Continuazione di Pietro Custodi


Prefazione del continuatore

Allorquando l'anno 1804, nelle Notizie premesse alle Opere Economiche del conte Pietro Verri nella Raccolta degli Scrittori classici italiani di Economia Politica (tomo XV della Parte Moderna) mi dolsi della sfortuna accaduta alla di lui Storia di Milano, di essere stata mutilata e interpolata da mano inesperta per la metà del secondo volume della edizione originale, e spiegai il desiderio che fosse una volta restituita nella sua integrità; era ben lungi dal prevedere che dopo tanto intervallo di tempo avrebbe il caso recato a me l'incarico di riformare e di compiere questo lavoro. E quando vidi che gli editori della ristampa della storia, confidando nella mia buona volontà, nel chiudere il terzo volume contrassero col pubblico l'impegno di dare riveduto e compito per mia mano il restante dell'opera, me ne incaricai di buon grado senza che ben sapessi ciò che si sarebbe potuto da me mantenere, e mentre non abbastanza conosceva sino a qual segno avrei potuto giovarmi de' materiali lasciati dal conte Verri, né quanto avrebbe importato la riforma del centone del canonico Frisi. Il che feci, per quella costanza di affetto e di venerazione che mi unirono all'autore nell'ultimo periodo della sua vita, e per un dovuto ricambio della benevolenza con cui mi distinse, benché io avessi allora oltrepassato appena i ventiquattro anni; e da ciò altronde ne venne che soltanto alcuni mesi dopo la fatta promessa mi trovai posto in grado di dare incominciamento all'opera, coll'essermi stati dal figlio dell'autore, istruito e cortese cavaliere, comunicati i manoscritti contenenti le prime tessere da quello predisposte per il proseguimento della storia. Ho quindi dovuto protrarre quasi d'un anno l'allestimento di questo quarto volume; né altro da me si è potuto per compensarne il ritardo, se non che adoperarvi la possibile diligenza onde reggesse con minore vergogna al paragone del lavoro che lo precede.

Nella seguente esposizione intorno all'opera del conte Verri e al merito di essa, e di quanto si è fatto dal canonico Frisi e da me per proseguirla, sarò possibilmente breve, e per tal modo con minor noia de' lettori riuscirò più presto a sdebitarmi.

§ I. - Della storia del conte Verri

Pietro Verri pubblicò nel 1783 il primo volume in 4° della sua Storia di Milano. Tre anni dopo, avendo ottenuto quel riposo da ogni pubblico incarico, che per oscure cabale era desiderato non meno da lui, che da chi doveva concederlo, pareva che egli avrebbe con alacrità progredito nel suo lavoro; ma il disgusto che ne avea preso, e di cui si dirà in seguito, ne lo allontanò; sicché dalle sue carte non si ha traccia che se ne sia di nuovo occupato, se non nell'ultimo anno della sua vita, nel quale intraprese la stampa del secondo volume, che era giunta alla pagina 208, e fino all'epoca del 1524, allorquando, nella notte del 26 giugno 1797, cessò improvvisamente di vivere, essendo in età prossima all'anno settantesimo. Il canonico Anton-Francesco Frisi, fratello dell'insigne matematico e filosofo di questo nome, che sopravegliava all'eseguimento della stampa, s'incaricò pure di compiere il volume, e lo continuò con quell'esito del quale si renderà conto nel § III.

Dopo di avere trascorsa la miglior parte della sua vita in difficili e importantissime incumbenze in servigio del sovrano e del suo paese, e dopo di essersi meritato l'estimazione del pubblico come letterato di fino gusto, e scrittore profondo di filosofia e di economia politica, il Verri si preparò alla sua opera storica, esaminando con somma pazienza le farraginose cronache comprese nell'insigne collezione del Muratori, gli storici patrii che il precedettero, e in ispecie il conte Giulini, cui rese la dovuta lode e il tributo della propria riconoscenza nella prefazione alla Storia; e gli spogli che si propose di farne, distinse e classificò in tre grossi volumi in foglio, tutti scritti di sua mano, il primo de' quali intitolò Cronache, e comprende i tempi anteriori al secolo XV, e un altro Annali per i tempi posteriori, ordinati per decennio. In un terzo volume scrisse gli estratti politici ed economici, senza titolo speciale, e aventi la sola data del 1777. In quest'ultimo fece nota di quanto le sue letture gli offersero concernente il governo della città, le famiglie illustri, i tributi, la popolazione, il commercio, le monete, l'agricoltura e l'industria, le ricchezze e il lusso, la giurisdizione del clero, le usanze e i costumi, e lo stato delle lettere e delle arti. Rare volte ne' suoi estratti dà forma di abbozzo ad un frammento di storia, ma per la massima parte sono nudi sommari od epoche di fatti rimarchevoli, scritti a volo di penna, e talvolta frammischiati di frizzi spontanei, suggeritigli dalla sua naturale giovialità e schiettezza. Onde porre chi legge in situazione di formarsene una chiara idea, ne riporterò i pochi frammenti che seguono.

Anno 1188... V'erano in tutto in Milano sei monasteri di frati e sette di suore. Al giorno d'oggi siamo assai più divoti, e se non vi fosse la Giunta Economale lo saremmo ancora di più.

1515. Morì Tristano Calco, né poté condurre a fine la Storia di Milano. Il conte Giulini è morto pure a mezzo il suo lavoro. Sarebbe uno sproposito insigne se io pure facessi questa cattiva creanza di abbandonare a mezzo i miei cortesi lettori. Per servir bene la nobiltà loro bisogna passeggiare più che non faccio; mangiare più sobriamente di quello che non soglio; lasciar andare il mondo comodamente col suo moto: e allora staremo bravamente sani e saldi, ricordandoci che nostro padre è morto di ottantotto anni, e nostro avo di novantadue. Esempi imitabili veramente!

1621. Il 31 marzo muore Filippo III in età di anni quarantatre. Morì per etichetta. Era convalescente, e si trovava a sedere nel suo consiglio. Una bragiera di fuoco lo incomodava; era assente l'ufficiale, cui spettava maneggiare il fuoco; il re non volle moversi dal suo posto; nessuno ardì di guastare l'ordine di corte, trasportando la bragiera: infine il mamalucco morì.

Di siffatti spogli egli giovossi nello scrivere la Storia, senza più essere costretto ad interrompere l'ordine e la scorrevolezza del suo dettato per rintracciare nelle fonti i fatti e le discussioni di essi. Che tale fosse il suo intento nella paziente e noiosa opera di formare quegli spogli, apparisce chiaro dal vedersi ch'essi concernono esclusivamente gli antichi e bassi tempi; e nel volume degli Annali, che unico si estende oltre di quelli, dal principio del secolo XVI in poi, le materie vanno rendendosi sempre più scarse, a segno che, per gli ultimi due secoli, si risolvono in nude note cronologiche, e queste pure incomplete, sparse raramente di qualche racconto di fatti parziali o di cenni caratteristici di alcuni personaggi. E specialmente intorno ai fatti del secolo XVI, di cui stava occupandosi nel proseguimento del suo secondo volume, varii lunghi frammenti avea scritto l'autore, in separati fogli, da inserirsi poi agli opportuni luoghi, diversi de' quali mi furono mostrati dall'autore stesso mentre gli scriveva, come li avrà veduti il canonico Frisi; ma di quelli non esiste più traccia.

Condusse il conte Verri il suo lavoro con sobria erudizione, con fina critica e con moderata filosofia, quale si conveniva alla condizione dell'illustre autore, e allo scopo da lui propostosi di ammaestrare dilettando. Sprezzò le assurde e magnifiche favole delle origini municipali, oggetto di comune ridicolo, compensato e reso muto in ciascun municipio dal pericolo di un eguale ricambio; svolse dalle tenebre de' primi e de' bassi tempi le istituzioni, le sorti, i costumi che diedero luogo allo sviluppamento della successiva nostra civiltà, talvolta nei fatti peggiore della prisca barbarie; chiarì la prepotenza dei pochi a rendere sottomessa la massa della nazione, e la reazione di questa, resa forte per l'industria, il commercio, l'unione, per ristabilire l'egualità delle condizioni, siccome è il voto della natura nella egualità della specie. Dimostrò le vicende del clero, prima favoreggiato dai popoli come mediatore di pace, di concordia, di consolazione; poi accarezzato dai sovrani come strumento per abbassare l'orgoglio e contenere il soverchiar de' magnati; quindi costituitosi difensore de' popoli contro le pretese e le vessazioni del partito imperiale; reso in seguito audace per l'acquistato ascendente, giunto a riclamare per sé maggiori prerogative di quelle contrastate ai nobili e agl'imperatori; e infine, nella lotta tra esso e i sovrani d'accordo coi popoli, sceso a moderare l'esorbitanza delle sue pretese, e a limitarsi per gradi ad una preminenza di considerazione, che sola gli è dovuta. Narrò come lo stato di Milano, primo tra gli altri d'Italia, al pari di essi, per la libera scelta, per i compri voti, per l'aperta forza, passò alla piena obbedienza di coloro che, a riguardo de' propri meriti e della dignità del casato, erano stati promossi ai consigli ed alla direzione delle forze del comune; come i popoli furono per lungo tempo zimbello dell'ambizione, de' raggiri e de' tradimenti de' loro nuovi tiranni; e come questi furono successivamente con giusta vicenda traditi e sottomessi da tiranni maggiori, e per ultimo tutti assorbiti nel vortice delle grandi monarchie, che avrebbero pur recato ai popoli la pace da tanto tempo sospirata, se non avessero scelta l'Italia a teatro delle loro interminabili querele, non che de' capricci e della rapacità de' loro generali e governatori. Era entrato l'illustre autore a svolgere gli accidenti di quest'infausto periodo della nostra storia, quando, sorpreso dalla morte, fu causa che al canonico Frisi e a me toccasse l'incarico di un proseguimento, ingrato e difficile per il soggetto, e assai più pericoloso per il confronto.

Non gli sfuggì la massima rammentata da Robertson nella Prefazione all'Istoria dell'America, che chi scrive gli avvenimenti delle epoche rimote, non merita la confidenza del pubblico, se non avvalora con testimonianze le proprie asserzioni. E nel produrre queste testimonianze fu egli esattissimo, non affastellando le citazioni altrui, alla foggia di un suo invidioso censore, che ci occuperà nel § II, ma attingendole alle fonti, dopo che, non fidando alla critica altrui, l'aveva affinata al crogiulo del suo sperimentato criterio. Opportuno fu in ciò il suo avvisamento, ed ottimo sarebbe riuscito, se egli vi avesse aggiunto una diligenza di più, lasciando scorrevole e piana la sua narrazione, e riservando alle note le discussioni e le testimonianze, specialmente in lingue straniere, sicché queste non fossero d'inciampo ai lettori, con rendere quindi necessario per una non piccola parte di essi l'espediente adottato dagli editori della presente ristampa, di far eseguire da abile mano ed aggiungere in pie' di pagina la traduzione dei frequenti passi di latinità, per lo più barbara, che si incontrano nel testo. Dei due metodi di scrivere la storia, intorno ai quali è da tanti secoli contrastata e disputata la preferenza, egli prepose all'aridità delle cronache la spontanea e ragionata esposizione de' fatti, quale è sporta dalla natura nella famigliarità del discorso, dove il racconto si trova frammischiato colle riflessioni suggerite all'opportunità dall'esperienza e dall'ingegno del narratore. E in vero, il pretendere che la narrazione sia arida e circoscritta ai nudi fatti, è contrario al principale istituto dello storico, che è d'istruire cogli esempi, mentre nissuno contenderà che novanta almeno sopra cento lettori sono incapaci di concordare e commentare ciò che leggono; laddove per la maggior parte possono appropriarsi e far tesoro per il loro ammaestramento delle riflessioni che trovano pronte e naturalmente esposte frammezzo e come conseguenze delle cose narrate. Colla riunione di tante doti di talento, di dottrina, di esperienza e di filosofia, non è da stupirsi se Verri è riuscito a primeggiare fra il popolo degli storici particolari dell'Italia; ché ben popolo può chiamarsi lo sterminato loro numero, a segno che il semplice catalogo di essi raccolto dal Coleti in un grosso volume in 4° appena ne racchiude circa la metà. Ed egli, che sapeva quanto ingente fatica avesse sostenuto e quali difficoltà superate per porgere a' suoi paesani, scevro d'ogni spino, il racconto degli avvenimenti patrii e delle gesta de' loro maggiori, non può dirsi al certo troppo presuntuoso se si lusingò di meritarsi da essi qualche significazione di aggradimento. Per ben giudicare quindi delle sue doglianze, conviene ricordarci del di lui carattere, che, fortificato per il sentimento de' molti suoi meriti, era vivamente ambizioso di estimazione e di lode, e che s'egli ebbe la prima nel segreto de' buoni, che mai non mancano anche nella più trista società, non ebbe della seconda alcuna palese testimonianza. L'abate Isidoro Bianchi, nell'Elogio storico del nostro autore (p. 210), dice che, disgustato per tale ingratitudine, fu in procinto di dare al fuoco gli esemplari del primo volume della storia e le preziose memorie preparate per proseguirla, e che ne fu distolto dagli uffici degli amici. Io non posso far fede di tanto; so bensì che in più luoghi degli scritti da lui lasciati appaiono gli onorati suoi sdegni e le sue doglianze; e basterà di qui riferire come un saggio, quanto scrisse sulla coperta del rammentato volume delle sue Cronache:

Per la fatica di molti anni, per molte spese fatte per consegnare nelle mani dei Milanesi una storia leggibile della loro patria, e un libro che senza rossore potessero indicare ai forestieri curiosi d'informarsene, io non ho avuto dalla città di Milano nemmeno un segno che s'accorgesse ch'io abbia scritto. Ma già lo sapeva prima d'intraprendere un tal lavoro, e conosceva rerum dominos gentemque togatam. Nella Toscana, nella terra-ferma veneta e nella Romagna vi è sentimento di patria e amore della gloria nazionale. Ivi almeno una medaglia, una iscrizione pubblica, un diploma d'istoriografo, qualche segno di vita si darebbe, se non altro per animare alla imitazione. Ma noi viviamo languendo in umbra mortis. Non si sapeva il nome di Cavalieri; l'Agnesi è all'Ospedale; Frisi e Beccaria non hanno trovato in Milano che ostacoli e amarezze. Il sommo bene di chi ardisce di far onore alla patria è se ottiene la dimenticanza di lei. Io forse l'ho ottenuta...

§ II. - Giudizi della detta storia

Il Conte Verri, per ciò che appare da' di lui scritti, mostrò di occuparsi soltanto della critica fatta ad un passo della sua storia dal canonico Mario Lupi, dotto antiquario di Bergamo. Nell'osservare quanto scarse e sterili sieno le memorie rimasteci del secolo decimo, e la diligenza del conte Giulini intorno ad esse, egli aveva soggiunto nel tomo I, p. 57 della prima edizione, che

ben lungi dal farne io un rimprovero al saggio scrittore, gli tributo l'encomio che ha meritato colla immensa fatica da lui sopportata, è coll'esatta critica adoperata esaminando fatti che meritavano la luce, e per essere preziosi avanzi di que' tempi, e per la possibilità che servano a beneficio di private persone; sebbene non siano materiali servibili per tesserne una storia.

Era chiaro in questo passo l'intendimento dell'autore, che non contendeva il merito di cotali ricerche, ma solo dolevasi della poco utile mêsse che se n'era conseguìta. Ma il canonico Lupi, qual chi è avvezzo a misurare l'importanza dei lavori dalla fatica impiegatavi, riguardò il concetto del Verri come una sentenza di riprovazione degli studi antiquari, e alla colonna 1040 del suo Codice Diplomatico sortì colla seguente doglianza: Propterea miror vehementer clarissimum Comitem Petrum Verri, in recentissima sua Mediolanensi Historia, p. 57, tradidisse, hujusmodi monumenta ad historiam harum aetatum nihil conferre, quod quidem adeo absonum mihi videtur, ut fateri cogar me ignorare quidnam historiae nomine clarissimus auctor intelligat. Si meritò quindi una nota di risposta, dataci imperfetta dal canonico Frisi e riprodotta intiera in questa edizione, che può leggersi al capitolo vigesimosesto di questo quarto volume.

Qualora si prescindesse dall'avvertire che avevasi a fare con un soggetto che avea trascorsa la più gran parte e la migliore della sua vita tra le lettere, la filosofia e le gravi incombenze di alte e difficilissime magistrature, altre e più sode avvertenze potevano esser fatte intorno alla sua opera storica, e alcuna se ne fece, ma con quella moderazione che si addice agli uomini veramente dotti parlando di persona rispettabilissima. Non meno l'abate Cisterciense Angelo Fumagalli, che il conte Gian-Rinaldo Carli, l'uno nelle Antichità longobardico-milanesi, e il secondo nelle Antichità italiche rimarcarono e dimostrarono l'esagerazione sostenuta dal nostro autore, d'essere stata Milano pressoché distrutta dalla vendetta del generale de' Goti Uraia. Scarsa nella Storia di Milano, più che non potevasi, è la parte storica e politica delle dominazioni barbare, e alla sterilità delle notizie si aggiunse per i tempi dei Longobardi l'adozione de' volgari pregiudizi intorno alla loro rozzezza e brutalità, dimostrate insussistenti da una critica più diligente e più severa; per i quali due oggetti merita particolar lode un altro patrizio, il marchese Giuseppe Rovelli, il quale, nelle Dissertazioni Preliminari della sua Storia di Como, con meno alti voli, ma con più pazienza, illustrò in particolare la legislazione de' Barbari che tra noi dominarono. Mentre s'incontrano nella Storia del Verri varie discussioni di fatti oscuri o disputati, condotte con isquisita diligenza, quale tra le altre è quella delle lunghe e sanguinose contestazioni agitate tra il clero milanese nei secoli IX e X per il celibato de' preti, alcune inesattezze vi si rimarcano all'opposto, pure in argomenti parziali; e basterà il citarne alcuni esempi. 1. Il severo e ingiusto giudizio dato del governo della repubblica milanese succeduta alla morte del duca Filippo Maria Visconti, riportando con affettato studio le minuzie delle ordinarie prescrizioni municipali, che sole per caso furono a notizia dell'autore, e non le varie utili istituzioni, non la sagacità, il vigore e la costanza degl'istantanei provvedimenti, non le leghe destramente conchiuse co' sovrani esteri, non il valor militare in più occasioni dimostrato; con aggiungere per tal modo verso quel breve governo il peso di non meritati rimproveri al torto, già per sé grandissimo, di essere rimasto succombente. 2. L'avere seguìto la volgare opinione che attribuisce a Leonardo da Vinci l'invenzione de' sostegni, necessari a compensare il diverso livello delle acque, per far comunicare la navigazione del naviglio della Martesana con quella del naviglio grande per mezzo della fossa che circuisce la città, mentre è provato che que' sostegni ingegnosissimi esistevano più anni prima che il Vinci venisse ai servigi del duca di Milano. 3. L'asserzione che fosse stato eretto nella chiesa di Santa Marta il monumento sepolcrale di Gastone di Foix, scolpito da Agostino Busti, benché consti che questo insigne lavoro, di cui tante belle parti si conservano tuttora in più luoghi, non sia mai stato ridotto a compimento; e infine la troppo facile giustificazione del tradimento usato in Novara dagli Svizzeri a danno del duca Lodovico Maria Sforza, dal quale erano stipendiati, d'onde venne la di lui miserabile prigionia, che non ebbe fine se non colla morte: giustificazione così gratuita, che neppure fu adottata dagli storici svizzeri, ultimo dei quali è il Mallet. Ma queste inesattezze sono tanto più scusabili, ove si rifletta che la polvere degli archivi copriva ancora nella massima parte i documenti che sarebbonsi potuti allegare a difesa e ad illustrazione di quella procellosa triennale Repubblica, ecclissata poi dalla vittoria e dalla magnificenza del nuovo governo sforzesco; che l'insussistenza degli altri due fatti riferibili alle arti lombarde risulta per prove emerse posteriormente all'epoca in cui il Verri scriveva; e che l'indebita apologìa delle milizie svizzere, le quali in allora, per la facilità di mercanteggiare i loro servigi, per la loro venalità, rapacità ed incostanza, potevano a ragione chiamarsi gli Albanesi del secolo XV, è soltanto ripetibile dalla soverchia fede prestata all'autorità di quell'ambizioso intrigante di Girolamo Morone, che avea per abito d'immischiarsi in tutto e di vantarsi di tutto sapere.

Un nuovo censore surse contro la storia del Verri nel cavaliere Carlo de' Rosmini, non tanto per quello che ne scrisse sotto il velo più trasparente, che per quello che non scrisse. Questo letterato, conosciuto con distinzione come scrittore diligente di varie istruttive biografie, si produsse di recente con un'altra voluminosa Storia di Milano. Qualche giornalista, e più delle parole di esso, la non curanza del pubblico, l'ha certamente posta più al basso che intrinsecamente non merita, come fatica di lunga lena, diligente in più luoghi e con dettato abitualmente piano e dignitoso, se non fosse guasto dalla coda spesso impiombata dei lunghi e strascicanti periodi per una troppo servile imitazione del suo modello, il Guicciardini. E a questi soli pregi dee star contento chi avrà la pazienza di leggerlo; ché degli altri molti richiesti dagli uomini dotti di tutti i tempi negli scrittori di storie, e per cui i buoni storici sono sì rari, cominciando dall'imparzialità, si farebbe inutile ricerca in que' quattro grandi volumi. I torti del cavaliere Rosmini verso il conte Verri sono varii e gravi: non lo citò mai, e quel ch'è più, il criticò talvolta senza nominarlo. Il primo rimprovero, come di semplice ommissione, potrebb'essere trasandato, senza quel suo peccaminoso compagno; quantunque abbia pur esso la sua dose di malizia in un'opera, come la sua, lardellata quasi ad ogni pagina di copiose citazioni, dove ha per costume di affastellare l'un dopo l'altro i cronisti della Raccolta del Muratori, e il Bosso e il Calco e il Corio e il Giulini e perfino il Ripamonti, il quale ognun vede che, fuori de' tempi in cui visse, è di una stupenda autorità. Abuserei della pazienza dei lettori se volessi estendermi a dimostrare come e quante volte attinse egli all'opera del Verri, non citandola; onde mi circoscriverò a recare un solo esempio della sua seconda colpa, ma sarà di tale evidenza, che renderà superfluo il dirne di più. Fu quell'esempio già in parte allegato dall'autore dei tre Articoli critici intorno alla storia del Rosmini inseriti nella Biblioteca Italiana (fascicoli LXXXII, LXXXIII e LXXXV, di ottobre e novembre 1822, e gennaio 1823), scritti con savia e sobria dottrina e brusca risolutezza; se non che ai lettori imparziali parvero essi troppo turgidi e rimbombanti, e più strepitosi nel minacciare che nel ferir forti. Il passo del cavaliere Rosmini, in cui è evidente l'allusione al capitolo decimosesto della storia di Verri, è preso dal libro undecimo, al quale diede questo incominciamento:

Qualche moderno storico, per servire ai tempi in che fioriva, e per coprire la viltà di palpare i viventi colla non pericolosa baldanza di mordere i trapassati, ha ripreso come ingiusto ed insensato l'unanime consentimento de' Milanesi, dopo la morte del duca Filippo Maria Visconti, di sottrarsi ad ogni soggezione di principe, e puerili, stolte e cenobitiche ha dichiarate le leggi che i capitani e difensori della libertà, la Repubblica rappresentanti, intorno al buon governo di essa han pubblicate: ec.

La critica essendo chiarissima, non ha bisogno di commenti; vediamone l'applicazione. Verso la fine di giugno 1797, quando fu sorpreso dalla morte, era giunto il Verri alla metà della stampa del suo secondo volume; e dal vedersi che il funesto caso interruppe nello stesso tempo la stampa e lo scritto, per modo che tosto dopo ha dovuto il canonico Frisi dar mano al proseguimento del lavoro, è chiaro che l'autore faceva progredire nella stampa a misura che innoltravasi nel dettato della storia; cosa tanto più eseguibile da esso per la somma facilità sua nello scrivere, nota a quanti lo conobbero. Questa osservazione servirà a confermare il successivo mio discorso: intanto suppongasi ch'egli abbia composto quel capitolo, ch'è il primo del suo secondo volume (terzo di questa edizione) durante l'antico governo austriaco: quali erano sotto di esso i potenti che l'autore settuagenario voleva blandire? Forse i ministri, de' quali era disgustato? Forse i nobili, coi quali ben poco simpatizzò? Altronde, quale sorta di blandimento poteva esser quello che ancora non conoscevasi, e che anzi andava ad esser reso pubblico dopo che quei ministri non erano più tra noi, dopo che i nobili avevano perduta ogni prerogativa? - Tutto pertanto induce a persuaderci che quella parte di storia, quella specie di satira de' mondi confusi, discordanti, tumultuari di uomini recentemente ordinati ad istituto di Repubblica, fu scritta dopo gli sconvolgimenti politici incominciati nel maggio 1796; e siccome sotto le nuove istituzioni doveva essere pubblicata, così se pur v'era un'allusione, era quella di fare ciò che i Francesi direbbono una parodìa dei nuovi e strani ordini che allora chiamavansi governo. Scopo era questo consentaneo al carattere imparziale e franco di Verri, scopo degno del suo libero e forte animo, perché non senza pericolo. E gli sdegni che nel profondo del petto gli fervevano per i deliri di quel tempo, e che a stento comprimeva, de' quali io e i pochi altri suoi confidenti eravamo continui testimonii, ben potevano aver avuto forza di farlo declinare dalla severa imparzialità dello storico, per dare un'indiretta lezione di saviezza a' suoi concittadini, del pari che si tentò da pochi altri, e tra questi dal noto autore de' Romani in Grecia. Una più seria doglianza a difesa della estimazione di un amico infelice debb'essere da me fatta contro il signor Rosmini, e risguarda i molti documenti ch'egli aggiunse alla sua storia del Magno Trivulzio, e alla posteriore di Milano, limitati all'epoca sforzesca. Non è che verità il dire che la ricerca, il rinvenimento, la scelta di que' molti pregevoli atti, è dovuta soltanto alla diligenza e al noto spontaneo zelo per i progressi de' buoni studi delle antichità patrie di don Michele Daverio, che, fino alla cessazione del regno d'Italia, presiedette alla direzione del ricchissimo archivio di governo, detto di San Fedele, dove la mole preziosa di tutte le carte precedenti dalla dinastìa degli Sforza trovavasi concentrata e pressoché intatta; e che il cavaliere Rosmini appena salutò di uno sguardo alcuni de' copiosi documenti stati trascritti ed editi a grandi spese dal suo generoso mecenate: la quale cortesia egli rimeritò allora in più lettere (ch'io possiedo) con profuso rendimento di grazie, ma nessuna menzione ne fece poi nel pubblicarli; egli che si smania nel mostrarsi riconoscente verso le viventi illustri persone che il fornirono di minimi aneddoti, i quali con affettata premura inserì almeno nelle note della sua prolissa istoria; egli che non avea dimenticato il nome di quegli cui di tanto era debitore, avendolo citato alla pagina 305 del volume II, come raccoglitore di alcune Memorie stampate, però stortamente indicandolo come archivista della città; egli che in tutte le sue opere, e più nella storia di Milano, si mostra con ragione così tenero dell'osservanza de' precetti della buona morale, tra i quali al certo non è l'ultimo quello di dare a ciascuno il suo e la gratitudine de' beneficii, e che tanto s'incollerisce allorquando si avviene in esempi contrari; egli infine che, per la famigliare educazione di persona ben nata, e per il consorzio di distinti signori che l'ammisero alla loro dimestichezza, avrebbe dovuto avere avvezzato il proprio animo a quella cortesia che piuttosto abbonda anzi che mostrarsi scarsa nel rimeritare, almeno con officiose parole, i servigi che si ricevono. E sia questa una specie di funebre olocausto, che l'occasione offerì e l'amicizia tributa alla memoria di Michele Daverio, che, fuori del torbido de' tempi in cui visse, e in altro paese, avrebbe gioito della stima dovuta al candore della sua anima, alle sue sociali e domestiche virtù, alla purissima e fervida smania che il commoveva per il bene della sua patria; ...benché in essa pochissimi sapranno ch'egli abbia finito di subitanea morte la sua mondana carriera in Zurigo nei primi giorni del cadente anno.

Un'altra censura fatta al conte Verri, non parziale alla storia, ma estesa a tutte le sue opere, è quella di essere licenzioso scrittore in fatto di lingua. La difesa ch'egli fece a sé e a' suoi colleghi nel noto foglio periodico il Caffè, come pretendenti ad un illimitato arbitrio, provocò gli sdegni di un giudizioso ma intemperante critico, Giuseppe Baretti; il quale, dalla sua famigerata Frusta letteraria in poi, continuò fino alla morte l'incessante suo chiasso per questa, a suo dire, imperdonabile arroganza. Verri, in que' primi ardimenti del suo ingegno scriveva da filosofo, non da grammatico; forse errò nel menarne vanto; ma nel calore di una fazione di guerra, quale era quella propostasi dagli animosi e illustri giovani della società del Caffè contro i parolai e i pedanti, come misurare le mosse a compasso e pretendere che non trascendasi? Consimili cose erano state da me dette nelle Memorie biografiche che ho fatto precedere agli Scritti scelti del Baretti, pubblicati nel 1822, e sembravami di avere con ciò servito abbastanza alla giustizia e all'imparzialità; né credeva che fosse necessario di ripetere ad ogni passo sempre lo stesso avvertimento, imitando il costume de' legali nelle dispute forensi colle parole solenni, come le avrebbero chiamate i giureconsulti romani, d'impugno, nego, ec., per modo che il non opporle si avesse per una confessione dell'assunto dell'avversario. Ma così non parve all'anonimo che in due estratti inseriti nella Biblioteca Italiana (numeri CII e CXII) rese conto di quel mio lavoro; e nell'estratto II, non contento di quanto io aveva scritto a correzione delle invettive del Baretti nei capi X e XVI e in una nota all'articolo 25 del capo XIX delle citate Memorie, altre annotazioni pretese che da me lombardo si fossero fatte a difesa de' lombardi ingegni. Premesso incidentemente ch'io non ho l'onore di appartenere alla Lombardia se non per la scelta del domicilio, essendo nato in un borgo del Novarese, non so con quale logica si pretenda che le lodi e le difese degli autori debbano prendere incitamento dall'accidentale affinità del municipio, anzi che dalla ragione; e forse che, conseguenza di questa logica, fu che l'autore di quegli estratti, per non essere Lombardo, ha creduto di potersi dipartire nel secondo di essi dalla decenza serbata nel primo, e per cumulare qualche critica di più asserì che raro è unicamente ciò che è inedito, e che di cose inedite appena un terzo si contiene in quella mia collezione; delle quali osservazioni dirò soltanto che nella prima farneticò, e nell'altra mentì apertamente, non essendo questo il luogo di estendermi in più copiose parole.

§ III. - Continuazione del canonico Frisi

Avendo il conte Verri lasciata interrotta la sua storia circa alla metà del secondo volume, siccome si è detto, il canonico teologo Anton-Francesco Frisi si assunse di proseguirla, e la condusse per la successione di quarant'anni sino al pontificato del cardinale arcivescovo Carlo Borromeo, chiudendo il suo lavoro col di lui elogio dettato colle parole di un vescovo francese e di un dottore della Sorbona, e mettendo in luce il volume nel 1798. Ne scrisse quindi un terzo volume, nel quale la storia è continuata fino al 1750; e questo, che ha la data del 1813, rimase inedito e si conserva nell'archivio della casa Verri. Nella nota alla p. 208 del vol. II, dove il Frisi ci avvisa dell'interruzione del lavoro per la morte dell'illustre autore, soggiunse: Al compimento di esso mi sono data la pena di fedelmente raccogliere la più parte di quanto segue da alcuni tomi in foglio manoscritti ritrovati presso il defunto. Avendo io, vivente l'autore, avuto il comodo di vedere quei tomi, aveva potuto convincermi che l'asserita fedeltà non reggeva; quindi nelle Notizie che scrissi intorno alla vita e alle opere di Pietro Verri, colla franchezza che si conviene alla manifestazione del vero, diedi pubblico rimprovero al Continuatore (tomo I, p. 38 di quest'edizione) "di aver violato la protesta da lui fatta di trascrivere fedelmente i frammenti dell'autore, mentre osò di mutilarli". Sopravisse tredici anni ancora il canonico Frisi, cioè fino al 20 luglio del 1817, e riputando la difesa impossibile, non aprì mai bocca su quell'accusa, non ostante che ben conoscesse l'opera nella quale fu pubblicata, e ch'egli cita alla p. 211 del rammentato tomo III inedito della sua Continuazione. Ho voluto estendermi in questi dettagli, mentre qualche lettore superficiale avrebbe potuto appormi a viltà l'accingermi a combattere un morto; né senza la presente occasione avrei più parlato di lui; e nella necessità di parlarne e di giustificare la mia asserzione, il farò più compendiosamente che mi sarà possibile.

Non è colpa del canonico Frisi se, per la diversità dell'educazione e degli studi, e, diremo anche, per la sproporzione de' talenti, si trovò egli inferiore di forze a sostenere lodevolmente un carico che l'amicizia e la stima per l'illustre defunto gli fecero assumere; e così se egli, credendo di far meglio, stemperò in circonlocuzioni e frasi contorte e floscie il testo chiaro, preciso, robusto, evidente del Verri; se, come canonico e teologo, tanto nel proseguimento stampato che nel tomo manoscritto, modificò o tacque ciò che di sfavorevole incontrava in argomenti di giurisdizione ecclesiastica, riducendo il suo lavoro ad un perpetuo panegirico de' governatori e degli arcivescovi di Milano, se avendo trovato nelle memorie del Verri le incisioni di quattro figure di danzatori ed una lunga di lui nota intorno ai balli e ai teatri della fine del secolo decimosesto, non ha potuto resistere alla bramosìa di pubblicarle, e per riuscirvi trasportò la nota racconciata a suo modo dall'anno 1598, cui spettava, al 1545, con manifesto anacronismo; e se, vagando per tutta la storia dell'Europa, impinguò il suo testo con lunghi riempitivi presi dal Guicciardini e dal Muratori, senza riguardo al savio precetto del Verri nel tomo I, ove dice: Non avendo io preso a scrivere una storia generale, ma unicamente quella di Milano, né per ora né in seguito mi stenderò mai sugli avvenimenti d'Italia se non di volo, e per quella connessione che ebbero colla nostra città. Siccome sbagli innocenti debbono pure riguardarsi nel lavoro del Frisi diverse inesattezze di epoche o di nomi; quale è per esempio quella a p. 248, dove con aperta distrazione di mente fa condurre da Lannoy, noto generale di Carlo V, un esercito francese in Italia in servizio della Lega; quella alla p. 263, nell'avere indicato Francesco I qual possessore tuttavia di una buona parte del Milanese, invece del duca Francesco II, come dice il Verri con più proposito; quella di aver detto alla P. 269 che Clemente VII creò cardinale il figlio del gran cancelliere Morone nel 1542, mentre quel papa era morto fino dal 1534; e del pari l'altra, a p. 358, che il governatore duca di Sessa fosse giunto in Milano in marzo dell'anno 1558, laddove il signor Salomoni, nelle sue Memorie storico-diplomatiche, p. 147, ha provato che quel duca nel mese di giugno era ancora in Madrid: errore suo proprio, benché minimo, non essendovi traccia di esso ne' manoscritti del conte Verri.

Ma nelle ultime centosettantadue pagine del seguente volume della storia di Milano, che comprendono l'opera del Frisi, s'incontrano ben più gravi alterazioni in confronto de' frammenti che di quell'epoca in gran copia ci rimangono nei manoscritti del Verri; alterazioni eseguite il più delle volte avvertitamente per coscienziosi riguardi, e talvolta pure senza un fine espresso e per la sola cagione di non avere inteso il suo testo. Porgerò alcuni esempi delle une e delle altre. Delle copiose memorie raccolte dal Verri intorno alla celebre battaglia di Pavia, il suo continuatore molte ne traspose, altre ne ommise e in generale le confuse. Alla p. 225 dice che il re di Navarra comprò la libertà dai militi cesariani del marchese di Pescara per settemila scudi; laddove furono questi pagati dal marchese ai soldati per avere il re in proprio potere, e quindi sottoporlo ad un esorbitante riscatto. Riferisce a suo modo, alla p. 228, le sollecitazioni allo spergiuro fatte al re di Francia da chi meno il doveva; e mutila alla p. 231 il racconto delle trattative per la lega italica, tacendo l'assicurazione data dal papa al Pescara di poter mancare di fede all'imperatore, benché fosse provata colla testimonianza di un prelato, lo storico Sepulveda. Invece di riportare, alla p. 240, i fatti che sono ne' manoscritti del Verri, per mostrare la situazione disperata nella quale trovavansi i Milanesi nel 1526, li tace in gran parte, ed accenna seccamente le uccisioni notturne: i fatti all'opposto recano maggiore convincimento, oltre che danno alla storia un interesse drammatico. Con notabile mala fede ha mutilato, alla p. 242, il transunto della risposta di Carlo V al breve del papa, trasmessogli per mezzo del suo nunzio Baldassare Castiglione; ed a convincersene basta il confronto del suo e del mio testo, il qual ultimo è preso letteralmente dai manoscritti del Verri. Nel racconto dell'assassinio legale del Maraviglia, alle pp. 284-286, oltre le stemperature con cui il Frisi sconciò abitualmente il testo del suo autore, ne travolse pure il senso. Verri dice:

Sembra che il duca, sempre sotto gli occhi e la sorveglianza di Antonio de Leyva, non potesse sopportare la meschina figura che faceva, e cercasse pure qualche mezzo per liberarsi da sì umiliante condizione, e a ciò debba attribuirsi la brama di avere un ministro del re di Francia, col quale all'occasione prendere un concerto; ma inopportunamente svelatasi la cosa, siasi il duca ridotto al miserabile partito di tradire atrocemente il dovere più sacro a fine di disarmare lo sdegno dell'imperatore.

Il Frisi, volendo variare, secondo il suo costume, ne inverte del tutto il senso, dicendo stranamente... Ma sciaguratamente svelatasi la cosa, siasi il duca ridotto al miserabile ripiego di non si curare dei patti solennemente giurati con Cesare, e di cercare a ogni modo pretesti di romperla seco lui, ed impegnarlo in nuove guerre col di lui gran rivale Francesco I. Se non si avessero altre prove della cultura d'ingegno del canonico Frisi, a giudicarlo dal riferito passo, si dovrebbe conchiudere ch'ei non capiva quello che leggeva né quello che scriveva.

Un'altra insigne prova degli stravolgimenti usati dal continuatore sia la seguente: Il Verri, nelle Osservazioni sulla tortura, § II, entrando a parlare della peste dell'anno 1630, dice: La storia di questa sciagura conviene cominciarla da un dispaccio che dalla corte di Madrid venne al marchese Spinola, allora governatore. Il dispaccio era firmato dal re Filippo IV, ec. Il Frisi dà la colpa a quel dispaccio di tutti i danni recati dalla peste; e se la famiglia del conte Verri non avesse avuto il buon giudizio di lasciar manoscritto il terzo tomo della storia, il pubblico avrebbe letto nel compendio di quelle osservazioni ivi inserito il detto passo, tramutato come segue: "un dispaccio che dalla corte di Madrid venne in questo tempo al marchese Spinola, governatore dello Stato di Milano, rese fatalmente quella pestilenza una delle più spietate che rammemori la storia, avendo essa distrutti niente meno che due terze parti di cittadini. Il dispaccio era firmato dal re Filippo IV, ec.", e prosegue quindi la narrazione come sta nell'opera di Verri.

Ancora un esempio, e darò fine. Negli Annali riportò il Verri, sotto l'anno 1617, il racconto di una misera cameriera, stata bruciata come strega per avere ammaliato il senatore Melzi. Il Frisi l'ommise nel manoscritto del suo terzo tomo, e lasciò negli Annali del conte Verri l'annotazione di averlo fatto avvertitamente, perché molte principali persone vi fanno poco buona figura, e la notizia della strega non interessa la storia. Interessava meno la storia la nomenclatura de' ballerini e de' balli del secolo decimosesto; eppure per non ommetterla le diede un posto fuor di luogo, anticipandola di cinquant'anni. Il vero è che quella nomenclatura faceva conoscere i costumi piacevoli de' nostri maggiori; e il racconto della strega mostrava per il contrario l'ignoranza e i costumi barbari di essi, anche nelle classi più eminenti. Sia però onore ai nostri tempi, poiché se due secoli fa chi aveva il supremo potere, si compiaceva nel far arrostire i suoi simili, e il riputava uno dei più sacri suoi doveri, la moda è talmente passata, che si ha vergogna di parlarne. Tale è l'effetto dei progressi dell'incivilimento, di ridurre alle forme del vero gl'idoli della fantasia, come li direbbe il gran cancelliere Bacone, liberando così gli uomini dalla tirannia delle false opinioni armate del potere, le quali, dopo di averli oppressi per secoli, sono poi riconosciute per assurdità. Così avvenne del diritto preteso dai papi di essere arbitri dei troni, sciogliendo i popoli dall'obbedienza; del possesso in cui per sì lungo tempo si mantenne il clero, di non contribuire ai pesi dello Stato che lo proteggeva; del feudalismo de' nobili, del diritto di tenere schiavi gli uomini, dell'esistenza delle streghe e perfino degli indemoniati.

§ IV. - Del mio lavoro

L'opera da me impiegata fu di due maniere. Per l'epoca dal 1525 al 1565, intorno alla quale esisteva la stampa del Frisi, mi circoscrissi a ristabilire nella loro integrità le parti spettanti al Verri col confronto delle minute da lui lasciateci; e dove lui trovai mancante di questa scorta, ridussi il testo alla dicitura che mi è sembrata più naturale e conveniente, seguendo l'ordinario lume della critica, che facilmente mi ha insegnato a distinguere lo stile stemperato e da predica, ed a sostiturgli quello di una spontanea e compendiosa narrazione. Il confronto che voglia farsi tra la stampa frisiana e la mia, ne mostrerà la somma differenza. Il togliere, l'aggiungere, il mutare fu opera di lunga lena e di gran noia, e quel ristauro importò una fatica assai maggiore, che non sarebbesi usata nel fare di nuovo. E il fu ancora di più, attesa la fedeltà propostami di conservare scrupolosamente il testo del Verri, e perfino qualche trascuratezza di lingua, riflettendo che l'emendare questi nêi nel solo quarto volume avrebbe recato difformità in confronto degli altri; e sono altronde macchie lievissime nel nostro storico presso qualunque lettore che nelle storie richieda, come principal merito, pensieri, nervo, stile, e non badi che per ultimo alle parole.

La stessa scrupolosa fedeltà ho osservato nell'inserire nel mio successivo lavoro i frammenti che ho trovato servibili nelle note del mio autore; ed oltre il fatto già accennato dell'uccisione del Maraviglia, e il ragguaglio dello stato in cui erano in Milano l'arte del ballo e del teatro al termine del secolo decimosesto, suoi sono i racconti del fine tragico della contessa di Celano, dell'ingresso in Milano dell'arciduchessa sposa del re Filippo III, della legazione a Roma del senatore Giambattista Visconti, della cameriera del senator Melzi bruciata nel 1617 come strega; la nota sul carattere de' nobili circa la metà del secolo decimosettimo i fatti della condizione di Milano sotto il governatore Ponze di Leon; i caratteri del conte di Fuentes, del duca d'Ossuna e di alcuni ministri sotto il governo della casa d'Austria; la relazione della venuta e dimora in Milano dei Gallo-Sardi nella guerra del 1733, e dell'imperatore Leopoldo II nel 1791. In tutti questi frammenti non v'è altro di mio se non che pochi adattamenti estrinseci per connetterli e conformarli al corpo della narrazione; ma il fondo dei fatti, e in gran parte anche le parole appartengono al conte Verri. Anzi fino alla metà circa del secolo decimosettimo non ho voluto riportare altri fatti, fuorché quelli accennati da esso nelle sue Memorie, come destinati per il proseguimento della storia; ma li riscontrai alle fonti, e diedi loro quello sviluppamento che l'autore solevasi riservare nel dar forma al suo lavoro. Perciò ho intralasciato più cose che poteva avere pronte, e che (per valermi di una frase d'uso, benché poco modesta) avrebbero potuto illustrare maggiormente l'opera, come, per esempio, l'esposizione de' tributi straordinari imposti allo stato di Milano nei regni infausti e turbolenti di Carlo V e di Filippo II, per cui il solo Mensuale fu quadruplicato sotto diversi nomi; mostrare che in que' sovrani l'ambizione e l'alterigia erano pareggiate dall'indifferenza sulla sorte de' popoli, sicché le guerre erano per sistema intraprese e condotte senz'alcuna predisposizione per gli approvvigionamenti e per le paghe, e gli eserciti vivevano di rapina e a discrezione a carico de' miseri sudditi; estendermi in maggiori prove dell'annichilamento di tutte le sorgenti della prosperità pubblica, allorché i flagelli fisici, la fame e la peste, si collegarono coll'inerzia e coll'indolenza quasi asiatica de' re successivi e colla brutale onnipotenza de' governatori; svolgere l'influenza esercitata sulla nazione dalla lunga durata e dalla scandalosa pubblicità delle controversie giurisdizionali, e altri fatti recarne, quali furono quelli col vescovo di Pavia per la dipendenza metropolitana, di che tratta Bernardo Sacco, e per l'immunità de' coloni ecclesiastici, che diede occasione a un celebre consulto del Menochio, allora presidente del senato.

Se le accennate ed altre ommissioni furono volontarie, di altre diverse hanno debito le circostanze; ma sarebbe ora superflua cura il farne discorso. Chiuderò quindi desiderando che, nell'accingersi a giudicarmi, di due cose siano avvertiti i miei lettori: l'una, che loro si presenta l'opera di un novizio in questa parte di studi; l'altra, che vogliano disporsi ad una moderata aspettazione dal lato dell'importanza de' fatti che ho avuto a narrare, i quali non avrei potuto rendere più copiosi e interessanti, se non imitando il comune difetto degli scrittori di storie particolari, coll'innestare nel mio lavoro i fatti della storia generale.

24 dicembre 1825.

PIETRO CUSTODI

Capitolo XXIV

Battaglia di Pavia.

Il re Francesco I rimane prigioniero. È condotto a Madrid. Sua liberazione.

