principale del vulcano, ma piuttosto un condotto accessorio in cui si faceva sentire un effetto di contraccolpo.

Quante volte si rinnovasse questa manovra non saprei dire. Solo posso affermare che ogni volta che ci rimette[p. 189 modifica]vamo in moto eravamo lanciati con forza crescente e come portati da una vera palla da cannone. Nei momenti di riposo si soffocava, e durante la corsa l’aria ardente mi toglieva il respiro.

Non ho dunque serbato alcuna memoria precisa di ciò che avvenisse durante le ore seguenti. Mi rimane il sentimento confuso di continue detonazioni, dell’agitazione della massa terrestre e d’un movimento in giro da cui fu presa la zattera, la quale ondulò sopra flutti di lave in mezzo ad una pioggia di cenere e fu involta da fiamme muggenti. Un uragano che pareva eccitato da un immenso ventilatore ravvivava i fuochi sotterranei. Per l’ultima volta la faccia d’Hans m’apparve in un riflesso infuocato e non ebbi più altro sentimento tranne il sinistro terrore dei condannati attaccati alla bocca di un cannone nel momento in cui il colpo parte e disperde le loro membra nell’aria.


XLIV.

Quando riapersi gli occhi mi sentii stretto alla cintola dalla mano vigorosa della guida. Coll’altra mano egli sorreggeva mio zio. Non ero gravemente ferito, sibbene affranto da una stanchezza generale. Mi vidi coricato sul versante d’una montagna a due passi da un abisso nel quale il menomo movimento mi avrebbe precipitato. Hans m’aveva salvato da morte mentre io rotolava sui fianchi del cratere.

«Dove siamo?» domandò mio zio il quale mi parve molto irritato d’essere ritornato sulla Terra.

Il cacciatore alzò le spalle in segno d’ignoranza.

«In Islanda? diss’io.

Nej, rispose Hans, — Come! no? esclamò il professore.

— Hans s’inganna, diss’io sollevandomi.

Dopo le innumerevoli sorprese di siffatto viaggio, una stupefazione m’era ancor serbata. Io m’aspettava di vedere un cono coperto di nevi eterne nel mezzo di aridi deserti delle regioni settentrionali, sotto i pallidi raggi d’un cielo polare, al di là delle più elevate latitudini; e [p. 190 modifica]contrariamente a tutte le previsioni, mio zio, l’Islandese ed io eravamo stesi a mezzo il fianco d’una montagna calcinata dagli ardori del sole che ci divorava co’ suoi raggi. Io non voleva credere a’ miei occhi, ma il bruciore del corpo non mi lasciava dubbio di sorta. Eravamo usciti seminudi dal cratere, e l’astro radioso, al quale non avevamo domandato nulla da due mesi, mostrandosi verso di noi prodigo di luce e di calore, ci versava a torrenti una splendida irradiazione.

Quando i miei occhi furono avvezzi a tale splendore, di cui avevano perduto l’abitudine, me ne servii a correggere gli errori della mia immaginazione. Io voleva essere allo Spitzberg per lo meno, ed ero disposto a non cedere virgola.

Il professore aveva preso la parola per il primo e disse:

«Infatti, ecco un panorama che non rassomiglia all’Islanda.

— Ma l’isola di Jean-Mayen? rispos’io.

— Nemmeno, giovinotto mio, questo non è certo un vulcano del nord colle sue colline di granito e una calotta di neve.

— Pure...

— Guarda, Axel, guarda.»

Sopra il nostro capo, a cinquecento piedi all’incirca, si apriva il cratere d’un vulcano dal quale sfuggiva ogni quarto d’ora, con uno scoppio rumoroso, un’alta colonna di fiamme miste a pietre pomici, a ceneri ed a la-ve. Sentivo le convulsioni della montagna che respirava alla maniera delle balene gettando ogni tanto il fuoco e l’aria dagli enormi sfiatatoi. Al di sotto, per una china rapida, gli strati di materie eruttive si stendevano alla profondità di sette a ottocento piedi, ciò che non dava al vulcano un’altezza totale di trecento tese. La sua base spariva in una vera cesta di alberi verdeggianti fra i quali distinguevo gli ulivi, i fichi e le viti cariche di grappoli vermigli.