Vicende in questi tempi della lega di Francesco Il Sforza, duca di Milano, e di Girolamo Morone

Leone X, alleato di Carlo V, avea terminata la vita, siccome si è detto di sopra, nel tempo appunto in cui si otteneva lo scopo della Lega col discacciare i Francesi dalla Lombardia. Adriano VI, suo successore, nel breve suo pontificato d'un anno e mezzo, o poco più, si mostrò piuttosto sacerdote che sovrano. Clemente VII Medici, cugino di Leone X, fu creato sommo pontefice, mentre i Francesi, sotto Bonnivet, se ne ritornavano al loro paese, dopo un tentativo infelice per occupar Milano. Dovevasi ognuno promettere che questo papa mantenesse la lega; poiché ei da cardinale l'aveva formata; ma così non avvenne. Clemente VII si unì col re Francesco I, promettendogli il regno di Napoli, e ricevendo dal re la guarenzia dello Stato Ecclesiastico e della repubblica fiorentina per la casa Medici. Tutto però segretamente si fece nel tempo in cui durava l'assedio di Pavia. (1525) Frattanto il vicerè Lannoy aveva sprovveduto il regno di Napoli di soldati, i quali erano in marcia alla vôlta del Milanese; laonde il re staccò il principe Stuardo di Scozia, duca d'Albania, con ducento lance, seicento cavalleggieri e quattromila fanti, e comandògli di marciare verso Napoli per occupare quel regno; la quale sconsigliata impresa lo indebolì poscia a fronte de' nemici, e fu una delle cagioni delle rovina della sua armata e della perdita della sua libertà. Il Lannoy non si curò di far correre dietro al duca d'Albania, e unicamente rese avvisati i comandanti de' presidii del Napolitano per la difesa; per tal modo schivò il pericolo di perdere il Milanese col Napoletano, e poterono le forze rivolgersi tutte al soccorso di Pavia. La marcia de' Francesi attraverso lo Stato pontificio, il transito delle munizioni fatto per Piacenza e Parma, possedute dal papa, svelarono tosto agl'Imperiali che il papa s'era unito col re; sebbene non apertamente si fosse dichiarato di essere lui nimico dell'imperatore Carlo V. Pensò il re di rinforzare la sua armata, ordinando che i suoi Francesi acquartierati in Savona marciassero a Pavia, senza avvertire che dovendo coteste milizie passare ne' contorni di Alessandria, presidiata da' Cesariani, non erano sicure nella loro marcia. In fatti Gaspare del Maino, comandante di quel presidio, fece prigioniere tutto quel corpo. Frattanto al Lannoy giunsero dodicimila Lanschinetti tedeschi, e quindi si trovò alla testa di diciottomila fanti, settecento uomini d'armi ed altretanti cavalleggieri. I dodicimila Tedeschi erano comandati da Giorgio di Frandsperg, uomo di statura colossale, di forza prodigiosa, di gran coraggio, Luterano passionato; il quale venne a quell'impresa coll'idea di far onta al papa, ed a tal fine portava seco un cordone d'oro in forma di capestro, e lo mostrava dicendo: a ogni signore ogni onore. Così mentre da malaccorto il re Francesco, coll'indebolirsi, andava preparando la propria sciagura, i nemici si rinforzavano. Al difetto di prudenza nel re si aggiungevano la trascuratezza dei capi dell'esercito, e l'indisciplina de' soldati. Bernardo Tasso, padre dell'immortale Torquato, si ritrovava nell'armata del re di Francia, mentre era sotto Pavia, ed in una lettera al conte Guido Rangone, così gli scrive: Questo esercito mi pare con poco governo, con molta licentia, et più grande di numero che di virtù. Poca speranza gli è rimasa di poter pigliare la città, hora che i nemici si vanno avvicinando; e poco dopo: questo esercito mi pare piuttosto pieno d'insolenza che di valore... Io più tosto temo che spero del successo di questa impresa; et quello che più mi fa temere è, che veggio che apertamente Sua Maestà s'inganna nelle cose più importanti, giudicando il suo esercito maggior di numero, et quel de' nemici minore di ciò che in effetto sono... Io vedo questo campo con quel poco ordine che era quando i nemici eran lontani; né a questa troppa sicurtà so dare altro nome che imprudentia o temerità. Guicciardini, presso a poco, dice lo stesso: Risedeva il peso del governo dell'esercito presso all'ammiraglio; il re, consumando la maggior parte del tempo in ozio o in piaceri vani, né ammettendo faccende o pensieri gravi, dispregiati tutti gli altri capitani, si consigliava con lui: vedendo ancora Anna di Momoransi, Filippo Ciaboto di Brione, persone al re grate, ma di picciola esperienza nella guerra: né corrispondeva il numero dell'esercito del re a quello che ne divulgava la fama, ma eziandio a quello che ne credeva esso medesimo.

Ho procurato d'indagare come mai il duca Francesco Sforza, principe che non mancava di valore, s'accontentasse di starsene quasi ozioso nel Cremonese, mentre si disponeva il gran fatto d'armi che doveva decidere del destino dello Stato suo. L'armata cesarea era comandata dal vicerè di Napoli don Carlo Lannoy: ivi trovavasi il duca di Bourbon, ivi il famoso don Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara, ivi il marchese del Vasto; ed il duca Sforza, che alla Bicocca e ad Abiategrasso aveva superati coraggiosamente i nemici, ora erasi limitato a sgombrare il fiume Po da ogni comunicazione co' Francesi. Non mi è accaduto di trovare che alcuno degli scrittori avesse la medesima curiosità. Quindi o convien supporre che gl'Imperiali per gelosia e sospetto non lo bramassero, ovvero ch'egli non vedesse di sua convenienza il trovarsi in un esercito, nei suoi Stati, senza averne il comando, e senza nemmeno avere il titolo di generale al servigio di Cesare.

Ai sovradetti indebolimenti dell'armata francese aggiungasi che Sant'Angelo sul Lambro era presidiato da ottocento Francesi, sotto il comando di Pirro Gonzaga, e da ducento cavalieri. Fu preso d'assalto; e il marchese di Pescara fu il secondo che ascese le mura, ed ebbe l'abito forato da due archibugiate; la guarnigione uscinne disarmata, coll'obbligo di non servire per un mese. Casal Maggiore era occupato da' Francesi sotto il comando di Giovanni Lodovico Pallavicino, che lo presidiava con duemila fanti e quattrocento cavalli. Alessandro Bentivoglio, alla testa di un corpo d'Italiani fece, con un fatto d'armi, prigioniero il Pallavicino, caduto da cavallo, e disperse affatto il presidio francese. Prima che si avanzasse l'armata cesarea a Pavia, conveniva, assicurarsi le spalle e non lasciar dietro i Francesi in que' due luoghi, d'onde difficoltavano le provvisioni. Se i Francesi avessero avuta la stessa precauzione, non si sarebbero inoltrati a Pavia, lasciando presidiata Alessandria da Gaspare del Maino, il quale, siccome ho accennato pocanzi, batté e disarmò un corpo di duemila soldati, che erano in marcia venendo dalla Francia per unirsi al re. Oltre a questi primi danni, cioè al distacco del Principe Stuardo di Scozia, spedito verso Napoli, alla perdita di due presidii di Sant'Angelo e Casal Maggiore, alla perdita di duemila sorpresi verso Alessandria, un nuovo accidente sventurato accadde al re e forse più gravoso, cioè che quattromila soldati grigioni, che erano al di lui stipendio, se ne partirono quasi improvvisamente. Giovanni Giacomo Medici, che s'era reso signore del castello di Musso, con insidie s'era altresì reso padrone di Chiavenna, città importante dei Grigioni. Per la qual cosa con lettere della loro Repubblica vennero immediatamente chiamati i Grigioni in soccorso della patria, sotto pena di infamia e di confisca. Così l'esercito francese si ridusse di numero quasi uguale al cesareo.

Il duca di Borbone e il marchese di Pescara ricevettero frattanto il rinforzo di ottomila Tedeschi. Fecero radunare le truppe che tenevano acquartierate in Cremona, Lodi ed altri luoghi; formarono un corpo di ventiduemila fanti, oltre i cavalli, e per Sant'Angelo marciarono a Pavia, e si collocarono vicini e di fronte al campo francese, cosicché le guardie avanzate nemiche si parlavano. Il Guicciardini scrive che Pescara s'avviò per la battaglia sotto Pavia con settecento uomini d'arme, settecento cavalli leggieri, mille fanti italiani, e più di sedicimila tra Spagnuoli e Tedeschi. Ivi si mantennero per venti giorni, mettendo in allarme e inquietando i Francesi, ut primum metu ac sollicitudine vexarent, deinde cum vanum timorem consuetudine remisissent, securiores offenderent, ubi visum esset vero praelio lacessere. Il re Francesco stava ben munito nel suo campo, situato nel parco, il quale, essendo cinto di mura, non dava accesso a' Cesarei, se non per alcune porte ben presidiate da' corpi avanzati francesi. Sperava il re che, stando a fare la guerra difensiva, e guadagnando tempo, l'armata imperiale, mancante di stipendio e mal provveduta di tutto, dovesse sciogliersi da sé medesima. Infatti i comandanti cesarei temevano lo stesso, e perciò deliberarono di commettersi alla fortuna d'una battaglia. Allora i soldati erano mercenari e liberi. Nessun bottino potevano sperare i Francesi debellando i Cesariani, mancanti di tutto. Per lo contrario sommo profitto avevano in vista i Cesarei battendo i Francesi, il re, i principali signori del regno, tutti radunati con immense ricchezze e pompe, e ciò oltre il profitto del riscatto di sì illustri prigionieri. I Francesi avevano la presenza del loro re ad animarli, l'ambizione di segnalarsi sotto de' suoi sguardi, ma l'armata non era per la maggior parte di Francesi; v'erano Tedeschi, Svizzeri, Italiani, Spagnuoli, ed oltre a ciò, i più erano affatto mercenari e gregari. Perciò la condizione de' Cesarei era migliore d'assai. Il quartiere del re stava a Mirabello, delizia de' duchi di Milano. Il campo era cinto di terrapieno con fossa, fuori che da un lato, che si credeva bastantemente munito col muro del parco. Il marchese di Pescara, che da ogni canto osservava la posizione del re, s'avvide che poco custodivano i Francesi quella parte che credevano più sicura pel riparo del muro. Se il muro si gettava a terra, il che non era difficile, era aperto l'adito ad impadronirsi di Mirabello.

Confermatisi il duca di Borbone e il marchese di Pescara nella risoluzione di avventurare la battaglia, passarono di concerto col comandante di Pavia Antonio Leyva, e si fissò il giorno di san Mattia, 24 febbraio, giorno di gala per essere l'anniversario della nascita di Carlo V. Frattanto negli otto precedenti giorni gli Imperiali incessantemente, anche di notte, diedero l'allarme ai Francesi, e col favore dello strepito di trombe e de' timpani guastarono per qualche tratto le mura del parco, sicché alla minima scossa cadessero poi. Queste mosse ingannarono i Francesi, che credettero uno de' molti falsi allarmi anche l'attacco importante del giorno 24. Per essersi gl'Imperiali accostati così d'appresso al campo francese, il te tenne un consiglio nel quale Luigi d'Ars, il Sanseverino, il Galiot de Genouillac, il maresciallo di Chabannes, il maresciallo di Foix, e il famoso la Tremouille opinarono che fosse da abbandonarsi il blocco di Pavia e ritirarsi a Binasco; ma prevalse il Bonivet, secondato dal Montmorenci, da San Marsault e da Brion, i quali adularono l'inclinazione del re, che già aveva promulgato per l'Europa, che o prendeva Pavia, o vi periva.

L'ammiraglio Bonnivet ebbe il comando di quella giornata. Il campo francese, esteso più di tre miglia, era postato in guisa che impediva l'ingresso da ogni parte in Pavia, comunicava col parco di Mirabello, e dominava vantaggiosamente la campagna. Il duca d'Alençon col corpo di riserva era a Mirabello; la prima linea era comandata dal maresciallo di Chabannes, il corpo di battaglia lo era dal re. Il marchese di Pescara si determinò di entrare pel parco di Mirabello, e di soccorrere Pavia, con questa mira che, se i Francesi scendevano dal campo per difendere il parco, perdessero il vantaggio della loro posizione, ed egli dêsse loro battaglia; se non dipartivansi, facil cosa era il superare il duca d'Alençon, ed alla vista de' Francesi portare tutto il soccorso a Pavia. Tre ore prima del giorno il marchese di Pescara si mise in ordine per attaccare il re. Divise l'esercito in più corpi. Il primo lo diede ad Alfonso d'Avalo, marchese del Vasto, di lui nipote, composto di cinquemila fanti e cinquecento cavalli. Il secondo a Giorgio Frandsperg, di quattromila fanti. Un corpo di riserva fu affidato al nipote del viceré di Napoli. Il viceré Lannoy comandava un corpo di cavalli. Un altro corpo di cavalli lo comandava il duca di Borbone. Altri minori drappelli dispose il Pescara, i quali al cominciare l'attacco si trovarono alle spalle dei Francesi, alle diverse porte del muro del parco. Il marchese avea fatto porre a tutti i suoi una camiscia sopra le armi, perché nella oscurità della notte si potessero conoscere fra di loro: stratagemma imitato nella Slesia nel 1757. Prima dell'alba del 24 febbraio, mentre si avanzavano a Mirabello, gl'Imperiali fecero de' finti attacchi con molto fragore d'artiglieria, acciocché non si sentisse quanto accadeva a Mirabello. All'aurora si videro gli Spagnuoli entrati nel parco per un'apertura assai larga, fatta la notte precedente con tal destrezza e silenzio, dice il Bugati, che appena da' nemici fu udito il rumore. Il marchese di Pescara, innanzi a tutti, colla maggior parte della fanteria italiana e spagnuola, diede dentro tra le guardie francesi; il duca di Borbone, guidando la sua cavalleria, s'innoltrò da altra parte del parco verso i quartieri del re cristianissimo, ma trovò che il re e i suoi erano marciati contro il Pescara. Don Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, s'impadronì di Mirabello. Un suo distaccamento era già alle porte di Pavia, ma Brion, mandato dal duca d'Alençon, lo batté. Galiot de Genouillac, che si era reso illustre nella battaglia di Marignano, profittò del momento, e collocò una poderosa artiglieria contro quel vano delle mura del parco per dove entravano gl'Imperiali, la quale talmente gli scompigliò, che disordinatamente si ricoverarono in un luogo basso per essere salvi da' colpi del cannone. Il re, invece di combattere contro il marchese del Vasto, per tal modo isolato, sconsigliatamente uscì dal vano, e si diradò per la campagna con tutta la gendarmeria; così l'artiglieria del Genouillac dovette cessare per non offendere il suo re. Gl'Imperiali s'avvidero dell'errore da questi commesso. Il duca di Borbone co' Lanschinetti, il marchese di Pescara cogli Spagnuoli, il viceré Lannoy cogl'Italiani attorniarono il re. Il marchese del Vasto venne a prenderlo alle spalle. Il Leyva vigorosamente uscì da Pavia, lasciando il magnifico e valoroso Matteo Beccaria alla difesa della città. Allora il maresciallo di Chabannes accorse a soccorrere il re, e se gli pose al fianco destro col corpo ch'egli comandava. Il duca d'Alençon formò un'ala sinistra al re. Fra il re e Chabannes v'erano le Bande Nere, cinquemila, tutte veterane tedesche, che avevano combattuto a Marignano. Il duca di Suffolk Rosabianca le comandava. Così fra il re e il duca di Alençon vi era un corpo di diecimila uomini svizzeri comandati dal colonnello Diespach. Un corpo di Lanschinetti, guidati dal duca di Bourbon, sconfisse totalmente le Bande Nere. Il conte di Vaudemont, il duca di Suffolk rimasero estinti sul campo. Borbone si rivolse poi contro il corpo di Chabannes, che rimaneva staccato. Il bravo Clermont d'Amboise cadde morto, e il maresciallo di Chabannes terminò di vivere nel modo seguente. Egli ebbe ucciso sotto di sé il cavallo. Vecchio com'era, cercò di combattere a piedi; ma Castaldo, luogotenente del Pescara, lo fece prigione. Castaldo conduceva in luogo sicuro il suo prigione; un capitano spagnuolo, per nome Buzarto, osservò Chabannes, il più bel vecchio del suo secolo, nobile, magnifico, e riconobbe che doveva essere un signore di distinzione, di cui diverrebbe lucrativo il riscatto; pretese di essere associato al Castaldo, che lo ricusò; e il Buzarto con una archibugiata gettò morto il maresciallo di Chabannes, dicendo: ebbene, non sarà dunque né mio né tuo. Così terminò i suoi giorni questo illustre francese, che s'era trovato a Fornovo nel 1495, ad Agnadello nel 1509, a Ravenna nel 1512, dove comandò, morto il duca di Nemours, a Marignano, alla Bicocca, ec. Egli aveva il soprannome di gran maresciallo di Francia.

Il re faceva prodigi di valore, e si riconosceva da un manto di tela d'argento (cotte d'armes), e dal cimiero fregiato di copiose e lunghe piume. Di sua mano egli uccise Castriotto, marchese di Sant'Angelo, ultimo discendente degli antichi re d'Albania, che contava per suo avo paterno Scanderbeg. Il re si batté lungamente con un gentiluomo della Franca Contea, per nome Andelot, e lo ferì nella faccia. Il marchese di Pescara con mille e cinquecento archibugieri Baschi piombò sulla gendarmeria del re. Costoro, scaricato l'archibugio, con mirabile disinvoltura si nascondevano, caricavano, e ritornavano a ferire. Il re, per coglierli, dilatò i suoi gendarmi; e gli archibugieri, penetrati e sparsi per entro, in meno d'un'ora rovinarono il corpo invincibile della gendarmeria francese. La Tremouille cadde ferito nel cranio e nel cuore. Il gran scudiere Sanseverino cadde moribondo. Guglielmo di Bellai Langey, vedendolo cadere, scese da cavallo per dargli soccorso: non ho più bisogno d'alcun soccorso, disse il moribondo, pensate al re, e lasciatemi morire. Luigi d'Ars, il conte di Tournon caddero morti. Il conte di Tonnerre appena poté essere riconosciuto fra i morti, tante erano le ferite della sua faccia! Il barone di Trans stavasene all'ala sinistra sotto il comando del duca d'Alençon, assai malcontento di dover trovarsi nella inazione. Il figlio suo unico era nel corpo del re, e, dopo d'aver combattuto ed esaurite le sue forze, si ritirò presso del padre. Il barone di Trans gli chiese dove fosse il re: Nol so, rispose, ansante e grondante di sudore, il figlio. Va e sappilo, disse il padre severamente, arrossici di non lo sapere. Il figlio Trans s'ingolfa fra i combattenti, s'accosta al re, e per un colpo d'archibugio cade a' suoi piedi.

Il duca Carlo d'Alençon, primo principe del sangue, in vece di porgere soccorso al re, si ritirò colla sua ala di cinquecento cavalieri, e fu il primo a vituperosamente fuggire; se non fu maliziosamente (dice il Bugati), come tennero alcuni, aspirando egli ad esser re, morto che fosse il re Francesco. Tagliò il ponte di legno che poco di sotto a Pavia era fabbricato a San Lanfranco, acciocché non l'inseguissero i Cesarei. Perciò molti Francesi, ivi giunti sulla speranza di passarvi sicuri all'altra sponda, dovettero avventurarsi ai gorghi del fiume e sommergervisi; poi v'erano a forza spinti dai fuggitivi, che colla fiducia stessa correvano sulle loro tracce, e vi si affogavano. Gli Svizzeri, vedendo scoperto il loro fianco sinistro per la ritirata del duca, e credendosi a tradimento sacrificati all'odio dei Tedeschi di Frandsperg e Sith, che marciavano loro incontro, non vi fu più modo di tenerli. Diespach disperatamente si scagliò solo a farsi uccidere dai soldati di Frandsperg. Abbandonato il re a pochi, perirono intorno di lui il maresciallo di Chaumont, d'Amboise, Estore di Bourbon, il visconte di Lavedan, Francesco conte di Lambesc, fratello del duca di Lorena e del conte di Guise, ed una moltitudine di valorosi cavalieri. Il Bastardo di Savoia, gran maestro di Francia, vi morì. Il maresciallo di Foix, col braccio fracassato e mortalmente ferito, galoppava furiosamente per rinvenire l'ammiraglio Bonivet, al quale attribuiva il disastro, per traforarlo col braccio che gli rimaneva, e morire contento d'aver vendicato la Francia; ma perdette tanto sangue, che cadde, e fu portato a Pavia, dove morì nella casa della contessa di Scaldasole. Bonivet, vedendo perduta ogni speranza, si scagliò quasi inerme fra i Lanschinetti del duca di Borbone, e si fece uccidere. Il duca di Borbone bramava di far prigioniere Bonivet, e vedendolo steso morto esclamò: Ah misero, tu sei cagione della rovina della Francia e della mia!

Il re, tenuto sempre di vista onde farlo prigione, rimase solo in faccia de' nemici, avendo un parapetto di morti avanti di sé. Raggiunto in un prato paludoso da un colpo di fucile, gli cadde finalmente sotto il cavallo. Egli aveva due ferite in una gamba. Caduto che fu, venne attorniato da un nembo di soldati; Tedeschi e Spagnuoli se lo disputavano. Il re, ferito come era anche in fronte, combattendo a piedi, si difendeva colla mazza di ferro. Per buona sorte sopragiunse il Lannoy, al quale egli si arrese prigioniero; e fu opportuno il di lui arrivo, poiché altrimenti correva pericolo il re di essere fatto in pezzi, tanta era la voglia che ciascuno aveva di possedere un tal prigioniero. Due cavalieri spagnuoli, Giacomo ossia Diego d'Avila e Giovanni Urbieta Biscaino, conosciuto chi egli era, lo aiutarono a salire a cavallo; ma il d'Avila gli tolse la spada, e l'Urbieta la collana del toson d'oro. Il re rimase spogliato di quanto aveva di prezioso. La di lui sopraveste fu squarciata in cento parti, e i pennacchi dell'elmetto reale furono spaccati in minimi frammenti, gloriandosi ciascuno di portare una memoria di così illustre presa. Don Carlo Lannoy, smontato da cavallo, baciò rispettosamente la mano al re inginocchiandosi; altretanto fecero i primi signori che ivi sopragiunsero. Questa memorabile battaglia non durò due ore; e rimasero in essa estinti novemila del campo francese. I feriti e prigionieri furono, oltre il re di Francia, Enrico d'Albret, re di Navarra, il gran Bastardo di Savoia, il principe di Lorena, l'Ambricourt, Bonavalle, San Polo, Galeazzo e Bernabò Visconti, Federico Gonzaga da Bozzolo, Girolamo Aleandro, vescovo di Brindisi e nunzio del papa, e varii altri signori. Degli Imperiali solo mille e cinquecento rimasero morti, con due soli capitani di conto, cioè don Ugo di Cardona, e Ferrante Castrioto, marchese di Sant'Angelo.

Il re cristianissimo con molto rispetto fu condotto all'alloggiamento del viceré don Carlo Lannoy a San Paolo; dove, medicate le ferite, scrisse alla duchessa d'Angoulême, sua madre, quella breve e terribile lettera: Signora, tutto è perduto, fuor che l'onore. Il duca di Borbone presentò al re magnifiche vesti per disarmarsi; ed al pranzo il viceré Lannoy lo servì, presentandogli il catino da lavar le mani, il marchese del Vasto versò l'acqua, il duca di Borbone lo sciugatoio. Il Borbone lasciava cader le lagrime, mirando prigioniero il re. La sera il re volle che Lannoy e Vasto cenassero seco. Pescara venne ad osservarlo senza pompa e con modeste maniere, e piacque al re sopra ad ogni altro. Gli si concessero i suoi paggi, si ricuperarono abiti, camiscie e molte cose rappresagliate, che i soldati medesimi generosamente presentarono, e fra queste una coppa d'oro, in cui soleva bere il re, ed una croce di oro che papa Leone gli aveva posta al collo in Bologna, e così venne nobilissimamente trattato come se fosse stato, non che libero, ma nella stessa sua reggia. Tre giorni stette nel monastero di San Paolo il prigioniero Francesco I; indi il 28 di febbraio, fu condotto nella fortezza di Pizzighettone, e collocato nella Rocchetta, col gran maestro di Francia, il duca di Montmorenci, ove dimorò sino al 18 maggio. Così il Grumello; il quale aggiugne che ne' giorni che ivi stette, sintanto che venissero da Spagna gli ordini, il re giuocava a varii giochi et maxime al ballono. Il Muratori, ne' suoi Annali, ne accerta altresì che al re Francesco furono concessi per sua compagnia venti de' suoi più cari, scelti da lui tra quelli ch'erano rimasti prigionieri. Una vittoria così compita, con tanta strage dell'esercito francese, e poca perdita degl'Imperiali, è troppo naturale che producesse quanto afferma il Bugati, vale a dire che tutto il campo francese restasse in preda de' soldati, et più de gli Spagnuoli, per cotal vittoria fatti sì ricchi et sì insolenti, quanto altra fiera milizia che più fosse in Italia, minacciando apertamente di cacciar di Stato il duca di Milano, se presto non gli soddisfaceva di quante paghe dovevano avere, e che i Francesi abbandonassero Milano in un momento. Anzi v'è chi scrisse che il grido di questa vittoria fu tale, che nel giorno medesimo restò libera dai Francesi, non solo la città, ma tutto il ducato. Giunta a Madrid la gran nuova della presa del re cristianissimo e della disfatta terribile del suo esercito, il re augusto Carlo V non permise che si facesse pubblica allegrezza, ed ei medesimo seppe contenersi a segno, che meritò l'ammirazione: nullam ex more gratulationem publice fieri passus est, nec ipse laetitia exultavit, sed gaudium moderate pro sua gravitate tulit. Il Tegio riporta la traduzione della lettera che la reggente Luisa, madre del re, scrisse a Carlo V in quella occasione, ed è come segue; A monsignor mio buon figlio l'imperatore Carlo - Monsignore mio buon figlio, dopo che io ho udito e saputo da questo gentiluomo presente, portatore di questa mia, la fortuna la quale è occorsa a monsignore il re mio figlio, io rendo grazie a Dio di questo ch'egli sia capitato nelle mani di quel principe del mondo che io più amo, sperando che la imperiale Maestà vostra ne debba tenere quel buon conto per lo mezzo del sangue, confederazione e lignaggio il qual è tra voi e lui, et in caso che questo avvenga (come io tengo per certo) ne seguirà un gran bene et universale a tutta la cristianità dall'amicizia e riunione di voi due; e perciò, mio signore e figlio, io vi supplico che lo abbiate per raccomandato, e che in questo mentre comandiate ch'egli sia ben trattato come il grado vostro e suo lo richiede, e commettiate che egli sia servito in tal maniera ch'io possa spesso intendere del suo ben stare e della sua sanità, e così facendo, voi vi obbligherete una madre, la quale d'ogni ora voi avete così nomata: et ancora vi prego che ora voi vi mostriate padre per affezione, come io a voi madre per dilezione. Da San Giusto in Lione, il terzo giorno di marzo 1525. - La vostra humil madre Lovisa. Fra i prigionieri fatti in questa battaglia di Pavia, il principe di Bozzolo Federico Gonzaga, corrotte le guardie, si pose in salvo. Il conte di San Polo, principe del sangue, creduto morto, venne mutilato da un soldato imperiale col taglio di un dito per levargli un anello; il dolore gli fece dar segni di vita, e poté palesare al soldato chi egli era, il quale per godere solo del prezzo del riscatto, lo custodì incognito, lo guarì dalle sue ferite, e l'accompagnò in Francia. Il marchese di Pescara avea comprato dai militi cesariani il re di Navarra per settemila scudi, e lo teneva suo prigioniero nel castello di Pavia, cercando settantamila scudi per il riscatto. Ma i fratelli Lonate, gentiluomini pavesi, colle scale di corda, lo liberarono; indi lo scortarono con cavalli e servi sino in Francia. Essi perdettero la patria; il re diede loro nella Francia con che vivere.

Tanta felicità delle armi cesaree eccitò ben presto negli animi di quasi tutti i principi d'Italia un ragionevole timore d'essere l'uno dopo l'altro oppressi e soggiogati dal vicino esercito; ond'è che, dopo varii ripieghi, specialmente progettati tra Clemente VII ed i Veneziani, stimò più opportuno il pontefice di stabilire una concordia cogli Imperiali per mezzo di Gian-Bartolomeo da Gattinara, ministro di Cesare in Roma, restando conchiuso quest'accordo, il 1° di aprile 1525, pubblicato poi nel dì 10 di maggio dello stesso anno. Le condizioni principali di questo trattato, nel quale fu compreso Francesco Sforza qual duca di Milano, furono la scambievole difesa del ducato di Milano e degli Stati pontificii, compresa Fiorenza coi Medici che vi dominavano, e la contribuzione di centomila ducati da darsi dai Fiorentini, con che le truppe cesaree partissero dai quartieri occupati nelle terre di Parma e Piacenza. I Veneziani, a' quali era stato lasciato il luogo d'entrarvi, intese le mire del re inglese di collegarsi colla regina, madre del re prigioniero, sospesero di determinarsi ad alcun partito. Frattanto gl'insorti lampi di speranza per la tranquillità dell'Italia lasciavano luogo a qualche angustia d'animo ne' ministri cesarei sulla sicurezza del re Francesco in Pizzighettone. Infatti il Lannoy ragionevolmente sospettava che il re da Pizzighettone non venisse o tolto per subornazione di qualche generale, o per tumulto de' soldati, mal pagati e vinti dalla umanità del re, o per effetto di qualche unione de' principi italiani, e singolarmente dello Sforza, il quale poteva acquistarsi un sicuro godimento dello Stato col liberare Francesco I, o coll'opera del duca di Borbone, che potevasi riconciliare con tale beneficio. Forse questi sospetti del viceré Lannoy accelerarono nell'animo di Carlo V la risoluzione di volere al più presto in Ispagna tradotto il re prigioniero. Lannoy, vedendo il re impaziente della sua liberazione, colse l'opportunità di persuadergli che in un'ora di colloquio coll'imperatore si sarebbe terminato ciò che portava degli anni, trattato ministerialmente. Quindi fecegli desiderare di andare in Ispagna. Tutto fu segretamente concertato, fingendosi di condurlo a Napoli per custodia più sicura. Venne destinato a scortare il re in Ispagna, a preferenza del marchese di Pescara, a cui principalmente dovevasi la insigne vittoria di Pavia. Preferenza ingiuriosa, e che perciò produsse nel Pescara una palese malcontentezza di Cesare, ed un'inimicizia aperta col Lannoy, da cui poscia derivarono gravi conseguenze. Pertanto, sul fine di maggio, scrive il Muratori, scortato esso re da trecento lance e da quattromila fanti spagnuoli, fu menato a Genova, dove, imbarcatosi con dieci galee genovesi ed altretante franzesi, ma armate dagl'imperiali, in compagnia del viceré Lanoy, arrivò poscia a Madrid; dopo però di essere stato per qualche tempo rinchiuso nella fortezza di Xsciativa nel regno di Valenza, dove i re di Arragona anticamente custodivano i rei di Stato, siccome è concorde testimonianza degli storici. Il capitano Alarçon fu assegnato custode del re, da quando, prigioniero, fu tradotto a Pizzighettone, fino al termine del suo destino in Madrid. La permanenza del re in Pizzighettone fu di settantanove giorni, quanti se ne contano dal giorno 28 febbraio sino al 18 maggio, in cui accadde il suo trasporto in Ispagna.

Il papa Clemente VII, poco fidando nella precaria convenzione di Roma, cominciò a temere che Carlo V, coll'occasione di venire ad essere incoronato, non s'impadronisse della Romagna, e fors'anco della stessa Roma, facendo rivivere le antiche pretensioni; il che non poteva avere ostacolo, singolarmente colla dominazione ch'egli avea del regno di Napoli. Il papa anche temeva per Firenze, la quale era già divenuta una signoria della casa Medici. I Veneziani erano pure atterriti da una tanto prevalente grandezza dell'imperatore, e temevano che non cercasse di rivendicare le città della terra ferma, altre volte costituenti parte del ducato milanese. In queste circostanze, era in Roma ambasciatore di Francia Alberto Pio, conte di Carpi, signore di nascita illustre, al quale i Cesarei avevano usurpato la contea; uomo di molta sagacità ed eloquenza, e pratico de' politici affari. Questi, con intelligenza della duchessa d'Angoulême, madre del re prigioniero, gettò i primi fondamenti d'una lega per opporsi alla dominazione dell'imperatore nell'Italia. Tutto si maneggiò segretamente. Il papa ed i Veneziani non bastando, si tentò di far entrare nella lega il re d'Inghilterra Arrigo VIII. Gl'interessi del re sarebbero stati quelli di unirsi anzi con Carlo V, e mentre era il re di Francia di lui prigioniero, smembrare la Francia, togliendone la Provenza in favore del duca di Borbone, e la Brettagna ed altri Stati pretesi dalla corona d'Inghilterra, invadendoli contemporaneamente Arrigo stesso. Così veniva depressa per sempre la potenza dei rivali francesi, ed assicurato il dominio dell'Italia a Cesare. Ma le pubbliche mire cedettero anche allora, come suole comunemente accadere, alle passioni personali. Era il re Arrigo VIII sdegnato contro di Cesare, perché, avendo Carlo V sposata, d'anni sette, la principessa Maria d'Inghilterra, sua figlia, non la volle da poi per moglie, preferendole Isabella, figlia del re di Portogallo, e, come dice Sepulveda: Propter injuriam neglectae filiae, quam Carolo citra legittimam et maturam aetatem cum spopondisset, non ille quidem neglexit, sed justis de causis Isabellae, Portugalliae regis Emmanuelis filiae, posthabuit. Quindi è che Arrigo s'unì col papa, co' Veneziani, co' Francesi per far argine alla troppo estesa potenza dell'imperatore. Fattasi la lega, che si volle chiamare Santa, per esservi alla testa il papa, cominciò questa col dare al re prigioniero consigli veramente poco santi, benché utili per quel momento: Nullam fidem, nullum jusjurandum, nullos obsides dare recuset, modo se vindicet in libertatem; facile enim fore jurisjurandi veniam a pontifice maximo, principe conspirationis, qui hanc ipsam veniam ultro deferat, impetrare: così il succennato Sepulveda.

Carlo V venne in chiaro della lega, per avere i collegati tentato di trarre dal loro partito Fernando d'Avalos marchese di Pescara, vincitore del re Francesco, il quale a quel tempo era mal contento dell'imperatore, perché, senza riguardo ai segnalati servigi da lui resi alla corona, avea confidato al Lannoy la custodia e la trasmissione a Madrid del re di Francia. Anzi si era lasciato credere al Pescara, che da Genova il re si dovesse trasportare a Napoli; né egli seppe il destino del re, se non quando lo seppe ognuno. Questa diffidenza e questa ingratitudine di Carlo V, avevano lacerato l'animo sensibile del marchese di Pescara. Il marchese era Italiano; e la nazionale gelosia tra Spagnuoli ed Italiani fu la cagione di un mistero inopportuno ed ingiurioso. Perciò Girolamo Morone, gran cancelliere del ducato, ed intimo consigliere del nostro duca, uomo di molta eloquenza, dignità e dottrina, fu dai collegati incaricato ad aprire discorso col marchese di Pescara. Sepulveda ne riferisce il transunto. Ricordò il Morone al Pescara, che a gran proposito era l'occasione; che tutti i principi italiani erano pronti a far causa comune per la patria; che altro non mancava se non un capitano d'animo, di cuore, di sperienza, di celebrità, degno d'essere posto alla testa di un'armata; che il marchese di Pescara era quegli che ciascuno eleggeva; che il servigio ch'egli avrebbe reso all'Italia, oltre la gloria, non sarebbe stato senza degna mercede, poiché, scacciati i barbari, né rimanendo più alcun dominio straniero in Italia, ed assicurato Francesco Sforza e stabilito libero duca di Milano, il premio dell'invitto marchese sarebbe stato il possedimento del regno di Napoli. Non è dubbio, prosiegue il Guicciardini, che tali consigli sarebbero facilmente succeduti, se il marchese di Pescara fosse in questa congiunzione contro Cesare proceduto sinceramente. Il marchese di Pescara ascoltò la proposizione con apparente favore; soltanto mostrò d'avere avanti gli occhi la fortuna e la potenza di Carlo V, e le difficoltà da superarsi. Si protestò interessatissimo per la salute della patria. Per lo che il Morone gli svelò il piano della lega già fatta fra il papa, i Veneti, i Fiorentini, lo Sforza, il re Arrigo d'Inghilterra ed il regno di Francia. Il Pescara destinò di tenerne più comodamente discorso in casa, attesoché questo primo cenno se gli era dato sulla spianata del castello di Milano. Ma diffidando egli di un'impresa dipendente da tanti interessi combinati, e facili a sciogliersi, concepì il piano di comparire fedele all'imperatore, ed ottenere in premio il ducato di Milano, col pretesto della fellonia di Francesco Sforza. All'intento quindi di aver le prove dell'ordita trama, nascose Antonio de Leyva dietro i parati della stanza, ed ivi insidiosamente indusse il Morone a palesargli il piano della lega. Comunicato il fatto a Cesare, questi lodò la condotta del marchese di Pescara, il quale, per non romperla col Morone, mostrossi pronto, soltanto che venissero tolte le inquietudini ch'egli provava internamente col tradire l'imperatore che lo stipendiava; al che si tentò dal papa di rimediare. Pontifex, fallacibus quibusdam, sed a juris specie ductis argumentis, Marchioni persuadere nititur id facinus ab ipso pie atque sancte patrari posse. Gli ordini di Cesare volevano che venisse imprigionato il Morone per avere giuridicamente le prove della lega, e soprattutto contro il duca Francesco Sforza. In questo mentre si ammalò il marchese in Novara, e chiamò a sé il Morone, nella persona del quale si può dire che consistesse l'importanza di ogni cosa. Il Morone, che se ne diffidava, e di cui aveva detto al Guicciardini non essere uomo in Italia né di maggiore malignità né di minor fede del marchese di Pescara, volle un salvo condotto da lui; il quale poiché ebbe ottenuto, in compagnia di Antonio da Leyva cavalcò a Novara il giorno 14 di ottobre 1525. Visitato che ebbe il marchese e congedatosi da lui, mentre il Morone salutava il Leyva nell'anticamera per andarsene, questi gli disse: venite a casa con noi; il Morone ringraziò dell'invito; il Leyva ripigliò: voi ci verrete, essendo prigioniero dell'imperatore. In tutto questo fatto il Pescara si disonorò. Egli adoperò l'industria d'uno sbirro, anziché mostrare l'animo nobile e franco d'un illustre capitano. Proposizioni di cotal fatta o non si dà luogo a farle, o, fatte, si accettano, o, dispiacendo, la lealtà vuole che diasi avviso di abbandonare il progetto, o di doverlo altrimenti palesare. Carlo V non ebbe torto diffidando del Pescara. Chi è capace di servire da sbirro, è capace di mancar di fede. Il marchese di Pescara morì poi il 3 dicembre di quell'anno, di morte sospetta. Il duca Francesco Sforza spedì a Novara il senatore Jacopo Filippo Sacco per ottenere la libertà del suo gran cancelliere, ch'egli dichiarava innocente verso l'imperatore; ma il Pescara fieramente rispose, che Morone era reo, e che reo era non meno Francesco Sforza. Datosi principio agli esami, nei quali, per via di tormenti, si venne in chiaro di ogni disegno de' congiurati; e poscia da Novara tradotto il Morone a Pavia, quivi in presenza del Pescara e del Leyva furono compiti i processi; la risultanza de' quali fu che il Morone fosse condannato a perdere la testa. Nelle memorie manoscritte del Moroni trovasi l'apologia ch'ei fece di sé medesimo colla data del 25 di ottobre, undici giorni dopo la sua carcerazione. Mostra dapprima che, non essendo egli né vassallo né suddito all'imperatore, ma bensì del duca di Milano, non poteva riconoscere nel Pescara e nel Leyva veruna legittima giurisdizione sopra di sé. Poi, ricordando d'essere suddito non solo, ma gran cancelliere del duca, dichiara che senza una perfidia manifesta e una infame violazione de' suoi doveri, ei non poteva svelare i segreti del suo naturale sovrano. In seguito espone un prospetto della vita propria e della condizione presente degli affari pubblici; e con tanta energia, con tanta evidenza si difese, che, giunto a morte il marchese di Pescara, ordinò nel testamento all'erede marchese del Vasto di supplicare Carlo V per la liberazione del Morone. Ma il tardo buon volere del Pescara poco avrebbe giovato a scampare il Morone dalla morte, se non fosse venuto in pensiero al duca di Borbone, tornato di recente in Italia, di mettere a prezzo il di lui riscatto; onde gli offerse la libertà mediante il pagamento di ventimila ducati. L'irregolarità del giudizio e l'improvvisa proposta fecero credere al Morone che tutto fosse una finzione, ma sentendo che erasi già eretto il palco per la esecuzione della capitale sentenza, pagò, e fu liberato dal carcere. La carica però di gran cancelliere venne trasferita nel conte di Landriano, Francesco Taverna.

Questa pericolosissima sciagura del Morone ebbe origine dallo sdegno per le esorbitanti vessazioni con cui l'armata imperiale smungeva lo stato di Milano. Francesco Sforza non aveva che il nome di duca, sebbene l'imperatore avesse preso le armi per lui. L'imperatore avea posto un tributo di centomila ducati sul Milanese, indi chieste somme esorbitanti allo Sforza per l'investitura. Inoltre il duca, vedendo vessati sopramodo i suoi sudditi dall'esercito cesareo, avea fatto un accordo col marchese di Pescara di pagargli altri centomila ducati, con che, represse tutte le estorsioni, si prendesse egli la cura di provvedere l'esercito di viveri e di stipendi.

La somma di queste disavventure ed oppressioni del duca Francesco si fu che, giovandosi il marchese di Pescara ed Antonio de Leyva dei progetti manifestati da Girolamo Morone, fecero, in un congresso tenuto in Pavia, sentenziare di fellonìa il duca Sforza, dichiarato sovrano del Milanese l'imperatore Carlo V. In conseguenza della quale dichiarazione il marchese di Pescara fece domandare allo Sforza il castello di Milano, quello di Cremona ed altri, presidiati dal duca. Il povero duca appena cominciava a riaversi da una malattia mortale, quando gli venne fatta sì terribile intimazione dall'abate di San Nazaro. Ricusò egli di dare al Pescara i due nominati castelli: bensì accordò gli altri, e disse che se l'imperatore voleva anche quelli, e a lui fosse constato, non solamente i castelli, ma lo Stato eziandio e la vita gli avrebbe dato; ch'egli era sempre stato ed attualmente era innocente e fedele a Cesare, e sperava che tale sarebbesi fatto conoscere. Si lagnò del suo destino, che, bambino ancora, lo aveva portato esule lontano dalla patria, colla prigionia e rovina del padre; poi, ricuperato appena lo Stato nella sua adolescenza, il re di Francia ne lo aveva balzato. Finalmente, fatto prigione il re, mentre credeva veder pacifici i sudditi e ristorati dai sofferti lunghi danni, mentre credevasi tranquillo, ecco una mortal malattia, ecco una calunnia a rovinarlo. A malgrado di siffatte querele il marchese di Pescara volle entrare in Mlano. Lo Sforza chiedeva soltanto che si aspettasse la risposta di Sua Maestà cesarea; che se quella comandava che egli fosse privato dello Stato, era pronto a tutto cedere. Il Pescara ricusò di aspettare, mandò tremila Tedeschi ad assediare il castello, ove il povero duca s'era ricoverato, e da mille altri Tedeschi e cinquecento Spagnuoli fece occupare Cremona. I nostri cronisti proseguono a dire che il duca, assediato nel castello di Milano, faceva spesse sortite con grave danno de' Cesariani, mentovando un curioso cambio di prigionieri: il duca rimise liberi cinquanta Lanschinetti per cinquanta vitelli.

In queste turbolenze e desolazioni dello Stato di Milano, la disegnata lega pensava seriamente a prevenire il pericolo di divenire bersaglio delle vendette di Cesare, e Cesare stesso non ne ignorava gli sforzi ed i pericoli; laonde, per allontanare il turbine che andavasi formando, rivolse l'animo a trarre il pontefice in una nuova alleanza per distaccarlo della contraria; il che tuttavia non ebbe effetto per volersi troppo pretendere da ambe le parti. Uno però degli accordi più importanti a quest'oggetto fu il trattato conchiuso della liberazione del re Francesco, mosso l'imperatore a ciò fare dal vedere collegati contra di sé tutti i principi d'Italia. Ma l'affare, per la esorbitanza delle condizioni, andò lento. Perciò, scrive il Muratori, esso re, mal sofferendo questa gran dilazione, e forse più per non averlo mai l'imperatore degnato di una visita, cadde gravemente infermo, sino a dubitarsi di sua vita. Allora fu che l'augusto Carlo, non per generosità, ma per proprio interesse, andò a visitarlo, e di sì dolci parole e belle promesse il regalò, che a questa sua visita fu poi attribuita la di lui guarigione. È qui da notarsi col Guicciardini che Carlo V operò col suo prigioniero, come Ponzio Sannita co' Romani alle Forche Caudine. Non l'oppresse né lo trattò con generosità. Conveniva o lasciar libero il re Francesco colla generosità di un gran monarca, scortandolo con pompa ed onore sino a' suoi confini, senza condizione alcuna e senza fasto insultante; ovvero conveniva tenerlo prigioniero, e frattanto invadere la Francia, staccarne porzione pel duca di Borbone, invitare Enrico VIII a staccarne altretanto; indi lasciare sul rimanente del regno un re liberato dalla prigionia e tributario dell'imperatore. Carlo V prese il partito di mezzo, che riuscì, come sempre, il peggiore. Vi fu chi gli consigliò il primo generoso spediente; ed il parere di quell'accorto politico fu ricusato come un'idea romanzesca dalla pluralità del consiglio di Stato. La condizione de' monarchi è tale, che debbesi ascrivere a molta lode dell'imperatore Carlo V che avesse uno nel suo consiglio capace di pronunziare una tale opinione. In vece si ritenne prigioniero il re; ebbe questi a soffrirne due malattie, dovette sopportarne molte umiliazioni, sottoscrisse un trattato vergognoso, e a Carlo V non lasciò poi che una carta inutile, scritta da un inimico irreconciliabile. (1526) Nel giorno adunque 17 di gennaio (epilogherò questa grand'epoca colle succose parole del Muratori) dell'anno 1526, e non già di febbraio, come ha il Guicciardino e il Belcaire, suo gran copiatore, seguì in Madrid la pace fra que' due monarchi, con aver ceduto il re a Cesare tutti i suoi diritti sopra il regno di Napoli, Milano, Genova, Fiandra ed altri luoghi, e con obbligo di cedergli il ducato della Borgogna con altri Stati, per tacere tante altre condizioni, tutte gravosissime al re cristianissimo. Il gran cancelliere Mercurino da Gattinara, siccome quegli che detestava sì fatto accordo, ben prevedendo quel che poscia ne avvenne, con tutto il comando e l'indignazione di Cesare, non volle mai sottoscriverlo, allegando non convenire all'uffizio suo l'approvar risoluzioni perniciose alla corona. Il tempo comprovò per vero il suo giudizio. Fu poi, nel principio di marzo (altri vogliono il giorno 21 di febbraio) condotto il re ai confini del suo regno, e rimesso in libertà; e consegnati per ostaggio a Carlo V il Delfino e il secondogenito del cristianissimo, finché fosse, entro un tempo discreto, data piena esecuzione al concordato, con obbligarsi il re di tornare personalmente in prigione quando non si eseguisse.

Capitolo XXV

Francesco II Sforza bloccato nel castello di Milano.

Sollevazioni e stato miserabile de' Milanesi.

Campo della Lega a Marignano.

Morte del Borbone, e saccheggio di Roma.

Disfatta de' Francesi. Pace di Cambrai

(1526) Continuava il duca Francesco Sforza a starsene bloccato nel castello di Milano, d'onde coll'artiglierie, non che colle uscite, inquietava gli assedianti. Nella città comandavano Antonio de Leyva e Alfonso d'Avalo marchese del Vasto, succeduti al Pescara, e anche l'abate di San Nazaro. La plebe amava il superstite unico rampollo de' principi sforzeschi. La sua bontà, il valore che aveva dimostrato, la memoria delle guerre e dei mali sofferti sotto un'estranea dominazione, la serie delle sue sventure, la oppressione in cui tenevasi, tutto disponeva l'animo del popolo ad odiare i Cesariani. S'aggiunse la vessazione incessante colla quale il Leyva ed il marchese del Vasto imponevano taglie, oltre il peso dell'alloggio degl'indiscretissimi soldati. Per lo che, saccheggiate le terre, esausti i sudditi, emigrati i coloni, tutto portava all'impazienza, onde colla forza rispingere la forza. Così accadde; e forse correva il pericolo di una totale distruzione l'armata cesarea, se i nobili avessero secondati i movimenti popolari, invece di reprimerli. Il giorno 24 aprile del 1526 cominciò a rumoreggiare la plebe verso il Cordusio, per avere i fanti della guardia di corte commesse delle violenze nella casa di un popolare, il quale gli discacciò a sassate. I fanti vennero soccorsi da altri compagni, i vicini si unirono in armi; si fece un grido nel contorno: all'armi, all'armi, e si dilatò. Il giorno 25 il movimento divenne maggiore; la plebe sforzò le porte della corte, e poiché erano chiuse, le bruciò; rimasero molti morti, dal castello si fece una sortita, gli Spagnuoli erano confusi. Un solo uomo di autorità si pose a governare il movimento popolare, e fu messer Pietro da Pusterla, il quale fu forse il solo nobile che prese questo partito: così il Burigozzo. Accerta poi il Grumello che il popolare derubato al Cordusio era un artigiano sellaro; che venne dal popolo saccheggiata la corte; bruciate tutte le carte che vi si trovavano; forzate le carceri, e data la libertà ai prigionieri. Antonio de Leyva e il marchese del Vasto si appiattarono ne' loro alloggiamenti in Porta Comasina, facendo barricare con carri le strade all'intorno, presidiandole e ponendovi artiglieria. Il popolo tutta la notte fu in armi, e alla più larga imboccatura delle strade barricate con grande animoso impeto si spinse; ma i cannoni l'obbligarono a piegare. Dal castello fecero un'uscita gli Sforzeschi verso Porta Vercellina, ma la sostennero i tremila Tedeschi che custodivano il passo. Le truppe cesaree ch'erano di fuori, parte chiamate, parte accorse all'annuncio del tumulto, irruppero nella città, e la strada chiamata dell'Armi (ossia degli Armorari) perché vi si trovavano molte officine e fondachi d'armi, in allora doviziosissimi, posero a sacco. S'interpose Francesco Visconte, uomo di somma autorità, e venne fatto in nome di Cesare un proclama, per cui dichiarossi che non si sarebbero mai più imposte taglie, che non si sarebbe castigato alcuno pel tumulto seguìto, né posto quartiere in città per nessun soldato, fuori che la guardia del castello; che nessun Lanschinetto sarebbesi veduto girare per la città, se non per necessità, ed unicamente colla spada e nessun'altr'arme.

I capitoli per timore accordati dal Leyva e dal marchese del Vasto non potevano rendere affezionato il Popolo ai soldati, né questi al popolo; e la memoria delle violenze usate, e della pertinace ostilità per cui si teneva bloccato il duca, teneva pronti ad avvampare di nuovo i principii di una guerra civile. Una sera, andando Antonio de Leyva per la contrada de' Bigli, vide un giovane con un giubbone di velluto verde, e gli disse: Che fai qui? vieni con me. Il Leyva era scortato da sessanta fucilieri. Il giovane rispose che non voleva altrimenti venire, e si pose in fuga; i satelliti del Leyva lo uccisero. Un altro giovane, sentendo il rumore, uscissene di casa colla spada, e venne pure ucciso dai satelliti; altri concorrendo, si fece un grido: Italia, Italia! Il dì 16 di giugno il tumulto fu assai grande, e tutta la notte fu la città sulle armi, e si sparse sangue alla Scala e in Porta Vercellina, e si fecero barricate attraverso le vie della città con travi, fascine, botti, ec.; e la domenica, 17 giugno, essendo gli Spagnuoli collocati sul campanile del Duomo, donde facevano i segnali, la plebe si avventò contro la guardia di corte, ed il capitano di essa, fingendosi favorevole ai Milanesi, diede loro il Santo, col quale contrasegno li assicurò che quei del campanile l'avrebbero consegnato senza opporsi. La plebe credette, e spedì un certo Macasora, il quale salì, credendosi sicuro col nome del Santo; ma in riscontro ebbe un'archibugiata, che lo distese morto: il che veduto dal popolo, tanto sdegno prese pel tradimento, che, posto gran fuoco sotto di quella torre, arrostì coloro che la presidiavano, indi s'impadronì del capitano, e lo ammazzò tra il campanile e la guardia di corte. Vi rimasero morti centotto soldati. Gli Spagnuoli diedero fuoco a diversi quartieri della città, alla Scala, alle Cinque Vie, al Bocchetto. La plebe allora si smarrì, tanto più che non aveva alcuno alla testa che la reggesse; e molti cittadini, entrati nelle stalle del marchese del Vasto, montarono su que' cavalli e fuggirono lungi da Milano. Pareva Troia. Ardeva molta parte della città, ciascuno era occupato a salvare la sua roba, gli Spagnuoli ed i Lanschinetti rubavano e disarmavano: tutto era rovina. Il Bugati così descrive la situazione della nostra città circa questo tempo: Stava allora la città di Milano tutta sotto sopra, essendo ogni giorno i Milanesi alle mani cogli Spagnuoli et co' Tedeschi, per le insopportabili gravezze et mali portamenti, in maniera che per tre notti (per intervallo di qualche giorno) si combatté continuo, aiutando i suoi fin le donne dalle finestre... Raffreddati i petti de' Milanesi, et deposte le armi per aver promesso il Leyva e il Vasto di non imporre al popolo più gravezza, pian piano detti capitani astutamente fecero venire alla città il restante delle copie loro, sparse per varii luoghi dello Stato, et rompendo ogni fede, accrebbero le taglie maggiori ai mercanti et a tutti quelli che parve loro, eseguendo i soldati proprii le commissioni: il che fu cagione che rinnovarono i tumulti, e si venne all'arme. Ma assaltata la città davanti et da dietro, cioè da quelli dell'assedio et dalla nuova milizia entrata, che prese le porte, stettero sotto i Milanesi, parte banditi, altri proscritti, altri imprigionati, altri tormentati, et altri assassinati: di sorte che non fu ingiuria, oltraggio, danno et crudeltà che i Milanesi non soffrissero dagli Spagnuoli et da Tedeschi.

Fino dal giorno 17 maggio 1526 erasi fatta la lega in Cugnac fra il papa, il re di Francia ed i Veneziani, per liberare l'Italia da tante ostilità, ricuperare il ducato di Milano a Francesco Sforza, e ridurre in libertà i figli del re, ostaggi di Carlo V. Abbiamo da Sepulveda che Francesco I, appena liberato dalla prigionia e giunto nel suo regno, trovò un breve del papa, in cui, dopo essersi rallegrato della sua liberazione, lo esorta che, siccome ha ricuperato coll'integrità del regno la libertà del corpo, così dovesse riprendere la libertà dell'animo, al fine di provvedere alla dignità e al comodo proprio, e al bene pubblico del regno; che nel tempo della sua prigionia avesse fatta qualche promessa per forza o per timore, quella non era da attendersi: Qua in re, ne forte, impeditus religione, timidius ageret, se illum jurejurando; si quod forte Carolo ad suam fidem adstringendam dedisset, auctoritate apostolica liberare; proinde quasi re integra, nullo jurejurando, nulla fide data, fortiter de suis rebus statueret. Multa praeterea in hanc, ut gentium, sic divino juri adversam sententiam, mandatis, per epistolam, addit, omnia persecutus quibus ille ad negligendum jus gentium, fallendamque fidem produci posse videretur. Il re, contentissimo per questo breve, aderì alla lega, approvò quanto aveva fatto il suo ambasciatore in Roma, Alberto Pio; e, caldo per la voglia che si scacciassero onninamente dall'Italia tutti gli Spagnuoli e Cesarei, accondiscese a questo ancora: Ne Gallo quidem regi ullum esset in Italos imperium, sed annuis tributis esset contentus aureorum millium quinquaginta, quae ipsi a duce mediolanensi, septuaginta vero quae a rege neapolitano, Italorum suffragio deligendo, penderentur. Il giorno 24 di giugno, dedicato a san Giovanni Battista, giorno solenne per Firenze, patria e sovranità del papa, era destinato dalla santa lega a portar la guerra nel Milanese, per soccorrere il duca Francesco, rinchiuso nel castello di Milano già da sette mesi. Il duca d'Urbino, Francesco Maria, comandava le truppe de' Veneziani, e Giovanni Medici le pontificie. Clemente VII però non volle comparire aggressore, e scrisse a Carlo V un breve, rammemorandogli le attenzioni che gli aveva usate, le ingiurie che da esso aveva sofferte, il mancare ai trattati, l'ambizione di conquistare l'Italia, e turbare la pace de' cristiani, torti ch'egli attribuisce all'imperatore, dicendo che, dopo d'avere senza alcun profitto tentata ogni via per calmarlo, costretto, suo malgrado, a prendere le armi, attestava Dio che lo esortava a pensare a dar pace, ed ascoltare sentimenti più umani, e provvedere alla propria fama. Questo breve venne spedito al nunzio presso di Cesare, ch'era l'elegante prosatore e poeta Baldassare Castiglione. Tre giorni dopo il papa si pentì d'aver fatte delle accuse insussistenti, et alteram epistolam mittit aequiorem et moderatiorem perpaucis verbis in eamdem sententiam, sed calumniis ex parte sublatis, acciocché, se era in tempo, sopprimesse il primo breve e presentasse quest'ultimo; ma il Castiglione avea già eseguito il primo comando. L'imperatore pubblicò la lettera del papa e la risposta, la quale conteneva che non era stato superato dai benefizi del papa; anzi nulla aver fatto il papa che non contenesse l'utilità del papa istesso. Avere santamente osservato Cesare i trattati. Aver sempre operato per la tranquillità e la pace fra' cristiani; non mai aver fatto la guerra se non provocato. Si maravigliava come il sommo pontefice facesse menzione di turbamento della pubblica pace, nel mentre ch'ei stesso, in mezzo alla quiete universale, aveva sollecitate le città e i principi cristiani alla guerra, e il re di Francia a violare i trattati e gli stessi giuramenti; la qual sorta di consigli non pareva si dovesse aspettare da quello che rappresenta il vicario di Cristo, autor della pace. Finalmente rispondeva che, se il papa brama la pace, ciò dipende da lui; lasci le armi che ha imbrandite a danno proprio e dei suoi, e l'imperatore si dichiara pronto ad ogni equa condizione di pace. Se poi, invece di voler la pace, persiste a promovere il disordine, l'imperatore se ne appella al futuro sacro ecumenico Concilio, e prega il sommo pontefice, in un tempo che lo rende necessario alla religione per le dissensioni teologiche, e alla repubblica cristiana per la sua tranquillità, a volerlo convocare; e ne lo prega in nome di Dio immortale. Che se ricusava d'ascoltarlo, Cesare, autorizzato dal rifiuto e dalle leggi, si sarebbe servito del suo potere per porre rimedio a tanti pubblici mali. Tale è il transunto del cesareo manifesto che allora venne pubblicato, e che si riferisce dal Sepulveda.

Durante questo carteggio tra il papa e Carlo V, i Veneziani, comandati dal duca d'Urbino, presero Lodi per sorpresa, e con segreta intelligenza di Lodovico Vistarini, stipendiato cesareo, che tradì il suo padrone. I Pontificii a tale annunzio passarono il Po a Piacenza e si unirono co' Veneti; e tutti di concerto posero il campo a Marignano. Frattanto i cittadini milanesi, spogliati delle armi e costretti ad alloggiare nelle loro case i soldati, che ne depredavano a man salva ogni cosa, furono ridotti a tali estremi, che non rimaneva altro rimedio, fuorché cercare di fuggirsi occultamente da Milano, perché il farlo palesamente era proibito. Onde, per assicurarsi di questo, molti dei soldati, massimamente spagnuoli, perché nei fanti tedeschi era più modestia e mansuetudine, tenevano legati per le case molti de' loro padroni, le donne e i piccoli fanciulli, avendo anche esposto alla libidine loro la maggior parte di ciascun sesso ed età. Però tutte le botteghe di Milano stavano serrate; ciascuno aveva occultate in luoghi sotterranei o altrimenti recondite le robe delle botteghe, le ricchezze delle case, gli ornamenti delle chiese... d'onde era sopra modo miserabile la faccia di quella città, miserabile l'aspetto degli uomini, ridotti in somma mestizia e spavento; cosa da muovere ad estrema commiserazione, ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a quegli che l'avevano veduta poco innanzi pienissima di abitatori, e per la ricchezza dei cittadini e per il numero infinito delle botteghe ed esercizi, per l'abbondanza e dilicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e sontuosissimi ornamenti così delle donne come degli uomini, e per la natura degli abitatori, inclinati alle feste ed ai piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia, ma floridissima e felicissima sopra tutte le altre città d'Italia. In Milano non vi era che penuria e desolazione; e la fuga stessa non era sufficiente presidio, poiché gli Spagnuoli diroccavano le case dei cittadini che altrove ricoveravansi. Riuscì tuttavia di conforto ai Milanesi l'impensata spedizione da Madrid del duca di Borbone con centomila ducati per le paghe dell'esercito, sembrando loro che tale sussidio potesse mitigare in parte tante gravezze ed acerbità. Egli avea la promessa dall'imperatore di essere investito del ducato di Milano, qualora ne scacciasse lo Sforza. Il Borbone, che sotto Francesco I dieci anni innanzi era stato governatore di Milano, venne accolto come un padre dai Milanesi, che da lui solo speravano la cessazione de' mali enormi cui erano sottoposti. Il Guicciardini reca per esteso le supplicazioni fattegli dai principali cittadini milanesi, ai quali il duca rispose commiserando la loro infelicità; ma aggiunse che il solo mezzo di tenere in freno i soldati era quello di pagarli; che non bastando il danaro che avea seco recato per soddisfare gli stipendi arretrati, gli abbisognavano ancora diecimila ducati, paga d'un mese, mediante la qual somma avrebbe fatta uscire dalla città tutta la soldatesca. Con molto stento si radunò questa somma dai Milanesi, e il duca, nel riceverla, promise di far uscire dalla città i soldati, aggiungendo che se mancava, Dio lo facesse perire la prima volta che si presentasse al nemico. Si considerò dal volgo come una punizione celeste la morte che Borbone incontrò poi nello scalare le mura di Roma nel 1527, perché non fu leale alla fatta promessa. Guicciardini conviene che il duca di Borbone diede le disposizioni perché fosse tolto l'alloggiamento militare dalla città; ma ciò non ebbe effetto, o non tenendo conto Borbone della sua promessa, o non potendo, come si crede, resistere alla volontà e alla insolenza dei soldati, fomentati anche da alcuni de' capitani, che volentieri o per ambizione o per odio, difficoltavano i suoi consigli.

Intanto il duca Francesco II trovavasi a mal partito, mancando omai di viveri nel suo castello. Quindi fece uscire ducento uomini di notte, i quali attraversarono, dove meno era custodito, il passo, e quasi tutti giunsero all'armata de' collegati, rappresentando loro la estremità alla quale era ridotta la guarnigione, alleggeritasi anche a tal fine con questa diminuzione. S'avanzarono verso Milano i collegati, e posero il quartiere al Paradiso, di contro a Porta Romana. Dopo tre giorni Giovanni Medici si presentò alla porta, e co' cannoni cominciò a tentare di atterrarla e farsi adito. I Cesarei invece spalancarono la porta. Questo fatto sorprese gli aggressori, i quali, temendo insidia, non osarono di entrare; all'opposto uscirono i Cesarei e fecero piegare il Medici co' suoi; per lo che l'indomani tornarono i collegati a scostarsi ed a ristabilire il campo a Marignano, aspettando il soccorso degli Svizzeri che stava per mandare la Francia. Sicché l'infelice Francesco Sforza, mancando totalmente di viveri, de' quali appena era rimasta la provvisione di un sol giorno, si trovò costretto ai 24 luglio di rendere il castello di Milano per capitolazione, salva la vita, la libertà e la roba sua e di buon numero di nobili che quivi avevano voluto correre la fortuna del loro principe. Nella capitolazione erasi convenuto che la città di Como si lasciasse allo Sforza con trentamila annui ducati, infino a che Cesare avesse conosciute e giudicate le accuse fatte alla fedeltà del duca; ma ceduto ch'ebbe il castello, se gli mancò dai Cesarei alla promessa. Il duca Francesco passò nel campo degli alleati, indi a Lodi, nella quale città, cedutagli dai Collegati, ratificò per istrumento pubblico la Lega Italica stabilita nel congresso di Cugnac. Breve fu la dimora dello Sforza in Lodi, mentre giunti finalmente a Marignano quattordicimila Svizzeri assoldati dalla Francia in soccorso degli alleati, non fu loro difficile, dopo diversi attacchi e vigorose ripulse, di costringere Cremona alla resa. Questa seguì ai 25 settembre del 1526, coll'uscir libero il presidio, a patto che per un anno non guerreggiasse nella Lombardia. Cremona fu pure dai Collegati consegnata al duca Francesco Sforza. Alla nuova dell'arrivo del rinforzo svizzero a Marignano, con che l'esercito della Lega s'accrebbe a più di trentamila fanti, oltre la cavalleria parimenti superiore di numero alla Cesarea, le forze imperiali, limitate a cinquemille Spagnuoli, quattromila Tedeschi e circa seimila cavalieri, si accamparono fuori di Milano, onde star meglio in guardia contro un nemico tre volte più poderoso e una città male affetta.

Oltre gli Svizzeri venuti in rinforzo dell'armata collegata, non indugiò il re di Francia in quel torno a spedire in aiuto di essa, giusta i patti, quattromila Guasconi, quattrocento corazzieri, e quattrocento cavalleggieri sotto il comando del marchese Michele Antonio di Saluzzo. L'imperatore Carlo V, per impedire la guerra, col mezzo di Ugo Moncada, avea fatto al papa Clemente la proposizione di dargli lo stato di Milano in deposito, frattanto che si esaminasse la causa dello Sforza; che se egli fosse conosciuto innocente, subito gli si consegnasse il ducato; se poi fosse giudicato fellone, allora Cesare ne avrebbe investito, non già Ferdinando suo fratello, ma il duca Carlo di Borbone: tanto era egli alieno dal volerselo appropriare. Ma Clemente VII, confidando nella Lega, nemmeno questo partito volle ascoltare. Il Moncada si portò verso il regno di Napoli, si unì ai Colonnesi, fece una scorreria in Roma; il papa tremava in castel Sant'Angelo senza soldati e senza viveri; né sperando altronde pronto soccorso, cercò allora l'amicizia di Cesare, e richiamò le sue truppe.

Intanto che il pontefice, seguendo il suo costume, si piegava a nuovo partito a seconda degli avvenimenti, l'esercito della Lega, reso potente pei successivi rinforzi pervenutigli, si lusingava di espugnar Milano colla fame, cingendola da più lati per chiudere ogni adito alle vittovaglie, quando seppe che Giorgio Frandsperg nel Tirolo radunava un armamento in soccorso degli Imperiali; il quale infatti nel mese di novembre discese dal Tirolo in Italia con tredici in quattordicimila fanti tedeschi, radunati colle promesse di gran preda; e per il Mantovano giunse a Borgoforte sulla riva del Po. Cambiaronsi allora le speranze dei Collegati, e passarono dalla guerra offensiva alla difensiva, in modo che il duca d'Urbino, lasciati in Vaprio i Francesi e gli Svizzeri sotto il comando del marchese di Saluzzo, accorse col restante dell'esercito a far argine ai Tedeschi; ma il pronto accorrere dei Collegati non valse a trattenerli, mentre essi piombarono sul Piacentino, non curandosi di Milano, già ridotto all'estrema indigenza, risoluti di passare al saccheggio di Firenze e di Roma. Quest'esempio eccitò ben presto un'egual brama nei soldati cesarei accampati nel Milanese: e l'estrema scarsezza dei viveri fra di noi fece nascere un generale fermento ne' soldati, che attribuivano al papa i disagi e i mali che sofferivano, e costrinsero i comandanti a marciare con essi a quella vòlta. Il Borbone, confidato il Milanese al Leyva, si pose alla loro testa. I soldati l'adoravano. Egli soleva dir loro: Figliuoli miei, sono un povero cavaliere, non ho un soldo, né voi ne avete: faremo fortuna insieme. Una così impensata e potente irruzione di queste forze riunite costernò maggiormente l'animo di Clemente VII, sì che acconsentì ad una tregua di otto mesi coll'imperatore, stipulata coll'opera del vicerè Lannoy, luogotenente cesareo per l'Italia. Spedì allora il Lannoy incontro agli Imperiali coll'ordine di non inoltrarsi, atteso l'armistizio concluso, sotto pena d'infamia. Ma l'armata, pronta a marciare senza capitani, minacciò di uccidere chi parlasse di ordini contrari. Sepulveda porta opinione che il Borbone accettasse il comando di questa armata per disperazione di miglior partito, attesa l'assoluta deficienza degli stipendi; al che concorda eziandio il Grumello.

(1527) Partì adunque da Milano il Borbone verso la metà di gennaio del 1527, e andò ad unirsi verso Piacenza coi Tedeschi di Giorgio Frandsperg, seco conducendo cinquecento uomini d'arme, molti cavalli leggieri, quattro o cinquemila Spagnuoli, e circa duemila fanti italiani; i quali, uniti co' tredici o quattordicimila fanti del Frandsperg, formarono un potentissimo esercito; e d'accordo si proposero, come fecero, d'inoltrarsi a Firenze ed a Roma, depredando e saccheggiando per via tutte le città e luoghi del loro passaggio. Il Frandsperg si ammalò in cammino, e fu trasportato a Ferrara per farsi curare. Chi il disse colà morto di apoplessia nel mese di marzo 1527, fu indotto in errore, mentre trovansi lettere di questo capitano dei Tedeschi, in data di Milano, delli 25 luglio dell'anno seguente. Il Borbone, costante nel suo proponimento, messosi alla testa di tutta quell'armata, attraversò rapidamente gli Appennini, e s'incamminò verso Firenze. La qual città trovando egli, fuor d'ogni suo avviso, ben munita e pronta alla difesa, avendo l'armata della Lega vicina, neppur tentò di accostarvisi. Giunto sotto Roma, il duca spedì un araldo chiedendo al papa che mandassegli alcuno per concertare seco le condizioni della pace. Ma nemmeno si permise che l'araldo entrasse in città: tanto credevansi il papa e i Romani sicuri, perché i Cesarei, senza artiglieria e mancanti di tutto, non potevano fare assedio né persistere, essendo vicino e pronto al soccorso l'esercito confederato. Questa estremità di miseria de' Cesarei fu appunto motivo della presa di Roma, poiché la tentarono con sommo impeto, da disperati.

Sembra che Carlo V nulla sapesse della spedizione intrapresa dal suo esercito d'Italia contro Roma, né che fosse in sua potere di liberare il papa. L'esercito era composto di gregari stranieri, che non erano sudditi dell'imperatore, che non erano pagati da lui, e che non conoscevano se non i loro generali, e il Borbone sopra tutti. Le armate allora erano collettizie, e radunate per un tempo e per un oggetto determinato. Il viceré Lannoy, a nome dell'imperatore, tentò invano di distogliere il duca di Borbone dall'impresa, ed altamente riclamava l'osservanza della tregua da lui fatta con Clemente VII in nome cesareo. A Carlo V né dovea né poteva piacere la mossa del Borbone e dell'esercito suo verso di Roma, se non per altro, perché nessun utile egli ritraeva dalla oppressione del papa, e sommo odio acquistavasi presso tutta la cristianità.

Appena il duca di Borbone fu alle mura di Roma, che fu ai 5 di maggio, fece apprestar le scale, ed egli alla testa, spinse l'intiero esercito ad entrar per forza dalle mura più basse nella città; ma ferito in un fianco da un'archibugiata, rimase estinto nella fresca età di trentott'anni. Il principe Filiberto di Oranges gli subentrò nel comando, e diresse il sacco di Roma, che durò più settimane. Il duca di Borbone, prima di dare la scalata a Roma (come racconta il Grumello), disse a' suoi capitanei che era sicuro che tutti seriano richi et se caveriano la fame, ma li ebbe domandato una grazia che non volessero saccheggiare dicta città se non per un giorno, che li faceva promissione di darli tutte le sue paghe avanzavano con Cexare, che erano circa dece overo dodece; et così fu stabilito per li capitanei et militi cexarei… Il povero Borbono, quale haveva animo di salvar la città da le crudelitate, et forse contro la voluntà del Magno Idio, che voleva che Roma in tutto fosse distructa, per li horrendi peccati regnavano in essa città... rimase sul colpo. Giunta a Carlo V la nuova del sacco di Roma, ordinò pubbliche preghiere in tutta la Spagna per la liberazione del sommo pontefice, assediato in castel Sant'Angelo dalla sua armata. Forse queste dimostrazioni non furono una ipocrisia, come taluno ha creduto; ipocrisia che non avrebbe fatto altro effetto, se non quello di macchiare la gloria di Carlo V, degradandolo alla furberia d'un meschino e debole principe. Probabilmente né Carlo V comandò quest'impresa, né se ne compiacque; poiché l'insulto all'inerme sacerdozio non poteva ascriversi ai fasti della gloria, e Carlo imperatore troppo la conosceva e l'amava. Che che ne sia il papa, per liberarsi, fu costretto a sottoscrivere nel mese di giugno una capitolazione imperiosa e gravosissima col principe d'Orange e co' principali offiziali, oltre al pagare fra tre mesi all'armata quattrocentomila ducati.

Mentre il duca di Borbone aveva condotte a Roma le principali forze di Cesare, e che stavasene il Leyva a Milano con pochi armati, i Veneziani s'innoltrarono, lo Sforza uscissene dal Cremonese, e si pensò di cogliere il momento per discacciare l'imperiale potenza dall'Italia. Anche il re cristianissimo a tempo assai opportuno, cioè verso la fine di luglio, mandò in Italia Odetto di Fois signore di Lautrec, con mille uomini di armi e ventiseimila fanti. Passò questi le Alpi con apparenza di liberare il papa; ma si trattenne in Lombardia, prese Alessandria e Vigevano, e s'impadronì della Lomellina. Genova pure ritornò a' Francesi, che ne affidarono il comando al maresciallo Teodoro Trivulzio. Tutte le altre fortezze erano rimesse nelle mani di Francesco Sforza, perché i Veneziani e gli altri collegati non avrebbero tollerato che rimanessero in potere de' Francesi. Lautrec pose l'assedio a Pavia. Il conte Lodovico Barbiano di Belgioioso la difendeva con diecisette bandiere d'Italiani, ma non complete, e tutti non formavano più di mille combattenti. Lautrec batteva la parte più forte, cioè il castello, affine di prendere tutto in un sol colpo. I cittadini pavesi odiavano i Francesi, e combattevano come soldati. Respinsero tre assalti con gloria, e nove insegne tolsero ai nemici. Il conte Lodovico ne rese informato il comandante supremo don Antonio Leyva, che governava Milano, e quello gli mandò a dire, che avendo fine a quell'ora riportato tanto onore e gloria contra i nemici, gli pareva ben fatto, e così lo consigliava, anzi gli comandava, per aver lui pochissima gente in aiuto della difensione di essa città, che vedesse col miglior modo che avesse saputo ritrovare, di lasciare la città in preda ai nemici, uscendone lui con la sua gente a salvamento; suadendoli ancor questo per il meglio con questa ragione, che, saccheggiando i nemici la città di Pavia, si sarebbero poi la maggior parte di loro dispersi con li bottini fatti in essa città, andando alle loro patrie ricchi, laonde non si sarebbero poi fatto stima di ritornar più al soldo de' Francesi, di modo che esso Lotrecco, ritrovandosi poi per detta causa con niuno ovver pochissimo esercito, sarebbe stato sforzato a lasciar l'impresa di gire a Napoli, come aveva supposto, la qual era di più importanza e di maggior danno che la perdita d'essa città. Avendo dunque avuto detto conte Barbiano detto avviso, anzi comandamento espresso, subito ricercò di avere e così ottenne da' Francesi salvo condotto. S'impadronirono pertanto i Francesi di Pavia il giorno 5 di ottobre del 1527; e a pretesto di espiar essi la precedente disfatta e la presa del loro re, la città fu crudelmente posta a sacco, e poco mancò che non rimanesse affatto distrutta. Il Lautrec il 18 ottobre abbandonò Pavia rovinata, e lasciando Milano bloccata e mancante di viveri, s'avviò a Piacenza, dove aggiunti alla Lega i duchi di Ferrara e di Mantova, proseguì la sua marcia alla vôlta di Napoli. Giovandosi il Leyva della partenza di Lautrec, uscì da Milano, respinse alcuni corpi nemici e s'impossessò di Novara, scacciandone il presidio sforzesco coll'aiuto di Filippo Torniello.

L'unico vantaggio che risultò da questi alternanti successi furono le trattative di pace intraprese tra l'imperatore Carlo V e Francesco I re di Francia. Ma sì bella speranza si dileguò quasi appena mostratasi; tantoché nel giorno 25 di gennaio del 1528 gli ambasciatori della Francia intimarono in nome della Lega nuova guerra all'imperatore, e si riaprì più terribile che mai questo marziale teatro, specialmente ad esterminio della misera Lombardia. L'imperatore, vedendo il re di Francia mancare francamente alle promesse e ai giuramenti, prese il ministro francese da solo a solo in Granata, e dissegli: Dica al suo re, ch'egli manca alla parola che mi ha data a Madrid, e pubblicamente e da solo; ch'egli non opera rettamente, né da un uomo bennato; e se lo nega, mi esibisco di provare in persona a lui la verità, e terminare la controversia col duello. Questa commissione diè luogo alla missione di due famose lettere tra i due sovrani, che ci furono conservate dallo storico Sepulveda.

Sentivano più che mai i Milanesi il flagello della fame, essendo impedita la comunicazione con Lodi e con altre città e terre dello Stato, quando Gian Giacomo de' Medici, guadagnato da Antonio da Leyva, che gli consentì di fare la conquista di Lecco, abbandonò il partito francese e si collegò cogl'Imperiali: solite incostanze degl'avventurieri di que' tempi. In benemerenza di che, radunata in quelle parti gran copia di grano, lo spedì in soccorso del Milanese. Questo sussidio pose in grado Antonio de Leyva nel mese di maggio di occupare Abbiategrasso, e di riacquistare Pavia, presidiata, è vero, da' Veneziani per Francesco Sforza, ma quasi vuota d'abitatori. Colà s'inoltrarono gl'Imperiali sotto il comando del conte Lodovico da Belgioioso con alcune bandiere tedesche, ed il giorno 25 se ne impadronirono senza contrasto. Pavia, quantunque già esausta, non andò immune da un nuovo saccheggio. Nel seguente mese mosse dalla Germania in rinforzo degl'Imperiali il duca Enrico di Brunswich con quattordicimila Tedeschi, destinati pel regno di Napoli, dove era pur giunto da Roma, dopo una permanenza di dieci mesi, il principe di Orange coll'avanzo del suo esercito, ridotto, per la pestilenza, a soli dodicimila combattenti. Il duca di Brunswich, saccheggiati i territori di Brescia e di Bergamo, ed entrato nel Milanese, si pose all'assedio di Lodi, presidiato da Gian Paolo Sforza, fratello naturale del duca di Milano. Egli era stato persuaso dal Leyva a trattenersi nel Milanese per sgombrare i collegati da alcune fortezze che loro rimanevano; il che fa conoscere che veramente i generali di Carlo V operavano con molta indipendenza. In una monarchia vasta non può a meno che ciò non accada, e nell'impero Romano ne sono mille esempi. Brunswich e i suoi si dileguarono tosto, assaliti da una specie di peste, detta male mazzucco, che in meno di otto giorni fece di essi una orrenda strage, cosicché il residuo di quell'armata continuò sollecitamente la via del suo destino. Ma intanto la visita del Brunswich aiutò a consumare i sussidii di vettovaglie che avea dapprima ricevuti Antonio de Leyva, il quale non avendo più mezzi onde pascere le sue truppe, né sapendo più come smungere le borse degl'infelici Milanesi, trovò l'espediente di proibire, sotto la pena della vita e della confiscazione de' beni, che niuno potesse tener farina né far pane in casa; quindi impose una rigorosa ed esorbitante gabella in tutto lo Stato sul pane venale. Queste vessazioni sono così narrate dal Guicciardini: In Milano, per l'acerbità di Antonio da Leva, era estremità e soggezione miserabile, perché per provvedere ai pagamenti dei soldati aveva tirato in sé tutte le vettovaglie della città, delle quali, fatti fondachi pubblici e vendendole in nome suo, cavava i danari per i pagamenti loro, essendo costretti tutti gli uomini, per non morire di fame, di pagare a' prezzi che paresse a lui; il che non avendo la gente povera modo di poter fare, molti perivano quasi per le strade, né bastando anche questi danari ai soldati tedeschi, ch'erano alloggiati per le case, costringevano i padroni ogni giorno a nuove taglie, tenendo incatenati quegli che non pagavano; e perché per fuggire queste acerbità e pesi intollerabili, molti erano fuggiti e fuggivano continuamente dalla città, non ostante l'asprezza dei comandamenti e la diligenza delle guardie, si procedeva contro gli assenti alle confiscazioni de' beni, ch'erano in tanto numero che, per fuggire il tedio dello scrivere si mettevano a stampa, ed era stretta in modo la vettovaglia, che infiniti poveri morivano di fame, e i nobili mali vestiti e poverissimi, e i luoghi già più frequentati, pieni di ortiche e di pruni.

Mentre le cose nel Milanese erano giunte a questo estremo, e i Francesi facevano progressi nel regno di Napoli, il Lautrec morì colà di malattia il 7 agosto del 1528. Gli successe monsignor Vaudemont, che presto egli pure morì, e rimase a comandare l'armata francese nel regno il marchese di Saluzzo, dove per i Cesarei comandava il principe d'Orange. Ma dopo tante speranze di conquistare quel regno, le forze galliche, diradate prima dalla pestilenza, furono annichilate vicino ad Aversa il 28 agosto; tutta l'armata si rese a discrezione, ed i soldati vennero lasciati in libertà con un giubbone ed un bastone bianco in mano. Frattanto un altro corpo di Francesi, comandati dal conte di San Pol, entra in Lombardia, prende Sant'Angelo, Marignano, Vigevano, ricupera Pavia, e si presenta a Milano. Ma il pericolo di perder Genova fece sì che i Francesi colà celeremente si trasferissero. Genova, col l'aiuto dell'immortale Andrea Doria, scosse ogni giogo straniero, e soppresse lo spirito di fazione in guisa che non vi rimase più dopo quell'epoca vestigio alcuno de' Guelfi e Ghibellini, né degli Adorni e dei Fregosi. Si riconciliarono le famiglie, si formò un sistema politico, cioè un determinato corpo presso di cui risiedesse la sovranità, si stabilì il numero delle cariche e l'autorità di ciascuna, e il metodo delle elezioni. Tuttociò fu per opera di Andrea Doria, che ricusò ogni carica. (1529) Da quel punto Genova diventò libera e repubblica, e i Francesi la perdettero per sempre. Il conte di San Pol, di ritorno dalla infausta spedizione di Genova, ridusse il Leyva alle sole città di Milano e Como; il rimanente non era più dell'imperatore. Leyva coglie il momento in cui il conte di San Pol coi Francesi era a Landriano, avendo staccato una parte de' suoi; lo batte, lo prende prigioniero coll'artiglieria e tutte le bagaglie; i Francesi furono totalmente disfatti. Il Leyva era tormentato dalla podagra, ed era portato sopra una sedia da quattro uomini.

Ancora una buona parte del Milanese rimaneva a Francesco II, acquistata da' Francesi e da' collegati, onde facea duopo tuttavia di una seria guerra per ispossessarnelo. Carlo V colse il punto che i Francesi erano stati disfatti nel regno di Napoli e nel Milanese, per far pace e lega col papa, e si dispose a comparire nell'Italia da pacificatore e da gran monarca, generoso e moderato. Egli concesse Margherita d'Austria, sua figlia naturale, nata da Margherita Van-Gest, fiamminga, in moglie ad Alessandro Medici, figlio naturale di Lorenzo II, e cugino di Clemente VII, il qual papa era pure figlio naturale di Giuliano de' Medici. Per tal modo il papa assicurò la sovranità di Firenze alla sua famiglia. Fra gli altri patti vi fu quello per cui il papa obbligò il Milanese a comprare il sale di Cervia. Rispetto allo Sforza si stabilì che l'imperatore avrebbe giudidicato della di lui condotta, e se fosse trovato innocente, si sarebbe restituito a lui il ducato; se fellone, se ne sarebbe investita persona benevisa al papa. Con tai riguardi cercò d'indennizzarlo de' mali cagionatigli dal duca Borbone. Il trattato venne solennemente pubblicato in Barcellona il 29 giugno del 1529. Poi il 5 di agosto dell'anno medesimo fu segnata a Cambrai la pace fra l'imperatore e il re di Francia, per cui questi riebbe i figli suoi ch'erano in ostaggio in Ipagna, e cedette ogni ragione sul ducato di Milano.

Disposte così le cose a diffondere la sospirata pace per tutte le contrade d'Italia, fu trascelta la città di Bologna, dove Carlo V avesse a ricevere di mano del pontefice la corona imperiale. Verso la metà d'agosto navigò egli da Barcellona a Genova con mille cavalli e novemila fanti, condotti seco per mare su ventotto galee, sessanta barche e molti altri navigli. Il papa spedì colà tre cardinali legati, Alessandro Farnese, che poi fu suo successore nel papato, Francesco Quignone, spagnuolo, e Ippolito Medici. Cesare, pochi giorni dopo, passò a Piacenza. Antonio de Leyva vi fu ben accolto dal suo sovrano, né gli fu difficile di ottenere l'assenso di riprender Pavia; cosa che gli premeva assaissimo per suo privato interesse. Ritornato in seguito il Leyva al governo del Milanese, guidò le sue genti alla conquista di Pavia, che presto riebbe e senza sangue, atteso che Annibale Picenardo, comandante di quella città, disperando di poterla difendere dall'aggressione de' Cesariani, la cedette loro senza grande resistenza.

Prima di conchiudere questo capitolo giova di riferire il seguente fatto, narrato dal Grumello, e che potrebbe servire di argomento per una tragedia. Un mercante, nativo di Casale Monferrato, chiamato Scapardone, da povero diventò padrone di più di centomila scudi. Allora lo scudo era mezza doppia, e anche da ciò si vede qual messe si raccoglieva allora nel commercio. Morì questo ricco mercante, lasciando un'unica sua figlia erede. Questa era una giovine molto bella e ancora più gentile, graziosa e amabile. Fu maritata in Milano al signor Ermes Visconti, nobilissimo e ricchissimo, che la lasciò giovine e vedova senza successione. Sposò poi un Savoiardo, monsieur di Celan, uomo degno e benestante; ed essa, dopo qualche tempo, fuggì dal marito e portò seco gioie e denari. Si recò a Pavia e abitò in casa d'Ascanio Lonate, suo parente, ed era in Pavia corteggiata da ogni ceto di persone. Passò indi a Milano. Il signor di Massino, che era venuto dalla Spagna col duca di Borbone, amava madama di Celan; il conte di Gaiazzo era pure nel novero dei suoi adoratori, e quest'ultimo era preferito; per lo che sdegnato, il Massino la abbandonò, né si conteneva di sparlare di lei. Ella, di ciò informata, determinò di vendicarsi colla di lui morte, e animò il Gaiazzo a meritarsi sempre più l'amor suo coll'eseguirla. L'amante non si oppose, temporeggiò, lasciava sperare, ma non volle eseguire il delitto. La Celan, doppiamente sdegnata, cercò di mettere la bellezza a prezzo di un omicidio, e don Pedro de Cardona, figlio del conte di Collisan, giovine valente, accettò il crudel partito e uccise Massino. Il duca di Borbone volle che non rimanesse impunito l'atroce fatto. Madama di Celan fu imprigionata nel castello, regolamente processata e conosciuta rea; una sera il capitano di giustizia andò in Castello con un sacerdote e due monache, le annunziò la morte; essa chiese se con denari si potesse salvarla, e le fu risposto che tutto l'oro del mondo non lo poteva. Le fu troncata la testa sul rivellino del castello, indi nella chiesa di San Francesco stette esposta, e pareva che fosse viva. Svegliò molta compassione.

Capitolo XXVI

Congresso in Bologna per la pace.

Incoronazione di Carlo V.

Nuovo congresso di Bologna.

Matrimonio del duca Francesco II, e sua morte, per cui cessa la linea sforzesca.

Eccoci, dopo tanti disastri, ad un'epoca apportatrice di pace alla desolata Italia, e ridente foriera di più tranquilli tempi per la nostra patria. Questa è il congresso apertosi in Bologna tra il pontefice e Carlo V. Recossi pertanto a Bologna sul finire di ottobre Clemente VII, col collegio de' cardinali, affine di maggiormente condecorare la solennità del congresso, e di assistere in seguito all'incoronazione dell'imperatore; e nel dì 5 novembre vi entrò l'imperatore Carlo V. Prese egli alloggio nel palazzo del legato, dove abitava il pontefice. Francesco II Sforza, duca di Milano (cui quest'anno medesimo era mancato il fratello Massimiliano, morto in Parigi in età di anni trentanove), da Cremona, ove soggiornava, giunse egli pure in Bologna il giorno 22 di novembre, sì mal concio di salute, che destava compassione in chi lo vedeva. Presentossi il duca all'imperatore, e modestamente restituì a Carlo V il salvo condotto che gli aveva spedito, nobilmente dichiarando che egli non cercava miglior sicurezza che l'equità di Cesare e l'innocenza sua. Fece cadere ogni colpa sul morto marchese di Pescara. Carlo V amava di rendere fausta questa solennità, e farne l'epoca della pace d'Italia. Il papa, i Veneziani lo persuadevano a ciò. Il solo Antonio de Leyva incessantemente ne sconsigliava l'imperatore. Il Leyva poteva tutto nel Milanese finché duravano le ostilità; cedendolo al duca Francesco, era terminato il potere. Inoltre, dopo molti anni di condotta ostile, era il Leyva male animato contro lo Sforza, e fors'anco gli era insopportabile il duca, non pel male che ne avesse ricevuto, ma pel gran male che sapeva di avergli fatto; il che rende assai più difficile una sincera riconciliazione. Il Sepulveda espone tutti gli argomenti del Leyva per distogliere l'imperatore dalla pace.

Mentre questi alti affari si trattavano in Bologna, il celebre Girolamo Morone, essendo passato in Toscana onde unirsi coll'esercito pontificio alla spedizione di Firenze in favore dei Medici, cessò di vivere in San Casciano, il giorno 15 dicembre, in età di anni cinquantanove. Egli fu onorato dal duca Massimiliano del titolo di conte di Lecco. Fu commissario generale dell'esercito cesareo in Italia, creato da Carlo V. Fu ambasciatore a Leone X e a Clemente VII, il quale promosse il di lui figlio Giovanni al vescovado di Modena. Era uomo di molto ingegno, ed elegante scrittore latino.

Non ostante la pertinace opposizione del Leyva, dopo lunghe discussioni, fu la pace conchiusa il 23 dicembre del 1529 tra l'imperatore Carlo V, il papa Clemente VII, la repubblica di Venezia, Francesco II Sforza duca di Milano, il duca di Savoia, i marchesi di Monferrato e di Mantova, lasciando pur luogo di entrarvi ad Alfonso duca di Ferrara. Nello stesso giorno, essendosi Francesco II Sforza abbandonato alla clemenza dell'imperatore, ottenne da questi la conferma dell'investitura del ducato di Milano, a patto che gli pagasse entro un anno ducati quattrocentomila, e ne' dieci anni consecutivi cinquantamila ogni anno, restando in mano di Cesare Como ed il castel di Milano, i quali si obbligò a consegnare a Francesco come fussero fatti i pagamenti del primo anno.

Valse finalmente a calmare le ire e l'animosità del Leyva contro lo Sforza la munificenza di Cesare, che gli assegnò in feudo la città di Pavia e la contea di Monza, colla dipendenza dal duca Francesco II; donazione confermata in appresso dallo Sforza con diploma segnato in Vigevano il 6 febbraio 1531.

Sollecitato l'imperatore Carlo V di restituirsi in Germania, volle che seguisse la sua solenne incoronazione, uno de' principali oggetti della sua venuta. Quindi il 24 febbraio fu incoronato colla massima pompa in Bologna da papa Clemente VII, che era stato poco prima suo prigioniero. In seguito definì le contestazioni tra il papa e l'Estense, confermando a questo principe il ducato di Modena e Reggio, e ordinando che per Ferrata il papa gli confermasse la investitura, mediante lo sborso di centomila ducati. Sentenziò che il duca d'Urbino fosse restituito al possesso dei suoi Stati, e per metter fine alle turbolenze toscane, sottopose quella repubblica alla sovranità di Alessandro de' Medici. Partì da Bologna verso la fine di marzo. Nel passar da Mantova, decorò il marchese Federico Gonzaga del titolo di duca.

Terminato il congresso di Bologna, il duca Francesco Sforza si restituì pure ne' suoi Stati, donde in settembre si recò a Venezia per alcune pratiche tendenti a conservare il beneficio della pace; ma ben tosto ritornò. Rivoltosi alla interiore sistemazione dello Stato, dié nuova forma al senato, elesse abili magistrati, e sopratutto un abilissimo capitano di giustizia, Giovanni Battista Speziano, per opera del quale i malviventi sgombrarono le strade, e divenne sicuro il trasporto delle derrate; il che anche contribuì a ricondurre l'abbondanza. Ma tale era la popolazione delle terre, che dice il Burigozzo, fu tanta quantità di lupi su per lo paexe, che era una cosa granda, e fazevano tanto male in amazare persone, zoè puttini e donne, che quaxi se temeva a andare in volta, se non erano 3 o 4 persone insema, tanto era el terror de questi lupi; et questa non era maraviglia, perché nelle ville erano mancade le persone. Ciò si conferma dal Bugati, dicendo che que' lupi voraci fin dentro de' borghi della città entravano... Cosa veramente crudele! imperocché queste fere per la peste et per la guerra (nelle quali periva gente assai) tanto familiare s'havevano fatto la carne umana, che poi non trovandone, fecero cose grandi per divorarne, come assaltar gli uomini armati, cavar dalle culle e dalle braccia delle madri i fanciulli, ec.

(1531) Sul principio del 1531 riuscì al duca Francesco Sforza, mediante il raddoppiamento delle imposizioni, di pagare a Cesare la convenuta prima annata di quattrocentomila ducati, per cui gli vennero consegnati il castello di Milano e quello di Como. Ma quasi non bastassero all'oppressione de' sudditi gli sforzi che avea dovuto fare il duca per approntare quel primo gravosissimo sborso, sopragiunse la guerra della Valtellina, della quale fu cagione l'occupazione di Chiavenna fatta da Gian Giacomo Medici, di già padrone di Musso e di Lecco. Perciò lo Sforza fu necessitato di ricorrere a nuovi aggravii; onde, come attesta il Burigozzo, il giorno 20 giugno s'imposero alla macina soldi 50 per moggio, e soldi 32 per ogni brenta di vino; e ciò oltre il solito tributo; per lo che un moggio di grano per essere macinato pagava lire cinque. Questa nuova gabella eccitò una tale turbolenza nella plebe di Cremona, che, impugnatesi le armi, furon uccisi molti di quelli che presedevano al governo della città. Accorsero a tempo in sussidio del castellano Paolo Lonato alcune truppe spedite da Milano, le quali sedarono il tumulto, e col supplizio di cinque dei più sediziosi l'ammutinamento ebbe fine. (1532) Ma non così presto cedette il Medici alle sue usurpazioni, mentre poté resistere valorosamente per più mesi; e finalmente dopo l'uccisione di Gabriele suo fratello, e di Luigi Borserio, che comandava le sue navi armate, ottenne ancora dal debole duca il perdono di tutti i trascorsi, trentacinquemila scudi d'oro in compenso delle fortezze che andava a cedere, e la concessione di un feudo di non minor reddito di scudi mille: ed ebbe poi Marignano col titolo di marchese. Dopo quest'accordo, il Medici, nel mese di marzo 1532, si ritirò nel Vercellese. Il castello di Musso, ricovero ed asilo del propotente Medici, fu demolito.