Bisognava pure convenirne, non era punto l’aspetto delle regioni artiche. Lo sguardo, passata la cinta verdeggiante, giungeva rapidamente a perdersi nelle acque d’un mare ammirabile o di un lago, il quale faceva di questa terra incantata un’isola larga appena qualche lega. A levante si vedeva un piccolo porto preceduto da alcune case, nel quale si dondolavano ai capricci dei flutti [p. 191 modifica]azzurri alcune navicelle di forma speciale. Più oltre gruppi d’isole uscivano dalla limpida pianura e così numerose che rassomigliavano a un vasto formicaio. A ponente, coste lontane si disegnavano nell’orizzonte. Sulle une si scorgevano i profili di montagne azzurrognole conformate armonicamente: sulle altre più lontane appariva un cono prodigiosamente elevato, sul vertice del quale si agitava un pennacchio di fumo. Nel nord un’immensa distesa d’acque scintillava ai raggi del sole lasciando apparire qua e là l’estremità d’un’alberatura o la convessità d’una vela gonfiata dal vento.

L’impreveduto centuplicava le meravigliose bellezze di simile spettacolo, «Dove siamo noi, dove siamo noi?» io ripeteva sotto voce.

Hans chiudeva gli occhi indifferente e mio zio guardava senza comprendere, Qualunque sia questa montagna, diss’egli finalmente, vi fa un po’ caldo. Le esplosioni non cessano, e non metterebbe davvero il conto d’essere usciti da una eruzione per ricevere un pezzo di roccia sulla testa. Discendiamo e sapremo il fatto nostro. D’altra parte io muoio di fame e di sete.

Assolutamente il professore non era uno spirito contemplativo.

Per parte mia, dimentico dei bisogni e delle fatiche, sarei rimasto in quel luogo per lunghe ore ancora, ma mi bisognò seguire i miei compagni.

La scarpa del vulcano offriva rapidissimi pendii. Noi scivolavamo su vere frane di cenere evitando i rivi di lava che si allungavano come serpenti di fuoco. Nel di-scendere io parlava con volubilità, perchè la mia immaginazione era così piena che abbisognava proprio d’uno sfogo di parole.

«Siamo in Asia, esclamai, sulle coste dell’India, nell’isole Malesi, nel mezzo dell’Oceania. Abbiamo attraversato la metà del globo per riuscire agli antipodi di Europa.

— Ma la bussola? rispondeva mio zio.

— Sì, la bussola, dicevo io imbarazzato; a prestarle fede noi abbiamo sempre camminato verso il nord; essa ha dunque mentito?

— Oh! mentito!

— Se pure questo non è il polo nord. [p. 192 modifica]

— Il polo? No, ma...»

Il fatto era inesplicabile. Io non sapeva che pensare.

Frattanto ci accostavamo a quella verdura che appagava l’occhio. La fame mi tormentava e la sete anche: per buona sorte dopo due ore di viaggio una bella campagna si offrì ai nostri sguardi interamente coperta di ulivi, di melagrani e di viti che parevano appartenere a tutti. D’altra parte, nella nostra condizione non eravamo uomini da badare tanto pel sottile. Quale godi-mento fu quello di appressare i frutti saporiti alle labbra e di mordere i grappoli vermigli di quei vigneti! Poco lungi nell’erba, all’ombra deliziosa degli alberi, scoprii una sorgente d’acqua fresca in cui tuffammo voluttuosamente le mani ed il viso.

Mentre ciascuno si abbandonava di tal guisa a tutte le dolcezze del riposo, un fanciullo apparve fra due macchie d’ulivi.

«Ah! esclamai, ecco un abitante di questa felice contrada?»

Era una specie di piccolo mendicante, vestito poverissimamente, d’aspetto infermiccio, e che parve molto spaventato nel vederci. Infatti, seminudi, colla barba incolta, avevamo fisonomie assai tristi, ed a meno che quel paese non fosse un paese di ladri eravamo fatti apposta per spaventare gli abitanti.

Mentre quel ragazzo stava per prender la fuga, Hans gli corse dietro e lo ricondusse malgrado le sue grida e i suoi calci.

Mio zio cominciò col rassicurarlo del suo meglio, e gli disse in buon tedesco:

«Qual’è il nome di questa montagna, piccino mio?

Il fanciullo non rispose.

«Benissimo,» disse mio zio, non siamo in Germania.

E gli ripetè la stessa domanda in inglese.

Il fanciullo non rispose neppure.

Io era imbarazzatissimo.

«Sarebb’egli muto?» gridò il professore, il quale orgoglioso d’essere poliglotta ricominciò la stessa do-manda in francese.

Stesso silenzio del fanciullo.