L'imperatore Carlo V, informato che Francesco re di Francia non avea deposte le mire di riacquistare lo stato di Milano, si determinò di ritornare in Italia per stabilirvi una lega valevole a frenare qualunque improvviso tentativo. Appena infatti ebbe egli liberata Vienna da una minacciosa invasione dei Turchi, giunse, per la via del Friuli, il 7 novembre, in Mantova, dove splendidamente fu trattenuto per più giorni dal duca Federigo. Vi accorsero sollecitamente ad ossequiare l'augusto Carlo, oltre Alfonso duca di Ferrara, Francesco Sforza duca di Milano, il duca di Albania, Alessandro de' Medici ed altri principi ed ambasciatori, i quali poscia lo accompagnarono alla vôlta di Bologna, nella quale città trovò giunto poco innanzi il pontefice. Nel nuovo congresso si trattò infruttuosamente della convocazione di un generale concilio; infruttuosamente pure instò Cesare che fosse data in moglie al duca di Milano Catterina dei Medici, figlia legittima di Lorenzo il Giovane, e quindi nipote del papa, mentre Clemente VII ricusò di aderirvi, persistendo nelle pratiche già intraprese, e non ignote all'imperatore, d'imparentarsi per di lei mezzo col re di Francia, dandola in isposa al duca d'Orleans, suo secondogenito. (1533) Riuscì soltanto a conchiudere, non ostante il dissenso de' Veneziani, la proposta lega co' principi d'Italia, la qual fu pubblicata l'anno 1533, nel giorno 24 di febbraio. I principali interessati in questa lega furono, oltre l'imperatore, il sommo pontefice Clemente VII, Ferdinando re de' Romani, Francesco II Sforza duca di Milano, Alfonso d'Este duca di Ferrara, i Genovesi, i Sanesi ed i Lucchesi; come anco il duca di Savoia, il duca di Mantova, e tacitamente pure i Fiorentini. Per ciascuna delle parti fu stabilito un proporzionato contributo a mantenimento di un esercito sociale, di cui si elesse general capitano il celebre Antonio de Leyva, fissando la sua ordinaria residenza in Milano. Pochi giorni dopo la conclusione della lega, l'augusto Carlo, accompagnato dal duca Francesco Sforza, visitò Milano con grande comitiva; e dopo la dimora di quattro giorni, il 14 marzo, passò a Genova per ritornarsene nelle Spagne. Quanto poco sicura fosse la fede nuovamente giurata dai collegati, è provato dal contegno del pontefice, principale tra essi; mentre appena fu tornato da Bologna a Roma, si determinò, senza verun riguardo all'alta sua dignità, di portarsi a Nizza, indi in Marsiglia per conferire col re Francesco I, ed ivi conchiudere, come fece, il matrimonio di Catterina de' Medici con Enrico duca d'Orleans, secondogenito del re. Così Clemente, bilanciandosi accortamente fra le contese di due grandi emuli che sconvolgevano l'Europa, senza dichiararsi amico o nemico d'alcun di loro, li faceva servire all'ingrandimento della sua famiglia, coglieva le occasioni, non si esponeva alle vicende, non dimenticava il sacco di Roma. Tali sono i sentimenti coi quali termina questo punto di storia un vivente scrittore nel tomo III di un suo inedito manoscritto, che abbiamo altrove annunciato.

Nel corso di quest'anno 1533 accadde in Milano un'atrocità che non inopportunamente si vuol qui registrare. Un gentiluomo milanese, della famiglia dei Maravigli, erasi stabilito in Francia sino dal regno di Luigi XII, e vi si era arricchito servendo quel monarca e il successore Francesco I. Egli era zio del gran-cancelliere Francesco Taverna, cui vedemmo sostituito al Moroni. Taverna andò per commissione in Francia; e trovandosi a Fontainebleau col re, si concertò che questi facesse risedere in Milano un suo ministro, il che sarebbe stato di genio del duca e di utilità al re, al quale non poteva essere indifferente il vegliare sull'Italia. Questa proposizione piacque a Francesco I, e, innoltrandosi per eseguirla, si conchiuse che non convenisse, per non insospettire Carlo V, né spedire un Francese né dargli uno scoperto carattere ministeriale. Maraviglia venne proposto, non potendo essere misterioso il ritorno suo nella patria, e si stabilì ch'egli verrebbe munito di doppie lettere, che le credenziali le conserverebbe secrete e soltanto mostrabili all'occasione, e le lettere da palesarsi sarebbero di semplice raccomandazione del re al duca. Ciò fermato, e assegnato lo stipendio al Maraviglia, venne questi a Milano. Egli vi si presentò con uno splendore pomposissimo. Vedevasi usare alla famigliare col duca; sempre alla corte, sempre in sua compagnia in ogni festa o divertimento. L'imperatore ne fu avvisato; ne chiese conto al duca, il quale, sebbene gli facesse comunicare le lettere visibili di raccomandazione, non poté tuttavia togliergli dalla mente il sospetto di una nuova fellonìa. Un gentiluomo di camera del duca, della famiglia Castiglioni, vedendo il Maraviglia con sommo fasto e corredo passare in compagnia del duca, voltosi ad un domestico del Maraviglia, lo investì con parole insultanti il suo padrone. Nacque un alterco, e passato che fu il duca, stavasi per venire alle mani fra i domestici d'una parte e dell'altra. S'interposero alcuni cavalieri. Castiglione negò di aver detta veruna ingiuria, e Maraviglia ne rimase soddisfatto. Il duca comandò che non se ne parlasse più. Ma il Castiglione si pose a passare più volte innanzi al palazzo del Maraviglia, accompagnato da un branco di bravi, coll'opera dei quali una sera attaccò e pose in fuga cinque domestici del Maraviglia. Questi ebbe ricorso al giudice, che promise pronta giustizia, e nulla fece. Castiglione comparve nuovamente ad offendere i domestici del Maraviglia, i quali, prevenuti e armati, si difesero, sì che il Castiglione rimase morto sulla strada. La mattina seguente, che fu un venerdì, giorno 4 di luglio, lo stesso giudice che non aveva voluto prevenire il male, viene, conduce prigione il Maraviglia co' suoi, e pone i domestici alla tortura senza risparmiar nemmeno un povero vecchio sordo, di ottant'anni. La domenica notte va il giudice dal Maraviglia, gli fa troncar la testa nel carcere, e fa esporre il di lui corpo il lunedì mattina 7 luglio sulla pubblica piazza. Un parente del Maraviglia corre in Francia, ed avvisa il re dell'insulto fattogli nel suo ministro. Sembra che il duca, sempre sotto gli occhi e la sorveglianza di Antonio de Leyva, non potesse sopportare la meschina figura che faceva, e cercasse pure qualche mezzo per liberarsi da sì umiliante condizione; e a ciò debba attribuirsi la brama di avere un ministro del re di Francia, col quale all'occasione prendere un concerto; ma inopportunamente svelatasi la cosa, siasi il duca ridotto al miserabile partito di tradire atrocemente il dovere più sacro affine di disarmare lo sdegno dell'imperatore. In fatti Francesco I ne fece altissime querele presso tutte le corti d'Europa, e Carlo V, contento della condotta dello Sforza, decise di stringere seco lui parentado con dargli una sua nipote in isposa.

Le nozze del nostro duca erano desiderate, per opposti interessi, da tutti i membri della lega: dai principi italiani, perché il ducato non ricadesse al fisco imperiale, come avrebbe dovuto per i patti dell'investitura quando fosse morto il duca senza successione maschile; da Carlo V per rendersi più dipendente lo Sforza, e per isventare i disegni del re di Francia, in cui scorgeva non per anco deposto il pensiero di appropriarsi quello Stato. Parve a Cesare opportuno a tal uopo il matrimonio di Cristina o Cristierna, figlia del re Cristierno II di Danimarca e di Elisabetta d'Austria, e perciò nipote di Carlo V, fratello di Elisabetta. Le nozze, appena proposte, furono conchiuse; e il conte Massimiliano Stampa fu spedito da Francesco Sforza a Brusselles ad isposare in suo nome la principessa Cristina. (1534) Nella primavera dell'anno seguente la sposa reale si pose in viaggio alla vôlta di Milano; e la città, benché ridotta a grande inopia, fece ogni sforzo per manifestare con magnificenza di apparati la comandata allegrezza. La duchessa Cristina fece il suo solenne ingresso in Milano nella domenica, giorno 3 di maggio, e non nel mese d'aprile, come scrisse il Muratori. Ne riporterò la descrizione del Burigozzo, che ne fu testimone. A dì 3 may, in dominicha, circa a 21 hora, feze la entrata la duchessa nostra de Milano, e fu in questo modo: Rivata che fu ditta duchessa, andò nel monastero de Santo Eustorgio, e lì stette fina a hora debita, che fu pox el vespero del Domo. Finito el ditto vespero, congregato tutta la gierexia nel Domo, se comenzò a partirse verso Porta Ticinese, e rivati li signori Ordinarii alla porta della città, comenzò el trionfo a passare dentro, e avviarse verso el Domo, et prima dui gran maggiori a cavallo, vestiti de veluto negro, e poi seguitando ona compagnia grossa de Milanexi, quasi tutti vestiti de turchino con la banda turchina, poi un'altra compagnia con li armaroli tutti in ponto, e bella gente, e ben armati, can sua banda verde, et erano queste due compagnie circa 400. Da poi uno numero grande de signori, tutti a cavallo, a dui, a quattro passando, in ponto più l'uno che l'altro. Poi numero sei squadre de trombetti, qual sonavano a loco e tempo. Poi una compagnia de gentil homeni de grandi de Milano, tutti vestiti de bianco, con el suo penaggio biancho e la sua picha in mano; questi non havevano banda nessuna, se non li soy tamburi, tutti vestiti de bianco, quali feveno un vedere troppo maraviglioso, ed erano a numo circha 200. Poi la guardia del signor Antonio de Leiva, sì lui, come anchora 8 gran maggiori. De poi el baldachino, portato da dottori, qual erano in gran numero apparati per portare tal cosa, sotto el qual baldachino ghera l'Illma duchessa, tutta vestita de brocato d'oro e alla franzetta; e apresso de lei ghera el cardinal de Mantova. Per staffieri de sua excellentia gherano 12 conti de' primi della città nostra vestiti de veluto fodrato de brochato d'oro recamato, con le sue barette con le penne dentro, che ciascheduno de loro parevano uno imperatore, e questi tali stavano appresso alla persona de sua excellentia, talché parea che sua excellentia fosse in uno boscho in mezzo de quelli baroni, per quelli penaggi bianchi tanto grandi qual'havevano. Della bellezza de sua excellentia veramente e più gera divina che umana, ma de pocha ettade. Poi seguitava el signor presidente con altri episcopi e senatori, e molti altri gentil homeni, e così rivando alla piazza del castello fu tirata l'artellaria de allegrezza, ma inanzi che andasse al castello andò prima in Domo, e già era retornata la gierezia al Domo, e li la receptorno nella ecclesia del Domo, dandogli la pase, con le orazioni solite. E così se partì e andò al castello, e lì restò, et el castello tirò gran artellaria. Giunta la principessa al castello, le venne stentatamente incontro il duca sposo, che appena reggevasi col bastone in piedi, aspetto poco gradevole per una giovane di quindici anni. Il successivo silenzio de' nostri cronisti, soliti a tener registro de' più minuti fatti, ci lascia congetturare abbastanza l'infelicità di queste nozze.

Al volgere di quest'anno avvenne la morte del papa Clemente VII, del quale abbiamo più volte parlato. Il di lui carattere fu descritto con imparzialità storica dal Guicciardini e dal Muratori. Gli succedette il cardinale Alessandro Farnese, eletto il 12 ottobre, col nome di Paolo III. (1535) Da questo tempo fin quasi al termine dell'anno 1535 nulla ci somministra la nostra storia che meriti di essere riferito, fuorché la perdita immatura e deplorabile per questi Stati del duca Francesco II, il quale morì di consunzione nella notte del 1° novembre, essendo in età di anni quarantatré. Principe di cui gli scrittori ci lasciarono onorevole memoria per l'ingegno, la perspicacità e la bontà del suo carattere. L'avversa sua morte non gli dié tempo né mezzi di tramandare ai posteri alcun illustre monumento. Ben è vero che tutti i principi nelle sciagure si mostrano buoni, singolarmente allorché sperano di veder cangiato l'aspetto delle cose col mezzo della pubblica opinione. Quest'infelice principe, nella tenera età di otto anni, vide rovinata la corte paterna, prigioniero suo padre, sé stesso esule dalla patria e costretto a procacciarsi un asilo in Alemagna. Ritornato in patria dopo dodici anni di esilio, vi passò tre anni sotto il dispotismo del fratello sospettosissimo, col soffrire la umiliante militar protezione degli Svizzeri. Scacciato nuovamente dalla patria, ricominciò un secondo esilio per sette anni, che terminò poi all'età di trent'anni allorché assunse il titolo di duca, titolo che dovea rendere amarissime le sciagure proprie e de' sudditi, alle quali, mancando egli di forze e di denaro, non poté rimediare. Terminò con questo sventurato principe, morto senza successione, la grandezza della casa Sforza, che nel periodo di ottantacinque anni ebbe principio e fine. Un'imperatrice e due regine nacquero da questa famiglia. L'imperatrice fu Bianca Maria Sforza, figlia del duca Galeazzo Maria, e moglie dell'imperatore Massimiliano; regina di Napoli fu Ippolita Maria Sforza, figlia del duca Francesco I e moglie del re Alfonso II; e regina di Polonia, Bona Sforza, figlia del duca Giovanni Galeazzo e moglie del re Sigismodo. Sei duchi Sforza ebbero la signoria di Milano e del suo Stato; due dei quali, il primo cioè e l'ultimo, morirono pacificamente, e gli altri terminarono la loro vita trucidati o avvelenati o prigionieri in Francia. Osservai nel tomo I come otto de' dodici Visconti miseramente perirono; osserviam ora che quattro de' sei Sforzeschi finirono con non minore infelicità. Appena di tre principi uno poté terminare i suoi giorni in pace tanto nella discendenza Visconti, quanto in quella degli sforzeschi. Ora mi si dica se è poi tanto invidiabile la sorte de' grandi, e se abbiano torto i saggi di ogni età di dare il nome di aurea alla mediocrità della fortuna, lontana ugualmente dalla inopia che dall'ambiziosa grandezza!

Al conte Massimiliano Stampa, castellano del castello di Milano, fu dato l'incarico delle disposizioni per le solenni esequie del defunto duca Francesco; e a cagione degli apparati da farsi nella metropolitana fu mestieri il differirle sino al 19 di novembre stesso. Intanto il cadavero dello Sforza, chiuso in una cassa coperta di velluto nero, fu, di notte, trasportato dal castello al Duomo, coll'accompagnamento di tutto il clero metropolitano, e riposto in luogo appartato finché fossero celebrati i solenni suffragi; dopo de' quali il di lui sarcofago, ornato alla ducale, venne collocato nella metropolitana suddetta nel sito dov'era quello di Gastone di Foix, vale a dire fra i pensili avelli de' duchi suoi predecessori. Per dare un'idea del costume di que' tempi anche nelle pompe funebri, penso che non sarà discaro il leggere qui l'esatta descrizione del funebre trasporto del duca Francesco Sforza, stesa dal nostro Burigozzo. 1535, a dì 19 novembre, furono fatte le exequie di sua excellentia, e furono fatte a questo modo. Prima la strata fu dal castello al Domo per la strata dritta, zoè dalla contrà del Majno a Santo Nazaro Pietra Santa, e verso Santa Maria Segreta, e al Cordusco insino alla Doana, e poi dalla Dovana al Domo. Questo è quanto alla strata: seguita l'hordene. Prima numero grande de croci de legno, poi mille poveri, tutti con el capuzino negro e la torgia in mane, con uno ducal pento in carte, attacado alla torgia, e andavano a dui a dui; poi li frati prima de Santo Ieronimo, poi li altri ordeni de frati secondo el suo ordene, et al fin de questi venne la fameia de tutta la corte, quali erano vestiti de negro, el numero de quali fu grando, e questi tali havevano mantello negro. Poi seguitò le abazie con le canoniche de Milano. Finido questi, venne li offiziali de sua excellentia, zoè li grandi con el capuzo in testa, e tutti havevano le veste longhe a terra, cosa grande da vedere, el numero de quali fu grandissimo, et tutti andavano a dui a dui. Poi venne la ecclesia del Domo, zoè li vegioni e le vegione, poi li capellani, poi li mazachonisi, di poi li sacristani, poi li signori Ordenarii, e poi li lectori, e qui finisce la gierexia. Poi seguitò un giovinetto gentilhomo, tutto vestito de veluto negro, et haveva una spada bellissima aposata alla sua spalla. Dredo a questo un altro giovinetto, vestito simile al primo, e lui e il cavallo, et haveva uno bastono in mano tutto indorato. Poi seguitò li cortesani de sua excellentia, quali tutti, con le veste negre a terra, con la gran coda e el capuzo in testa, tutti a dui a dui, el numero de quali fu assai. All'ultimo di questi venne la sua guardia de Lanzinechi, vestiti de negro, tutti in zupon, con le sue alebarde in spalla. Poi qui li era la mula di sua excellentia, tutta coperta de veluto negro a terra con li stafferi, come se propriamente li fosse stato sua excellentia, ma non li era se non la mula vôta. Poi seguitò la guardia de cavalli legeri a piedi, però con le sue zanette in spalla, e questi tali havevano uno manto negro in dosso. Da poi seguitò el corpo de sue excellentia, ma non però che fusse el suo corpo, perché non fu possibile poterlo conservare insina a tanto, e per questo fu fatta una imagine a sua similitudine; e quello fu fatto a tale effetto, era vestito de brocato d'oro rizzo, soprarizzo, longo a terra, fodrato di pelle di gran valore, haveva uno saio de veluto cremexo, un saion de raso cremexi, un paro de calze de scarlata, con le scarpe de veluto cremexi, con una bacchetta in mane, et haveva la baretta duchale in testa, qual baretta era bizara, e fu portata la sua persona quatada de brocato sotto el balduchino de tela d'oro, e questo balduchino, sì ancora sua excellentia, fu portata dalli dottori dell'una e l'altra legge. Da poi questo venne li condizionati signori. Prima el signor Joan Paulo Sforza suo fratello, el signor Antonio de Lejva, li signori ambasciatori sì de Veneziani, sì delle altre signorie, poi uno numero grande de altri signori, che numerare non se potevano, pur tutti questi tali con le veste a terra negre, e a questo modo fu finito le esequie de sua excellentia. Il capitano generale Antonio de Leyva prese il possesso dello stato di Milano, in nome dell'imperatore.

Circa questo tempo ebbero origine o incremento varie religiose instituzioni nella nostra città. Certo frate Bono di Cremona, dopo di avere introdotte le orazioni delle Quarant'Ore, diede principio allo stabilimento del ricovero delle donne convertite, detto di Santa Valeria, col mezzo di questue da lui fatte. Dipoi l'autorità pubblica se ne ingerì improvvidamente, e si ha memoria di un decreto del senato dell'anno 1561, prescrivente che, se una convertita di Santa Valeria fuggisse ovvero tentasse di fuggire, dovesse quella essere bollata in fronte con un ferro infuocato. Cominciarono pure a farsi maggiormente conoscere i nuovi Cherici regolari, instituiti verso il 1526, e che dal ricovero di San Barnaba, stato loro concesso nel 1538, si dissero poi Barnabiti; ed inoltre una nuova associazione di zitelle, che si chiamavano Dimesse, e furon dette in seguito le Angeliche. Il Burigozzo così ne scrive: Si vedono certi preti con abito abietto, con una berretta tonda in testa, e tutti senza capelli e tutti vestiti a un modo, vanno con la testa bassa et habitano tutti insema verso Sant'Ambrosio (loro primo ricetto), e lì dicono che fanno li suoi offizi, e lì viveno de compagnia, e sono tutti gioveni. Poi un'altra compagnia de giovinette, qual ghe dicono Dimesse, vanno alla cerca certi dì della septimana a certi suoi lochi, et vanno mal vestite, con un patelazzo di lino in testa, la testa bassa, serrate dinanzi sino sotto la gola, senza ornamento nessuno; attorno vanno per Milano 4 e 6 alla volta, però con una compagnia di una o do vegette dredo, et vanno con el volto descoperto: e queste tal compagnie sì de preti sì de queste putte, pare che sia capo una contessa, qual ghe dicono la contessa de Guastalla. Infatti la contessa di Guastalla Lodovica Torella beneficò largamente i Barnabiti, fece fabbricare colla spesa di ottantamila scudi d'oro l'insigne monastero di San Paolo per le sue Dimesse, che cominciarono ad abitarvi nel 1535, e diciotto anni dopo si ridussero a clausura con disgusto della fondatrice; e successivamente fondò, nel 1542, il monastero del Crocifisso per le Convertite, e nel 1557 il collegio per l'educazione di nobili povere fanciulle, detto della Guastalla, dallo Stato di questo nome ch'essa avea ereditato dal suo padre Achille Torello, e che vendette al principe don Ferrante Gonzaga per convertirne il prezzo in siffatte pie beneficenze.

Capitolo XXVII

Tentativi e progetti per la successione nel ducato di Milano.

Congresso di Nizza, pace di Crespy, morte del duca d'Orleans, dichiarato da Cesare duca di Milano

(1535) Dopo la morte del duca Francesco II Sforza, Giovanni Paolo Sforza, marchese di Caravaggio, figlio naturale del duca Lodovico e fratello del duca defunto, consigliato da molti amici, cavalcò per le poste alla vôlta di Roma, affine di impegnare il papa presso Cesare ed ottenerne il ducato di Milano. Il diritto di successione avea in esso minori ostacoli di quello che allegò in suo favore il primo Sforza, di essere cioè marito di una figlia naturale di Filippo Maria Visconti. Ma il marchese di Caravaggio era in tutto sfornito dell'alto presidio della gloria militare di Francesco Sforza. Ben è vero che gl'interessi del pontefice, de' Veneziani e de' Toscani consigliavano di dar opera che il ducato di Milano non cadesse nel dominio di Cesare, già sovrano del regno di Napoli, e di tant'altra parte del mondo. La Francia avrebbe forse appoggiata una tal successione, disperando di avere per sé il Milanese; ma passando (Giampaolo) gli Appenini, fu assalito da un velenoso flusso, che gli tolse la vita. Il conte Massimiliano Stampa, castellano, fu spedito con altri deputati all'imperatore, affine di riconoscerlo a nome della città e dello Stato per loro sovrano, sì per le ragioni dell'Impero, come per commissione del defunto duca. Cesare benignamente li accolse; diede il marchesato di Soncino al conte Stampa, lo confermò castellano, e dichiarò il principe d'Ascoli Antonio da Leyva suo luogotenente e governatore generale del Milanese. Questo cesareo rescritto giunse in Milano il 27 novembre 1535.

In quel torno di tempo era approdato a Napoli l'imperatore dopo la gloriosa impresa di Tunisi, in cui vinse Barbarossa, terrore del Mediterraneo, e ripose sul trono Muley Assan, che Barbarossa avea deposto per regnare in sua vece. Presso di Carlo V era ambasciatore di Francia il signor di Velly, il quale, spenta che fu la linea de' Sforzeschi, intraprese a negoziare coll'imperatore, acciocché investisse del ducato di Milano il figlio secondogenito del re Francesco I, duca d'Orleans, discendente dalla Valentina dal lato della regina Claudia, sua madre e figlia di Lodovico XII. Chiedendosi il ducato per il duca d'Orleans non si destava inquietudine tra' principi italiani, i quali si sarebbero sgomentati invece se chiedendosi pel delfino, si riunisse al regno di Francia. Il duca d'Orleans avea sposata Catterina de' Medici, unica legittima di quella famiglia. Il re proponeva che rinunzierebbe alle sue ragioni sopra la Toscana e il ducato d'Urbino. Carlo V tenne accortamente a bada il progetto: più volte sembrò giunto il momento per concludere, ma nascevano poi nuove difficoltà. Ora voleva far duca di Milano il terzogenito del re, duca d'Angoulême, e il re non voleva far torto al secondo. L'imperatore insisteva sul pericolo che, morendo il delfino, il Milanese s'incorporasse alla corona di Francia, cedeva finalmente e s'accontentava del duca d'Orleans, a condizione che Francesco I facesse ritornare nella Chiesa cattolica Enrico VII, re d'Inghilterra, poi che rinunziasse ad ogni pretensione come successore della Valentina, e puramente riconoscesse il ducato dalla investitura imperiale. Inoltre Carlo V pose in campo il re di Portogallo Giovanni III, suo cognato, a chiedere il ducato di Milano per l'infante don Luigi suo fratello. Insomma quando pareva che mancasse un filo al compimento, destramente nasceva un motivo impensato di nuova trattativa. Si voleva che Francesco I rompesse il matrimonio progettato fra una principessa della casa di Vandome ed il re di Scozia, dandogli in di lei vece la duchessa vedova di Milano, nipote di Carlo V. Il minuto racconto di questi raggiri si può leggere nelle Memorie di Langey, che vi ebbe parte, e sopratutto Gaillard.

Francesco I frattanto, cui adombrava l'irresoluzione di Carlo V, ed anche per vendicare l'affronto fattogli nella persona del Maraviglia, sul cadere del 1535 trovò maniera di aprire la strada alla spedizione delle sue armate in Lombardia. (1536) Nel mese di marzo del 1536 l'ammiraglio Filippo Chabot de Brion entrò nel Piemonte con ottocentodieci lance, mille uomini di cavalleria leggera, e ventitremila fantaccini francesi. Il duca di Savoia, alleato dell'imperatore, abbandonò Torino, si ritirò a Vercelli, spedì la moglie e il figlio a Milano, e i Francesi s'impadronirono di tutto il paese sino alla Sesia. Intesa da Carlo V in Napoli la nuova impensata di questa irruzione, lasciò le feste colà principiate per lo sposalizio da lui finalmente accordato della principessa Margherita sua figlia con Alessandro de' Medici, duca di Firenze, e si trasferì a Roma, ove giunse il 6 di aprile. Ivi erano il signor Velly, ambasciatore francese, che lo seguiva, e il vescovo di Macon, ambasciator francese presso del papa. Carlo V entrò nella sala del concistoro, dove erano radunati i cardinali aspettando il papa. Il papa fece pregare l'imperatore d'entrare da lui, ma Carlo V rispose che voleva ivi aspettare il santo padre, il quale tosto comparve col numeroso suo corteggio. L'imperatore disse che aveva cose premurose da esporre in presenza del sacro collegio; il papa voleva che tutti uscissero, trattine i cardinali. No, disse Cesare, ciascuno rimanga: bramo che il mondo tutto sappia quello ch'io sono per dire. Poi prese a tessere la storia della condotta di Francesco I, la prigionia di lui, la moderazione propria, il trattato di Madrid, la mancanza totale di fede, la sfida e il rifiuto del re. Mostrò la uniforme costanza di rettitudine e fede dal canto proprio, dipinse la insidiosa e subdola politica del re; ricordò il vano pretesto dell'invasione nel Milanese per il supposto carattere pubblico del Maraviglia, la invasione attuale fatta nel Piemonte minacciando il Milanese, ad onta del trattato di Madrid e di quello di Cambrai, la disposizione propria per la pace, al qual fine dimenticando ogni ingiuria era pronto a dar l'investitura del Milanese a un figlio del suo rivale, ma non al secondo, acciocché non fosse prossimo il caso di aversi a riunire alla corona di Francia quello Stato; e la ostinazione del re di volerne investito il duca di Orleans secondogenito. L'imperatore propose in fine tre partiti; o la pace ed il ducato di Milano per duca d'Angoulême, terzogenito del re, o un duello fra lui e il re, ovvero la guerra. Il duello sarà colla spada e pugnale, e la guerra sarà tale ch'ei non deporrà le armi, finché o non abbia ridotto il nimico o non sia ridotto ei medesimo allo stato del più povero gentiluomo dell'Europa; e proruppe, parlando dei generali francesi, in queste animose parole: S'io ne avessi di simili, verrei sin d'ora colle mani giunte e la corda al collo a implorare la misericordia del mio nemico. Il papa, i cardinali, i ministri esteri, i prelati, e sopra tutti questi i due ambasciatori francesi rimasero attoniti, ammutoliti e confusi. Osservando l'imperatore questo silenzio, rivolto a Velly e al vescovo di Macon, disse che avrebbe fatto consegnare loro in iscritto il discorso. Il papa prese a parlare, e lo fece da padre comune e imparziale, insinuando la pace; e così terminò questo famoso concistoro. Ma per quanto s'interponesse Paolo III affine d'indurre Francesco I a secondare le buone disposizioni di Cesare, persistendo egli nella dimanda che fosse data l'investitura del ducato di Milano al suo secondogenito, le speranze di accomodamento e di pace si dileguarono.

Antonio de Leyva, che stava al governo dello stato di Milano, veggendo i rapidi progressi dell'esercito francese, radunate quante milizie gli fu possibile, accorse, ai 30 di marzo, ad impedire ai nemici ogni avanzamento, e pose un buon presidio in Vercelli, al mantenimento del quale fu imposta nel Milanese una taglia sopra la macina e il sale, limitata poi per convenzione in seimila ducati al mese; cosicché i Francesi, per le difficoltà di ulteriori progressi, ritrocedettero, fermo restando il campo cesareo in que' contorni. Il deciso contegno del Leyva lasciò il comodo alla riunione dei rinforzi imperiali, che l'imperatore, irritato, volle comandare in persona. Egli giunse celeremente in Lombardia, e senza entrare in Milano, portossi da Pavia in Asti per vegliare dappresso i Francesi. In meno di tre mesi si trovò forte di oltre cinquantamila combattenti sotto il comando di rinomati generali, Antonio da Leyva, Alfonso d'Avalos marchese del Vasto, Don Ferrante Gonzaga viceré di Napoli, e il duca d'Alba. Fra i principi che seguivano l'armata cesarea contavansi i duchi di Savoia, di Baviera e di Brunswich, ai quali un accidente fece aggiungere Francesco marchese di Saluzzo; ed eccone il come. Inteso che ebbe il re di Francia il grosso armamento di Carlo, richiamò a sé l'ammiraglio de Brion, per l'assenza del quale il comando delle truppe francesi nel Piemonte rimase al marchese di Saluzzo. Il marchese si lasciò sedurre da alcune profezie che si sparsero, le quali assicuravano che in quell'anno il re di Francia o sarebbe preso o sarebbe ucciso. Il marchese, persuasissimo della profezia, credette di non dover combattere per un principe abbandonato dal cielo. L'amicizia del re, la gratitudine per l'ordine di San Michele, di cui l'avea decorato, la confidenza d'avergli affidato il comando del suo esercito, vennero rese inefficaci dal fanatismo per la profezia; se pur questa non fu un pretesto. La religione guida l'uomo alla virtù; l'abuso della religione lo conduce a soffocar la natura, a calpestare i doveri più sacri, e per fino a perdere il rossore nel commettere il delitto. Veggansi le memorie del Langey, dalle quali anche scorgonsi i discorsi tenuti dall'autore inutilmente per disingannare il marchese. L'imperatore si decise di portare la guerra in Francia; né valsero a rimuoverlo da questo proponimento tutte le ragioni che gli furono opposte concordemente da' suoi generali, tranne il Leyva, per dissuadernelo. Quindi, dopo di aver lasciato all'assedio di Torino il marchese di Saluzzo Gian Giacomo de' Medici, diresse Carlo V le marce in guisa, che l'armata entrò appunto ne' confini di Francia il 25 luglio, giorno di San Giacomo, protettore degli Spagnuoli, giorno in cui l'anno antecedente era giunto nell'Africa e aveva cominciata l'impresa di Tunisi, gloriosamente finita poi. Ciò gli servì mirabilmente per animare i soldati; ma il successo non corrispose all'ardire. I Francesi devastarono la Provenza; onde Carlo V, tuttoché si avanzasse senza contrasto, ritrovossi in paese sprovveduto di tutto. Senza dare un battaglia, in breve cotanto esercito si ridusse alla metà. La fame, le malattie, gli attacchi continui de' montanari avevano cagionata questa diminuzione, senza nemmeno aver tentato l'attacco del campo francese, trincierato verso Avignone. Tra le persone distinte morirono in Provenza di malattia il conte Pietro Francesco Visconte, capitano de' cavalleggeri, in età d'anni 28, il conte Pietro Francesco Borromeo, in età di anni 30, e per ultimo il fomentatore di cotesta malaugurata intrapresa, Antonio de Leyva, che cessò di vivere in Aix di Provenza il giorno 25 settembre intollerandis miserabilis morbi doloribus, omnibus artubus contracti et perpetuo occupatis, siccome leggesi nella di lui iscrizione sepolcrale. Dovette Carlo V abbandonar l'idea di far conquiste in Francia, ripassare le Alpi vicine al mare, e ritornarsene con pochi soldati sani da un'impresa di nessuna gloria e di rovina per un gran numero d'uomini. Ricondotta che ebbe la sua armata nell'Italia, e nominato il marchese del Vasto in luogo del Leyva, l'imperatore per mare ritornò nella Spagna. Riuscì però questa guerra assai grave anche al re di Francia, cui costò spese immense e danni incalcolabili, e quel che è più, l'innaspettata morte del delfino Francesco, suo primogenito. Egli era disordinatissimo negli amori e negli stravizzi. Era in cammino per recarsi all'armata nel più cocente della state. Fermatosi a Tournon, dopo di aver giuocato fervorosamente alla palla, stanco e smaniante di caldo e grondante di sudore, bebbe molta acqua fredda, e in quattro giorni di febbre morì. Un onorato gentiluomo modonese, il conte Sebastiano Montecuccoli, suo coppiere, venne accusato d'averlo avvelenato ad instigazione di Antonio da Leyva e dell'imperatore; e a forza di spasimi e di torture fu costretto a confessarsi reo, e venne squartato in Lione per sentenza del 7 ottobre. Furono presenti a tale scempio il re Francesco I, i principi del sangue e tutti i prelati, ambasciatori e signori: prova della rozzezza de' tempi.

(1537) Inasprito piucché mai Francesco I contra i Cesarei, non solo ordinò che fosse vigorosamente continuata la guerra nel Piemonte, ma determinossi di recarvisi in persona. Il gran contestabile Montmorenci scacciò gli Imperiali dal posto vantaggioso di Susa, e aperse il passo all'entrata del re. Perciò il marchese del Vasto si ritirò sotto Asti, abbandonando il paese fra il Po e il Tanaro. Indi il marchese del Vasto e il marchese di Saluzzo, iti all'assedio di Carmagnola, finirono quell'impresa assai infelicemente, lasciandovi il secondo la vita, colpito da un'archibugiata. Interpostosi allora Paolo III, riuscì dapprima a conchiudere tra i due sovrani belligeranti, il 16 novembre, una tregua di tre mesi; indi propose loro un congresso, col suo intervento, nella città di Nizza in Provenza, che fu accettato. (1538) Fissato il tempo, approdò il pontefice per il primo a Nizza il giorno 17 maggio. Quindi giunse da Barcellona Carlo V, e dalla Francia il re Francesco I. Per quanto insistesse il pontefice, non poté mai indurre i monarchi ad abboccarsi insieme; onde gli convenne di trattare gli affari con amendue separatamente in più conferenze. La pace fu impossibile, perché il re di Francia non ha voluto desistere dal volere il Milanese per il suo secondogenito duca d'Orleans. Fu però conchiusa una tregua di dieci anni, con che restasse ognuno in possesso di quanto aveva preso coll'armi. La tregua, segnata il 18 giugno, piacque universalmente, fuorché al duca di Savoia Carlo III, il quale rimaneva per sì lungo tratto di tempo spogliato degli Stati suoi, occupati parte dai Francesi e parte dagl'Imperiali, non gli restando altra sovranità che la contea di Nizza. Da quella tregua derivarono pure gravi danni al Milanese; imperocché la maggior parte della fanteria spagnuola del Piemonte, per mancanza delle paghe, postasi in libertà, in sul finire di luglio passò il Ticino con animo di venire a Milano, onde vivere a discrezione; ma trovando la nostra città su l'armi, piegò verso il borgo di Gallarate, dove, fermatasi tutto quel mese, vessò con frequenti scorrerie le terre di quel circondario, costringendole a grosse contribuzioni. Per far cessare quest'anarchia e sedare un altro forte tumulto dei soldati malcontenti nel seno stesso della città, fu mandato ambasciatore a Cesare Battista Archinto, dottor di leggi, il quale ne riportò ordine al marchese del Vasto, che, imposta ai Milanesi una taglia di centomila scudi, fossero questi ripartiti alle truppe, parte delle quali dovesse poi essere spedita per la via di Trento ai presidii del re Ferdinando in Ungheria contro i Turchi, e parte a Genova, per unirle alla squadra navale di Andrea Doria.

Sempre rimaneva sospesa l'investitura del Milanese non ricusata mai, né mai decisamente concessa al figlio secondogenito del re Francesco. (1540) Quando, giunta a Madrid l'infausta notizia della sollevazione di Gand, Carlo V, per trasferirsi più sollecitamente nelle Fiandre, pensò di attraversare la Francia, e Francesco I nel compiaque. Nella breve dimora che fece l'imperatore in Parigi diede al re nuova lusinga, pacificato il Brabante, di conferire al duca d'Orleans il ducato di Milano; ma appena ebbe repressa e punita la ribellione de' Gantesi, ne investì il proprio figlio don Filippo, sebbene ancor pupillo, con solenne atto segnato in Brusselles gli 11 di ottobre. Questa dissimulazione accrebbe il torto dell'imperatore nell'animo di Francesco I, il quale grandemente s'irritò di nuovo per il fatto seguente. (1541) Durante la tregua, essendo tuttora al governo dello stato di Milano il marchese del Vasto, e comandando a' Francesi nel Piemonte il Langei, il re di Francia spedì due ambasciatori, uno a Venezia, e fu Cesare Fregoso, cavaliere dell'ordine di San Michele e cognato del celebre Rangoni; l'altro a Costantinopoli a Solimano II, e fu Antonio Rincon, gentiluomo ordinario di camera del re. Questi, attraversando sul Po il Milanese vicino allo sbocco del Ticino nel Po, furono assaliti da due barche cariche di armati e massacrati. Tutti i barcaiuoli vennero posti nelle secrete carceri di Pavia. Langei, che avea resi avvertiti gli ambasciatori delle insidie, e invano cercato di far loro prendere più sicura strada, aveva avuto la precauzione di farsi consegnare le loro carte per non avventurare il segreto dello Stato, le quali carte avrebbe spedite loro, poiché fossero giunti a Venezia. Malgrado la politica del marchese del Vasto, Langei trovò mezzo di formalmente e per processo fare constare la perfida azione eseguita per ordine del marchese, il quale cercava di avere le carte. Ciò attestarono alcuni domestici degli ambasciatori che poterono salvarsi, e particolarmente i navicellai che, per opera del Langei, fuggirono e vennero da lui. Questo fatto diede l'ultimo impulso al re Francesco I per ricominciare le ostilità sospese dalla tregua di dieci anni, la quale avrebbe dovuto durare fino al 1548. Verso questo tempo, determinatosi l'imperatore di portar la guerra in Algeri, divenuto, dopo la conquista di Tunisi, il ricovero de' corsari, calò di nuovo in Italia, e, corteggiato dal marchese del Vasto, da Ercole II duca di Ferrara, da Ottavio Farnese duca di Camerino, dal duca Francesco di Mantova e dal cardinale Ercole, di lui zio, entrò in Milano il 22 agosto 1541, frammezzo ad un grande sfoggio di apparati. Fu attribuito a modestia di lui il costume della sua nazione, essendo stato veduto entrare sotto baldacchino a cavallo, vestito de panno nero, con un cappelletto de feltro in testa. In questo tempo trovandosi compite e approvate dal senato le Nuove Costituzioni per il dominio milanese, opera incominciata sotto il duca Francesco II, furono presentate all'imperatore, che le sancì con diploma del 27 agosto, e vennero poi pubblicate dal governatore del Vasto il 5 del seguente ottobre. Partito due giorni dopo, ebbe un abboccamento a Lucca col pontefice Paolo III, che fu sterile d'effetto; indi si affrettò, guidato dalla sua mala fortuna, ai lidi africani; imperocché, sconfitto sotto Algeri dai Barbareschi, e battuto in mare dalla tempesta, approdò assai malconcio il 3 dicembre a Cartagena.

Il re di Francia Francesco I, giovandosi dei recenti disastri sofferti da Cesare, pubblicata una dichiarazione di guerra il 10 luglio del 1542, strinse lega con Solimano, gran signore de' Turchi, e fece ricominciare le ostilità nel Piemonte, dove il marchese del Vasto era alla testa degl'Imperiali, e il Langei de' Francesi, in potere dei quali era Torino. Continui furono gli attacchi, e, come suole nelle ordinarie fazioni di guerra, alterni i successi. Ma divenuto paralitico il Langei, sottentrò al comando de' Francesi D'Annebaut, che poco dopo fu supplito da Boutieres, e questi dal conte d'Enghien. (1543) Nell'estate del 1543 Carlo V visitò ancora l'Italia di passaggio per la Germania, e il 22 giugno ebbe una nuova conferenza col papa in Busseto sul Po. In quel breve congresso l'ambizioso pontefice cercò di far concorrere i bisogni di Cesare ai vantaggi della propria casa, interessando per fino le lagrime della figlia di Carlo V, la duchessa Margherita, perché concedesse lo stato di Milano a Pier Luigi Farnese o ad Ottavio suo nipote, offrendosi ad un gravosissimo censo e all'immediato sborso di un enorme somma; ma ogni progetto fu vano. (1544) La guerra nel Piemonte nulla presentò d'interessante fino all'anno 1544, avendo Francesco Borbone conte d'Enghien, il 14 aprile, battuto a Cerisola gl'Imperiali, comandati dal marchese del Vasto. Il marchese, rimasto ferito nella battaglia, dovette ricoverarsi fino a Milano. Alcuni fanno ascendere i morti imperiali a dodicimila. Il primo vantaggio di tal vittoria fu che i Francesi si resero padroni di Carignano e di quasi tutto il Monferrato. Però il re Francesco I, sull'avviso che Carlo V, unito ad Enrico VIII re d'Inghilterra, faceva grandi preparativi sul Reno per un'incursione nella Francia, stimò opportuno di richiamare una gran parte delle truppe ch'erano nel Piemonte, e così si rese inutile pei Francesi la carnificina di Cerisola.

Da queste alternative vicende dei due monarchi belligeranti eccitato, Paolo III rivolse piucché mai le sue premure a tentar nuovi progetti di una stabile pace, unico rimedio alle universali sciagure. A tal fine lo zelante pontefice inviò due legati, cioè il cardinale Giovanni Morone all'imperatore, e il cardinale Marino Grimani al re cristianissimo. L'opera loro, secondata da personaggi distintissimi, sì ecclesiastici che secolari, ottenne questa volta il bramato intento; di modo che nel giorno 18 settembre del 1544 a Crespy, città dell'isola di Francia, furono sottoscritti gli articoli della pace, pubblicati poscia nel seguente ottobre per tutte le città della Lombardia con sincere dimostrazioni di giubilo. Le convenzioni di questo trattato relative alla nostra storia, erano che l'imperatore Carlo V avrebbe dato in moglie a Carlo duca d'Orleans o la propria figliuola donna Maria, principessa di Spagna, colla dote della Fiandra e de' Paesi Bassi, ovvero Anna, figliuola di Ferdinando suo fratello, re dei Romani, coll'assegnamento dotale dello stato di Milano. La decisione tra i due partiti doveva essere fatta da Cesare entro un anno; e dove fosse prescelto l'ultimo, riserbava Carlo V a sé i castelli di Milano e di Cremona, finché alla figlia del re Ferdinando fosse nata prole maschile. (1545). Questa decisione fu più sollecita che non si credeva, mentre verso il principio del 1545 l'imperatore dichiarò che avrebbe data in moglie a Carlo duca d'Orleans la propria figlia donna Maria, colla dote cotanto desiderata dello stato di Milano. Per questa nuova fu generale la gioia nel Milanese, ma fu passeggiera, essendo stata poco dopo seguìta dall'infaustissimo annunzio della morte del duca d'Orleans, in età di ventitré anni, accaduta per febbre maligna gli 8 settembre, pochi giorni prima del tempo fissato alle sue nozze. Temevasi per questo caso si promovessero dai Francesi novelle pretese ed eccezioni alla pace di Crespy. Ma Francesco I, afflitto oltremodo per tanta perdita, pressato dall'armi inglesi, e in cattiva salute, cominciò a pensare alla sua quiete; tantoché, composte le cose con l'Inghilterra, pose ogni cura di mantenere la pace con Carlo V e vivere seco lui in buona concordia.

Fin dal 1543 avea il sovrano approvate due istituzioni non meno utili al regio erario, che al buon ordine dell'amministrazione; e in conseguenza profittevoli ai contribuenti. Fu la prima l'erezione della congregazione dello Stato, composta del vicario di provvisione della città di Milano e dei rappresentanti, ossia oratori e sindaci delle altre città del ducato. Questa magistratura avea l'incarico di presiedere allo stabilimento delle imposizioni, e di curare l'interesse de' pubblici, e non fu abolita che dopo duecentoquarantatre anni, nel 1786. L'altro non meno vantaggioso provvedimento fu l'ordine dato dall'imperatore Carlo V, con dispaccio 13 marzo 1543 per la riforma dell'estimo, base dei carichi generali e straordinari, la quale però ebbe duopo di successivi eccitamenti; e tanti furono gli ostacoli suscitati da chi avvantaggiavasi dell'ineguaglianza de' carichi, che il nuovo estimo ha potuto appena essere pubblicato nell'anno 1599.

Il 13 dicembre 1545 si aperse il concilio di Trento, che durò tredici anni, essendo terminato nel 1593.

Capitolo XXVIII

Il principe don Filippo investito del ducato di Milano. Morte di Francesco I.

Entrata in Milano del nuovo duca.

Nuova guerra in Italia. Tregua di Cambrai.

Abdicazione e morte di Carlo V

(1546) La tanto sospirata pace non fu di alcun sollievo allo stato di Milano, mentre non cessavano le eccessive contribuzioni imposte dal marchese del Vasto, per le quali innoltrarono i Milanesi fino al trono le loro doglianze. Il marchese corse per giustificarsi in Ispagna, ma ebbe ordine di tosto restituirsi in Italia per subire il sindacato della sua condotta. Logorato però da un'interna febbre, appena fu giunto a Vigevano, vi morì verso gli ultimi giorni di marzo, dopo un governo di nove anni. Gli succedette don Ferrante Gonzaga, vicerè di Sicilia e zio del duca di Mantova. Fu questi un signore colto e buono, attentissimo al suo ufficio, di facili maniere. Egli fece costruire le nuove mura che tuttora circondano la città, e che furono terminate nel 1555.

Atteso la morte del duca d'Orleans trovandosi ancora libera la successione nel dominio dello stato di Milano, l'imperatore Carlo V ne dispose nuovamente in favore di suo figlio il principe don Filippo. L'investitura è in data di Ratisbona il 5 luglio 1546, e con successivo atto 12 dicembre 1549, detto la Bolla d'oro, venne poi fissato l'ordine della successione. (1547) Circa questo tempo fu liberato l'augusto Carlo del suo maggior nemico, il re di Francia Francesco I, reso a stento placabile dal peso dell'età, fatto maggiore per le malattie; il quale morì il 31 marzo del 1547. Ma non perciò mancarono occasioni e attori per nuove guerre, ed una impensata ne sorse a motivo dell'occupazione di Piacenza fatta dalle truppe cesaree il 12 settembre, appena due giorni dopo la tragica morte del duca Pier Luigi Farnese. Imperciocché il papa Paolo III strinse lega con Enrico II, succeduto al trono di Francia, che fu poi cagione per l'Italia di nuove combustioni.

(1548) I Milanesi, pressoché oppressi dalle imposizioni straordinarie occorrenti per il comandato ristauro delle fortezze ed altri apparecchi di difesa, ebbero occasione di rallegramento a un tempo e di maggiori dispendi per la notizia avuta che il loro principe don Filippo era partito dalla Spagna onde recarsi a visitare i suoi stati d'Italia. Il governatore Gonzaga si accinse tosto alle disposizioni per il solenne suo ricevimento. Formò parte di queste l'abbellimento della città. Allora si vide ampliata la piazza maggiore colla demolizione dell'antica e cadente chiesa di Santa Tecla; si videro riattate le strade, atterrate le logge, i verroni, i palchi e tetti che ingombravano Milano, e impedivano la vista delle contrade. In tale occasione, dice il Bugati, fu in grandissimo pericolo di esser gettata a terra quella bellissima anticaglia della colonnata del tempio di San Lorenzo: il che era un troppo errore, anzi fallo mortale; conciossiaché se i grandi uomini, di elevato spirito, spendono le migliaia di scudi per una statua antica, e per un capo solo, ritratto di un qualche Divo o Diva, le centinaia, questa sì ampia di marmo, non solamente non meritava ruina, ma di esser conservata in piedi fino ad una scaglia, ancorché sin qui non vegga animo eroico che, cadendo, la repari, né del proprio né del comune, come né anco molt'altre anticaglie degne di memorie e di ristoro nella città, delle quali non s'ha considerazione per una ignobilità troppo vergognosa. Tuttavia, avvertito di questo fatto il Gonzaga, lasciolla, anzi adornolla questa colonnata in loggia d'arco e d'uno portico molto superbo, pel quale passò il re Filippo poi. Dopo ventidue giorni di navigazione, don Filippo d'Austria, duca di Milano, sbarcò in Genova il 22 novembre, e in principio del successivo mese fece la sua solenne entrata nella nostra città. Maravigliose e veramente reali furono per l'invenzione, la varietà e la magnificenza le feste date al real principe. Egli partì da Milano il giorno 8 gennaio 1549, e passando per Cremona, Mantova e Trento s'incamminò verso Brusselles, dove trovavasi l'imperatore suo padre.

(1550) Il cardinal del Monte era succeduto, col nome di Giulio III, nel papato a Paolo III, che morì di ottantadue anni. (1551) La lega stretta dal suo successore col re di Francia fu confermata dal duca Ottavio Farnese; e non sussistendo più i medesimi interessi, il nuovo papa si collegò invece coll'imperatore contro il Farnese e la Francia, per cui il governatore don Ferrante Gonzaga non fu tardo ad occupare Brescello e Colorno, ed investire Parma colle truppe cesaree. Così fu rinnovata la guerra, alla quale pure diedero principio i Francesi coll'avere spedito in Piemonte un grosso corpo d'armata, comandato dal signor di Brissac, e il riacceso incendio si estese in Toscana, in Germania e in Ungheria. (1552) La scarsezza delle truppe nel Milanese pose eziandio in prossimo pericolo gl'Imperiali, sull'entrare dell'agosto nel 1552, di essere, per sorpresa dei Francesi, cacciati dal castello di Milano. L'affare seguì in questo modo. Lodovico Biraga, milanese, al servizio di Francia, uomo assai intraprendente e voglioso di celebrità, e che per varie segnalate imprese erasi distinto nel Piemonte, seppe che il castello di Milano era mal custodito dalle guardie. Accertatosi col mezzo di fidi esploratori della verità del fatto, si pose in animo di sorprendere quel forte; quindi tratto al suo partito un certo Giorgio Senese, soldato arditissimo, che dimorava in Milano e che colle sue accorte maniere erasi procacciata la confidenza di molte famiglie nobili, e segnatamente di Giovanni de Luna, castellano del forte, nel quale giorno e notte entrava ed usciva solo senza alcun ostacolo, commise il Biraga a questi l'esecuzione dell'impresa. Era il disegno di scalare con sufficiente numero d'armati uno sperone di esso castello, di uccidere la sentinella e il castellano, e, superato il corpo di guardia, calar il ponte onde introdurvi altri appostati soccorsi. Premesse in fatti alcune squadre scelte e coraggiose, venne il Biraga con altri prodi armati clandestinamente dal Piemonte per la via degli Svizzeri, ed appiattatosi in città, aspettava l'avviso dell'esito dell'impresa. Entrò frattanto il Senese colle sue genti nel buio della notte nella fossa del castello, ed appoggiate le scale alle mura, trovaronsi corte al montarle; laonde insorto non so qual bisbiglio negli aggressori, questo fece sì che per la confusione e il sospetto d'essere sorpresi, si diedero subitamente alla fuga. Le scale ivi abbandonate porsero indizio della trama: Giorgio Senese venne carcerato, e previo processo fattogli da Niccolò Secco, capitano di giustizia, fu squartato vivo. Salvaronsi gli altri, uscendo precipitosamente dai confini dello Stato; e Lodovico Biraga, termina il Bugati, fu gridato ribelle della patria per commission di Cesare e del senato.

È nella natura de' popoli l'attribuire al ministro presente la colpa delle soverchie imposizioni, o comandate dal lontano padrone, o rese necessarie dalle difficoltà de' tempi. (1554) Perciò i Milanesi si associarono al castellano Giovanni de Luna, ch'era mosso da altri fini di rivalità e di ambizione, e di concerto con esso innoltrarono al sovrano forti rimostranze contro il governo del Gonzaga. Fu questi chiamato in Ispagna a giustificarsi, e durante la di lui assenza furono severamente sindacati in Milano tutti gli atti della sua amministrazione. Venne dichiarato innocente, ebbe dall'imperatore premii e distinzioni; ma non fu repristinato nel suo governo. Egli si ritirò a menare vita privata in Mantova, e passò poscia a Brusselles, dove morì il 15 novembre del 1557.

Il fiero turbine di guerra, da cui era percossa o minacciata nelle varie sue parti la vasta monarchia spagnuola, influì ad accelerare l'eseguimento della magnanima risoluzione che l'augusto Carlo andava da qualche tempo volgendo nell'animo, di alleggerirsi del peso di tanti regni. Quindi, nel corrente anno 1544, rinunciò a favore del figlio Filippo II gli stati d'Olanda e dei Paesi Bassi, il regno di Napoli e il ducato di Milano, per cui nell'ottobre dello stesso anno fu spedito a Milano don Luigi di Cardona per ricevere il giuramento di fedeltà al nuovo sovrano. (1555) La guerra co' Francesi nel Piemonte proseguiva alternata da reciproci vantaggi e perdite; ma nel 1555 la fortuna si mostrò più volte contraria agl'Imperiali; né valse l'avere richiamato dalla Toscana il famoso Gian Giacomo de' Medici, marchese di Marignano, per porlo alla testa dell'esercito, poiché verso gli 8 novembre cessò di vivere in Milano pochi giorni dopo il di lui arrivo. Egli conseguì poscia l'onore di un magnifico sepolcro, che gli fu fatto erigere nel Duomo di Milano dal papa Pio IV, di lui fratello. I vantaggi riportati dai Francesi non furono senza gravi sagrifizi; quindi gli animi de' monarchi belligeranti si trovarono disposti ad accogliere le proposizioni per un accomodamento, che loro vennero fatte di commissione del papa dal cardinale Reginaldo Polo, arcivescovo di Cantorberì, che poco prima avea riconciliato l'Inghilterra colla Sede Romana. (1556) Ne fu conseguenza la tregua quinquennale conchiusa a Cambrai il 5 febbraio del 1555, secondo l'èra fiorentina e veneta, e del 1556 secondo l'èra comune. L'imperatore Carlo V colse quest'istante per compire la rinuncia al figlio Filippo II del restante de' vasti suoi dominii insieme colla corona di Spagna e della corona imperiale al fratello Ferdinando I, re dei Romani, d'Ungheria e di Boemia. Quest'atto solenne fu eseguito in Brusselles, donde Carlo V si recò per mare a Vagliadolid nel regno di Castiglia. Bastarono quattro mesi di dimora in quella città per portare al colmo il suo disinganno delle cose mondane, mentre gli si ritardava la corrisponsione degli appuntamenti ch'egli s'era riservati; e rara era la concorrenza dei cortigiani, che nulla più avevano a sperar da lui. (1558) Perciò si decise di farsi un merito della necessità, e ritirossi nel monastero de' Girolamini di San Giusto nell'Estremadura, ove fu talmente macerato dalla noia, che volle farsi celebrare, lui vivo e presente, le funebri esequie, e dopo dicianove mesi di dimora in quella monastica solitudine diede fine alla procellosa sua vita il 21 settembre 1558, avendo di poco oltrepassati gli anni cinquantotto.

I governatori spediti nel Milanese dopo la partenza di don Ferrante Gonzaga furono don Giovanni di Figueroa, il duca d'Alva, il cardinale Cristoforo Madruccì, principe e vescovo di Trento, e Gonsalvo Ferrante di Cordova, duca di Sessa; ma il loro governo non lasciò traccia che meriti una speciale ricordanza. Sotto di essi, benché senza loro partecipazione, fu fondato nel 1559 dal conte Ambrogio Taegi il collegio di San Simone per dodici poveri e nobili fanciulli; nel 1554 furono istituite due cattedre di logica e di filosofia morale, dette dal loro fondatore Paolo Canobbio le Scuole Canobbiane, per le quali fu eretta un'ampia e magnifica aula, che esiste tuttora, coperta dappoi di un'elegante cupola nel 1681; e nell'anno seguente il genovese Tommaso Marini, che s'era stabilito in Milano fin circa il 1525 per dirigere il negozio de' prestiti fatti sulle rendite dello Stato, ed in quello arricchitosi, fece fabbricare il magnifico palazzo che porta tuttavia il suo nome, essendone stato architetto Galeazzo Alessi Pellegrino.

Verso la fine del 1550 finì i suoi giorni in Pavia il celebre giureconsulto Andrea Alciati, non avendo compito l'età di cinquantott'anni, e fu eretto alla di lui memoria un elegante monumento di marmo, che ancora esiste nei portici di quell'Università. Il 5 aprile del 1555 morì in Milano Marc'Antonio Maioraggio, d'anni quarant'uno. Egli fu pubblico professore di belle lettere, rinomato per l'eleganza del suo scriver latino. Molte opere di lui ci rimangono in versi e in prosa. Bayle gli ha dato luogo nel suo dizionario. Egli fu battezzato col nome di Antonio Maria, e il cangiamento che ne fece per genio di latinità gli fu cagione di una seria molestia, per cui dovette difendersi avanti il senato, e mostrare che non per ciò egli ricusava il culto alla Vergine Maria.

Capitolo XXIX

Pace tra la Spagna e la Francia.

Il cardinale Carlo Borromeo arcivescovo di Milano.

Contese di giurisdizione tra esso e i governatori regii.

Soppressione dell'ordine degli Umiliati.

Morte di Filippo Il re di Spagna.

Venuta in Milano di Margherita d'Austria, sposa del re Filippo III

(1559) La tregua di Cambrai, procurata dal papa, fu presto rotta dagl'intrighi de' di lui nipoti, i quali lo indussero a collegarsi colla Francia; ma le vittorie degli Spagnuoli sgominarono quest'effimera alleanza; sicché, quattr'anni dopo, nella stessa città di Cambrai fu, il 3 di aprile del 1559, conchiusa la pace tra la Francia e la Spagna, essendosi in quella convenuto che ciascuna delle sovranità d'Italia ricuperasse le proprie città e i luoghi perduti durante la guerra. A questa cagione di rallegramento per la città di Milano un'altra se ne aggiunse fra pochi mesi, mentre essendo morto Paolo IV, gli vide surrogato col nome di Pio IV il cardinale Gian-Angelo de' Medici, suo concittadino. Questo papa nel breve suo regno di circa sei anni, la beneficò in più modi. Primieramente colla nomina di tre cardinali milanesi tosto dopo la sua elezione, tra i quali fu il di lui nipote Carlo Borromeo; poi di altri cinque nel 1565. Concesse inoltre al collegio de' giurisperiti, cui era stato ascritto, molti privilegi e distinte rendite, oltre un fondo sufficiente per erigere la maestosa fabbrica per la sua residenza, la quale, ridotta a compimento nel 1564 sotto la direzione dell'architetto Vincenzo Seregno, sussiste tuttora. Elesse l'altro suo nipote conte Federico Borromeo, capitano generale di Santa Chiesa, ed accumulò talmente nel cardinal Carlo i benefizi ecclesiastici, le dignità, i feudi, le pensioni, che, allorquando questi si decise a rinunziarvi per dedicarsi del tutto alle cure della sua chiesa milanese, che insieme col cardinalato gli era stata conferita, trovavasi investito del grado di legato a latere per tutta l'Italia, protettore di molti ordini regolari, e titolare di dodici commende; onde possedeva di redditi ecclesiastici l'insigne somma di novantamila zecchini, quibus, cum haberet, conchiude il Bescapè, insignis fuit, et cum dimisisset, insignior. E nell'atto stesso di rinunziarvi ha potuto ancora, col favore dello zio, convertirli in benefizio stabile del suo paese, siccome avvenne dell'abbazia di Calvenzano, che applicò alla fabbrica del collegio Borromeo in Pavia, cui nel 1564 avea dato principio.

(1560) L'anno 1560 fu contrasegnato dalla morte del gran cancelliere Francesco Taverna, conte di Landriano. Egli nasceva da una nobile famiglia, e per la via della toga fu dottor collegiato, poi fiscale, indi senatore, poscia presidente del magistrato straordinario, creato per ultimo gran cancelliere del duca Francesco II, e confermato da Carlo V. La probità, i talenti, l'attività, il cuore e la prudenza di questo degno ministro si conobbero in varie legazioni ch'egli felicemente eseguì presso la repubblica Veneta, a Roma presso Clemente VII, presso il re di Francia e presso dell'imperatore, conciliando trattati di pace e alleanze. Egli ebbe dal suo principe la nobilissima commissione di firmare il trattato di nozze colla principessa di Danimarca. Nissun soggetto meritevole di speciale menzione porsero per più anni di seguito i governatori marchese di Pescara, e duchi di Sessa e di Albuquerque, l'ultimo de' quali morì nel 1571, dopo un governo di sette anni; e fortunatamente sono estranee alla nostra storia le orrende scene della regia famiglia di Madrid e le carnificine dell'Olanda. (1563) Noi abbiamo solo a narrare che sono riusciti inutili i tentativi del duca di Sessa per dare una più ampia consistenza al tribunale dell'Inquisizione, che fino dal 1559 era stato fondato nel convento delle Grazie dal cardinale alessandrino Michele Ghislieri, poi Pio V.

(1565) Benché il cardinale Borromeo fosse stato investito fin dal mese di febbraio del 1560 dell'arcivescovato di Milano per rinunzia del cardinale Ippolito II d'Este, nella di cui casa era rimasto in commenda per più di sessant'anni, egli dovette rimanere in Roma presso lo zio come suo segretario di Stato; e soltanto il 23 settembre del 1565, essendo in età d'anni ventisei poté recarsi alla sua diocesi per assistere al concilio provinciale, la di cui convocazione avea, stando in Roma, ordinata. Il suo ingresso fu sontuosissimo. Le vie dalla Basilica di Sant'Eustorgio fino alla chiesa metropolitana erano ornate magnificamente e affollatissime di popolo. Oltre la lunga comitiva del clero secolare e regolare che il precedeva, ebbe l'accompagnamento del governatore, del senato e delle altre magistrature e di quasi tutta la nobiltà, tra la quale furono scelti quelli che splendidamente vestiti e a piedi faceano corteggio intorno della sua persona, e reggevano il baldacchino che lo copriva. Egli stesso ebbe cura di far avvertito il vescovo di Como che il governatore, cavalcando alla di lui sinistra, si teneva costantemente ad un minor passo, per modo che la parte posteriore del suo cavallo restava allo scoperto; e i sensi della maggiore soddisfazione ne scrisse del pari al cardinale Altemps, commentando in ispecie la religione e la pietà del governatore, e che di averlo trovato devotissimo a sé ed al pontefice sommamente si compiaceva. I vescovi che si considerarono suffraganei di Milano al primo sinodo tenuto dall'arcivescovo Borromeo furono delle seguenti città: Acqui, Alba, Alessandria, Asti, Bergamo, Brescia, Casale, Cremona, Lodi, Novara, Piacenza, Savona, Tortona, Ventimiglia, Vercelli e Vigevano. Appena, finito il concilio provinciale, avea il cardinal Borromeo dato principio alle riforme in quello stabilite, fu sollecitamente richiamato a Roma dalla notizia della grave infermità del papa, e giunse in tempo di assistere alla di lui morte, avvenuta il 9 dicembre, e per prendere una parte attivissima all'elezione del successore. Uno scrittore contemporaneo, e apparentemente bene informato, ci è testimonio che il cardinale Borrorneo avea somma autorità, e si era proposto di far papa il cardinale Giovanni Morone, milanese; il quale per le vicende della fortuna, dopo di essere stato perseguitato e fatto carcerare da Paolo IV come eretico, richiamato in favore sotto Pio IV, avea legato apostolico, presieduto e posto termine al concilio di Trento. (1566) I due che più potevano, erano il cardinal Farnese e il Borromeo. Aderivano al primo gli elettori fiorentini, inclinando a far nominare il cardinale di Montepulciano; erano per il secondo, Altemps, suo cugino, e le creature di Pio IV. Tra queste gare prevalse un terzo partito, che innalzò alla sede pontificia il cardinale Ghislieri, col nome di Pio V.

Restituitosi il cardinale arcivescovo alla sua diocesi di Milano, riassunse tosto il pieno esercizio delle sue funzioni con quello zelo vivace ed insistente ch'era proprio del di lui carattere. E siccome l'antica milizia ecclesiastica, i Francescani ed i Domenicani, non avevano la di lui confidenza, così prese a suoi coadiutori i Gesuiti, la di cui istituzione era stata approvata da Paolo III. Fin dal 1563 egli erasi fatto precedere in Milano da un drappello di essi, sotto la direzione del padre Palmio. Ad essi, conferì la soprintendenza del seminario; tre anni dopo la loro introduzione li traslocò dalla modesta casa di San Vito ad altre presso San Fedele, dove apersero pubbliche scuole; e dopo altri tre anni fece dar principio, sul disegno dell'architetto Pellegrino, alla bella chiesa che tuttora vi esiste, e di cui egli stesso pose solennemente la prima pietra. Intervenne poco dopo opportuna a fornire i mezzi di presto ridurla a compimento la catastrofe degli Umiliati, de' quali la serie delle accadute vicende mi trae a far parola.

L'ordine degli Umiliati, che dalla Lombardia erasi esteso in diverse parti d'Italia, fu in origine un consorzio di persone pie, viventi in comune sotto l'osservanza di alcune regole religiose, il di cui principale istituto era l'occuparsi delle manifatture di lana. Applicarono in seguito al negozio delle loro merci; con che arricchirono, e l'ordine degenerò. All'epoca della quale trattasi, allorché per lunga consuetudine i capitoli, i monasteri e i vescovadi più ricchi erano dati in commenda ai cardinali e ad altri favoriti della corte di Roma, anche le prepositure degli Umiliati erano passate quasi in patrimonio di varie potenti famiglie, che, con assenso del papa, le trasmettevano in appanaggio ai figli cadetti. Il cardinale, che per propria natura era inclinato alla magnificenza, vide nella riforma di quest'ordine la possibilità di ritrarre i mezzi che gli mancavano per eseguire le grandiose opere da lui divisate; e fin da quando era in Roma presso Pio IV fu sollecito d'informarsi della situazione di esso, e ne ritrasse che gli Umiliati non oltrepassavano fra tutti il numero di cento individui, compresi i prevosti, e che dai conti fatti sui loro redditi, di sessantamille scudi d'oro, una sì scarsa famiglia veniva assai parcamente pasciuta, siccome ne scrisse al prelato Ormaneto, suo confidente. Il Borromeo era protettore dell'ordine. (1567) Si fece fare delegato apostolico per riformarlo, e predisposti i mezzi a render nulla ogni resistenza, radunò il capitolo generale a Cremona, ove promulgò la riforma, per la quale i prevosti perdevano ogni proprietà e venivano soggettati alla vita monastica. Era naturale che, come di cosa insolita e per essi sommamente nociva e umiliante, ne concepissero gravissimo sdegno non meno i prevosti che le nobili famiglie cui appartenevano; quindi ne emersero grandi susurri e querele e maldicenze infinite; il papa fu sollecitato a rimettere in parte la severità de' nuovi statuti; i principi, instigati a non lasciar ledere la loro giurisdizione; e quando per nessun'altra via ha potuto aver sfogo il soverchio degli umori, questi proruppero poi e finirono in un attentato vile e vituperevole, colla rovina dei suoi autori.

Con non minore severità diede opera alle altre parti delle meditate riforme: e senza partecipazione o assenso de' magistrati facea citare i laici per titoli appartenenti al suo fôro; altri ne facea tradurre alle proprie carceri; accrebbe di molto il numero del satellizio arcivescovile, e pretese che a questo fosse lecito di portare, oltre le altre armi, anche le astate e l'archibugio, che da' regii ordini erano generalmente proibite. All'inflessibilità dei governo, alla severità de' tribunali oppose l'arcivescovo la scomunica. Da entrambe le parti ne fu scritto al re ed al papa, e varie e gravi mormorazioni corsero nel pubblico. (1569) Nuovi e maggiori scandali insorsero per aver voluto l'arcivescovo visitare solennemente il capitolo della Scala, che, come di regio padronato e per privilegio pontificio, tenevasi esente dalla giurisdizione arcivescovile. Frattanto un accidente estraneo, il tentato assassinio del cardinale Borromeo, rese preponderante la sua causa sì nell'opinione del pubblico, che presso le corti che doveano giudicarne.

Quattro religiosi Umiliati, Clemente Mirisio, prevosto di Caravaggio, Lorenzo Campagna, prevosto di San Bartolomeo di Verona, Girolamo Legnano, prevosto di San Cristoforo di Vercelli, e il diacono Gerolamo Donato, sornomato Farina, che insieme abitavano nella loro casa di Brera in Milano, concepirono il disegno di vendicarsi contro il riformatore del loro ordine, uccidendolo, e il Farina incaricossi dell'esecuzione. Il fatto è così narrato in un vecchio codice. Ultimamente il Farina (e fu il 26 di ottobre), aiutato dal tempo tenebroso et oscuro, si condusse nel palazzo dell'illustrissimo cardinal Borromeo, et salendo le scale, prive di lume, et per l'oscurità non visto da alcuno, camminò alla porta della cappella nella quale, circa un'hora di notte, stava con la famiglia il cardinale in oratione, cantandosi in musica alcuni motteti;... et havendo preso tra il legno et l'apertura della porta la mira nella schiena dell'illustrissimo cardinale, che havea la faccia verso l'altare, gli sparò l'archibugietto, carico di una balla et di molti pernigoni, che, come a Dio piacque, non l'offese niente, et la balla gli ammacò uno poco la carne, et li pernigoni senz'offesa si sparsero per il rocchetto et per le vesti, unde miracolosamente ne scampò: et ciò fatto, l'illustrissimo cardinale con tutto il rumore restò intrepido, né volse che niuno se movesse, ma si dovesse finire la oratione; nel cui tempo il Farina con l'altro archibugietto in mano, qual s'era riservato per sua difensione, aiutato pure dall'oscurità et con una maschera nel volto per non essere conosciuto, scese le scale, nel fondo delle quali vi si ritrovò uno servitore che teneva uno cavallo, a cui dando uno urtone, ne sfugì per la porta incontro al Domo. Nella notte medesima e ne' giorni successivi il governatore fece eseguire le più diligenti e severe ricerche per la scoperta o manifestazione del reo; ma riescì al sicario Farina di rifugiarsi in Civasso nel Piemonte, dove si arruolò nelle truppe del duca di Savoia. Essendosi poi pubblicato un breve pontificio contro quelli che avessero notizie intorno al commesso attentato e non le palesassero, il Legnano e il Mirisio, prevosti di Vercelli e di Caravaggio, temendo di non essere per altra via scoperti (prosegue il citato manoscritto), consultatisi insieme, determinarono di dire ogni cosa all'illustrissimo cardinale, il quale benignamente et con molta carità gli ascoltò nella sua camera et gli promise che, non solo haveria tenuto secreto tutto quello che sopra di ciò gli raccontassero, ma che s'essi ci havevano parte, come ne davano inditio le loro parole, senza nominare li suoi nomi, haveria procurato per loro l'assoluzione di Nostro Signore; ma essi, negando d'havervi partecipazione niuna, accusavano solamente il Farina per malfattore. Et venendo dopo un altro breve di sua santità, che scomunicava ciascuno che per qualsivoglia via sapesse di questi particolari, delegando il rev. vescovo di Lodi per giudice; il cardinal Borromeo, che sapea di questi trattati dalli detti prevosti ciò che si è detto di sopra, dubitando, se non rivelava il fatto, d'incorrere nelle censure di scomunica posta da sua santità nel detto breve, si risolse di far chiamare a sé li detti di Vercelli et Marisio, li quali di nuovo exortò a dire la verità sinceramente, perché li haveva aiutati presso Nostro Signore: et essi negavano sempre. Ultimamente poi fece intendere che si haveva da pubblicare presto il detto breve, per il quale loro erano tenuti in coscienza di revelare al vescovo di Lodi tutto quello che havevano detto a sua signoria illustrissima, ec. Essi presentaronsi al vescovo, e furono carcerati. Un altro breve pontificio mandato al duca di Savoia procurò la consegna del Farina. Tutti rimasero nelle prigioni dell'arcivescovo sette mesi, et horridamente tormentati. (1570) Finalmente li tre prevosti e il Farina, degradati dal delegato pontificio e rimessi alla corte secolare, furono, il 2 di agosto, sulla piazza di Santo Stefano, il Legnano e il Campagna, decapitati per esser nobili, il Merisio e il Farina, appiccati, previo a quest'ultimo il taglio della mano avanti la porta dell'arcivescovato. Questo fatto a tal segno operò sulle menti, che da quel punto venne il Borromeo considerato come visibilmente assistito dalla Divinità, e se gli spianarono le vie; non ostante che alcuni, che si davan pregio di fino intelletto, asserissero temerariamente, esser ciò un artificio del prelato per procacciarsi opinioni di santo. Nell'anno seguente il pontefice Pio V, con bolla del 7 febbraio, soppresse intieramente l'ordine degli Umiliati. Il principal frutto di quella generale abolizione fu conseguìto dal Borromeo, che, per concessione pontificia, ebbe facoltà di disporre de' beni delle prepositure esistenti nella Lombardia, dell'annuo reddito di oltre venticinquemila zecchini, a favore di molti pii ed ecclesiastici stabilimenti, e per le nuove magnifiche fondazioni già incominciate o intraprese ne' seguenti anni, tra cui la fabbrica del Seminario, principiato nel 1570, e presto ridotto a compimento col disegno dell'architetto Giuseppe Meda, salva la porta principale tuttora esistente e ornata secondo il cattivo gusto del tempo, che vi fu aggiunta circa un secolo dopo dall'arcivescovo Alfonso Litta.

(1572) Essendo morto dopo la metà del 1571 il governatore duca d'Albuquerque, gli successe, nell'aprile dell'anno seguente, don Luigi di Requesens, commendator maggiore di Castiglia, uomo destro e stimabile, ma zelatore non meno fervido, e perseverante della giurisdizione regia, di quello che il cardinal Borromeo il fosse della ecclesiastica. Perciò le controversie giurisdizionali si riprodussero ancora più vive; e desse continuarono, benché meno clamorose, anche sotto il moderato governo del marchese di Ayamonte, che succedette al commendatore de Requesens, e resse queste province per otto anni. (1575) Il senato mandò espressamente a Roma, nel 1575, il senatore Politone Mezzabarba, uomo di gran merito, per far valere le sue ragioni. All'opposto le parti del Borromeo erano vivamente protette a Madrid da monsignore Ormaneto, già suo residente in Roma, cui era riuscito di far nominare internunzio apostolico a quella corte. Nel 1581 vi spedì inoltre l'altro suo familiare Carlo Bescapè, prevosto generale de' Barnabiti, e che fu poi il migliore storico della sua vita. Narrasi da questi di aver avuto replicati congressi col domenicano Diego Clavesio, confessore del re, e da lui delegato ad ascoltarlo; e possono leggersi presso di esso i modi moderati e conciliatori coi quali fu licenziato.

A calmare maggiormente queste scandalose contese, rivolgendo la comune attenzione ad un oggetto infinitamente più grave e funestissimo, sopragiunse la pestilenza. (1576-1577) Questa fu promossa da una delle non insolite sue cause, lo straordinario concorso di gente a Roma per il Giubileo dell'anno avanti. Si manifestò dapprima nei monti di Trento, e propagatasi a Verona e Mantova palesò i primi suoi segni verso la fine di luglio in Milano, dove da piccola scintilla divampò in un baleno a vastissimo incendio. Egualmente pronti, benché non tutti provvidi dei pari, furono gli ordini dati dalla pubblica autorità. Le unzioni venefiche che illusero la rozzezza de' Romani nel principio del quinto secolo dalla loro esistenza, e che centoventiquattro anni dopo l'epoca della quale trattiamo, furono argomento in Milano stessa della più orrenda tragedia, eccitarono l'attenzione del marchese d'Ayamonte, che, con editto del 12 settembre, proposti insigni premii ai delatori, minacciò gravissime pene ai rei; e per la nissuna scoperta di essi si lusingò d'averli frenati. Ma fuori di questo tributo pagato dal saggio governatore all'ignoranza del secolo, tutti gli altri e non pochi provvedimenti emanati sì da lui che dalla magistratura civica resero testimonianza non men di zelo che di saviezza. Era allora vicario di Provvisione Giambattista Capra, che meritò la riconoscenza de' posteri pel bene che fece. Si ordinò che ciascuno non uscisse dalla sua casa. Frequenti erano le guardie per tenere in freno il popolo; le forche, erette in più luoghi della città, indicavano ai disobbedienti la qualità e la prontezza del castigo. Furono fissate le persone cui era permesso di girare liberamente, sì per servire i relegati nelle case, che per ogni pubblico bisogno. Era cosa miseranda il vedere una città pocanzi soprabbondante di popolo, lieta di ogni dovizia, florida, vivace, sfarzosa, frequentatissima, ridotta in un istante in un'immensa solitudine. Due terzi de' suoi abitanti, per poco che ne avessero i mezzi, si rifugiarono alla campagna, e quelli che furono costretti a rimanere, nella noia del loro forzato ricovero, fra la vicendevole mestizia, nella continua angoscia, cagionata dalla tema di essere instantaneamente sopragiunti dal mortifero morbo, non avevano altre distrazioni che il periodico pulsare alle porte di chi recava loro un misurato alimento, o il lento trascorrere de' carri per le vie carichi di morti o di semivivi, lo stridore delle di cui ruote era stato reso maggiore coll'arte, affinché all'appressarsi di quelli ciascuno più prontamente s'allontanasse. Non bastando il vastissimo Lazzaretto a contenere i malati, fuori d'ogni porta della città si dispose un recinto, dove gli altri si trasferivano. Un difficilissimo oggetto fu pure la cura delle vittovaglie. Per più di sei mesi circa cinquantamila persone furono a spese pubbliche alimentate; e non bastando le rendite civiche, le elemosine de' facoltosi, l'entrate de' luoghi pii, la città vi destinò altresì i capitali che ritrasse dalla vendita de' suoi dazi. Il dispendio prodotto da questo sommo disastro fu calcolato di quasi un milione di zecchini. Il morbo non si estinse del tutto che dopo diciotto mesi. I morti nella sola città ascesero a circa diecisettemila; e il Bescapè, che ho particolarmente seguìto in questo doloroso racconto, aggiunge che in quello spazio di tempo v'ebbero quattromila e trecento nati. A questa sciagura debbono i Milanesi l'esistenza di una bella chiesa, quella di San Sebastiano, eretta per voto del corpo civico sul disegno dell'architetto Pellegrino de' Pellegrini, e dotata di ricchissimi arredi. Verso il principio del 1577, però senza colpa della peste, morì Girolamo Cardano, di settantacinque anni, illustre per il suo sapere, per il suo ingegno e per la sua esimia credulità nelle scienze occulte.

Durante quel gran disastro rifulse splendidissima la somma carità del zelante pastore verso l'afflitto suo gregge, cui dedicò ogni sua cura, soccorse colle sue largizioni e cercò persino di giovare colla erezione delle croci ne' quadrivi (con poca opportunità rese poi stabili), perché i rinchiusi nelle case potessero in qualche modo assistere alle sacre funzioni che si celebravano innanzi ad esse: mezzo assai adatto di distrazione e di rincoramento agli animi sbigottiti; e se la piena del suo zelo non fosse trascorsa a dar causa di più propagarsi il contagio colle processioni, la sua lode sarebbe molto maggiore e intemerata. Né perciò interruppe l'esecuzione de' molti suoi benefici e magnifici progetti, ed ogni anno era segnato dall'esecuzione di più d'uno di quelli, con una gloria ben più solida e vera che non nel farsi campione delle ambiziose pretese del sacerdozio. Oltre il collegio Borromeo e il Seminario, de' quali s'è già parlato, si succedettero le fabbriche di San Martino degli Orfani; delle convertite di Santa Valeria, ampliata di poi della chiesa jemale del Duomo, però a spese della Fabbrica; de' monasteri di Santa Marcellina, di Sant'Agostino Bianco e di Santa Sofia, allora Orsoline; del collegio delle Vedove, del conservatorio delle fanciulle alla Stella, del palazzo arcivescovile, e del collegio Elvetico, fabbrica delle più insigni, disegnata per l'interno da Fabio Mangoni, pel di fuori da Francesco Richini; dotandolo coi beni delle prepositure degli Umiliati de' SS. Jacopo e Filippo di Ripalta in Monza, di Santa Croce in Novara, di Sant'Antonio in Pavia, e dell'abbazia di Mirasole, per rinunzia ottenuta da suo cugino il cardinale Altemps. Fondò pure le cappuccine di Santa Prassede e di Santa Barbara, e con assai maggiore utilità la Congregazione della dottrina cristiana. Costante nella sua massima di preferire i nuovi istituti religiosi, introdusse in Milano i Teatini; distinse, arricchì e favorì i Barnabiti, de' quali approvò le costituzioni; instituì in San Sepolcro la congregazione de' sacerdoti obblati, legati con ispecial voto di obbedienza all'arcivescovo e a' suoi successori, a di cui beneficio nell'anno della sua morte pose la prima pietra della vasta ed elegante chiesa di Rhò, tuttora esistente, architettura del Pellegrini. Ma più di tutti ebbero il suo favore i Gesuiti. Erano appena trascorsi tre anni dacché avea fatto erigere per essi il collegio e l'elegante chiesa di San Fedele, e la città li vide da lui trasferiti nella più bella prepositura degli Umiliati, in Brera, dotati di molti beni, e tra gli altri di quelli dell'abbazia gentilizia di Arona, per rinunzia del commendatario cardinal Chiesa, non che dell'altra abbazia de' SS. Gratiniano e Felino di Arona stessa, che destinò in casa di Noviziato. Ingrati! che gli resero in seguito amaro il beneficio; sì che gli scriveva monsignor Speciano da Roma nel 1579, ch'essi erano in quella città i suoi più sfrenati detrattori. (1585) Consunto da un ascetismo smoderato in un gracile temperamento, il cardinale arcivescovo Carlo Borromeo mancò di vita il 3 novembre dell'anno 1584, dopo una breve malattia, avendo oltrepassato di pochi giorni gli anni quarantasei. Pastore pio, generoso e sommamente rispettabile; il volgo ammirò la severità della sua vita e la pompa estrema della sua pietà; ma l'uomo di Stato loderà in esso il filantropo e il benefattore de' suoi concittadini. Ventisei anni dopo la sua morte fu egli da Paolo V canonizzato.

Avendo cessato di vivere il governatore d'Ayamonte nell'aprile del 1580, tenne il suo luogo, per quasi tre anni, il castellano don Sancio di Guevara, del quale l'arcivescovo Borromeo era assai contento, come appare da una di lui lettera a monsignor Speciano; ad un suo cenno furono banditi ciarlatani, commedianti, e tolto ogni divertimento, il che non avea potuto ottenere dagli altri governatori. È gaio l'aneddoto riferito dal marchese Lorenzo Isimbardi nella sua cronaca, in proposito de' figli del marchese d'Ayamonte. Trovavasi egli alla sua villa del Cairo in Lomellina, quando occorse avere ad alloggiare in casa una notte li figlioli del marchese d'Ayamonte, governatore dello Stato di Milano; il qual, essendo morto pochi giorni prima, questi figlioli se ne ritornavano in Spagna, de' quali il maggiore era di circa dieci otto anni. Ed essendo a tavola, cenando, successe caso assai ridicoloso, ma tanto più misterioso, quanto che procedette da semplicità contadinesca; perché, trovandosi a caso in quell'ora sotto al portico un contadino, qual, veduto venire dalla credenza quattro paggi senza cappello o berretta in testa, con torce accese in mano, che accompagnavano nel mezzo di loro un altro, pur scoperto, qual teneva in mano una tazza d'argento, coperta, sopradorata, e questi, passando per detto portico per entrar in sala a dar da bere al padrone, con la cerimonia che suol usar alcuni grandi di Spagna, il buon contadino, non sapendo altro, subito all'improvviso si buttò a terra in ginocchione, col cappello in mano, battendosi il petto; il quale, interrogato perché facesse tal atto, ed ammonito di levarsi su, rispose: Non volete ch'io adori ed onori il mio Signore? Persino le bevande che dovevano entrare nello stomaco di un grande di Spagna erano onorate, venerate, adorate quasi! Dopo il Guevara venne al governo del Milanese il duca di Terranova, che, per esser dottore, prediligendo il senato, ordinò non doversi esso più intitolare serenissimo re, ma potentissimo re, stabilì il titolo di magnifici ai senatori, e altre cose simili; gli successe Juan Fernando de Velasco, contestabile di Castiglia, che governò per otto anni, sebbene interrottamente. Egli diede il nome ad una delle contrade della città, aperta al suo tempo, ed emanò varii ordini per contenere gli ecclesiastici, e tra gli altri, nelle congregazioni si posero gli assistenti regii.

Nominato, verso la fine del 1584, monsignor Gaspare Visconti al vacante arcivescovado di Milano, alla metà del seguente anno ne prese il possesso. (1590) Cinque anni dopo, la nostra città vide promosso alla Santa Sede il cardinal Nicolò Sfondrati, col nome di Gregorio XIV. Questo fu il quinto papa milanese, essendo stati i quattro precedenti Anselmo da Baggio, che, nel 1061, prese il nome di Alessandro II, Uberto Crivelli, innalzato nel 1185 col nome di Urbano III, Goffredo Castiglioni, fatto papa l'anno 1241, col nome di Celestino IV, e Pio IV, ch'era in prima Gian-Angelo Medici, creato l'anno 1559, del quale si è parlato nel capitolo precedente. Sotto l'arcivescovo Visconti, la chiesa di San Lorenzo, caduta nel 1573, fu rifabbricata sul disegno di Martino Bassi; furono pure erette le chiese del Paradiso e della Maddalena, e il convento dei Cappuccini in Porta Orientale; i Somaschi, introdotti a Santa Maria Secreta, e stabiliti i religiosi ospitalieri, detti Fate bene Fratelli. (1595) il Visconti resse l'arcivescovado di Milano fino al 1595, e gli fu dato in successore il cardinale Federico Borromeo, in età d'anni trentuno, che governò la chiesa Milanese per il lungo corso di anni trentasei. Nel 1587 morì lo scultore Annibale Fontana, e fu sepolto nell'insigne tempio di Santa Maria presso San Celso, ove osservansi varii bei lavori della sua mano; e il 17 aprile del seguente anno cessò pure di vivere, nel convento di Sant'Eustorgio, frà Gaspare Bugati dell'ordine de' Predicatori, che nelle sue storie mostrò generalmente un criterio ed un'imparzialità superiori alla sua condizione.

(1598) In tutta quest'epoca, sterile di notizie civili, null'altro ci si offre da riferire se non che l'ingresso in Milano di Margherita d'Austria, sposa dell'Infante don Filippo, che fu poscia Filippo III; e la morte quasi contemporanea accaduta in Madrid del re Filippo II, dopo lunga malattia, essendo d'anni settantadue. L'arciduchessa era stata sposata in Ferrara dal pontefice Clemente VIII, che, in quell'anno medesimo, aveva tolto quella città alla casa d'Este, fece l'entrata in Milano il 30 novembre, e vi si trattenne per circa due mesi. Per questa occasione il corpo civico fece erigere dall'architetto Martino Bassi, a foggia di magnifico arco, la Porta Romana, quale ancora si vede, ornata con emblemi ed iscrizioni in cui la moda per simili solennità andò d'accordo coll'ampolloso gusto del secolo. L'arciduchessa e regina entrò alle ore ventidue, accompagnata dall'arciduchessa Maria di Baviera, sua madre, dall'arciduca Alberto, dal cardinale Aldobrandino, nipote del papa e legato, dal governatore di Milano, contestabile di Castiglia, e da un gran numero di principesse e principi: i tribunali andarono in seguito. V'erano centocinquanta giovani principali milanesi, vestiti superbamente di bianco con ricami d'oro, di perle e di gemme. Ciascuno portava un'accetta dorata, coll'asta coperta di velluto bianco e ornata a frange d'oro. Poi venti cavalieri milanesi, in uniforme di scarlatto riccamente trinato d'oro. La regina sedeva sopra di una chinea bianca, era vestita a lutto per la morte di Filippo II, e marciava sotto un baldacchino di seta d'argento ricamato d'oro a gran frange. I dottori di collegio portavano il baldacchino, ed erano vestiti con vesti lunghe di damasco, foderato di velluto, e col cappuccio d'oro, foderato di vaio. Per onorare la sposa, venne pure il duca di Savoia, Carlo Emanuele, col principe Amedeo, suo figlio, il marchese d'Este, e molti principi e vassalli, al numero di trecento. L'arciduca Alberto andò alla porta della città ad incontrarla, col governatore, col principe d'Orange, e con tutta la nobiltà forestiera e milanese. Le feste date furono varie e magnifiche; e, per renderle più splendide, il contestabile fece fabbricare un teatro in corte, che durò fino al 1708, nel quale anno rimase distrutto da un incendio.

In que' tempi le arti cavalleresche, e singolarmente il ballo, avevano la loro sede in Milano. A convincersene, basta leggere il libro già rammentato di Cesare de' Negri, che contiene i precetti del ballo, varii balletti, relazioni di mascherate e feste de' suoi tempi, e i nomi delle più distinte dame e cavalieri che ballavano sotto della di lui scuola. Qui si vede che i Francesi, i Romani, gli Spagnuoli imparavano allora il ballo dalla scuola milanese. Pietro Martire, milanese, era il ballerino stipendiato dal duca Ottavio Farnese in Roma sotto il pontificato di Paolo III. Francesco Legnano, milanese, fu stipendiato da Carlo V e da Filippo II, e venne largamente premiato. Lodovico Pavello fu caro al re di Francia Enrico II e al re di Polonia. Pompeo Diobono, pure milanese, era d'una nobilissima e graziosissima figura dalla testa ai piedi, di somma agilità e leggerezza nei movimenti. Il re Enrico II di Francia lo fece maestro del suo secondogenito il duca d'Orleans, che, fatto poi re col nome di Carlo IX, lo amò sempre. Enrico III pure gli confermò le pensioni. Virgilio Bracesco, milanese, insegnò il ballo al re Enrico II di Francia e al primogenito il delfino. Francesco Giovan Ambrogio Valchiera fu preso al soldo del duca di Savoia Emanuele Filiberto, e fatto maestro del principe Carlo Emanuele, suo figlio. Gian Francesco Giera, milanese, fu maestro di Enrico III, prima re di Polonia, poi di Francia, e sempre da lui stipendiato. Carlo Beccaria, milanese, fu maestro della corte di Rodolfo II imperatore; Claudio Pozzo, milanese, maestro stipendiato alla corte di Lorena. Anche in ciò la coltura e l'eleganza cominciarono nell'Italia, d'onde le altre nazioni le presero. Allora il ballo comprendeva molti altri esercizi ginnastici, come volteggiare il cavalletto, la scherma e simili. Il Negri descrive come il giorno 8 dicembre, mentre la regina donna Margherita d'Austria era nel palazzo ducale di Milano, vi si portò con otto valorosi giovani, suoi scolari, ed ivi, alla presenza della regina e dell'arciduca Alberto, fecero mille belle bizzarrie, e fra l'altre un combattimento colle spade lunghe et pugnali, et un altro con le haste, aggiungendovi poi certe altre inventioni nuove di balli. I balli avevano i loro nomi. Alcuni, presi dall'imitazione delle nazioni, come la Spagnuoletta, l'Alemanna, la Nizzarda, ec. Altri, da argomento d'amore: il Torneo amoroso, la Cortesia amorosa, Amor felice, la Fedeltà d'amore, ec. Altri, a capriccio, come la Barriera, il Brando gentile, la Pavaniglia, il Bianco fiore, Bassà delle ninfe, So ben io chi ha buon tempo, ec.: argomenti e nomi tutti di balli descritti dal Negri. Gli abiti dei ballerini d'allora erano assai gentili. Il Negri stampa la lista delle dame e de' cavalieri, ballerini e ballerine ne' suoi tempi in Milano. Sotto il governo del contestabile di Castiglia, cioè dopo il 1592 sino al termine di quel secolo, i cavalieri che ballavano sono centoquindici nominati dall'autore, e le dame sono sessantasei, oltre trentasei zitelle; in tutto centodue donne. Osservo che i nomi delle dame allora erano meno divoti che non lo sono oggidì, ma più eroici: Cornelia, Livia, Lelia, Giulia, Aurelia, Camilla, Virginia, Lavinia, Ottavia, Flaminia, Emilia, Claudia, Drusilla, Lucilla, Deidamia, Elena, Ippolita, Diana, Artemisia, Dejanira, Zenobia, Andronica, Olimpia, Beatrice, Costanza, Ersilia, Bianca, Laura, Vittoria, Violante, Silvia, Delia. In Roma, fino dal 1553, era uscito un Trattato di Scienza d'armi di Camillo Agrippa, milanese. Quest'opera, corredata di molte figure assai ben disegnate, comprende i precetti della scherma, presso a poco quali si osservano anche presentemente; tratta delle diverse maniere di battersi con spada e pugnale, spada e mantello, con due spade, colla spada e lo scudo, colle alabarde, ec. Si vede che l'arte allora era anche più coltivata e variata di quello che non lo sia presentemente.

(1599) Nel mese di luglio del seguente anno furonvi nuove feste in Milano per l'ingresso dell'Infanta donna Isabella d'Austria, sposata coll'arciduca Alberto, che venne con lei. Per questa occasione nel teatro di corte si fece una bellissima festa con maschere a quadriglie, oltre una rappresentazione teatrale, intitolata: l'Armenia. Parmi di vedere il primo germe dell'opera in musica ne' due intermezzi, i quali vennero cantati. Si scelsero due argomenti adatti alla musica. Il primo fu l'Orfeo, il quale con flebil canto sfoga il suo dolore per la morte della cara sua Euridice. L'Eco rispondeva, e un dialogo tra Orfeo ed Eco insegnò al vedovo sposo che colla magia del suo canto poteva tentar la via d'Averno, placare i mostri e rivedere Euridice. S'accosta all'antro funesto, e al suono della sua lira si spalancano le porte, si scopre quella terribile contrada. Plutone, Proserpina in trono, i giudici, le furie, Caronte, Cerbero, in somma tutto vedenvasi quello che Virgilio e Ovidio hanno cantato. La soavità del canto d'Orfeo, gradatamente interrotta dalle grida infernali, poco a poco vince, e, ammutoliti gli spiriti, sembrano resi umani dalla dolcezza della voce d'Orfeo, il quale supplichevolmente implora Euridice. Un basso risponde in musica, concedendo la grazia col noto patto ch'egli non la rimiri sintanto ch'entrambi non siano usciti dall'Averno; e qui dice il Negri: E se ben non pare che il decoro et verisimilitudine della favola admetta musica in Plutone, fu ciò introdotto per maggior soddisfazione degli aspettatori et ascoltanti, et per gusto di chi poteva comandare, il che sembrami che dimostri non essere stata prima di quel tempo cantata un'intiera azione drammatica presso di noi. Il secondo intermezzo rappresentava il viaggio degli Argonauti, e, per introdurvi un tratto di musica, si posero le Sirene su varii scogli, col loro canto cercando d'invitare i passaggieri ad accostarvisi. Orfeo si pose sulla prora della nave, e, sciogliendo una voce imperiosa con canto sublime, rincorò gli Argonauti a proseguire l'impresa immortale, e a non curare l'insidioso canto. L'abate Arteaga, spagnuolo, nella sua opera sulle Rivoluzioni del teatro musicale italiano, c'insegna come sotto Leone X in Roma siasi rappresentata in musica la Disperazione di Sileno, poesia di Laura Guidicioni, dama lucchese, posta in musica da Emilio del Cavalieri. Questo dramma allora riuscì male; si abbandonò il tentativo, onde poteva in Milano comparire una vera novità. Nell'anno 1646 il cardinal Mazzarino fece rappresentare, nel palazzo reale a Parigi, delle opere in musica da cantori che fece venire dall'Italia, e Voltaire dice che questo nuovo spettacolo era da poco tempo nato in Firenze.