Proviamo l’italiano, e chiese in questa lingua.

«Dove siamo?

— Sì! dove siamo noi?» ripetevo con impazienza.

Ma il fanciullo non rispose. [p. 193 modifica]

«Orsù! vorrai parlare sì o no? gridò mio zio vinto dalla collera e scuotendo il fanciullo per le orecchie: Che nome ha quest’isola?

— Stromboli,» rispose il pastorello che sfuggì dalle mani di Hans e guadagnò la pianura attraverso gli ulivi.

Non ci davamo più pensiero di lui. Lo Stromboli! quale effetto produsse sulla mia immaginazione questo nome inaspettato! Noi eravamo nel Mediterraneo, nel mezzo dell’arcipelago eolio di mitologica memoria, nell’antico Strongile, in cui Eolo teneva incatenati i venti e le tempeste. E le montagne azzurre che si arrotondavano al levante erano le montagne della Calabria, e quel vulcano che si rizzava all’orizzonte verso il sud era l’Etna, proprio il fiero Etna!

«Stromboli, Stromboli!» ripetevo.

Mio zio mi accompagnava co’ gesti e colle parole; avevamo l’aria di cantare in coro.

Ah! qual viaggio, qual maraviglioso viaggio! Entrati da un vulcano, eravamo usciti da un altro, e questo era posto a più di mille dugento leghe dallo Sneffels, da quell’arido paese dell’Islanda, posto ai confini del mondo! Le vicende della spedizione ci avevano trasportato in seno alle più armoniose contrade della terra. Avevamo lasciato le regioni delle nevi eterne per quelle verdure senza fine, e lasciato al disopra delle nostre teste le grigie nebbie delle zone agghiacciate per venire al cielo azzurro della Sicilia. Dopo un pasto delizioso, composto di frutta e d’acqua fresca, ci rimettemmo in cammino per guadagnare il porto di Stromboli. Non ci parve cosa prudente dire in che modo fossimo arrivati nell’isola. Lo spirito superstizioso degli Italiani avrebbe certo visto in noi demoni vomitati dall’inferno; bisognò dunque rassegnarsi a passare per umili naufraghi. Era meno glorioso ma più sicuro.

Cammin facendo, intesi mio zio mormorare:

«Ma la bussola la bussola che marcava il nord! Co-me spiegare questo fatto?

— In fede mia, diss’io disdegnosamente, non bisogna spiegarlo; è più facile.

— Questo poi! Un professore dell’Johannaeum, che non trovasse la ragione di un fenomeno cosmico sareb-be, sarebbe una vergogna!»

Così parlando, mio zio, seminudo, colla sua borsa di cuojo attorno alle reni, appuntando gli occhiali al naso, ridivenne il terribile professore di mineralogia. [p. 194 modifica]

Un’ora dopo aver lasciato il bosco degli ulivi, arrivammo al porto di S. Vincenzo, dove Hans reclamò il prezzo della sua tredicesima settimana di servigio, che gli fu contato con calorose strette di mano.

In quel momento. s’egli non provò la commozione nostra, si lasciò per altro andare ad un movimento d’espansione straordinaria.

Coll’estremità delle dita, egli strinse leggermente le nostre due mani e sorrise.


XLV.

Ecco la conclusione d’un racconto al quale non vorranno credere le persone più avvezze a non meraviglia-re di nulla. Ma io sono corazzato in anticipazione contro l’incredulità umana.

Noi fummo ricevuti dai pescatori stromboliotti, coi riguardi dovuti a naufraghi. Essi ci diedero vesti e viveri.

Dopo quarantott’ore di aspettazione, il 31 agosto, una navicella ci portò a Messina, dove alcuni giorni di riposo bastarono a rimetterci di tutte le nostre fatiche.

Il venerdì 4 settembre, c’imbarcavamo a bordo del Volturno, uno dei vapori postali delle Messaggerie Imperiali di Francia, e tre giorni dopo approdavamo a Marsiglia, non avendo più se non un pensiero in mente, quello della nostra maledetta bussola. Questo fatto inesplicabile non mi dava requie. Il 9 settembre, alla sera, arrivammo ad Amburgo.

Quale fu lo stupore di Marta, quale la gioia di Graüben, io rinuncio a descriverle.

«Ora che tu sei un eroe, mi disse la mia diletta fidanzata, non avrai bisogno di lasciarmi, Axel.»

Io la guardava. Essa piangeva sorridendo.