Capitolo XXX

Governo del conte di Fuentes e de' suoi successori.

Morte del re di Spagna Filippo III.

Fondazioni pubbliche, reggendo l'arcivescovado di Milano il cardinale Federico Borromeo.

Progresso delle controversie giurisdizionali.

Peste del 1630

(1600) La massima di non lasciar troppo a lungo una stessa persona ne' grandi governi si trovò d'accordo colla gelosia del duca di Lerma, favorito del re Filippo III; onde, destinato ad altre funzioni il contestabile di Castiglia, che reggeva il Milanese da otto anni, fece nominare in sua vece don Pietro Enriquez de Azevedo, conte di Fuentes. Allontanò così un uomo, sebbene settuagenario, ardito, avveduto e d'animo elevato, e che, non avendo figli, faceva professione di parlar franco. Egli godeva inoltre d'un gran credito alla corte per aver avuto la confidenza di Filippo II, che correa voce si fosse meritata col prender parte alla morte dell'infante don Carlos. Perciò il senatore Giambattista Visconti, che seguirò particolarmente nel parlare di questo personaggio, dicea di esso: et di lui è costante fama, che acquistasse la grazia di Filippo II col macchiarsi la mano nel sangue di persona la di cui morte per interesse d'onore egli comandò: tant'era, in prossimità del fatto, generale e indubitata l'opinione che don Carlos fosse perito di morte violenta, che che ne dica un recente storico sulla fede dei registri dell'Inquisizione, quasi che l'arte delle reticenze non fosse antica quanto il mondo.

Il conte di Fuentes fece il solenne ingresso in Milano il 16 ottobre. Volle che il consiglio, benché non fosse che un aggregato di ministri scelti e non avesse rappresentanza, facesse corpo con lui e precedesse il senato. Già erasi mostrato aspro e impaziente, senza cortesia, co' deputati che gli erano stati spediti incontro a Genova per complimentarlo, e nell'entrata pure con cinica sincerità mostrò di non pregiar nulla delle disposizioni onorevoli fatte per lui. (1601) Le circostanze dell'Italia gli porsero tosto occasione di dar prove di quel risoluto vigor d'animo che gli era proprio, stante la guerra mossa dal re di Francia Enrico IV al duca di Savoia per la successione nel marchesato di Saluzzo. (1602) Col tenere l'esercito forte, pronto e sotto buoni ordini serbò in credito le armi spagnuole; acquistò il Finale e la piccola, ma allora importante città di Monaco; e ricuperò Novara, che trovò ipotecata al duca di Parma. (1603) I Grigioni, che già stavano sotto la protezione della Francia, essendosi collegati co' Veneziani, eccitarono la di lui gelosia; egli fece appoggio di molto apparato militare alle negoziazioni, e quasi all'estrema sponda del lago di Como, di fronte alla Valtellina, fece erigere un forte (1604) chiamato dal di lui nome, che, dopo di aver servito talvolta come prigion di Stato di minor ordine a comodo de' lontani padroni, fu demolito nel 1797. Con questi modi ridusse i Grigioni ad accondiscendere ad un accomodamento, che fu segnato in Milano dai loro deputati, e garantito dagli Svizzeri. Reso più libero dalle cure esterne, attese a procurare l'ornato della città. Fra le disposizioni di questo genere eseguite sotto il suo governo si noverano il riattamento della strada che dal palazzo di giustizia conduce alla real corte, e che ha ancora il nome di Strada Nuova, e la ricostruzione di quel palazzo. (1605) Egli volle che la memoria di queste opere fosse tramandata alla posterità con due iscrizioni, nelle quali il gusto ampolloso del secolo sembra aver preso i suoi colori dallo stile orientale. Leggesi nella prima che il governatore aperse quella via dalla reggia al pretorio, per rendere più facile e certo l'accesso e il ritorno dalla giustizia alla clemenza; e nell'altra, che il governatore stesso, vincitore dell'esterna guerra e domatore invitto della guerra domestica, amabile colla destra, formidabile colla sinistra, regnando Filippo III, potentissimo re delle Spagne, pose di fronte le porte delle carceri alla regia corte, perché l'occhio del principe vigilante è la più fida custodia della giustizia. Rimase senza titolo onorifico un altro beneficio probabilmente procurato dal conte di Fuentes, la donazione fatta dal re alla città di Milano della vasta casa che oggidì chiamasi il Broletto, e altre volte fu del conte di Carmagnola. Essa era allora destinata ad uso di pubblici granai; ivi nel 1714 venne collocato il banco di Sant'Ambrogio, e circa l'anno 1772 vi si trasferì il consiglio generale, il tribunale di Provvisione, e tutti gli uffici civici, che prima stavano alla Piazza de' Mercanti. Egli fece mettere i parapetti ai ponti della città, tentò di abolire i varii pesi, e di dare al commercio il comodo di un peso uniforme, siccome di abolire le stadere e sostituirvi le bilance; ma non vi riuscì. Col proibire l'esportazione delle armi, rovinò la famosa e ricchissima manifattura di esse, al segno di non più risorgere. (1607-1608) Con infelice esito fu pure sotto di lui incominciato il canale che da Milano dovea decorrere a Pavia, ma per non voler credere a chi doveva, et governarsi col parere di chi gli piaceva, fu ingannato, et gittò gran somma di danari. Ce ne rimane l'iscrizione senza l'opera, poiché immaturamente da quella si volle incominciare. In essa è detto che con questa insigne opera le acque dei laghi Maggiore e di Como, fin qui condotte, furono immesse nel Ticino e nel Po, fiumi irrigatorii e navigabili, all'oggetto di ampliare, colla facilità delle comunicazioni e del commercio, la feracità e l'abbondanza de' campi, l'industria degli artefici, e la ricchezza pubblica e privata. Ciò che nel 1608 fu onorato di una lode gratuita e precoce, si verificò dopo due secoli; e il canale di Pavia, incominciato e proseguito oltre due terzi dell'opera sotto il regno d'Italia, fu dal presente governo felicemente ridotto a compimento.

La figura del conte era alta, capo piccolo, faccia sanguigna, occhi piccoli e vivaci, e guardatura fiera, voce acuta, stridula e femminile. Vestiva semplice; a mezzodì e mezzanotte pranzava e cenava, e stipendiava cuochi eccellenti. Teneva lontani i medici. Ogni sabbato sentiva la messa a San Celso; le altre volte nella cappella pubblica. Per via amava assai d'essere corteggiato da' ministri, né gliene mancava mai buon numero; e amava d'essere ascoltato a rimproverarli, mentre, strada facendo, parlava d'affari. Egli era frizzante e motteggiatore. Aveva una prodigiosa memoria. Era facile ad ammettere chiunque, ma riusciva difficile il parlargli, perché d'ordinario, interrompeva e rimandava malcontenti e strapazzati. Sebbene non inclinasse ai divertimenti, pure dilettavasi delle pubbliche feste e de' balli, come mezzi di palesare la sua magnificenza, e vi si tratteneva tutta la notte. Il suo carattere era quello degli uomini forti e superbi, dispotico. Non seguiva altra legge che il suo volere. Fece carcerare il tesoriere, perché pagò il dovuto senza l'ordine suo; relegò un questore nel castello di Finale, perché co' suoi amici avea parlato in di lui biasimo; fece porre nel castello di Milano il vicario e i XII di Provvisione, perché non gli consegnarono gli atti che cercava, e un'altra volta perché si opposero ad una gravezza da lui posta senz'assenso della corte. Da sé e indipendentemente dal senato condannava alla galera; né valsero a frenarlo le rimostranze di quella suprema magistratura, né le ammonizioni di Madrid. Vegliava sul fisco per incassare, e le paghe non si davano che quasi per grazia; onde nacquero due vizi, corruzione e adulazione, inevitabili dovunque i pagamenti sono incerti e debbonsi al favore. Anche sulla zecca procurò di profittare, e introdusse la moneta di puro rame, che fu allora un peggio non conosciuto dapprima. Lasciò che gli ecclesiastici, che sapevano corteggiarlo e mostrarglisi ossequiosi, dilatassero le usurpate esenzioni; e perciò, malgrado lo spirito fiscale, l'erario fu sempre esausto. Il re gli donò il marchesato di Voghera. Egli non riceveva regali, ma fu servito da secretari avarissimi... Oltre di ciò mise mano clandestinamente et da se stesso all'erario, come si vede dal suo testamento, dal quale anco si conosce che generalmente intaccò di danari tutti quelli che puoté et i suoi più domestici et favoriti. Era astutissimo, e sapeva accomodare le parole e i gesti alla opportunità, e quando avea bisogno di alcuno era il più gentile e grazioso uomo del mondo. Teneva molte spie, e si curava di sapere le più minute e private curiosità delle famiglie. Aveva uno sbirro, al quale avea data somma autorità. Alcuni gravissimi delitti pubblicamente protesse. Ma generalmente mantenne l'ordine nella città, contenne i bravi, e sotto di lui si godé della sicurezza maggiore che permettesse la condizione di quei tempi facinorosi.

Durante il suo governo si collocarono sovente negl'impieghi uomini di nessun merito, stante che nella scelta egli preferiva i più sommessi ad ogni sua opinione e volere, siccome diceva Tacito di Tiberio; così gli animi più vili ed abbietti ascesero e s'impadronirono degl'impieghi. Avvelenato da una certa falsa gloria di autorità e protezione, dice il senator Visconti, et quasi affettando il titolo d'onnipossente in questo Stato, come che tutto dipendesse da lui, per radicare negli uomini questa opinione ha innalzate persone indegnissime, che s'hanno saputo accomodare all'adulazione et altre arti et servigi troppo vili..., ma in pari tempo si vide tirare ogni cosa a sé, turbando gli ordini dei negozi e de' tribunali. Il che sebbene egli fece con incredibile vigor d'animo, vigilanza, assistenza, memoria e cura, tuttavia fu necessario che errasse infinite volte, come fece, oltre il patire le male conseguenze che ne risultano. Perciocché, così facendo, un governatore si tira addosso un'occupazione intollerabile, contrae particolar obbligo di render conto a Dio e al mondo d'infinite cose che non gli toccano, et s'acquista grandissimo odio non solo de' particolari offesi, ma ancora de' magistrati. De' particolari, perciocché de' tormenti, privazioni de' beni, esigli et morti, quando vengono per corso ordinario di giustizia et quasi dalla mano del giudice et tribunali frapposti tra il principe, e il delinquente, niun odio ne tocca al principe, che pare non ne habbia parte se non l'obbligazione di fare che si renda giustizia, la quale è cosa favorevole et non odiosa; dove che, facendo egli quasi immediatamente et fuori degl'instituti della provincia, ne segue che i delinquenti, non potendo scaricare l'odio sopra il ministro che dovrebbe esser di mezzo tra la suprema podestà e le persone private, tutto lo indirizza contro di lui: et tanto più che, facendo il governatore quello che per l'ordinazione de' tribunali non gli tocca, dà occasione di sospettare et dire che così faccia non per zelo di giustizia, ma per passione et capriccio proprio, al quale il vulgo sempre vuol trovare qualche cagione poco honorevole. Dai ministri parimente odiato, perché parendo loro in questa guisa d'essere da lui offesi nella riputazione, alcuni ancora, sentendo il danno de' propri interessi, alienano gli animi da lui; et se bene scopertamente et dincontro non puonno offenderlo, tuttavia quest'odio pubblico s'interna in maniera nei petti loro, che poi quasi naturalmente gli vanno difficoltando tutti i negozi, et gli praticano contro, tanto in materia di stimazione et gusto, quanto nella sostanza delle cose. Finalmente questo stesso fatto di che parliamo, mette i tribunali et ministri in vilipendio et mala opinione appresso a' sudditi, i quali quasi col testimonio del governatore gli stimano mali huomini et con l'esempio suo li dispregiano: dal che nascono pessime conseguenze nella repubblica. Laddove, contentandosi (parlo per ordinario) il governatore della soprintendenza, del riprenderli e castigarli quando inciampano, et frattanto honorarli et ben trattarli, et lasciar correre i negozi a' suoi tribunali, viene a tener bene accordata quest'armonia civile. Del resto la giustizia hoggidì potrebbe essere meglio amministrata, poiché, non havendo molti officiali le parti che bisognano a chi maneggia la repubblica, non è maraviglia che i giudicii hanno tardissima espedizione. I giudici s'allontanano senza rispetto dalle leggi et statuti, et giudicano quasi per loro opinione. Non vale alcune volte l'autorità delle leggi e la dottrina, poiché si vince piuttosto con arti et ambiti machinati, che per buona guerra di giustizia, et si può dubitare che appresso ad alcuni più valga l'avidità della pecunia, che il piacere che nasce dall'azione virtuosa. Et è sempre stata cosa certa appresso ai savj che chi perviene ai magistrati per male arti, cerca l'oro come pasto dell'avarizia, quasi rimborsandosi di quello che ha speso per ottenerlo; laddove l'uomo giusto et retto stima le leggi et la giustizia, et l'esercita virtuosamente, quasi per rimunerare il principe dell'honore che gli ha fatto colla collazione della giurisdizione. Dalle cose di sopra dette è seguìto nel governo suo, che molti intimiditi e disgustati da lui non pensavano né curavano il servitio di sua maestà, né del pubblico, e godevano degli errori che gli vedevano commettere. Così quell'uomo saggio, il senatore Giambattista Visconti, tanto più stimabile quant'erano allora più rare ed oscure le cognizioni di Stato. Se il passo surriferito mostra il profondo politico, ne produrrò un altro a far prova del suo retto pensare in uno de' punti disputati della pubblica economia, l'annona granaria; ed eccone l'occasione. Nel decennio in cui governò il conte di Fuentes, fu una costante fertilità. Tuttavia egli volle imbarazzarsi nel fissare il prezzo de' grani, inclinando a tenerlo sempre più basso. Questa violenza, fatta pure senza specie di bisogno alla libertà delle contrattazioni, porse argomento al senator Visconti di così ragionare: Circa al prezzo et valore ho sentito uomini savi e molto versati in questa materia affermare che non è bene né utile in comune che si riduca a gran viltà, et io ne son persuaso, imperciocché questa viltà di prezzo è dannosa alla maggior parte de' sudditi. I nobili et possessori de' beni non ponno mantenere il loro stato se non cavano mediocremente da' loro frutti. L'infima plebe et tutto quel popolo che vive con le opere diurne, non trova da lavorare, perché non havendo il ricco denaro, non può spendere. Dei contadini, quelli che sono fittaiuoli (che sono per lo più ne' paesi irrigati dalle acque) non ponno soddisfare ai fitti e s'impoveriscono totalmente; gli altri che lavorano a parte (et è tutto quel tratto di provincia che non s'irriga), non hanno con che far denari per comprar bovi, vestiti, pagar carichi camerali et far altre simili spese, se non col prezzo di poco frumento che avanza loro; poiché la maggior parte, pagato il fitto, consuma in semente; et la segale, miglio et altri grani simili appena bastano per vivere poveramente. Il vino, quando si raccoglie (che, oltre il ricercare spesa grande, è sottoposto a tante ingiurie del cielo), paga i debiti contratti col patrone negli anni sterili e calamitosi, in modo che, se col pochissimo frumento che gli avanza, non sovviene alle altre sue necessità, è spedito. Il resto dei contadini con le braccia si vede per ferma esperienza che, se il pane è a gran buon mercato, non voglion fare opera, et abbandonano il fittaiuolo né maggiori bisogni dell'agricoltura, o il tiranneggiano con prezzi eccessivi; dal che siegue maggior danno, spendendosi molto per raccoglier frutti che valgon poco; in modo che questa gran viltà de' prezzi non giova ad altri che a quella specie di huomini che, esercitando mercanzie, comprano pane e vino, perché essi, vendendo caro né più né meno le merci loro et spendendo poco nel vivere, arricchiscono. Hora giovare ad un membro et nocere a tutti gli altri non è medicina, ma uccidere; laddove con prezzi mediocri tutta questa corrispondenza civile resta ben proporzionata. Basta dunque curare che le cose abbondino, et impedire i prezzi troppo eccessivi, che veramente sarebbono perniciosi. Di quest'uomo che seppe tanto, io non posso credere che ignorasse questa verità, et pure curò tanto di ridurre i prezzi al nulla, non so se per amore d'una certa inane fama appresso al vulgo ignorante, o per odio de' nobili, che stimasse troppo agiati.

Ho voluto trattare a lungo del governo del conte di Fuentes, come del più celebre e forse del migliore governatore mandato dalla Spagna in questi Stati, per dare una più estesa e chiara idea di que' tempi e di que' governi, e perché tengo ferma opinione che non solo le cose utilmente operate, ma ancor più gli errori degli uomini grandi, sono sorgente ai futuri di più sicuro ammaestramento. (1610) Egli morì in Milano nella età di oltre ottant'anni, il 21 luglio del 1610, avendo conservato grandissima fortezza d'animo, e regolato gli affari sino al fine. Lasciò un esercito effettivo di ventiquattromila uomini, cioè dodicimila fanti italiani, seimila Lanzichinetti, seimila Svizzeri e trecento corazze borgognone. I suoi successori, per tutto il periodo di tempo compreso in questo capitolo, trapassarono oscuri; ed alcuni, che più sembravan promettere, non ebbero campo sufficiente di mostrare quanto valessero. Primo tra essi è il contestabile di Castiglia, venuto per la seconda volta, il di cui carattere dolce e umano traeva maggior risalto dalla recente ricordanza del carattere opposto del suo predecessore; ma, per malattia, gli si scemò la mente. Si hanno di lui delle gride vincolanti per i grani, e proibì l'industria de' cambiavalute, dove regnava l'arbitrio della zecca. (1612) Venne dopo due anni, e governò per un triennio, don Giovanni di Mendozza, marchese de la Hynojosa, personaggio cortese e senza fasto. Era dotato di vivacità, di molto ingegno e memoria, facile ad ascoltar chiunque, e indefesso nel suo ministero. Amava i Milanesi, e nel tempo stesso (associazione di doti non comune) era fedele e zelante per il servizio del re. Teneva i suoi domestici modesti, lasciava il corso regolare agli affari, promoveva agl'impieghi uomini degni di occuparli. Ebbe fama d'uomo debole, e forse mancava, nel dimenticarsi della propria dignità e nel manifestare quello che sapeva e pensava. (1614) La guerra del Monferrato gl'impedì di lasciar vestigio notabile del suo governo, tranne la milizia civica da lui istituita in Milano, allorché, per l'occasione di quella guerra, dovette sguernire di truppe i presidii del Milanese: istituzione mantenuta poi, e decorata di privilegi e di distinzioni. (1616) Dopo la pace d'Asti, divenuto sospetto alla corte di parzialità per il duca di Savoia, fu richiamato, e si mandò in sua vece don Pietro di Toledo Osorio, marchese di Villafranca. La potenza di questo governatore era tale, che, senza previa notizia nemmeno del re, levò l'ufficio di gran cancelliere a don Diego Salazar, che n'era investito fino dal 1592, e lo conferì a don Giovanni di Salamanca, presidente del magistrato straordinario. Il senato rappresentò gli ordini reali contrarii; il re, informatone, comandò che si restituisse al suo posto il Salazar; ma il Toledo fu irremovibile. Egli da sé condannava alla galera; anzi, un certo bravo del marchese del Maino, inimico d'un certo Parpaione, ch'era divenuto genero del suo secretario Montìo, sotto pretesto che fosse disertore di milizia, da sé stesso lo fece impiccare senza corso di giustizia né partecipazione del senato. Sotto di lui i soldati mancavano di stipendio, e illimitatamente saccheggiavano il paese. Frattanto il senato, quasi d'accordo col dispotismo del governatore a far inselvatichire più presto la nazione, occupavasi del processo d'una strega, e, mosso a compassione per la frequenza de' sortilegi ed altre arti infernali che infestavano la città e l'intiera provincia, sentenziava che fosse bruciata. (1618) Governò il Toledo due anni e mezzo, e fu supplito da don Gomez Suarez de Figueroa, duca di Feria; il quale, benché durasse per otto anni in questa carica, distratto nell'esterne guerre, poco e interrottamente poté occuparsi dell'interna amministrazione. (1620) La prima fu la guerra della Valtellina, che, piccola e ravvivata a riprese, durò dal 1620 al 1625; con quella si complicò quindi l'altra del Genovesato, condotte entrambe senza piano e senza vigore, sicché inutilmente ingoiarono uomini e danari, e recarono danni incalcolabili allo stato di Milano col pretesto di conservarlo. (1621) Erano quelle guerre nel loro principio, quando giunse la nuova dell'immatura morte del re Filippo III, cui succedette il suo primogenito col nome di Filippo IV, in età di soli sedici anni; ma per questa rimota provincia, un tale avvenimento non recò altro effetto, che di veder mutato il nome del sovrano nell'intitolazione degli atti pubblici, e di sapere che vero re delle Spagne, com'era stato il duca di Lerma sotto il padre, era divenuto sotto il figlio il conte d'Olivares. (1626-1629) Dopo il duca di Feria, si succedettero e trascorsero oscuramente don Gonzalo de Cordova, per tre anni, don Ambrogio Spinola Doria marchese de los Balbases, per un anno, e (1630) don Alvaro Bazan marchese di Santa Croce, per tre mesi. Soltanto si rammentano gli editti vincolanti del Cordova ai grani; egli permise quasi il saccheggio de' granai, tassando il prezzo: così credette quel signore di rimediare alla carestia.

Il personaggio più illustre di quel tempo, ad onore di Milano, è un suo concittadino ed arcivescovo, il cardinale Federico Borromeo. Ricco, di pietà soda e senza ostentazione, saggio, prudente, generoso, magnifico, protettore degli studiosi, dotto, giudizioso e laborioso scrittore egli stesso, promosse, non solo gli studii ecclesiastici, che per istituto dovea prediligere, ma altresì ogni maniera di lettere, di scienze e di arti, e rese glorioso il suo lungo pontificato coll'erezione della biblioteca Ambrosiana, stabilita sopra un piano sì esteso, che pochi sovrani pareggiarono, e non ha altro esempio in un privato. Biblioteca doviziosissima di preziosi manoscritti, raccolti con sommo dispendio, non solo dall'Italia, ma da tutta l'Europa, dalla Grecia e dall'Asia più rimota, e cui dotò di sufficienti rendite; aggiunse un collegio di dottori, una scuola di lingue orientali, un museo di naturali curiosità, una tipografia lautamente assortita, anche di caratteri esotici; e un'accademia di belle arti, a corredo della quale cumulò un tesoro di capi d'opera, specialmente di disegno e di pittura. In sei anni la maestosa fabbrica fu ridotta a compimento, sicché nel 1609 la biblioteca fu aperta al pubblico; ed esatto è il giudizio che dell'architetto di essa, Fabio Mangoni, fu dato da un buon intendente: Quest'uomo, che si cangiava in ragione de' differenti usi delle fabbriche e della varia ubicazione ed estensione de' luoghi, seppe così entrare nello spirito della cosa, che, sopra la più bislunga e stretta area che veder si possa, ideò ed eseguì una biblioteca che può servir di modello a chiunque ama di unire la magnificenza alla comodità. Dopo tanta generosità, si rende ancor più notabile la modestia del cardinale, mentre non denominò quello stabilimento né Federiciano né Borromeo, come a buona ragione e più che altri il potea, ma preferì di chiamarlo dal nome del santo titolare e protettore della chiesa milanese.

Al tempo dell'arcivescovo Federico Bortomeo, e in parte per la sua influenza, vide Milano ricostruita la chiesa di Santo Stefano sul disegno di Aurelio Trezzi; eretta la vasta chiesa di Sant'Alessandro, disegno di Lorenzo Biffì o Binago, barnabita; non che l'altra di San Giuseppe presso la Scala, opera dell'architetto Francesco Richini; fabbricati il convento de' Carmelitani Scalzi, e il monastero di San Filippo Neri; chiamati i Somaschi a San Pietro in Monforte, ed aperte nell'anno stesso della biblioteca Ambrosiana le scuole Arcimbolde presso la chiesa di Sant'Alessandro, avendone fornito i mezzi un legato di monsignor Giambattista Arcimboldi, chierico di camera di Clemente VIII. In quelle insegnavano dapprima i Barnabiti umanità e rettorica, vi aggiunsero, nel 1625, la grammatica, e dieci anni dopo la filosofia, la morale e la teologia. Per cura del cardinale, nel predetto anno 1625, fu pure nobilmente riedificata la chiesa di Santa Maria Podone, posta dirimpetto al palazzo della sua famiglia.

Le controversie giurisdizionali si suscitarono a diversi intervalli anche sotto il cardinale Federico; ma appena fu egli assunto all'arcivescovato, si mosse alle pratiche di un sincero accordo: al qual fine delegò per conferire co' ministri regi i monsignori Carlo Bescapè e Marsilio Landriani, vescovo il primo di Novara, l'altro di Vigevano, savii e dotti uomini. In seguito, col consenso del re cattolico, venne rimesso l'esame a Clemente VIII per uno stabile trattato di concordia. Il sommo pontefice mostrò molto impegno; le congregazioni tenevansi avanti di lui, ed erano frequenti; l'arcivescovo di Milano fu chiamato ad intervenirvi, e stette quattr'anni in Roma; ma quantunque il papa abbia vissuto ancora ott'anni dacché si incominciarono queste pratiche, morì nel 1605 senz'aver nulla conchiuso. Gli fu sostituito Paolo V. Le troppo famose sue contese coi Veneziani, e l'interdetto che fulminò contro quella Repubblica mostrarono tosto che poco si aveva a sperare da esso per la concordia giurisdizionale del Milanese, la quale infatti fu protratta di molti anni ancora; e finalmente sollecitata con infinite cure e sommi dispendii dal cardinal Federico in Milano, a Roma, a Madrid, fu segnata nel 1615, sancita due anni dopo dal re e dal papa, e pubblicata il 19 febbraio del 1618, senza quasi aver effetto per le nuove contestazioni che immediatamente dopo sopravennero. Esse ebbero origine dalla pretesa degli ecclesiastici che il privilegio dell'immunità si estendesse ai loro coloni. Gli amministratori rurali vi si rifiutarono, perché il carico sostenuto dai soli laici sarebbe riuscito insopportabile a cagione del tributo sovrimposto per le guerre del Piemonte. I membri del clero, insorgendo l'uno dopo l'altro, intimarono e promulgarono le censure ecclesiastiche contro i deputati, consoli e sindaci de' comuni; i parrochi ricusarono di amministrar loro i Sacramenti, i vescovi di assolverli dalle censure, se non previo il ristauro dei danni e data cauzione di astenersi per l'avvenire. Il senato di Milano s'indirizzò al re esponendo di aver maturamente esaminato l'affare, ed essere l'opinione più vera e più generalmente ricevuta che sia in podestà del principe di esigere la colletta dai coloni della Chiesa sul valore dei frutti ad essi spettanti; così osservarsi in altre province; e così pure essersi osservato in tempi poco rimoti in molte parti di questo dominio, e in tutti molti anni addietro. Contuttociò, vedendo il senato che i vescovi e lo stesso sommo pontefice persistevano nelle censure, né sapeva come rimoverli dal loro proposito, né con quali mezzi difender contro di essi i laici che perseveravano nell'esigere i carichi, invocava in tali angustie le prescrizioni di Sua Maestà. Il re Filippo III, con dispaccio dal 2 febbraio 1619, prescrisse che dove lo esiga il servizio militare per la difesa dello Stato, anche nelle case de' coloni ecclesiastici si pongano a quartiere i soldati, e che pure i detti coloni siano sottoposti al tributo, limitandolo all'ottava parte de' frutti. Stabilì in quelle altre norme, che poi lascia al governo d'ampliare o restringere col parere del senato, come si sarebbe trovato conveniente per acquietare gli ecclesiastici. Il governatore duca di Feria più volte intervenne in senato a trattare di ciò, e si concluse di spedire a Roma un senatore. Fu questi il più volte nominato Giambattista Visconti, che vi si recò col fiscale Schiaffinati, e molto appoggio ebbe dal duca d'Albuquerque, allora ministro di Spagna alla Santa Sede. Ma a Roma non si fece altro se non tenerli a bada. S'andavano riunendo delle congregazioni per guadagnar tempo, e frattanto si faceva agire a Madrid il nunzio apostolico col debole re. Il governatore duca di Feria consultava tutto col senato. Gl'invidiosi, che il senatore Visconti aveva e meritava, perch'era uomo d'ingegno e di lettere, come si conosce dal suo scritto, mal sofferendo la commissione datagli dal governatore, e attraversandone l'esito, facevano che il senato desse pareri atti a rompere le negoziazioni, che si sciolsero in fatti. A Roma si sapevano le consulte del senato dai cardinali prima che il Visconti ricevesse le lettere corrispondenti.

Fervevano ancora quelle moleste contese, allorché venne di nuovo ad affliggere i Milanesi la pestilenza, e più sterminatrice di quella che avevano sofferto cinquantaquattro anni avanti. (1629) Per soprabbondanza di mali fu dessa preceduta dalla carestia e accompagnata dai disastri della guerra che combattevasi nel vicino Piemonte. La plebe di Milano, ridotta a pascersi d'erba e nel pericolo di morir di fame, siccome alcuni se ne trovarono morti per le strade, diede il sacco ai prestini, ed assalita la casa del signor Lodovico Melzi, vicario di Provvisione, e atterratene le porte, fu in procinto di assassinarlo. Il consiglio generale della città si affrettò di approvvigionare di grano il Lazzaretto fuori di Porta Orientale, e colà raccolse la più mendica plebe; né bastando quel vastissimo recinto al numero eccessivo degli affamati, destinò allo stesso fine lo spedale della Stella. Si distinse in questa pubblica calamità l'arcivescovo Borromeo coi soccorsi di cui fu prodigo, sì che meritossi d'esser chiamato il padre dei poveri. Ma le incessanti querele di que' mendichi a pretesto della cattiva qualità del pane, la loro insubordinazione, i loro feroci clamori, facendo temere più gravi eccessi, indussero il governo della città a scioglierli dai loro pietosi ergastoli, restituendoli tutti alla beata libertà del mendicare. Fra una turba sì grande di popolo, estenuata dalla fame ed oppressa da ogni genere d'indigenza, la peste che sopragiunse non potea trovare più pronti veicoli per diffondere rapidissimamente il mortal suo veleno. Questa volta fu essa recata in Italia dalle truppe imperiali per la guerra di Mantova, e un soldato milanese di quell'esercito, venuto a visitare i suoi, la recò in Milano nel novembre del 1629. Sì egli che gli abitanti della casa dove alloggiò, tutti morirono; e queste furono le prime vittime. (1630) La casa fu isolata da ogni comunicazione; ma poco più vi si badò; e le feste, che anche in tanta miseria si celebrarono nel principio del seguente anno per la nascita dell'infante primogenito di Spagna, fecero che facilmente quel funesto avviso fosse posto in dimenticanza. Il fatal vulcano rimase sopito, o almeno diede segni non osservati fino al mese di marzo, quando l'esplosione si fece in un tratto violenta ed invase tutte le parti della città. Il popolo, compreso dallo stupore, s'attenne per lungo tempo al partito che più s'accomodava alla sua ignoranza e pigrizia, il non credere; e allorché fu tratto d'inganno per lo spaventevole moltiplicar de' malati e de' morti, e col produrre agli occhi di tutti i marciosi cadaveri, esponendoli lungo le vie, o facendoli condurre intorno ammucchiati e scoperti sui carri, si abbandonò ad ogni sorta di deliri e di eccessi. Quell'ostinata e prolungata incredulità lasciò libero al contagio di estendersi immensamente, e fu in ciò secondata dall'indolenza dapprima, poi dagli scarsi, inefficaci o improvvidi ordini de' magistrati. La lunga successione de' cattivi governi avea fatto dilatare l'avvilimento, l'inerzia, la stolidezza dalla plebe alle classi superiori, per modo che in quelle difficilissime circostanze il consiglio generale, il tribunale di Provvisione, quello di Sanità, il senato, il governo, tutti non si mostrarono che plebe, ed ebbero con essa comuni le stravaganze e i vaneggiamenti. Tranne il ricoverare gli appestati nel Lazzaretto, nessun altro opportuno provvedimento fu adottato in quest'occasione di quelli che pure il furono nella peste del 1576. A reggere quella repubblica di appestati fu delegato un frate con illimitata autorità, il padre Felice Casati, guardiano de' Cappuccini di porta Orientale. "Si è comandata con una mal intesa pietà una processione solenne, nella quale si radunarono tutti i ceti de' cittadini, e trasportando il corpo di san Carlo per tutte le strade frequentate, ed esponendolo sull'altare maggiore del Duomo alle preghiere dell'affollato popolo, prodigiosamente si comunicò la pestilenza alla città tutta, ove da quel momento si cominciarono a contare sino novecento morti ogni giorno". Il cardinale arcivescovo avea ricusato di aderirvi, ma tali furono le sollecitudini e le istanze, che, quasi forzato, vi acconsentì. Il Ripamonti ci fa fede che da quel giorno la pestilenza ha acquistato tal forza e predominio, che veramente corrispondeva al suo nome. E soprabbondando il numero degli appestati che presentavansi ogni giorno al Lazzaretto, arrivarono ad essere un tempo nel detto luogo quattordicimila e cinquecento annoverati, restandone più volte le centinaia di fuori attorno a quella fossa, aspettando che la morte facesse loro qualche luogo. Per la qual cosa fu duopo erigere de' Lazzaretti sussidiari a San Barnaba al Fonte, a San Vincenzo in Prato e alla Trinità. Un altro ne fu fatto disporre dal cardinale arcivescovo nel seminario della canonica per gli ecclesiastici.

Ma il delirio più scandaloso e ch'ebbe più tragici effetti, fu quello delle unzioni venefiche. La storia ci attesta che si è prestata credenza a questa sciocca cagione in altri contagi, ed abbiamo veduto che l'opinione ne corse anche nella peste del 1576. Ora a darle maggior voga venne un dispaccio del re Filippo IV, che avvisava il governatore di far invigilare che non s'introducessero nel Milanese alcuni uomini portatori di unguenti pestiferi, ch'erano stati veduti in Madrid e di là fuggiti. Queste precedenze erano più che sufficienti perché si asseverasse che siffatte unzioni già facevansi in Milano, e così avvenne. Un editto del tribunale di Sanità, del 19 maggio, asserendo il fatto per indubitato, promise il premio di ducento scudi a chi avrebbe data certa notizia de' rei, e di più l'impunità al denunciante qualora fosse uno de' complici, ma non il principale. Poche settimane dopo, per racconto di donne, si divulgò che il commissario della sanità Guglielmo Piazza era stato veduto a far tali unzioni; egli confessò ne' tormenti che l'unto gli era somministrato dal barbiere Gian-Giacomo Mora; e questi e molti altri sono pur carcerati e tormentati. La compassionevole narrazione di questo nefando processo è già nota; e qui basterà il dire che il Piazza e il Mora, e altri non pochi, dichiarati rei di un delitto impossibile, furono condannati ad essere condotti al patibolo su di un alto carro; ad aver nel cammino arse le carni da tenaglie roventi, tagliata la mano destra; indi fracassati dalla ruota, e intessuti ancor vivi fra le gaviglie della ruota stessa, scannati dopo sei ore, finalmente abbruciati, e sparse le ceneri al vento. Tutto ciò fu eseguito; e stando i miseri fra le mani del carnefice si protestarono innocenti innanzi al popolo, e di morir volontieri per gli altri peccati loro, ma di non avere mai esercitata l'arte di ungere, né aver pratica di veleni o sortilegi. Quanto possedevano quelle due vittime fu confiscato; la casa del Mora, distrutta dai fondamenti, e sull'area di essa eretta una colonna per pubblico decreto dichiarata infame, accompagnata da un'iscrizione in marmo per tramandare la memoria del fatto alla posterità. E la posterità l'ha giudicato: nel 1778 la colonna si trovò clandestinamente atterrata; l'iscrizione fu levata di poi, la casa rifabbricata; onde non rimane più traccia visibile dello scelerato giudizio. Né il Piazza e il Mora, e i molti soci ch'ebbero nel processo furono soli sacrificati al fanatismo del volgo e all'ignoranza togata. Si volle scoprire un distributore d'unzioni anche tra gli appestati del Lazzaretto, Gian Paolo Rigotto, il quale andò al patibolo li sette di settembre, e l'accompagnò il padre Felice, cappuccino, con un altro padre Teatino, che là dentro amministrava li Sacramenti; et affermarono questi che, al solito degli altri, aveva costui rivocata la confessione e sin all'ultimo fiato protestato di morire innocente. Quali tempi, quai giudici, e quanto infelice nazione! A compiere l'orrenda scena basterà che si sappia aver quella pestilenza mietuto centoquarantamila vite di cittadini milanesi, secondo il più moderato calcolo che desunse il Ripamonti dalle tabelle del tribunale della sanità, mentre il Somaglia l'accresce di altre quarantamila. La città non fu del tutto sana che circa due anni dopo, nel 1632.

Le persone notabili morte ne' decorsi trent'anni furono frà Paolo Moriggia, Gesuato, autore di molte opere mediocri o cattive sulle Antichità Milanesi, morto nel 1605, d'anni settantanove; Carlo Bescapè, vescovo di Novara, che morì il 6 ottobre 1615, contando sessantacinque anni di età e ventidue di episcopato, uomo assai dotto e pio, e il più sincero scrittore della vita di san Carlo, benché ne fosse famigliarissimo e ammiratore; e Giovanni Pietro Carcano, morto il 5 agosto 1624, che destinò le sue molte ricchezze a beneficare splendidamente lo spedale Maggiore e la chiesa metropolitana di Milano, e ad erigere un monastero di vergini, dette dal nome del fondatore le Carcanine. Chiude questa lista necrologica il più grande e il più utile cittadino del suo tempo, il cardinale arcivescovo Federico Borromeo, che cessò di vivere il 21 settembre del 1631, nell'età di circa anni sessantasette.

Capitolo XXXI

Successione di governatori.

Guerre nel Piemonte, nella Valtellina e in Lombardia. Morte del re Filippo IV.

Governo del duca di Ossuna. Morte del re Carlo II.

Sacre e pie fondazioni, e morti di persone distinte.

Nel progredire di questa storia, la materia che debbo trattare quasi mi scoraggisce. Sterile ed ingrata necessariamente per la condizione del paese dopo l'estinzione de' principi sforzeschi, lo diviene ancora maggiormente, giacché alla mancanza de' fatti storici va succedendo quella dei grandi caratteri, rimarchevoli per sublimi virtù o per vizi illustri; onde il vasto, fertile e già ricco stato di Milano in quest'epoca non può essere rappresentato da una più vera imagine di quella di un gran podere, quasi in ira al cielo e agli uomini, abbandonato dalla non curanza di uno sconosciuto padrone, all'imperizia e al capriccio dei succedentisi amministratori. Nel corso di quasi settant'anni, su cui versa questo capitolo, i buoni governatori furon rari, e per maggiore sventura del paese sono quelli che vi fecero più breve dimora. I danni del Milanese crebbero per le guerre che ripetutamente si suscitarono in questo intervallo nella Valtellina e nel Piemonte, tanto per i campeggiamenti e le rapine degli eserciti, quanto per doverli provvedere di viveri e di soldo, giacché se anche ne' migliori tempi di Carlo V e di Filippo II ben poco danaro era qui spedito dalla Spagna, a quest'epoca non poteva aspettarsene sussidio veruno; non bastando neppure le scarse rendite di quell'indolente e degenerata nazione a saziare l'avarizia de' favoriti e de' cortigiani. Tali poi furono gli effetti di più di un secolo di cattivo governo straniero, dell'agricoltura in più luoghi abbandonata, della scoraggiata industria, della sofferta fame e di due pestilenze sterminatrici, che rese esauste tutte le sorgenti della pubblica prosperità: la popolazione per la penuria del vivere non poté riprodursi; e Milano che da lungo tempo e per tutto il secolo decimoquinto fu ricca, florida e popolosa di oltre trecento mila abitanti, nel decimosettimo non giungeva a centomila, e in questo limite se ne stette quasi stazionaria, mentre l'indistruggibile fertilità del suolo impedì all'ignoranza e al mal volere degli uomini di farla maggiormente retrocedere.

(1632) Il vacante arcivescovato di Milano fu, il 28 novembre del 1632, conferito dal papa Urbano VIII al patrizio milanese Cesare Monti, già insignito della dignità di patriarca d'Antiochia e nunzio apostolico nella Spagna, e nell'anno seguente fatto cardinale. E poiché la storia civile non ci offre altra occasione di parlar di lui, soggiungeremo ch'egli resse la chiesa milanese con pace e dignità per quasi diciotto anni, fece ridurre a compimento le chiese del Lentasio e di Sant'Agnese, stabilì il conservatorio di Santa Febronia per le figlie povere, eresse la chiesa e il convento di Concesa e il monastero di Santa Maria di Loreto, istituì il seminario di Monza, e, morendo, legò per testamento agli arcivescovi suoi successori una scelta raccolta di ducentoventun quadri, il di cui catalogo leggesi presso il Latuada, e che, riordinata e ristaurata pochi anni sono da mano maestra, forma tuttora un magnifico ornamento al palazzo arcivescovile.

(1633) Nel 1631 era tornato al governo di questi Stati don Gomez Suarez di Figueroa e Cordova, duca di Feria; ma dopo due anni avendo egli dovuto, d'ordine del re cattolico, recarsi in Germania in soccorso dell'imperatore Ferdinando II con un esercito di diecimila fanti e mille e cinquecento cavalli, parte Spagnuoli e Lombardi, e parte Napoletani, venne in suo luogo il cardinale infante di Spagna, fratello del re; ma non rimase al governo che circa un anno, essendo passato a governare le Fiandre. Dal poco che ci rimane delle sue leggi, appare ch'egli avea di mira l'esatta amministrazione della giustizia. I successivi governatori fino al 1670 furono il cardinale Egidio Albornoz, il marchese don Diego di Leganes, il duca d'Alcalà, il conte don Giovanni di Sirvela, il marchese di Velada, don Bernardino Fernandez de Velasco, contestabile di Castiglia, il conte di Haro, don Luigi Benavides, marchese di Caracena, il cardinale Teodoro principe Trivulzi, il conte di Fuensaldagna, il duca di Sermoneta, don Luigi de Guzman Ponze di Leon, il marchese d'Olias e Mortara, e don Paolo Spinola, marchese de los Balbases, duca del Sesto. Sono in trentasei anni quattordici governatori, tra i quali il marchese di Caracena durò per otto anni, e il conte di Fuensaldagna per quattro. L'inettitudine, l'inesperienza, il breve governo, la distrazione delle guerre furono cagione che que' signori fecero poco bene al paese, e lasciarono intatti i disordini, se pure non li accrebbero. Gioverà a dare un'idea del loro modo di governare il sapersi che mentre le provincia, rovinata dai disastri della peste, dalle lunghe guerre e dalla pessima e tenebrosa amministrazione, esigeva i più seri provvedimenti, il marchese di Caracena non trovò altro di meglio a fare per il ben pubblico che vietando alle meretrici di andare in carrozza ai corsi, e il conte di Fuensaldagna, di proibire che anche nel carnevale si ballasse dopo la mezza notte, e che alcuna donna si mascherasse da uomo, o uomo da donna. Quel marchese accrebbe le fortificazioni del castello di sei mezze-lune. Più importanti furono i provvedimenti del governatore Ponze di Leon. All'intento di soccorrere alle angustie del pubblico banco di Sant'Ambrogio, che, disordinato e soccombente sotto il peso de' suoi debiti, avea ridotto alla metà il pagamento degl'interessi, ordinò, con decreto del 18 luglio 1662, che i fondi e i dazi destinati dalla città di Milano per dote di quello, passassero in libera amministrazione di una congregazione da lui delegata; con che per allora fu assicurata la pubblica fede. Egli fu autore di un altro insigne beneficio a suggerimento del conte Bartolommeo Arese, presidente del senato, personaggio di gran senno ed influenza, ed amantissimo del suo paese, l'instituzione del così detto Rimplazzo. Esso regolava l'alloggiamento militare sotto la direzione di un provveditore generale, il quale forniva d'alloggio l'esercito in tempo di pace ad un determinato prezzo per ciascuna razione da pagarsi in via d'imposta sopra tutto lo Stato, secondo la fatta ripartizione. Così furono procurati opportuni e comodi alloggiamenti alle truppe, liberati i pubblici e i cittadini dalle vessazioni, e assicurata l'uguaglianza del carico. Ma questo Ponze di Leon era uomo sì arbitrario e violento, che, senza rispetto alla giurisdizione de' tribunali e del senato facea esercitare la giustizia a suo piacere: e ne basti un esempio. Un cieco, conosciuto col nome di Alessandrino, andava cantando per le vie della città una canzone popolare, in cui deridevansi gli Spagnuoli. Il governatore se lo fece condurre innanzi, gli fe' dar a bere e volle udir la canzone; indi ordinò che immediatamente fosse condotto alla piazza de' Mercanti, ed alla mezza notte, a porte chiuse, fosse impiccato e subito seppellito. Egli stesso nel giorno vegnente a comune terrore, fece dare pubblicità alla sentenza ed all'esecuzione. È però da confessarsi che i tempi erano convenienti per simili violenze; e i nobili in ispecie, resi brutali dall'ignoranza, invasi dalla boria spagnuola e degradati dalla prepotenza valorosa de' loro avi, eransi abituati alla prepotenza facinorosa, che col mezzo di mani mercenarie procacciasi comoda e senza pericolo la vendetta, la quale infame costumanza si mantenne in vigore fin oltre la metà del secolo scorso. Per siffatte prepotenze la città di Milano era in tanto disordine, che i privati cautamente si facevano scortare per le strade da uomini armati. Persino il residente del gran duca di Toscana, Gian-Francesco Rucellai, in Porta Vercellina, verso mezzodì, venne assalito da molti armati, Per cui, dopo valida resistenza, costretto a sottrarsi al maggior numero, il governatore e il senato, mancando di altro mezzo, fecero pubblicare che chiunque suddito del re cattolico avesse in quest'occasione prestata assistenza al residente, sarebbe stato dalla maestà sua assai gradito; e il marchese Annibale Porroni lo fece servire da certo capitano Ampio con un centinaio di bravi, e, così scortato, il residente prese congedo dal governatore, dall'arcivescovo e dal presidente del senato. La stessa scorta lo accompagnò fino a Piacenza; il fatto avvenne nel 1656.

(1634) Per essere più libero e sicuro d'impiegare le sue forze nella Germania e ne' Paesi Bassi, il re di Spagna si era adoperato per trarre al suo partito il duca di Savoia; e già il principe Tommaso, uno de' fratelli di esso, impegnatosi a militare nelle Fiandre in favore del re cattolico, avea mandato a Milano la consorte ed i figli, quasi ostaggi in garanzia della sua promessa. (1635) Ma al principio del 1635 una nuova ed aspra guerra insorse tra la Spagna e la Francia, suscitata dall'ambizione e dalla rivalità degli onnipotenti ministri delle due corti, il cardinale di Richelieu e il conte Olivares. In conseguenza il re di Francia Luigi XIII si collegò con varii principi protestanti e coll'Olanda a danno de' Paesi Bassi, e spedì un esercito nella Valtellina, comandato dal duca di Rohan, per attaccare lo stato di Milano; riuscì pure a ridurre nella sua lega il duca di Parma Odoardo Farnese e il principe Carlo Gonzaga, duca di Mantova, che varie cagioni avevano di dolersi della Spagna. Anche il duca di Savoia, disapprovata altamente la condotta del principe Tommaso, e privatolo de' suoi stipendi e possedimenti nella Savoia e in Piemonte, aderì alla Francia e fu fatto comandante generale delle armi francesi e collegate in Italia. Il governatore di Milano cardinale Albornoz non fu lento a guernire i confini dello Stato, e costrinse pure i Francesi a desistere precipitosamente dall'intrapreso assedio di Valenza. All'opposto, gli Spagnuoli nella Valtellina, benché rinforzati da quattromila fanti e quattrocento cavalli tedeschi sotto il barone di Fernamont, riportarono dai Francesi una grave sconfitta. (1636) In principio del nuovo anno uscì in campo anche il duca di Parma, ma fu respinto con perdita dagli Spagnuoli spediti dal Milanese, associati al duca di Modena Francesco I. In questo apprestamento di un vasto incendio, che minacciava tutto all'intorno lo stato di Milano, l'interposta mediazione del papa Urbano VIII e di Ferdinando II, gran duca di Toscana, riuscì a conciliare una tregua, che fu seguita da una pace effimera, mentre, per il pretesto del compenso dei danni recati dagli Spagnuoli nel Parmigiano e nel Piacentino, il duca di Savoia e il maresciallo di Crequì invasero nel mese di giugno il Pavese e il Novarese, e passato il Ticino, spezzarono il grand'argine, per cui da quel fiume si conduce a Milano il naviglio Grande; onde la nostra città ne fu costernata. Il governatore marchese di Leganes si oppose ai nemici a Tornavento, ove, il 23 di quel mese, seguì un sanguinoso contrasto; e benché la vittoria fosse rimasta indecisa, l'effetto ne fu che i Francesi e i Savoiardi di là a pochi giorni si ritirarono. In questo grave pericolo fu di nuovo istituita in Milano la milizia civica, nella quale si videro in breve ascritti più di seimila cittadini, e dal governatore ebbe, con decreto del 29 settembre, confermati i suoi privilegi. Il duca di Parma, che aveva invaso il Cremonese e il Lodigiano, sconfitto da don Martino d'Aragona, colla mediazione del papa e del gran duca fu ammesso a far pace separata cogli Spagnuoli, ai quali cedette Sabbionetta, piazza in allora importante, tra Casalmaggiore e Mantova. Anche il duca di Rohan, assalito dai Grigioni, dovette ritirarsi dalla Valtellina.

(1637) Reso libero da que' due nemici il governatore marchese di Leganes, e trovandosi al comando di dieciottoniila fanti e quasi cinquemila cavalli per rinforzi avuti dalla Spagna, dalla Germania e da Napoli, si decise a spingere con vigore la guerra nel Piemonte, colla lusinga di facili progressi per la morte accaduta del duca Vittorio Amedeo, lasciando due figli in età infantile sotto la tutela della madre. Prese quindi il forte di Breme nella Lomellina, invase il Monferrato e assediò Vercelli. (1638) Poi, collegatosi col cardinale Maurizio e col principe Tommaso, zii del piccolo duca, applicò a diverse imprese, vagando per il Piemonte, finché, accintosi all'acquisto di Casale di Monferrato con segreta intelligenza della vedova duchessa di Mantova, venne ivi raggiunto dall'esercito francese comandato dal maresciallo d'Harcourt, e posto in piena rotta colla perdita della cancelleria (1640), delle argenterie, della cassa regia, de' cannoni e d'ogni equipaggiamento, rinvenuti dai vincitori nel campo di San Giorgio verso Pontestura. (1641) Il marchese di Leganes fu richiamato. Ma più che da questa sconfitta, venne il re di Spagna determinato a tal passo dai gravi turbamenti insorti nell'interno della monarchia, la sollevazione dei Catalani e la ribellione del duca Giovanni di Braganza, la quale produsse poi la separazione del Portogallo dalla Spagna, avendo la sorte delle armi e i fini politici delle altre potenze persuaso il riconoscimento legittimo di quel ribelle. (1652-1645) Per questi avvenimenti l'esercito francese reso più animoso, unito a Savoiardi, ridusse in breve tempo gli Spagnuoli alla difensiva, e, ricuperate di seguito le fortezze del Piemonte, penetrò nello stato di Milano, prese Tortona e Trino, indi, varcata la Sesia, Vigevano. La costernazione fu grandissima in Milano. Il governatore marchese di Velada accorse a Mortara, a Novara e ai passi della Sesia a far fronte ai nemici, i quali, per la difficoltà delle vittovaglie, si ritirarono; (1646) nel principio del nuovo anno, anche Vigevano fu ricuperato. Né i danni de' Milanesi si ristrinsero alla paura. La devastazione delle campagne ove seguirono gli osteggiamenti, le vettovaglie somministrate agli eserciti nemici ed amici, gli approvvigionamenti e le opere di difesa alle fortezze minacciate, e il soldo delle truppe che per intiero dovevasi fornire dal paese, furono tali pesi, che più non bastando a supplirvi le ordinarie rendite e le contribuzioni straordinarie, si ebbe ricorso all'alienazione de' dazi ed altri diritti regali. In quest'anno e ne' quattro seguenti si fecero le più grandiose vendite delle regalie, che mai fossero fatte per l'addietro o in seguito. Dal prospetto che se ne stese nell'anno 1772, quando per ordine dell'imperatrice Maria Teresa furono tutte ricuperate alla regia camera, si riconobbero centosessantasei regalie vendute in que' quattro anni: quasi la terza parte delle alienazioni si fecero allora. Durante tutto il secolo precedente e fino alla metà del XVII se ne alienarono sole cinquantuna. Nel rimanente di quel secolo si trovò comodo, e forse fu necessità, di proseguire in siffatte vendite; e dall'anno 1649 al 1700 ne furono distratte altre centosessantanove.

(1647) Il cardinale Mazzarino, succeduto al defunto cardinale Richelieu nella suprema direzione del regno di Francia, accrebbe un nuovo fomite alla guerra in Italia coll'essere riuscito a far entrare nella lega contro gli Spagnuoli Francesco I d'Este, duca di Modena. Perciò i Gallo-Estensi occuparono con grandi forze Casalmaggiore, che tennero per due anni, e assediata inutilmente Cremona, disertarono il Cremonese. Ma la vigorosa resistenza opposta dal governatore marchese di Caracena, l'occupazione da esso fatta di più terre del modenese, e gli uffici dei duchi di Mantova e di Parma indussero il duca di Modena a rappacificarsi colla Spagna. (1649) Liberati dalle angustie di questa nuova guerra potettero i Milanesi prestarsi più alacremente a festeggiare l'arrivo della loro sovrana, l'arciduchessa Marianna d'Austria, che da Vienna recavasi a Madrid, sposa del re Filippo IV. Essa fece il suo ingresso in Milano il 30 maggio del 1649, il quale è così descritto dal Brusoni: Entrò la regina privatamente in Milano per Porta Tosa, a causa delle grandissime pioggie che diluviarono in quei giorni; e fece poscia la sua solenne entrata per Porta Romana, incontrata dal marchese di Caracena, governatore, con tutti i tribunali, e dal clero in processione. Il governatore, messo piede a terra, presentò alla Maestà Sua diciotto cavalieri, coperti di scarlatto guernito di brocato, e altri sessanta, vestiti di tela d'argento, destinati a servirla. Dopo che, collocata sovra una chinea da' duchi di Machedea e di Terranova, venne salutata da una salva di mille e ducento mortaletti e da tutto il cannone della città. Per tutte le contrade e le piazze per le quali passò la regina, oltre agli addobbi che le adornavano, si vedevano spallierate le milizie della città e dell'esercito sotto i loro maestri di campo e generali, con vaghissima e superba mostra. Fu servita fino al Duomo, e poscia al palazzo di sua abitazione, con ordine e pompa veraramente regia e maravigliosa. Fermossi la regina per alcuni giorni in Milano con Ferdinando IV re d'Ungheria e di Boemia, suo fratello, onorata dai principi d'Italia o personalmente o per ambasciatori. Durante la sua dimora mostrò di commiserare la sorte di don Odoardo di Braganza, fratello del nuovo re di Portogallo, e benemerito dell'imperatore suo padre, il quale da sette anni gemeva in stretta carcere nella rocchetta di quel castello; e forse sarebbesi a di lui favore interposta presso il re suo sposo, se in quel tempo appunto non fosse morto dopo brevissima malattia. (1650) Il 16 di agosto dell'anno seguente morì pure il cardinale arcivescovo Cesare Monti, in di cui vece fu promosso alla sede arcivescovile monsignore Alfonso Litta. Questo prelato, nel lungo pontificato di vent'ott'anni, accrebbe di comodi ed ornamenti il seminario Maggiore, ristaurò il cadente seminario della Canonica, ed aggiunse nuovi redditi al collegio de' Nobili. Negli affari ch'ebbe a trattare in corte di Roma e ne' varii conclavi ai quali intervenne, si meritò lode di zelo e d'accorgimento; e nelle emergenze di dispareri giurisdizionali si condusse generalmente con moderazione; che se nel fatto che vado a narrare si mostrò dapprima animato da soverchio calore, non fu tardo a piegarsi al più maturo consiglio della saviezza.

Era stato ucciso con una pistolettata il cavaliere Uberto dell'Orto su la porta del procuratore Gadolini, vicino a San Giorgio in Palazzo. Il sospetto cadeva sopra un Landriani che si pose nell'asilo di San Nazaro. Il governatore Ponze di Leon ordinò che il Landriani venisse ad ogni modo imprigionato, e gli sbirri lo presero sull'altare mentre s'era attaccato al tabernacolo. L'arcivescovo ne fece fare acerbe doglianze, accolte dal governatore trascuratamente. Minacciò scomuniche e interdetti, ma il governatore non gli badò. Fece intimare il primo monitorio al capitano di giustizia Clerici, e fu sprezzato. Intimò il secondo monitorio, che venne accolto come il primo. Venne un prete per intimare il terzo monitorio, e gli alabardieri del capitano di giustizia lo ferirono. L'arcivescovo era smanioso. Il governatore gli fece dire che se scomunicava avrebbe fatto impiccare alle porte dell'arcivescovato il Landriani. Stando così le cose, entrò di mezzo il presidente del senato, Bartolommeo Aresi; e persuase all'arcivescovo pensieri più miti, poiché alle chiese si deve rispetto, ma non per ciò che servano di ricovero agli scelerati; che in Venezia non si conosceva immunità, ed eravi anche per le scomuniche l'esempio di Venezia stessa nell'interdetto di Paolo V; e in fine che questi privilegi, non avendo altro appoggio che la tolleranza del re di Spagna, non conveniva di compromettere la dignità sua con maggiore insistenza. Il qual unico partito fu seguitato dalla saviezza dell'arcivescovo. Il papa Alessandro VII, nella promozione di cardinali che fece nel principio del 1664, vi comprese anche il coraggioso monsignor Litta, quantunque la prudenza gli suggerisse di tenerselo in petto fino a men sospetta occasione; onde la di lui promozione non fu pubblicata che dopo due anni.

Il Milanese trovavasi ridotto alla condizione più compassionevole per i danni e gli eccessivi dispendi cagionati dalla guerra. (1651) Avendo esaurito ogni mezzo di dar danari, e sopracaricato di debiti, al di cui soddisfacimento non bastavano le continuate vendite delle regalìe, l'avere impegnato le sue rendite ne' partiti Balbi e Ceva, e le sovvenzioni procuratesi coll'erezione del monte di San Carlo, fu duopo staccare dallo Stato Pontremoli col suo distretto, vendendolo al gran duca di Toscana. Venne in seguito da Madrid una regia carta di pien potere, per obbligare ed anche vendere qualunque fondo camerale, estendendosi questa facoltà anche alla concessione de' feudi. Farà sorpresa ai lettori che in sì estreme angustie non siasi mai pensato al più semplice e natural rimedio, il metter fine a una guerra che durava da tanti anni più o men viva, regolata dal solo capriccio, senza piano o stabile condotta, in cui erano sì rari i tratti di valore e di perizia militare nei capi, e nella quale null'altro v'era di certo se non che la distruzione degli averi e delle vite dei sudditi. Ma questo pensiero troppo ripugnava ai fini personali de' governatori di questo Stato, ai quali premeva di perpetuarsi (come dice opportunamente il Muratori) nel lucroso mestiere di comandare un'armata. (1652) Perciò il marchese di Caracena non ebbe ritegno di destare il quasi sopito incendio con muoversi e discacciare i Francesi da Casale di Monferrato, giovandosi del favore che incautamente gli prestava in questo progetto il duca Carlo II di Mantova, padrone di quella città, e che, per il matrimonio di sua sorella Leonora coll'imperatore Ferdinando III, erasi necessariamente affidato al partito spagnuolo. La mossa improvvisa fu coronata da un felice esito, e nel principio d'autunno sì la città che i forti caddero in potere degli Spagnuoli. (1653) Ma ciò ch'erasi temuto, avvenne; mentre appena due mesi dopo, i Francesi, sollecitamente rinforzati, calarono ad infestare il territorio alessandrino e trascorsero fino alle porte di Novara. I due eserciti altro non fecero per la maggiore parte dell'anno seguente che starsi vicendevolmente in osservazione per esser pronti ad ostare dall'una parte e dall'altra a qualunque avanzamento. Il torbido e impaziente Caracena profittò di questa calma per muover briga al duca di Modena col pretesto di chiedere spiegazioni per le milizie che assoldava e il fortificare di Brescello. (1655) Invaso il territorio del duca, minacciò di assediare quella piazza e di bloccar Reggio; ma le copiose pioggie della primavera e il crescere del Po lo costrinsero a levar il campo, e a ripassare il fiume precipitosamente dopo una spedizione di soli venti giorni, e di aver ridotto un amico sospetto a divenire nemico dichiarato. E di là appena a due mesi trovò ben molto più a fare in casa propria, mentre il principe Tommaso di Savoia alla testa di un esercito francese, che si disse forte di dieciottomila fanti e settemila cavalli, passato il Ticino dalla parte di Vigevano, cominciò a scorrere il territorio milanese, portando dovunque il terrore e la desolazione. La città di Milano, in cui la confusione era cresciuta per le monache suburbane che, in folla e tumultuariamente, vi si ricoverarono, fu presidiata e possibilmente munita per la difesa, e i sacerdoti nelle chiese esortavano i cittadini a prender l'armi. Fortunatamente la furia francese declinò da questa direzione, e si rivolse all'assedio di Pavia. Varii accidenti concorsero a liberare il marchese di Caracena dal cattivo passo, ove dalla sua imprudente temerità era stato condotto. I Francesi, distratti nello scortare fino in Piemonte un grosso convoglio di bestiami predati nella Lomellina, furono tardi nell'investire la città mentre era meno provveduta de' mezzi di difesa. Un rinforzo di trecento cavalli sotto il conte Galeazzo Trotti, generale della cavalleria di Napoli, che, passando per caso da Mortara, si unì al presidio di Pavia, l'inaspettato avvicinamento dal Finale di alcune truppe spedite dalla Spagna, l'essere rimasto ferito da una palla di falconetto il duca di Modena, che fu trasportato in Asti, la malattia sopragiunta al principe Tommaso nella sua grave età di oltre sessant'anni, tutte queste cause, alle quali si aggiunse la difficoltà delle vittovaglie per gli appostamenti fatti dal Caracena a Cassine sulla strada di Pavia, e ne' castelli di Binasco e Chiarella, determinarono i Francesi a levare improvvisamente l'assedio, ch'era durato dal 22 luglio al 15 settembre, abbandonando nel campo una immensa quantità di attrezzi militari, di viveri e di bagagli. L'esercito gallo-estense si ritirò parte nel Modenese e parte a Torino col principe infermo, il quale il 22 del seguente gennaio se ne morì. (1656) Le rimostranze che i Milanesi fecero giungere al trono del sovrano, produssero il richiamo del marchese di Caracena, che passò al governo dell'armi in Fiandra, sotto il supremo comando di don Giovanni d'Austria, figlio naturale del re cattolico.

L'allontanamento di quell'ambizioso governatore, se sparse di qualche balsamo le esulcerate piaghe della misera Lombardia, non valse a impedire il nuovo incendio di guerra che si suscitò tosto dopo il ritorno del duca di Modena da Parigi, ov'erasi recato appena fu sano della sua ferita. Prima impresa de' collegati fu l'investire Valenza sul Po, che, ostinatamente difesa, dovette arrendersi il 7 di settembre. (1658) Nei due anni successivi, stando le armi spagnuole unicamente sullo schermirsi, molti danni sofferse lo stato di Milano dalle scorrerie nemiche; quando, nel 1658, l'accorto ed audace duca Francesco venne in risoluzione di condurre la sua parte d'esercito, che consisteva in settemila fanti e cinquemila e ottocento cavalli, a' quartieri d'inverno sul Mantovano. Il duca di Mantova, sorpreso all'improvviso, invocò e ottenne dal governatore di Milano qualche soccorso di truppe, ma insufficiente; laonde fu costretto a stipulare la propria neutralità, ciò che l'espose alla collera dell'Imperatore e lo privò del titolo di vicario dell'Impero. Resi sicuri per questa convenzione dal lato del duca di Mantova, i Gallo-Estensi minacciarono di penetrare nel cuore della Lombardia col passaggio dell'Adda, fiume distante sole dieciotto miglia da Milano. Il governatore munì in fretta le fortezze di Pavia, Lodi, Pizzighettone e Cremona, e fortificò varii posti sul fiume tra Lodi e Rivolta, e da Castelleone a Cassano. Le acque della Muzza, spezzato l'argine, furono travolte in Adda per ingrossare il fiume. Ma il duca di Modena, superato per sorpresa il passo a Rivolta, si stabilì con tutto l'esercito sulla riva opposta, e si fece appoggio del forte e ben munito castello di Cassano, che gli si arrese. Valicata l'Adda, si accinsero tosto i vincitori a deviare le acque del naviglio della Martesana, facendo con una mina rovinare il suo sostegno; e una parte dell'esercito, sotto gli ordini del duca di Noailles, spinse le sue ricognizioni fino ai sobborghi di Milano, e si ripiegò con sì buon ordine che neppure fu inseguita. Si riunì quindi col restante dell'esercito per Marignano a Sant'Angelo, e tutt'insieme avviaronsi ad aprire le comunicazioni del Ticino più dirette e più brevi col Piemonte. Tragittato il fiume il 1° di agosto, cinsero d'assedio Mortara, che dopo quindici giorni si arrese; indi presero Vigevano, di cui distrussero le fortificazioni perché non servissero agli Spagnuoli nel prossimo inverno. Il conte di Fuensaldagna, governatore di Milano, che, come un'opportuna diversione, avea tentato di prendere per sorpresa la città di Valenza, ne era stato respinto con grave perdita. La morte inaspettata del duca di Modena, avvenuta in Santià il 14 ottobre, essendo in età di soli quarantott'anni, pose fine alle vittorie dei Francesi. Successe negli Stati paterni e nel generalato dell'armi collegate il giovane duca Alfonso IV. Principe d'animo più mite, acconsentì a pacificarsi colla Spagna a vantaggiose condizioni, limitandosi ad una perfetta neutralità, nel qual partito fu indotto dallo stesso ministro francese il cardinale Mazzarino, che stava negoziando lo stabilimento di una pace generale tra la Francia e la Spagna, la quale, conchiusa il 7 novembre dello stesso anno, è celebre sotto il nome di pace de' Pirenei.

(1661) Dopo la pubblicazione della sospirata pace cominciò a respirare l'oppresso popolo milanese, il quale ottenne pure di veder limitata l'obbligazione dell'alloggiamento militare a quattromila fanti e duemila cavalli, con reale dispaccio 30 novembre del 1661. A questo beneficio tenne dietro il Rimplazzo, ossia la sistemazione del riparto dell'alloggiamento, di cui si è di sopra parlato, ove si discorsero in compendio le successioni de' governatori. (1665) Null'altro ci si offre di notabile fino al 1665, in cui giunse in Milano la nuova che il re di Spagna Filippo IV aveva pagato l'inevitabile tributo alla natura, essendo morto il 17 settembre in età di sessant'anni. Principe pio, ma dominato quasi per tutta la sua vita da un pessimo ministro, il conte d'Olivares, che soltanto poco tempo prima di morire privò della sua grazia. Principe detto grande dall'adulazione, e in fatti grandissimo nelle disavventure, per aver regnato continuamente frammezzo alla miseria pubblica, cui non volle o non seppe mai sovvenire, e circondato dal pubblico malcontento; onde si vide successivamente spogliato del Portogallo e del Rossiglione, ribellata la Catalogna, in continua agitazione l'Aragona, conculcata la sua autorità dalla più infima plebaglia di Napoli, avvolta nella desolazione e in continue mormorazioni la Lombardia; e finalmente, dopo tanto sangue sparso e tanti tesori profusi dal padre e dall'avo, costretto a dar la pace agli Olandesi ed a riconoscerne l'indipendenza. Gli succedette l'unico figlio Carlo II, in età di quattr'anni, sotto la tutela della madre, che fu l'ultimo, egualmente inetto e pur esso mal fortunato rampollo di quella famiglia.

Magnifici furono i funerali celebrati in Milano per il defunto re. Nel seguente anno ebbero i Milanesi occasione di facile rallegramento nelle feste fatte per l'arrivo dalle Spagne, di passaggio per Vienna, dell'infante donna Margherita d'Austria, sposa dell'imperatore Leopoldo. Il governatore fece per ciò ristaurare splendidamente il palazzo ducale. (1668) Senza rispetto per la miseria pubblica, il lusso sfoggiato dalla nobiltà spagnuola e milanese, e dagli ambasciatori de' sovrani d'Italia nel ricevimento di quella principessa, fu straordinario: e basti per un esempio, che il conte Filippo d'Agliè, ministro del re di Sardegna, si mostrò con un seguito di trecento persone, e il pomposo corteggio di cento tiri-a-sei. Due anni dopo morì il governatore Ponze di Leon, e dopo tre mesi di governo morì pure il suo successore Francesco de Oronco, marchese de Olias, Mortara e San Reale. Fu allora mandato il duca del Sesto don Paolo Spinola, marchese de los Balbases, il quale appena trascorso un anno cedette la carica a don Gaspare Tellez Giron, duca d'Ossuna, nome reso celebre dal di lui avo don Pietro, vice-re di Napoli. La regina vedova lo spedì governatore a Milano, per consiglio del gesuita Everardo Nitard, confessore, ch'essa avea condotto dalla Germania, e ciò per allontanarlo da don Giovanni d'Austria, ch'erasi insinuato nella confidenza del piccolo re. Governò per quattro anni. Quello che siamo per dire di lui è preso da un raro libretto, venuto allora in luce, che, quantunque sia principalmente un epilogo di scandalose storielle tendenti alla diffamazione di alcune gentildonne e cavalieri milanesi, contiene varii fatti storici che hanno tutta l'apparenza della verità. Fu assai pomposa l'entrata ch'ei fece in Milano. Precedevano alcune compagnie di cavalleria colla pistola alla mano, la corazza sul petto e la celata in capo. Poi venivano più di cento cavalli, carichi di arredi, coperti di panno scarlatto trinato d'oro, e colle funi di seta intrecciate di oro. Ogni cavallo aveva un palafreniere che lo conduceva, vestito in uniforme scarlatto, trinato d'oro e pennaccio nel cappello. Poi venivano i cavalli del duca, coperti pure di scarlatto trinato d'oro, con simili palafrenieri. Indi seguivano i carabinieri, con lucidissime armature e ricchi ornamenti. In seguito in magnifica gala cavalcavano i gentiluomini milanesi, accompagnati da numeroso stuolo de' loro palafrenieri. Poi venivano tre carrozze del duca superbissime. Il carro e le ruote erano intagliate con sommo lusso, e tutto il legno dorato e i ferri smaltati; i cerchi delle ruote erano d'argento, e gli apparenti e rilevati chiodi nella prima erano d'oro, nelle due altre d'argento dorato; l'interno delle carrozze era tutto ricamato a profusione d'oro. Donna Mizia, moglie del duca, era nella prima carrozza con due sue figlie, e il duca cavalcava, superbamente bardato, alla portiera destra, costeggiati dalla guardia svizzera. Veniva in seguito la compagnia delle lance, indi altra soldatesca. La corte era stata mobigliata da esso duca in modo che un monarca non avrebbe potuto avere di più.

Questa pompa sorprendente annunziava nel nuovo governatore un personaggio ricchissimo o un ladro; forse fu l'uno e l'altro. Per ogni mezzo egli cercava di far danari; il conte Antonio Trotti, per essere eletto generale, dovette sborsargli ottantamila genovine. Il consiglio secreto procurò di porvi qualche argine; ne furono portate forti rimostranze a Madrid, per cui il duca una volta succombette, avendo dovuto disfare dodici capitani che aveva creati di suo capriccio. Dovette pur scomparire un altra volta, e pare a torto. Un suo domestico avea percosso un cane della principessa Trivulzi, e i domestici di essa lo uccisero. Il duca ordinò al capitano di giustizia la carcerazione degli omicidi; il capitano si portò nella casa della principessa e li fece imprigionare. La principessa era Spagnuola, spedì un corriere alla corte, venne l'ordine che dovessero i detenuti ricondursi nella casa Trivulzi, e il capitano di giustizia ne chiedesse scusa. Così rovesciavasi ogni idea di giustizia e di buon governo per una raccomandazione. Scemato per tal modo il rispetto verso il governatore, si videro affisse delle satire contro di lui; e non potendosi trovare indizio dell'autore, malgrado i premii proposti, il duca ebbe ricorso a un negromante, il qual ciurmatore fece credere che un frate fosse il colpevole. Per caso nominò un frate contro cui, secondo le opinioni religiose di que' tempi, non si poteva altro castigo imporre che il bando; e l'ebbe il padre Giudici, crocifero, sulla prova del mago, ben pagato per questo. Il duca non era né affabile né cortese; era violento, capriccioso, orgogliosissimo, giuocatore vizioso, scostumato, rapace: così ce lo dipinge l'autore. Come vivessero i popoli sotto il di lui governo e quali esempi ricevessero, è facile comprenderlo. Se recò maraviglia in Milano il trovarsi quattordici lire nella tesoreria generale alla partenza del duca del Sesto, molto più fece sorpresa l'erario totalmente esausto lasciato dall'Ossuna in tempi meno infelici. I costumi della nobiltà milanese erano allora assai ritirati e gelosi. Fu cosa che spiacque, e che non ebbe seguito, una conversazione che il duca d'Ossuna aprì una sola volta.

(1674-1698) Dalla partenza del duca d'Ossuna nel 1674 fino al termine del secolo, vide Milano succedersi cinque governatori, che tutti trapassarono insignificanti, il principe di Ligne, i conti di Melgar e di Fuensalida, il duca di San Lucar, marchese di Leganes, e don Carlo Enrico di Lorena, principe di Vaudemont, che, venuto nel 1698, durò nel governo per otto anni. Quest'ultimo abbellì la corte ducale, introdusse società fra i nobili inselvatichiti, fece conoscere costumi gentili e colti, e la nazione passò dalla rusticità al libertinaggio. È celebre la memoria della villa fuori di Porta Orientale, la Belingera, ove quel principe passava l'estate; i giardini erano frequentati da cavalieri e dame. Prima non conversavano i due sessi se non tra prossimi parenti. Il conte Verri, che ci ha lasciati questi cenni, ci è pure testimonio di avere egli stesso ascoltate le declamazioni sul costume allora corrotto. Nello stesso periodo di tempo si succedettero tre arcivescovi, e furono i cardinali Federico Visconti nel 1681, Federico Caccia, eletto nel 1693, ma che trovandosi nunzio a Madrid, si è recato alla sua sede soltanto tre anni dopo, e Giuseppe Archinto nel 1699, che resse poi per tredici anni la Chiesa milanese. Intorno alla solenne entrata che fece in Milano il cardinale arcivescovo Caccia l'11 dicembre del 1696, abbiamo un libro pubblicato dal segretario del consiglio generale de' LX decurioni, Baldassare Paravicini. Può esser grato alla boria municipale il sapere che in tale occasione fu mandato a Roma ambasciatore della città di Milano il conte Uberto Stampa, il quale era cavaliere d'Alcantara, maestro di campo nelle armate spagnuole, e sedeva nel consiglio secreto. Il duca di Medina-Celi, ambasciatore cattolico in Roma, gli diede ogni assistenza, così pregato dalla città. Lo Stampa partì per Roma, accompagnato dal conte Vincenzo Ciceri e da don Guido Brivio. L'ambasciatore del re cattolico e i prelati nazionali spedirongli incontro le loro mute, i cardinali gli spedirono i loro gentiluomini, e l'ambasciatore milanese andò all'udienza del papa Innocenzo XII coll'ombrella e cuscino di velluto nero trinato d'oro. Egli entrò con spada e cappello e presentò le credenziali della citta. Visitò i cardinali e venne da essi visitato, come lo fu anche dall'ambasciatore cesareo e da altri ministri esteri.

Nel restante di questo secolo rimase il Milanese quasi libero dalle guerre, se non che la cessione di Casale nel Monferrato fatta alla Francia dal duca di Mantova Ferdinando Carlo, e l'occupazione di quella città da parte de' Francesi sotto gli ordini del marchese di Boufflers e del signore di Catinat, obbligarono la Spagna a far più grosso l'esercito in Italia; col quale poi prese parte alla guerra suscitatasi nel 1690 tra la Francia e Vittorio Amedeo di Savoia in causa delle aderenze da lui strette coll'imperatore, da cui era stato innalzato al rango di re, e successivamente per essersi questo sovrano, con un'improvvisa mutazione di partito, nel 1696, confederato di nuovo colla Francia, avanzandosi minaccioso alla testa di un forte esercito di Francesi alle frontiere della Lombardia, e avendo cinta d'assedio Valenza; dal quale pericolo fu questa provincia inaspettatamente salvata dalla neutralità stipulatasi nel trattato di Vigevano del 7 ottobre, mediante il pagamento di trecentomila doppie, ripartite a carico de' principi italiani, de' Genovesi e Lucchesi, e degli altri minori vassalli dell'Impero. Ma pur troppo avremo ad occuparci nel seguente capitolo de' fieri turbini di guerra addensatisi e scoppiati sulla misera Italia, attesa la morte del re Carlo II, con cui si estinse la linea austriaca de' sovrani di Spagna. Questo principe, che all'età di sedici anni, sdegnando di stare sottomesso alla tutela della regina Marianna sua madre, l'avea rilegata indecorosamente in un monastero; che due anni dopo, nel 1679, condusse in isposa Maria d'Orleans, nipote del re di Francia Luigi XIV, per cui si fecero grandi feste in Milano, colla quale convisse dieci anni, essendo morta senza successione; (1700) trasse poscia una vita neghittosa ed infermiccia fino al primo giorno di novembre del 1700, in cui nell'età di soli trentanove anni fu rapito dalla morte.

Oltre le sacre e pie fondazioni dovute alla munificienza de' cardinali arcivescovi Monti e Litta, di cui abbiamo fatto cenno, si ha a commendare l'istituzione fatta, nel 1637, dal patrizio Giovanni Ambrogio Melzo di un luogo pio, che portava il di lui nome, per distribuire ai poveri; specialmente vergognosi, larghi sussidii di viveri, panni per decentemente coprirsi, e varie doti per il collocamento di oneste zitelle. La chiesa di Santa Maria alla Porta fu ricostruita nel 1652 sul nobile disegno di Francesco Richini, essendo concorso alla spesa con ragguardevol somma il conte Bartolommeo Aresi, che n'era parrocchiano. Lo stesso conte, dopo di aver giovato colle sue ricchezze all'abbellimento o al ristauro di varie altre chiese, sì dentro che fuori della città, eresse, nel 1665, nella basilica Porziana di San Vittore, col disegno di Gerolamo Quadrio, la ricca cappella gentilizia dedicata alla Vergine Assunta. Quattro anni dopo fu ridotta a compimento la chiesa della Vittoria a spese del cardinale Omodeo, che vi aveva una sorella, essendone architetto Giambattista Paggi. Nel 1674 si eresse il monastero delle Carmelitane Scalze; nel 1688, essendo caduta la basilica Naboriana, detta poi di San Francesco, fu rialzata con maggiore eleganza e maestà; e nel 1698 si fabbricarono i nuovi sepolcri dell'ospedale Maggiore, essendo il maestoso portico di essi stato perfezionato ventisette anni dopo da Giambattista Annone, ricco mercante di seta, che non avea prole. Infine, in occasione del solenne ingresso del cardinale arcivescovo Federico Visconti, fu demolita l'antica facciata del Duomo, che rimaneva tre arcate più interna della facciata presente.

Primo tra le persone distinte mancate di vita in questo tratto di tempo ci si presenta quel Lodovico Settala, protomedico, che sì male ha figurato nel processo della strega, da cui si disse ammaliato il senator Melzo; ma la sua credulità alle arti magiche, quasi generale in allora, non gli toglie il merito di uomo dottissimo in più scienze e anche nella politica, e di essersi col massimo zelo adoperato in favore de' suoi concittadini nelle pestilenze del 1576 e del 1630. Egli morì il 12 settembre del 1633, nell'anno ottantesimo della sua età, essendo nato il 27 febbraio 1552. Circa la fine del 1641 cessò di vivere il canonico Giuseppe Ripamonti, autore di molte opere, descritte dall'Argellati: cattivo ragionatore, buon latinista, cronista inesatto, ma sincero espositore delle cose de' suoi tempi. Bonaventura Cavalieri, allievo del Galileo e di Benedetto Castelli, autore della Geometria degl'Indivisibili, maestro di Stefano degli Angeli e del Torricelli, lasciato oscuro nella sua patria, dove soltanto gli fu offerto dalla filantropia del cardinale Federico Borromeo un posto di dottore nel nuovo collegio dell'Ambrosiana, del tutto estraneo a' di lui studi, morì professore in Bologna il 3 dicembre del 1647, di soli quarantanove anni. Il conte Bartolommeo Arese, più volte nominato, uomo di grand'ingegno e destrezza, che fu per molti anni reggente nel supremo consiglio d'Italia, e quindi presidente del senato, dopo di essere stato assai volte adoperato in commissioni difficilissime ed importantissime, giunto all'anno sessantesimoquarto di età, finì di vivere il 23 settembre del 1674. Essendo prossimo agli ottant'anni, terminò pure il mortal corso il 16 febbraio 1680 il canonico Manfredo Settala. Era figlio dell'illustre protomedico Lodovico. Fu allevato a Siena. Viaggiò l'Italia, la Sicilia, l'Egitto, Cipro, Candia, Negroponte, Costantinopoli, Smirne, la Siria, e ritornò in patria ricco di cognizioni, scrivendo bene più lingue e conoscendo le orientali. Possedeva la musica, aveva molta abilità delle sue mani, e moltissimo ingegno e amore delle curiosità naturali o esotiche. Fu egli che formò il museo tuttora celebre sotto il suo nome, descritto da Paolo Maria Terzago e da Pietro Francesco Scarabelli, e del quale fece dono alla biblioteca Ambrosiana. Il di lui funerale fu decorato con orazione recitata dal padre Giambattista Pastorino, gesuita, e il marchese Giovanni Battista Visconti descrisse e stampò la relazione di queste solenni esequie. "Pare che allora (dice il conte Verri) vi fosse qualche senso di stima e di gratitudine verso di un cittadino che onorava la patria". Il 22 aprile del 1699 morì infine, di sessantanove anni, il segretario del senato Carlo Maria Maggi. Avea fatto i suoi studi in Bologna, e vissuto lungamente nella gioventù in Roma e Napoli. Era dotto nella letteratura greca, latina e italiana; dee però la sua maggiore celebrità alle commedie e poesie che scrisse nel dialetto milanese, in cui con tanto corredo di sapere non è maraviglia se sia così ben riuscito. Non dee escludersi da questa lista necrologica un Milanese d'altissimo ingegno e meritevole di compassione più pe' suoi deliri che per le sue tristi vicende, il cavaliere Giuseppe Francesco Borri. Egli fu il Cagliostro del secolo XVII. Eretico, visionario, alchimista, medico, ebbe la sorte di guarire in Roma il duca d'Estrées, dato per ispedito dagli altri medici, e per di lui interposizione gli fu cambiato il perpetuo carcere nella prigionia in castel Sant'Angelo, dove morì di settant'anni, il 20 agosto 1695.

Capitolo XXXII

Cause della guerra detta di Successione.

Guerra in Italia.

Morte dell'imperatore Leopoldo I, cui succedè il figlio Giuseppe I. Liberazione di Torino.

Il principe Eugenio di Savoia governatore di Milano, conquistato dagl'Imperiali. Carlo VI imperatore.

Nuova guerra d'Italia. Pace di Vienna

Mentre, essendo tolta ogni speranza di successione, declinavano rapidamente la salute e la vita del re di Spagna Carlo II, l'ambizione delle principali potenze di Europa non fu lenta a predisporre macchine e leghe onde ripartirsi i possedimenti della vasta monarchia spagnuola; e già fino dal mese di marzo del 1700, dopo una negoziazione di due anni, il re di Francia avea conchiuso un trattato col re d'Inghilterra e gli Olandesi, in cui, tra l'altre disposizioni, aveasi convenuto che il Milanese fosse dato al duca di Lorena invece della Lorena, che dovea incorporarsi alla Francia. Ma diversi erano i titoli che si allegavano dai sovrani esteri, e specialmente dal re di Francia e dall'imperatore, in appoggio delle loro pretese, e giova di riferirli brevemente.

Di due prime figlie avute dal re Filippo IV, le infanti Maria Teresa e Margherita, la prima era stata data in isposa al re cristianissimo Luigi XIV, la seconda all'imperatore Leopoldo I. Per volere del padre l'infante Maria Teresa aveva rinunciato alle ragioni che le competevano al trono di Spagna, ciò che all'altra figlia non era stato richiesto. In conseguenza da entrambi que' sovrani aspiravasi alla successione; dal re di Francia, a favore dell'unico suo figlio il Delfino, riputando inattendibile la rinuncia; e dall'imperatore, per l'arciduca Carlo, che gli era nato nel 1685. Conoscendosi che il re Carlo II si avvicinava al termine della sua vita, crebbero gl'intrighi e le pratiche dalle due parti. Per trovarsi libero all'imminente nuova lotta, non ostante la memorabile vittoria di Zenta, conchiuse l'imperatore col Gran Turco la tregua di Carlowitz. Il re di Francia, all'opposto, strinse con fina astuzia un nuovo trattato con l'Inghilterra e l'Olanda, di cui base era lo smembramento della Spagna, non perché questo avesse effetto, ma al solo fine che la nazione spagnuola, per ciò sbigottita, si volgesse a favorire la successione del Delfino, siccome avvenne. Aggiunse a questo maneggio due altre arti, la promessa che, premorendo il re di Spagna, il Delfino ne avrebbe sposato la vedova, e una dichiarazione procuratasi dal papa, che giudicava prevalente la pretesa della Francia e convenevole al bene comune. Questa dichiarazione finì di vincere l'animo irresoluto dell'infermo re di Spagna, per cui, il 2 ottobre del 1700, istituì, con secreto testamento, erede di tutta la monarchia spagnuola Filippo di Borbone, duca d'Anjou, secondogenito del Delfino, in tanto che non cessava di assicurare l'imperatore della sua predilezione. (1701) Manifestatasi la testamentaria disposizione dopo la morte del re Carlo II, avvenuta, come si disse, il primo giorno del successivo novembre, non era ancora la corte imperiale rinvenuta dalla sorpresa per questo inaspettato avvenimento, che il duca Filippo, proclamato in Parigi re delle Spagne col nome di Filippo V, era di già partito per Madrid, dove fece il suo solenne ingresso il 14 del seguente aprile. L'imperatore oppose a questo fatto la pubblicazione di un manifesto, in cui dimostrava la prevalenza delle sue ragioni, intanto che dalle due parti preludevasi all'imminente guerra coi più formidabili apparecchiamenti.

I Gallo-Ispani, avendo per generalissimo il duca di Savoia, sotto il comando del maresciallo di Catinat, marciarono alle rive dell'Adige per opporsi all'esercito imperiale, che, sotto gli ordini del principe Eugenio di Savoia, giovane in allora di circa trent'anni, si avanzava rapidamente. L'opposizione riuscì inutile, poiché il principe Eugenio, lasciato il nemico in disparte, per strade credute impraticabili, discese senz'ostacolo, il 9 luglio, nella pianura veronese, e dieciotto giorni dopo, valicato il Mincio, si stese nelle ubertose campagne del Bresciano, e mise a contribuzione lo Stato di Mantova. (1702) Il maresciallo di Villeroi, mandato in successore al Catinat con un rinforzo di nuove truppe, trovò gl'Imperiali trincerati a Chiari, e volendo forzarli, fu battuto colla perdita di circa diecimila uomini tra morti, feriti e prigionieri; indi, appena uscito da' quartieri d'inverno, si lasciò sorprendere e far prigione in Cremona, benché gl'Imperiali non abbiano potuto riuscire ad impossessarsi della città. Nuovi rinforzi vennero spediti di Francia col principe di Vendome, al quale tenne dietro lo stesso re Filippo V per dar maggior vigore alle offese colla sua presenza. Corteggiato dal governatore principe di Vaudemont, egli fece il suo solenne ingresso in Milano il 23 giugno, e dopo pochi giorni si trasferì al campo. L'esito della battaglia di Luzzara, per cui ricuperarono Guastalla, riconfortò i Gallispani; e il re Filippo V, tornato a Milano e trattenutovisi per alquante settimane, sul principiare dell'inverno si restituì in Ispagna. Anche il principe Eugenio partì per Vienna, lasciando al comando dell'esercito imperiale il maresciallo conte Guido di Staremberg. (1703) Egli vi giunse opportuno per essere impiegato a rendere più vigorosa e più corta la guerra in Ungheria contro il ribelle Ragotki, intanto che la corte di Vienna dava uno sviluppo più vasto al piano della guerra contro la Francia, collegandosi da una parte colla regina Anna d'Inghilterra e col re Pietro II di Portogallo, e dall'altra facendo inclinare a suo favore la versatilità della casa di Savoia, per cui il duca Vittorio Amedeo, scosso, tra le altre cause, dalle laute promesse degl'Imperiali, ed irritato dall'insultante jattanza de' generali francesi, e dallo sprezzo con cui erano trattati gli affari suoi dai ministri di Versailles, accedette alla nuova lega. In ricompensa della sua adesione, nelle solenni stipulazioni degli 8 novembre gli fu promessa dall'Austria tutta la porzione del Monferrato spettante al duca di Mantova, le città di Alessandria e Valenza, la Lomellina e la Valsesia, e oltre ciò un sussidio mensile di ottantamila ducati di banco. E già fino dal 12 settembre l'imperatore Leopoldo e il di lui figlio Giuseppe, re de' Romani, aveano ceduto all'arciduca Carlo ogni loro diritto sopra la monarchia spagnuola, ond'egli assunse il titolo di re col nome di Carlo III; nel mentre che un forte esercito inglese e imperiale radunavasi verso le frontiere francesi nel Belgio, sotto gli ordini di due sommi capitani, il duca di Marlborough e il principe Eugenio, dai quali fu poi nell'anno seguente vinta la celebre battaglia d'Hochstedt, in cui settantamila Francesi, comandati dal maresciallo di Tallard, ebbero una piena sconfitta.

(1704) Mosso il re di Francia dal doppio intento di deviare il turbine che assembravasi verso le sue frontiere del Reno, e di vendicarsi del duca di Savoia, spedì contro di questi il duca di Vendome, di cui prima istruzione e mossa fu di intercettargli le comunicazioni collo stato di Milano. Il maresciallo conte di Staremberg, coi soccorsi che fu pronto a condurre in Piemonte per l'interdetta e malagevole strada del lago Maggiore, fece più commendevole la sollecitudine che notabile il vantaggio; tanto era il contrasto delle forze nemiche. Queste si estesero e stabilironsi successivamente in una gran parte del Piemonte. Trino, Vercelli, Susa, la Brunetta, le città d'Ivrea e d'Aosta, e il forte di Bard caddero in loro potere. (1705) Verrua e Guerbignano, piazze assai forti, strette di lungo assedio e difese con vigore, dovettero pur cedere. Il duca di Savoia fu obbligato di ritirarsi a Civasso, e lasciar Crescentino in mano ai nemici. Non mancava che di assediar Civasso perché fosse libero ai Gallispani di penetrare fin sotto Torino. La politica che reggeva allora il gabinetto austriaco, era evidente, di lasciare che il nuovo amico e il natural nemico egualmente si consummasser o sicché il primo restasse in fede, o, quando mai se ne dipartisse, non fosse temibile, e l'altro, assalito poi con forze intiere, potesse facilmente esser vinto. Ma quando il duca di Savoia trovavasi ormai ridotto a non poter dir proprio che lo spazio occupato dallo stanco e infiacchito suo esercito, vide la corte di Vienna che un più lungo temporeggiamento poteva mettere in pericolo la somma delle cose, per cui si decise a rispedire in Italia il principe Eugenio con nuove forze, senza che l'imperatore Leopoldo potesse vederne l'esito, avendo cessato di vivere il 5 maggio nell'età di quasi sessantacinque anni, succedendogli nell'impero il figlio Giuseppe I.