Lascio pensare quale commozione producesse in Amburgo il ritorno del professore Lidenbrock. Per le indiscrezioni di Marta, la notizia della sua partenza pel centro della Terra si era sparsa nel mondo intero. Non vi si volle credere e rivedendolo non vi si credette meglio.

Tuttavia la presenza di Hans e varie informazioni [p. 195 modifica]venute dall’Islanda modificarono a poco a poco l’opinione pubblica, Allora mio zio divenne un grand’uomo, ed io il nipote d’un grand’uomo, ed è già qualche cosa. Amburgo diede una festa in onor nostro. Allo Johannaeum ebbe luogo un’adunanza pubblica, in cui il professore raccontò la sua spedizione, non ommettendo se non i fatti relativi alla bussola. Nel medesimo giorno egli depose negli archivi della città il documento di Saknussemm, ed espresse il suo vivo dispiacere pel fatto che, avvenimenti più forti della sua volontà, non gli avessero permesso di seguire fino al centro della Terra le traccie del viaggiatore islandese. Fu modesto nella gloria, e la sua riputazione crebbe, Tanto onore doveva necessariamente suscitargli intorno degli invidiosi. Egli ne ebbe, e siccome le sue teoriche, fondate sopra fatti certi, contraddicevano i sistemi della scienza sulla questione del fuoco centrale, dovette sostenere colla penna e colla parola discussioni importantissime cogli scienziati d’ogni paese.

Per parte mia, non posso ammettere la sua teorica del raffreddamento e, nonostante ciò che ho visto, credo e crederò sempre al calore centrale. Ma confesso che certe condizioni ancora mal definite possono modificare siffatta legge sotto l’azione di fenomeni naturali.

«Färval» ci disse un giorno Hans: e con questa semplice parola d’addio parti per Reykjawick dove giunse felicemente. Eravamo singolarmente affezionati al nostro cacciatore di eider. La sua assenza non lo farà giammai dimenticare da coloro a cui egli ha salvato la vita, E certo io non morrò senza averlo riveduto un’altra volta.

Per finire devo aggiungere che questo viaggio al centro della Terra fece grande impressione nel mondo. Fu stampato e tradotto in tutte le lingue.

Cosa rara! mio zio godeva vivente di tutta la gloria ch’egli aveva acquistata, tanto che il signor Barnum gli propose di metterlo in mostra negli Stati dell’Unione a prezzo elevatissimo.

Ma un pensiero o meglio un tormento si cacciava di mezzo a tanta gloria: un fatto rimaneva inesplicabile, quello della bussola; ora per uno scienziato, simile fenomeno misterioso è un supplizio dell’intelligenza. Ma il cielo serbava a mio zio una fortuna completa.

Un giorno, ponendo in ordine una collezione di minerali del suo gabinetto, vidi la famosa bussola e l’osser[p. 196 modifica]vai. Da sei mesi era là nel suo cantuccio, ignara degli affanni di cui era cagione.

D’un tratto, qual fu il mio stupore! gettai un grido e il professore accorse, «Che c’è? domandò egli.

— Questa bussola!...

— Ebbene?

— Il suo ago indica il sud e non il nord.

— Che dici?

— Guardate! i poli sono mutati.

— Mutati!»

Mio zio guardò, confrontò e fe’ tremare la casa con un balzo superbo.

Qual luce rischiarava a un tempo il suo spirito e il mio!

«Cosicchè, esclamò egli quando potè parlare, dal nostro arrivo al capo Saknussemm, l’ago di questa dannata bussola marcava il sud invece del nord.

— Evidentemente.

— Ora il nostro errore si spiega: ma qual fenomeno ha potuto produrre tale rovesciamento dei poli?

— Nulla di più semplice.

— Spiegati, giovinotto mio, — Durante l’uragano, sul mare Lidenbrock, quella palla di fuoco che calamitava il ferro della zattera aveva semplicemente disorientato la bussola.

— Ah! esclamò il professore, scoppiando dalle risa, era dunque un tiro dell’elettricità!»

Da quel giorno in poi, mio zio fu il più felice degli scienziati, ed io il più felice degli uomini, poichè la mia bella Virlandese, abdicando al suo stato di pupilla, prese posto nella casa di Königstrasse, nella doppia qualità di nipote e di sposa. Inutile aggiungere che suo zio fu l’illustre professore Otto Lidenbrock, membro corrispondente di tutte le società scientifiche, geografiche e mineralogiche delle cinque parti del mondo.

fine.