Il principe Eugenio, coll'usata sua celerità, per la via di Roveredo si condusse sul territorio di Brescia prima che il nemico si fosse trovato in tempo d'impedirglielo. I due eserciti si scontrarono il 16 agosto a Cassano, dove seguì un'aspra ed ostinata battaglia, della quale sì l'uno che l'altro si attribuirono la vittoria. Ne fu bensì effetto che nessuna impresa importante venne più tentata da essi per il resto dell'anno. (1706) Anzi il principe Eugenio, dopo un fatto sfavorevole sostenuto a Lonato al principio della nuova campagna, stimò prudente di ritirarsi sul Tirolo, finché, raggiunto dagli aspettati rinforzi, ripassò l'Adige il 6 di luglio con un esercito di trentamila uomini. Quasi contemporaneamente il duca Luigi d'Orleans, nipote del re, e il maresciallo di Marsin, successori del duca di Vendome, ch'era passato al comando dell'armi francesi in Fiandra, giunsero al campo che assediava Torino, e di là scesero nel Mantovano, dove il principal nerbo del loro esercito erasi concentrato. Il principe Eugenio trasse abilmente partito dalla esitazione che suole preoccupare i corpi guerreggianti al mutarsi del supremo capitano, e posto il Po di mezzo tra esso e la maggior oste nemica, giunse al Finale di Modena, entrò vittorioso in Reggio, e a grandi marce giungendo in Piemonte verso la fine d'agosto, congiunse il florido esercito alle poche spossate milizie che rimanevano al duca di Savoia, di lui cugino. Parve all'audacia e alla fidanza francese indecoroso di levar l'assedio di Torino senza tentare la sorte di una battaglia, e questa avvenne il 7 novembre. Dopo di essersi fieramente e a lungo combattuto dalle due parti sotto i trinceramenti stessi degli assedianti, i Gallispani furono vinti e rotti colla perdita di quattromila e cinquecento morti e settemila prigionieri, contando tra i feriti il duca d'Orleans e il maresciallo di Marsin, che morì il giorno dopo. Centocinquanta cannoni, un'immensa quantità di attrezzi militari, tutto l'attendamento, molt'argenteria e la cassa vennero in potere de' vincitori. E la costernazione e il terrore erano a tal segno, che i Francesi non d'altro si curarono che di ripassare l'Alpi precipitosamente per le vie più brevi, lasciando esposta l'altra parte del loro esercito che trovavasi nella Lombardia e nel Modenese. Questa sconsigliata condotta rese ad essi estremo ed irreparabile il danno della sofferta sconfitta, e ai nemici loro rapidissimo il progresso della vittoria. Circa due settimane dopo, quasi tutto il Piemonte era stato ricuperato, la Lombardia conquistata, avendo il duca di Savoia e il principe Eugenio fatto il loro ingresso in Milano il 24 dello stesso mese di settembre. Anche Pavia, Pizzighettone, Alessandria, Tortona e Casale di Monferrato, dopo breve resistenza, si arresero. (1707). Il principe Eugenio fu dall'imperatore Giuseppe I nominato governatore dello stato di Milano e suo capitano generale in Italia, e tra i primi suoi atti fu la proclamazione di Sua Maestà il re Carlo III in duca di Milano. Né solo in Italia avea la vittoria disertato dalle armate francesi, mentre fin dal 23 maggio avean essi egualmente perduta la battaglia di Ramillies; e fu allora osservato che se la battaglia d'Hochstedt avea fatto perdere ai Francesi il paese dal Danubio al Reno, la battaglia di Ramillies li avea scacciati dalle Fiandre, e per quella di Torino perdettero l'Italia. E le piazze forti che in essa erano tuttavia custodite dai loro presidii, cioè il castello di Milano, Mantova, Cremona, Sabbionetta, Mirandola e il Finale di Genova, dovettero essere sgombrate e rimesse agl'Imperiali per la convenzione conchiusa in Milano il 13 marzo del 1707 tra il principe Eugenio e i plenipotenziari gallispani, ratificata il dì seguente in Mantova dal principe di Vaudemont, e il 16 in Torino dal duca di Savoia. Questo fine ebbe la prima guerra d'Italia del corrente secolo, dove l'imperizia e l'avversa fortuna concorsero a fare che l'ambiziosissimo Luigi XIV e il di lui nipote Filippo V tutto vi perdessero, costretti a lasciarlo a chi poco prima non vi possedeva un palmo di terreno. Secondo la varia sorte dell'armi diversa fu pur quella de' minori principi italiani, che s'erano fatti ausiliari delle potenze belligeranti; e mentre la famiglia Gonzaga, dopo quattro secoli di sovranità, posta al bando dell'Impero, fu per sempre spogliata di tutti i suoi Stati, il duca di Modena non solo ricuperò per intiero i suoi dominii, ma acquistò in seguito la Mirandola; e gli Stati del duca di Savoia vennero ampliati coll'aggregazione di Valenza e di Alessandria e loro territorii, della Lomellina e della Valsesia, staccate secondo i patti dal ducato di Milano; contro il quale smembramento varie rimostranze furono fatte dal magistrato de' decurioni milanesi all'imperial corte, e inutilmente, come era da attendersi, mentre alle supreme ragioni di Stato e all'interesse generale della monarchia non potevano opporre che titoli di convenienza municipale. L'imperatore volle anzi abbondare in generosità verso un alleato che tanto gli fu utile; ed avendo l'armata navale inglese presa l'isola di Sardegna e posta a di lui disposizione, la cedette al duca di Savoia; e del pari gli compiacque, benché con minore spontaneità, coll'acconsentire all'occupazione da esso pretesa de' feudi del Monferrato e di alcune parti di territori del contado di Vigevano, per cui lo stato di Milano ebbe a soffrire una nuova limitazione. (1711) Null'altro avvenne di memorabile per i Milanesi ne' successivi tre anni, se non che l'inaspettato passaggio per la capitale del re Carlo III, che recavasi ad occupare il trono imperiale col nome di Carlo VI, attesa l'immatura morte dell'imperatore Giuseppe I, avvenuta di vaiuolo, il 17 aprile del 1711, nell'età di soli trentatré anni. Egli entrò in Milano accompagnato dalle dimostrazioni convenzionali di apparato, di festeggiamento e di tripudio, solite a praticarsi in tali occasioni. I principi d'Italia, tra i quali si distinse il sommo pontefice Clemente XI, il complimentarono per mezzo di ambasciatori straordinari, felicitandolo, non solo come imperatore, ma altresì come re delle Spagne, benché fosse in quelle parti sul declinare della sua fortuna. Lasciò Milano il 10 novembre, per recarsi a Francoforte sul Reno, dove, circa un mese dopo, fu colle consuete solenni cerimonie incoronato.

(1712) Le mutate circostanze persuasero le potenze guerreggianti a' pensieri di pace. (1713) Al qual fine, i loro plenipotenziari, nel mezzo dell'inverno, si unirono in congresso ad Utrecht, e, dopo nove mesi di trattative, fu dapprima conciliata una sospensione d'armi, seguìta poscia dalla pace, conchiusa l'11 aprile del 1713. Il 2 di questo mese entrò in Milano l'imperatrice, che dalla città di Barcellona andava a raggiungere il consorte in Vienna, lasciando abbandonata la Catalogna a' suoi nuovi destini. Le tennero dietro varie migliaia di esuli spagnuoli; per provvedere alla cui sussistenza, fu staccato dal Milanese il Finale, venduto alla repubblica di Genova per un milione e duecentomila pezze da lire cinque di Milano, riservato il vano titolo di feudo all'Impero. (1717) Distratto il principe Eugenio nella nuova guerra in cui erasi impegnato l'imperatore in sussidio de' Veneziani contro il Gran Turco, nel corso della quale l'accostumata sua prodezza ed intelligenza si distinse colla vittoria di Petervaradino, indi colle conquiste di Temeswar e di Belgrado, risolvette di rinunziare al governo dello Stato di Milano; laonde fu supplito dal conte Luigi di Vendomo, poscia da una real giunta dei primari magistrati, e in fine dal principe Massimiliano Carlo di Lewenstein, che incominciò il suo governo nel gennaio del 1717. L'avvenimento più rimarchevole ne' fasti di quest'anno per la felicità della casa austriaca, e per il futuro bene de' popoli, fu la nascita dell'imperiale arciduchessa Maria Teresa, accaduta il 13 maggio. Se la filosofia, scrisse l'abate Paolo Frisi, non avesse già dissipate le vanità de' civili pronostici, si sarebbe preso per un augurio felice che la nascita di Maria Teresa fosse stata preceduta di pochi mesi dalla vittoria di Petervaradino. Il vero augurio del regno di essa fu la bontà naturale del suo cuore, la prontezza e la vivacità dell'ingegno, la fermezza del carattere, e l'applicazione agli affari, che mostrò sino dalla sua prima gioventù.

La prima intrapresa del governatore principe di Lewenstein in Milano, fu la costruzione del teatro di corte, ch'era stato consunto dalle fiamme il 5 gennaio 1708, e che, dopo avere sussistito per quasi sessant'anni, soggiacque ad un'uguale sciagura il 24 febbraio del 1776. Né d'altro poté occuparsi, essendo stato sorpreso dalla morte il 26 dicembre dello stesso anno. Questo fu il nono governatore morto durante il suo governo, dopo estinta la linea de' duchi sforzeschi. Gli otto antecessori furono il cardinale Caracciolo, il duca di Albuquerque, il marchese d'Ayamonte, il conte di Fuentes, don Ambrogio Spinola, il cardinale Trivulzi, don Luigi Ponze de Leon, e il marchese d'Olias e Mortara. Lewenstein fu tumulato in San Gottardo; gli antecessori lo furono in Duomo, a Santo Stefano, alla Scala, alla Pace, a San Celso, ai Cappuccini di Porta Vercellina. (1719) Gli fu dato in suo successore il conte Gerolamo di Colloredo, che giunse al suo posto sul finire della primavera del 1719. Egli cinse di sbarre la fossa interna della città, a difesa de' passeggeri, e, dopo sei anni di buon governo, partì in cattivo stato di salute per recarsi a morire a Vienna, succedendogli il maresciallo conte Daun.

La nascita d'una terza figlia avendo quasi tratto di speranza l'imperatore Carlo VI di aver prole maschile, s'indusse egli a stabilire con solenne atto, conosciuto sotto il nome di Prammatica Sanzione, una legge di successione, per la quale in mancanza di maschi, sono chiamate le figlie con ordine di primogenitura; legge garantita non solo dalla dieta dell'Impero, ma pur dall'Olanda, dalla Francia, dalla Spagna e dall'Inghiterra, e più efficacemente lo è stata in seguito dalla forza dell'armi. (1725) Una segreta convenzione stipulata il 30 aprile 1725 tra Carlo VI e Filippo V confermò al primo tra gli altri vantaggi in Italia il possedimento dello stato di Milano; il che diede causa ai Lombardi di sinceri tripudii, fondandosi, più che nelle sempre incerte speranze dell'avvenire, nella lunsinga della stabilità della condizione presente. (1729) Questi fausti presagi furono sconvolti da un turbine improvviso, avendo la prossima estinzione delle famiglie regnanti de' Farnesi negli Stati di Parma e Piacenza, e de' Medici in Toscana ravvivate le pretese dell'imperatore Carlo VI, contro le quali la Francia, la Spagna e l'Inghilterra convennero in secreto trattato, conchiuso in Siviglia il 9 novembre del 1729. Perciò da ogni parte si pose cura agli apprestamenti guerreschi, e l'imperatore si mostrò nell'attitudine più imponente. Per di lui ordine il governatore conte Daun fece ristaurare le piazze forti del Mantovano e del Milanese, radunò magazzini copiosissimi, e si accinse con ogni diligenza ad ammassar denaro. L'esercito imperiale in Italia, accresciuto con rinforzi venuti di Germania, fu presto numerosissimo, e si disse ascendere a sessantamila fanti e ventimila cavalli. (1730) Il conte di Mercy, generalissimo, lo distribuì in un accampamento continuo lungo il Po, da Ostiglia sino a Pavia, avendo fatto centro in Cremona per il deposito delle vittovaglie e d'ogni corredo militare. Così, quantunque le ostilità non abbiano incominciato che assai tempo dopo e per effetto di altri ravvolgimenti politici, la Lombardia soggiacque a tutti i danni della più aspra guerra guerreggiata. La diaria, convenuta pagarsi dallo Stato per la difesa del paese, fu aumentata dalle tredici alle sedicimila lire al giorno, per cui ascese ad annui cinque milioni e ottocentoquarantamila lire milanesi. Nella ripartizione di un sussidio straordinario di quattordici milioni di fiorini imposto alla monarchia, due milioni dovette contribuire l'Italia austriaca. I frequenti passaggi delle truppe, le requisizioni de' generi e in ispecie dell'avena accrebbero i dispendii e le vessazioni. Tutte le casse pubbliche erano esauste, e la regia camera sospese i pagamenti ai creditori che per l'indisputata liquidità de' loro titoli erano detti di giustizia. A questi mali s'aggiunse che fino dal 1726 i creditori, o come chiamavansi i Reddituari de' monti di San Carlo, per conseguire almeno una parte de' loro redditi, aveano dovuto accondiscendere alla riduzione de' capitali al sessanta per cento, e degl'interessi dal cinque al tre, e che da più anni l'intiera provincia soggiaceva al sopracarico delle spese per il nuovo censimento, le quali dal 1718 al 1733 salirono alla somma di sei milioni. Altri minori aggravii s'introdussero in allora; essendo stata privata la camera de' mercanti di Milano dell'antichissimo possesso di avere un proprio corriere per la corrispondenza nella Germania, e stabilita la nuova gabella di francare le lettere, laddove prima si pagava soltanto al riceverle, non a spedirle.

(1733) In questo stato di guerra senza guerra aperta si durò per tre anni, fino al 1733, quando l'influenza esercitata dalla corte imperiale per l'elezione del re di Polonia Federico Augusto III, in onta de' maneggi del gabinetto di Francia, fu il grano di polvere che mancava a far accendere la mina, da tanto tempo accumulata, e mentre altresì l'esercito austriaco in Italia, pocanzi sì formidabile, erasi, per varie cause, di molto diminuito. Questa volta la politica della corte austriaca fu vinta dall'astuzia e dalla simulazione degli avversari. Il re di Francia Luigi XV, il re Filippo V di Spagna e il nuovo re di Sardegna Carlo Emmanuele si collegarono, il 16 settembre, con segreto trattato di alleanza contro la maestà cesarea; e fu questo talmente segreto, che gli armamenti intrapresi dal re sardo si riputarono in Vienna fatti in difesa propria e dello Stato di Milano contro i Francesi, al segno che, avendo lo stesso re chiesto di estrarre dal Milanese circa trecentomila moggia di grano, dai ministri imperiali fu tosto ordinato che vi si acconsentisse. E in quest'erronea opinione stettero così ostinati, che quando il conte Daun, chiarito dall'inviato cesareo in Torino della contratta lega, della quale il re di Sardegna era stato eletto generalissimo, ne diede avviso alla corte, non fu creduto. Spedì corrieri, spedì suo figlio, tutto fu riguardato e deriso come un sogno e un terror panico del governatore; e la procella sopragiunse tanto precipitosa, che appena egli ebbe tempo di porsi in salvo, rifugiandosi a Mantova il 22 ottobre. A tale inaspettato sconvolgimento tutti i ministri e il paese furono in costernazione. I sessanta decurioni di Milano si radunavano ogni giorno: si destinò la milizia urbana alla custodia delle porte della città, si fece una processione a Sant'Ambrogio, e si concertò come avevasi a far buon viso ai nuovi padroni. Il 2 novembre i delegati di Milano rendettero omaggio al re di Sardegna presso Abbiategrasso, accolti con distinzione, avendo voluto che si coprissero; e furono tenuti due ore con lui, mentre sfilavano otto battaglioni francesi e quattro savoiardi destinati ad occupare la città. Dopo la presa di Pizzighettone, l'11 di dicembre, il re fece la solenne entrata in Milano, e due giorni dopo vi giunse il maresciallo Villars, che avea ottantatré anni. V'erano nella città oltre duemila ufficiali con alloggio presso i privati, dal qual peso i patrizi tennero se stessi esenti. (1734) Il castello, bloccato dapprima, dopo quattordici giorni di aperto assedio si arrese il 2 gennaio, trovandosi il presidio, per le perdite fatte e la molta diserzione, ridotto a novecento uomini. La città ebbe a soffrire qualche danno e ben maggior paura dalle artiglierie degli assediati; ed oggetto di grave doglianza fu per essa successivamente la tassa imposta a' facoltosi in determinate somme, da pagarsi fra otto giorni, in via di prestito al sei per cento, onde soddisfare al debito arretrato per la diaria. Fra quelli, i più tassati furono il presidente Clerici per lire centocinquantamila, il conte di Brono per altretante, il conte Brentano e Pietro Andreoli in lire centomila per ciascuno. Ma pochi pagarono, e la successione degli avvenimenti fece lasciare questo espediente in dimenticanza.

I Gallo-Sardi, quanto furono celeri nell'invasione, altretanto si mostrarono lenti nell'approfittare degl'improvvisi riportati vantaggi, e della sorpresa e debolezza degl'Imperiali, che in tutto non avevano in Italia quattordicimila uomini. Si lasciò loro il tempo di riprender lena, di raccogliere le sparse, benché tenui forze de' diversi presidii, e di far di Mantova il centro d'unione de' soccorsi spediti in fretta dalla Germania. Anche il re di Sardegna fu sollecito ad accrescer forze all'esercito collegato colle copiose leve eseguite, non meno ne' suoi stati della Savoia e del Piemonte, che nel ducato di Milano, dove, non ostante l'avversione del volgo ai Piemontesi e ai Francesi per antiche gare ed animosità, il reclutamento fu numeroso. Avvenne sul finire dell'anno la battaglia campale di Guastalla, egualmente gloriosa per le due parti, ma senza esito decisivo. Però il partito imperiale in Italia soggiacque ad un colpo funesto per la spedizione marittima partita di Spagna alla conquista de' regni di Napoli e di Sicilia a favore dell'infante don Carlo. Entrò questi in fatti vittorioso in Napoli, il giorno 15 maggio, donde era fuggito il viceré conte don Giulio Visconti, e cinque giorni dopo venne proclamato re delle due Sicilie fra gli urli d'applauso e di tripudio di quella plebe sfrenata e salvaggia, abituata da tanti secoli a festeggiare i presenti e a maledire chi si ritira, quando l'occasione non le sia propizia per fargli un male maggiore. (1735) All'uscire da' quartieri d'inverno l'armata cesarea si trovò accresciuta di alquante migliaia di soldati, che retrocedevano da Napoli col capitano generale duca di Montemar, e all'opposto giunse di Francia in Milano, verso la fine di marzo, il maresciallo di Noailles, e ai primi di maggio in Cremona il re di Sardegna. Incalzati gl'Imperiali dai Gallo-Sardi, furono dal loro maresciallo Koningsegg, con lodatissima provvidenza, concentrati verso il Tirolo, avendo prima posto in salvo i bagagli, i malati, i cannoni, e ogni altro attiraglio e impedimento militare. Gli succedette nel comando il generale conte di Kevenhüller, al tempo del quale null'altro accadde fuorché la conquista della Mirandola, riuscita al duca di Montemar, intanto che gli alleati consumavano il tempo e le forze nel blocco di Mantova. Questa lentezza, non accostumata al carattere delle due nazioni, non era senza mistero; e questo fu in parte svelato, allorché, il 16 dicembre, il duca di Noailles spedì al conte di Kevenhüller il gradevole avviso di una sospensione d'armi, la quale fu tosto seguìta dalla pace. Questo esito era stato preparato dai segreti maneggi del cardinale di Fleury, primo ministro del re cristianissimo, cui si trovò pronto ad aderire il gabinetto austriaco, che dalla sbilanciata sua fortuna era ridotto a più moderati consigli. La somma delle cose convenute sul terminare del 1735 nei celebri preliminari di Vienna, e tosto dopo ratificata nel congresso di Parigi, fu la seguente. I ducati di Lorena e Bar vennero ceduti e aggregati alla Francia, e il regno delle due Sicilie confermato al re Carlo di Borbone. Al duca di Lorena Francesco Stefano fu assegnato in cambio il gran ducato di Toscana, e stante lo svantaggio del cambio, gli fu data da Cesare la lusinga di un partito di più alta importanza, che ebbe poi effetto. Il re di Sardegna, oltre il Monferrato, l'Alessandrino, la Lomellina e la Valsesia, acquistati nel 1707, ottenne le città e i territori di Novara e Tortona, con nuova diminuzione dello stato di Milano. A queste condizioni ebbe l'imperatore la conferma o la restituzione del Mantovano e della restante parte del Milanese, la cessione di Parma e Piacenza, e la garanzia della prammatica sanzione. (1736) Le corti di Madrid, di Napoli e di Torino trovarono nella reale convenienza di questi patti un congruo risarcimento all'offeso amor proprio per non essere state consultate, e vi aderirono. Successivamente le città di Parma e Piacenza furono lasciate libere dalle armi dell'infante don Carlo, cedute agl'Imperiali dai Gallo-Sardi Cremona e Pizzighettone, e il 7 di settembre la città di Milano, avendo alcuni giorni prima il re di Sardegna licenziata e ringraziata la giunta di governo istituita durante la conquista, col proclama che si riporta nella nota. Fu certamente onorevole per questa Giunta l'essere stata confermata dal conte di Kevenhüller, supremo comandante cesareo in Italia fino all'arrivo, che seguì il 17 dicembre, del nuovo governatore capitano generale conte Otto Ferdinando Traun, al di cui governo vennero uniti il ducato di Mantova e quello di Parma e Piacenza, sotto la denominazione di Lombardia austriaca. Altri due avvenimenti memorabili di quest'anno furono la morte del maggior capitano di quel tempo, il principe Eugenio di Savoia, avvenuta in Vienna il 21 aprile, essendo egli in età di anni settantadue, e le nozze faustissime seguìte il 12 del precedente febbraio tra l'arciduchessa Maria Teresa, primogenita dell'imperatore Carlo VI, già entrata nell'anno diciottesimo, e il principe di Lorena Francesco Stefano, che ne avea ventisette; con che le illustri case di Lorena e d'Austria si unirono in un solo tronco.

Ne' decorsi trentasei anni vide la città di Milano un solo nuovo arcivescovo, monsignor Benedetto Erba Odescalchi, già nunzio apostolico in Polonia e poco dopo promosso al cardinalato. Egli fu eletto il 18 aprile del 1712 in luogo del defunto cardinale Giuseppe Archinto, e resse la chiesa milanese per anni ventiquattro, finché, nel 1736, reso inabile per un insulto apopletico, rinunziò al pontificato. Nell'anno seguente alla sua installazione diede questo prelato il conservatorio di Santa Sofia all'istituto della Visitazione, ed aperse il collegio degli Obblati missionari annesso all'insigne chiesa di Rhò. Sotto di lui fu aperto da' Barnabiti in Milano, nel 1723, il collegio de' Nobili, col nome di collegio imperiale; nel 1724 si stabilirono le Orsoline presso Santa Maria alla Porta; nell'anno seguente si è fabbricata la chiesa di Campo-Santo; e in fine nel 1735 si viddero erette le chiese di San Bartolomeo e di San Pietro Celestino, e ridotta a compimento quella di San Francesco di Paola, tutte col disegno dell'architetto Marco Bianchi, romano, il quale colle linee curve e coi cartocci, benché non disgiunti da una certa maestà, rese un abbondante tributo al cattivo gusto che andava allora dilatandosi nella pratica dell'architettura.

Capitolo XXXIII

Morte dell'imperatore Carlo VI, al quale succede negli Stati ereditari la primogenita Maria Teresa. Altra guerra in Italia, ch'ebbe fine colla pace in Acquisgrana. Condizione e governo della Lombardia. Giuseppe II imperatore; sue riforme. Breve regno e morte di Leopoldo II.

(1737) Restituito lo stato di Milano in seno alla pace, fu necessariamente, per varii anni, privo di avvenimenti degni di essere ricordati, per cui appena si ha a far parola dell'ingresso in Milano del nuovo cardinale arcivescovo, Carlo Gaetano Stampa, accaduto il 10 maggio del 1737. Il 6 luglio dello stesso anno morì Giovan-Gastone, ultimo gran duca di Toscana della casa Medici, succedendogli, per le precedute convenzioni, il duca di Lorena, sposo dell'arciduchessa Maria Teresa. È non meno meritevole di ricordanza la morte, accaduta in Milano, del gesuita Tommaso Ceva, nella grave età d'ottantotto anni. I piacevoli suoi costumi, i suoi versi latini, qualche produzione matematica, e il suo buon gusto nelle belle lettere, del quale ci fan prova i precetti conservatici dal Muratori nella di lui Vita, lo resero uomo distinto. (1739) Due anni dopo, l'arciduchessa Maria Teresa d'Austria e il gran duca Francesco di Lorena, di ritorno dai loro Stati di Toscana, onorarono, nel mese di maggio, la città di Milano colla loro presenza, e furono accolti cogli accostumati festeggiamenti. (1740) L'anno 1740 fu di funesto presagio per l'Italia, mentre all'esito infelice della guerra turchesca, colla perdita di Belgrado, si aggiunse, il 20 ottobre, la morte dell'imperatore Carlo VI, essendo d'anni cinquantacinque, dopo una malattia di soli tre giorni. Con esso ebbe fine la linea maschile dell'augusta casa d'Austria, la quale, nel corso di quattrocentosessantasette anni, diede al romano Impero sedici cesari e sei re alla Spagna. Appena divulgata la funesta nuova, l'arciduchessa Maria Teresa, come primogenita, secondo la prammatica sanzione, fu proclamata e riconosciuta regina d'Ungheria e di Boemia, e principessa sovrana di tutti i regni e Stati già appartenenti all'augusto genitore. Due suoi dispacci, spediti due giorni dopo la di lei assunzione al trono, giunsero in Milano; col primo de' quali ordinava la celebrazione de' funerali e le dimostrazioni del lutto per l'estinto monarca; e col secondo confermò il conte Traun in governatore dello Stato. Con altro dispaccio del 7 dicembre annunziò a questa città la generosa risoluzione di aver promosso il real consorte a coreggente in tutti gli acquistati dominii, senza lesione della sovranità o pregiudizio della prammatica sanzione. (1741) Di là a pochi mesi ebbero i sudditi lombardi motivo di nuova allegrezza per la notizia della successione assicurata alla casa austriaca, colla nascita di un arciduca primogenito, avvenuta il 13 marzo, che fu poi l'imperatore Giuseppe. Il conte Verri, mosso da ciò che quest'augusto prometteva nell'aurora del di lui regno, registrò nelle sue Memorie la nascita di esso, appellandolo il Giusto e l'Amico degli uomini. Ma dietro quest'aura di prosperità, e sotto quest'apparenza di ciel sereno, sorgeva minacciosa la più funesta procella, suscitata dalla concorde ambizione di tanti altri sovrani, per dividersi il ricco patrimonio di tanti regni. Stromento immediato riputavasi il re di Sardegna; e il caso volle che, per lasciarlo maggiormente libero di seguire gl'impulsi della sua politica, morisse a quel tempo la regina Elisabetta Teresa. Non fu tarda la corte di Vienna a proporgli un nuovo parentado colle nozze dell'arciduchessa Marianna, secondogenita del defunto Carlo VI; ma una tale proposizione non ebbe effetto: benché per questa volta la fede serbata all'Austria si trovò di accordo cogl'interessi della sua corona. Vide allora l'augusta Maria Teresa essere inevitabile il turbine di una guerra accanita, e imminente lo scoppio; sì che, come al più pronto rifugio, prese la memorabile risoluzione di ricorrere alla magnanimità della nazione ungherese; e, coll'occasione che il 25 di giugno fu essa coronata in Presburgo, si presentò agli Ordini della nazione, nuovamente radunati, tenendo fra le braccia il reale infante, della sola età di due mesi, e con tale dignità ed energia perorò per la sua causa, che da quell'assemblea, commossa fino alle lagrime, ottenne un unanime sfoderar di sciabole, accompagnato dal noto giuramento: Moriamur pro rege nostro Maria Theresia.

(1742) La prima esplosione della procella seguì nella Germania, cumulandosi allo sforzo dell'armi gli effetti delle macchinazioni politiche. Nello stesso tempo che l'invasa Boemia apriva ai nemici le porte della sua capitale, gli elettori, radunati a Francoforte, proclamavano all'Impero il duca di Baviera, col nome di Carlo VII. Intanto la Lombardia era minacciata dagli Spagnoli, partiti dal Napoletano e radunatisi in Romagna, ai quali fece fronte il governatore di Milano, maresciallo conte Traun, possentemente sussidiato dal re di Sardegna, avendo instituita, per rappresentarlo nell'amministrazione dello Stato, una real giunta di governo. La milizia civica fu posta a presidiare il castello; nella quale onorevole incumbenza durò per dieci mesi. Quasi contemporaneamente un altro esercito spagnuolo invase la Savoia; il che costrinse il re sardo ad accorrere alla difesa de' propri Stati. (1743) Il 23 dicembre di quest'anno morì, più che sessagenario, l'arcivescovo cardinale Stampa, cui dal sommo pontefice Benedetto XIV, il 15 del successivo giugno, fu sostituito l'arciprete della chiesa metropolitana, Giuseppe Pozzobonelli, promosso tre mesi dopo al cardinalato: onorificenza ormai consueta ai titolari di questa sede arcivescovile. Circa la metà dell'anno, videro pure i Milanesi cambiato il loro governatore, il quale passò al comando degli eserciti in Germania, lasciando in queste parti grata memoria dei suo discreto ed onorato procedere, della sua moderazione ed affabilità, del suo disinteresse, e di molta carità verso i poveri; ed ebbe in successore il principe Giorgio Cristiano di Lobkowitz, che tosto si recò al campo contra gli Spagnuoli, confermando la giunta di governo già stabilita. Né a ciò limitandosi la previdenza di Maria Teresa, si fece forte nel trattato di Worms, firmato il 12 settembre, co' sussidii navali e pecuniarii dell'Inghilterra, estesi anche al re di Sardegna, suo alleato; e, per viepiù tenersi questo in fede, acconsentì di eseguire a suo favore un terzo smembramento dello stato di Milano, concedendogli Bobbio, Voghera e Vigevano coi loro territorii, per modo che l'intiero corso del Ticino, del lago Maggiore al suo confluente nel Po, fosse la linea di confine tra i due Stati; e di questa concessione venne il re di Sardegna posto in possesso nel principio del seguente anno. (1744) I consigli dell'attenta sovrana erano pure secondati dalla fortuna, venendo la guerra in Italia condotta con tale indolenza dai Gallo-Ispani, che consumarono l'intiera estate nell'inutile investimento di Cuneo; onde ha quella potuto mantener grossi e concentrati i suoi eserciti per un maggiore sforzo nella Germania. (1745) Sopragiunse ancora più fausta per essa la morte avvenuta in Monaco, il 20 febbraio del 1745, di Carlo VII, il quale, sebbene non sia mai stato che una larva d'imperatore, era tuttavia di continuo e grave inciampo a' suoi disegni. Fu quindi facile alla di lei destrezza di far eleggere al trono imperiale il proprio consorte duca di Lorena, il quale infatti fu incoronato a Francoforte il 4 ottobre, e prese il nome di Francesco I.

Queste felici combinazioni politiche, certamente influenti al buon esito definitivo della gran lotta, non valsero a dissipare la fiera procella che da tanto tempo ci sovrastava. Le corti di Francia e di Madrid, costanti nel proponimento di fondare una seconda sovranità borbonica in Italia in vantaggio dell'infante don Filippo, strinsero ad Aranjuez un trattato colla repubblica di Genova, obbligandosi a pagarle un sussidio mensile di centomila scudi, e si decisero ad assalire con una massa preponderante di forze l'esercito austro-sardo, al di cui comando era venuto di recente il conte di Schulembourg in vece del principe di Lobkowitz, il quale era stato pure separatamente supplito nel governo della Lombardia dal tenente maresciallo conte Gian Luca Pallavicino, con titolo di ministro plenipotenziario e autorità di governatore. Attesa l'alleanza coi Genovesi, nuovi rinforzi francesi e spagnuoli ebbero facile e sicuro il passo per la via d'Oneglia, ed unitisi col nerbo militare già esistente, e coi contingenti di Napoli, di Modena e di Genova, fecero centro in Acqui. Fra tutti ascendevano a settantamila combattenti, comandati da Francesco III duca di Modena, dal general conte di Gages e dal maresciallo di Maillebois. Di là il duca di Modena, scacciati gli Austro-Sardi da Savona, da Novi e da Tortona, si diresse alla conquista di Piacenza e Parma; nel mentre che il conte di Gages, con tremila granatieri e qualche cavalleria, gettato un ponte sul Po alla Stella verso Belgioioso, nella notte del 22 settembre sorprese Pavia, essendosi quel presidio ritirato in fretta nel castello. A tale nuova il conte di Schulembourg, comandante gli Austro-Sardi accampati in Bassignana, mandò tosto a presidiare il castello di Milano, e con tutta la sua artiglieria per la Pieve del Cairo si appressò a Vigevano, ed incalzato da' nemici, ritirossi quindi verso Casal-Monferrato. Queste mosse difensive lasciarono luogo all'infante don Filippo d'investire Alessandria e Valenza, di acquistar Asti ed altri castelli in que' contorni; e di estendersi a suo piacere nella Lombardia, abbandonata anche dal plenipotenziario conte Pallavicino, ch'erasi rifugiato in Mantova.

Mentre i supremi comandanti della lega nemica, radunati in Pavia, divisavano di progredire nelle operazioni militari coll'occupar Modena e Reggio, riservando il facile conquisto di Milano come una conseguenza dell'assicurata vittoria, giunse loro un ordine pressante dalla corte di Madrid di eseguirlo di preferenza e senza ritardo. Ciò procedeva dall'impazienza della regina Elisabetta di accelerare lo stabilimento dell'infante suo figlio, e procurargli un dovizioso appanaggio; e con questa improvvida risoluzione si lasciò il campo alla fortuna austriaca di risorgere in Italia. Occupate pertanto le rive del Ticino, il conte di Gages fece avanzare l'esercito verso Milano, dove il 16 dicembre entrò il generale di Camposanto con molti fanti e cavalli e parte degli equipaggi del principe, e in egual tempo due altri corpi furono spediti a prender possesso di Lodi e di Como. Mancando ancora la grossa artiglieria per intraprendere l'assedio del castello, munironsi di palafitte le strade interne che a quello conducevano, e le due vicine porte della città furono murate. Il vicario di Provvisione co' delegati civici si trasferì, il 18 dicembre, a Magenta, per adempire alla solita cerimonia della presentazione delle chiavi all'infante don Filippo, il quale nel giorno seguente entrò con gran pompa nella città. È inutile il dire che la popolazione si mostrò giuliva e plaudente, che la nobiltà e le magistrature si presentarono al novello principe col sorriso sul labbro e con sommo rispetto, e ch'egli accolse i loro omaggi con graziosa clemenza. Questi uffici e siffatte dimostrazioni sono di tutti i tempi; fu però speciale di quella circostanza la grida pubblicata il 24 dicembre dalla Giunta interinale allora instituita, con cui fu aumentato il valore di tutte le monete correnti, e valga per saggio il filippo stabilito al prezzo di lire otto: col qual ordine il nuovo governo fece prova di essere o ignorante o truffatore.

(1746) Ma benché gli Spagnuoli fossero in possesso della capitale e si estendessero per un gran tratto di paese, gli Austriaci tenevano, oltre il castello di Milano, Pizzighettone, Cremona e Mantova; il re di Sardegna occupava la cittadella di Alessandria, e il principe di Lichtenstein erasi ritirato col suo corpo verso Trino e Crescentino, donde poteva agire di concerto coll'esercito austro-sardo non molto di là discosto. Inoltre l'imperatrice regina, pacificatasi opportunamente sulla fine di dicembre col re di Prussia, si trovò libera di spedire copiosi sussidii di gente in Italia; i quali, a malgrado de' rigori dell'inverno, giunsero in febbraio sul Mantovano e senza far posa, oltrepassato il Ticino, recaronsi al campo del principe di Lichtenstein. Con tali aiuti il principe, unitamente ai Piemontesi, ha potuto sorprender Asti, liberare Alessandria, riprender Acqui e stringere i nemici tra Gavi e Novi, senza però essere riuscito a toglier loro le comunicazioni col Genovesato e coi Napoletani. Da un altro lato il tenente maresciallo conte Pallavicino, che comandava nel Mantovano, avanzossi alla destra del Po verso Guastalla, rinforzò la parte dell'esercito ch'era nel Cremonese, e ricuperò Modena. Nel corso di queste operazioni, che andavano rendendo sempre peggiori le sorti della federazione nemica, l'infante don Filippo passava il tempo in Milano, ristorandosi dai disagi de' campi ne' tripudii delle feste e de' teatri, finché, avendo gli Austriaci riacquistato Codogno e Lodi, e spinte le loro scorrerie fino alle porte di quella metropoli, il generale conte Gages fu costretto, nella notte precedente al 19 marzo, di annunziare al real principe la necessità di una pronta partenza; la quale fu eseguita nell'alba seguente con tale precipitazione e scompiglio, che, se fosse avvenuta dopo la perdita di una battaglia campale, non poteva essere più disastrosa. Così, dopo soli tre mesi di effimera occupazione spagnuola, tornò la Lombardia sotto il dominio austriaco, e tosto riassunse le cure del governo la real Giunta, che il conte Pallavicino aveva eretta nella città all'atto di abbandonarla. I primi ordini da quella emanati, che ora, per i posteriori esempi, sarebbero riguardati per abituali ed indifferenti, riuscirono allora di sorpresa nel pubblico. Prescrivevasi in uno di essi che, nel termine di tre giorni, dovessero notificarsi tutti gli effetti, danari o mobili spettanti agli Spagnuoli, e che presso alcuno degli abitanti esistessero; e, con altro, erano dichiarati invalidi e nulli tutti gli atti seguiti nel tempo dell'invasione nemica. E a questa nullità fu data una sì precisa esecuzione, che, avendo l'infante don Filippo, ad istanza della contessa donna Clelia Grillo Borromeo, dama allora celebre per coltura e vivacità di spirito, fatta grazia della vita a un chierico Didino, condannato alle forche per causa d'omicidio con ruberia, volle il senato che si eseguisse la sentenza. Si è proceduto altresì con molto rigore contro le persone che prestarono favore ai nemici; e diverse ne furono punite con varie pene, tra le quali si conserva ancor viva la ricordanza del conte Giulio Antonio Biancani, uno de' questori del magistrato ordinario di Milano, che da una commissione speciale, autorizzata dall'augusta sovrana, fu condannato al taglio della testa ed alla confisca de' beni, come disertore e fellone.

Dopo lo sgombramento di Milano, abbandonarono di seguito i Gallispani il restante della Lombardia, ritirandosi a Piacenza. Verso la stessa città furono incalzati gli altri loro corpi che occupavano Guastalla, Reggio e Parma. Un fatto d'armi, avvenuto il 15 giugno, al collegio di San Lazaro presso Piacenza, e un altro, il 9 agosto, a Rottofredo, entrambi vantaggiosi agli Austriaci, decisero la piena ritirata de' collegati, resa ancor più sollecita per la notizia ricevuta a Voghera della morte del re Filippo V. Onde, per la stessa via della Riviera di Ponente, che sette mesi addietro aveano percorso, avanzandosi gonfi di tante speranze, non più si ristettero finché giunsero nella Provenza. La repubblica di Genova, che aveva aperto e favorito il passaggio ai nemici, non doveva andare impunita. Investita per mare e per terra, si arrese, e fu occupata dagli Austriaci. Ma questi presto la perdettero, essendone scacciati dalla popolazione, irritata per l'eccesso delle contribuzioni e delle vessazioni, ed eccitata clandestinamente dall'influenza francese; né dee tacersi che, a stancare per tal modo la pazienza de' Genovesi, fu principale stromento un nobile italiano, il marchese Botta Adorno di Pavia, che comandava gl'Imperiali. (1747) Egli fu allora privato d'ogni comando; ed essendo poi stato trasferito al governo delle Fiandre, venne colà egualmente in esecrazione, così che, non ostante la protezione della corte, dovette esserne rimosso. Questo ministro era attaccatissimo agl'interessi dell'augusta padrona, ma avea la sfortuna di rendersi ovunque sommamente odioso, e parea nato a posta per far sorgere de' tumulti. Per l'esito della guerra in Italia, era il gabinetto austriaco pressato da due opposte cure: avrebbe voluto trarre pronta vendetta dello smacco di Genova, che offendeva l'onor delle sue armi, non meno per le cause che negli effetti; e l'incalzava la brama di portare il flagello della guerra nel paese del nemico. Fece dar opera all'uno e all'altro divisamento, e nessuno gli riuscì. Furono senza buon esito i campeggiamenti nella Provenza, per la novità dei luoghi, per la difficoltà de' viveri, per le scarse forze; e mancò del pari l'impresa di Genova, per essere stata condotta senz'unità di piano, fra la rivalità delle corti e la gelosia de' comandanti. Né i Francesi e gli Spagnuoli si distinsero con alcun fatto memorabile, se si eccettua il funesto capriccio del maresciallo di Bellisle di aver voluto far superare a forza i trinceramenti del Colle dell'Assietta, tra Exilles e Fenestrelle, difesi valorosamente dagli Austro-Sardi sotto gli ordini de' conti di Colloredo e di Bricherasco, senz'altro esito che di avere sagrificato infruttuosamente cinquemila francesi, e insieme con essi il proprio fratello. Questa vittoria fu, a buon dritto, festeggiata con varii Te Deum sì in Piemonte che in Lombardia.

Se la perdita di Genova fu cagione della disgrazia del generale Botta Adorno, il non averla ricuperata portò il richiamo del comandante supremo, conte di Schulembourg, cui venne sostituito il conte di Traun, e del ministro plenipotenziario, conte Gian Luca Pallavicino, caduto forse in sospetto per essere di nascita Genovese, entrambi partiti per Vienna a render conto del loro operato. Per il governo della Lombardia fu creata una real Giunta, composta del gran-cancelliere, conte Beltrame Cristiani, stato assunto a questa carica fino dal 1744, dai presidenti del senato e dei magistrati ordinario e straordinario, ed altri otto soggetti. Lasciò il Pallavicino fama d'uomo disinteressato e magnifico, ed eguale la mantenne allorché, di là a tre anni, restituito in grazia, tornò alla primiera carica in Milano. Nel triennio intermedio a questi due suoi governi, la carica congiunta di governatore e di capitano generale della Lombardia austriaca fu coperta dal conte Ferdinando Bonaventura di Harrach, venuto il 19 settembre. Egli fu un buonissimo signore, senza fasto, umano, amico dell'ordine e della tranquillità, nemico delle novazioni. La contessa di lui consorte, giovane, vivace, e anche bella e galante, diffuse l'allegria nel paese, e introdusse la moda di cavalcar le dame anche in città, e di girare pe' palchi le maschere al carnevale.

Non solo l'Italia, ma l'Europa intiera era stanca ed estenuata dalla guerra, laonde l'ambizione dovette ricevere la legge dalla necessità. (1748) Tutti i sovrani erano, nel loro cuore, concordi nel voler la pace, e per conseguirla meno svantaggiosa, fecero un ultimo sforzo, ponendosi ciascuno nell'attitudine più guerresca. Fu essa sottoscritta in Acquisgrana dai ministri plenipotenziari delle varie potenze, e il 23 ottobre il fu dal conte di Kaunitz per l'imperatrice regina, la quale, per quel trattato, conservò tutti gli Stati ereditari, ad eccezione della Slesia e della contea di Glatz, cedute alla Prussia; ricuperò i Paesi Bassi, ma rinunziò alle conquiste che avea fatte in Italia; cedette i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, da erigersi in sovranità a favore dell'infante don Filippo, e confermò le cessioni fatte al re di Sardegna. (1749) L'esecuzione di questo trattato, quanto all'Italia, rese necessario un parziale congresso, apertosi nel mese di dicembre in Nizza di Provenza, che tutto sistemò con buon ordine, per cui, nella seguente primavera, eseguite le rispettive cessioni e ripristinazioni, ha potuto anche la nostra Lombardia gustare i beneficii della pace, dietro la quale avea per otto anni inutilmente sospirato. (1752) E per viepiù consolidarla, strinse l'augusta Maria Teresa un trattato di alleanza e di commercio coi re di Spagna e di Sardegna, sottoscritto ad Aranjuez il 27 aprile del 1752, al quale accedettero in seguito (come era stato loro riservato) il re delle Due Sicilie, il gran duca di Toscana e il duca di Parma. In quello, oltre la reciproca garanzia e difesa di quanto ciascuno possedeva, fu stipulato che, in caso di ostile aggressione, dovessero, due mesi dopo esserne richiesti, accorrere in soccorso della potenza minacciata con un determinato numero di truppe, che non poteva esser minore, per ognuna delle tre principali potenze, di ottomila fanti e quattromila cavalli; quanto al re delle Due Sicilie, di quattromila uomini di fanteria e milleduecento di cavalleria; e di mille uomini a piedi e cinquecento a cavallo per parte dell'infante don Filippo; con facoltà inoltre di dare, invece di soldati, ottomila fiorini d'Impero al mese per ogni mille uomini a piedi, e ventiquattromila per altrettanti a cavallo, da essere rimessi mese per mese ne' banchi di Genova fino al termine della guerra. E per riguardo al commercio, si convenne che i rispettivi sudditi godrebbero presso le altre potenze contraenti de' maggiori privilegi accordati alle nazioni amiche. In particolare poi si conchiusero dall'imperatrice colle corti di Napoli e di Parma alcuni vicendevoli matrimonii, da pubblicarsi ed eseguirsi a suo tempo, e si fissò che tanto il regno delle Due Sicilie, quanto il gran ducato di Toscana, formassero in avvenire due secondogeniture della casa d'Austria e di quella di Borbone del ramo spagnolo, reversibili alle rispettive discendenze, onde avessero sempre il proprio sovrano naturale. (1753) Anche la situazione familiare della casa ducale d'Este, ridotta ad un'unica figlia e fuori di speranza di aver altra successione, non fu trascurata dalla perspicacia del ministero austriaco; e, più destro o più fortunato del gabinetto di Parma, che mirava allo stesso intento, riuscì a stipulare una convenzione, per la quale le corti di Vienna e di Modena strettamente si collegarono, a condizione che la principessa Beatrice, figlia del principe ereditario Ercole Rinaldo, ed erede presuntiva di tutti i dominii estensi, nata il 7 aprile 1750, sposerebbe l'arciduca terzogenito, e a questi sarebbe stata conferita la carica di governatore e capitano generale della Lombardia austriaca, da essere supplita durante la sua minore età dal duca di Modena Francesco III. E tuttociò ebbe immediato effetto, a segno che questo principe, trasferitosi a Milano il 4 gennaio 1754, entrò tosto in possesso della sua nuova dignità, e il conte Beltrame Cristiani, ch'ebbe il merito di aver negoziato quel vantaggioso partito, dalla carica di gran cancelliere del governo, che fu soppressa, venne promosso a quella di ministro plenipotenziario nella Lombardia. Con distinti trattati furono regolati inoltre i confini col re di Sardegna, col duca di Parma, cogli Svizzeri e co' Veneziani. Ma le amichevoli intelligenze e i varii vincoli di parentela e d'interesse contratti colla Spagna e colle potenze italiane non avrebbero bastato a rendere sicura l'Italia nell'emergenza di nuove guerre in Europa, se non riuscivasi a rendere anche la Francia partecipe di siffatti accordi; e a quest'oggetto avendo rivolto l'Austria ogni suo intendimento, vi riuscì con pari felicità: e l'alleanza fra le due corti per tanto tempo rivali, che sempre più si consolidò, se non ha meritato un'unanime approvazione ne' rapporti degli interessi eminenti della monarchia, fu senza dubbio del più deciso vantaggio per la quiete d'Italia. Un altro oggetto della saggia previdenza di Maria Teresa fu di antivenire al caso, benché rimoto, della successione al trono imperiale, la quale restava quasi assicurata alla sua discendenza se avesse potuto far nominare l'arciduca Giuseppe, suo primogenito, in re de' Romani. Ma questo progetto, messo in campo circa l'epoca di cui trattiamo, e caldamente favoreggiato dall'Inghilterra, potea con difficoltà essere accolto dagli elettori per l'età del principe, che appena giungeva ai dodici anni, ed ebbe un insuperabile contradittore nel re di Prussia, onde soltanto nel 24 maggio 1764, dopo la pace d'Hubertsburgo, che pose fine alla famosa guerra de' sette anni, ha potuto aver esecuzione; abbastanza però ancora in tempo, mentre l'imperatore Francesco I morì l'8 agosto dell'anno seguente. Questo avvicendamento di combinazioni politiche, con tant'arte preparate e condotte ad un solo scopo, fu cagione che la pace d'Italia non fosse più turbata per il corso continuo di quarantotto anni fino al 1796; e tanto la rammentata disastrosissima guerra de' sette anni, che l'altra per la successione nella Baviera, e la turchesca, unicamente un'influenza pecuniaria esercitarono nell'austriaca Lombardia per i sussidii che ha dovuto somministrare. Per la qual causa, congiunta ai buoni ordini introdotti, de' quali siamo per parlare, e alla tranquilla indole degli abitanti, ebbero pur merito i Lombardi d'essersi mantenuti in una costante obbedienza e fedeltà, allorché, per le riforme dell'imperatore Giuseppe II, eransi ribellati i Paesi Bassi, fervevano gli Stati ereditari, e sì altamente querelavansi gli Ungheri, che fu duopo accondiscendere a' loro gravami.

È gradito incarico allo storico imparziale, dopo di aver dovuto narrare i vizi e gli errori de' potenti e la conseguente oppressione e l'impoverimento de' popoli, di poter talvolta ricreare la mente propria e quella de' lettori colla rappresentazione di tempi meno infelici, e col racconto di un genere di pubblica amministrazione più consentaneo alla dignità e al ben essere degli uomini. Questa lode è meritamente dovuta al regno di Maria Teresa, la quale, a malgrado delle lunghe guerre da cui era bersagliata la monarchia, sì mostrò costantemente intenta a dar migliori ordini ai varii rami del suo governo. E fu in ciò provvidamente secondata dalla sorte, mentre, avendo risoluto di liberarsi del referendario Bartenstein, che colla sua prepotente arroganza avea svergognato la diplomazia austriaca sotto Carlo VI, assunse, nel 1753, al supremo ministero il conte, indi principe Antonio Venceslao di Kaunitz-Rietberg. Questo grand'uomo, nato nel 1711, che resse con gloria per lo spazio di quasi quarant'anni i consigli della casa d'Austria, era dotato di molto ingegno, d'uno zelo instancabile e di somma integrità; abile negoziatore, profondo dissimulatore senza parerlo, impenetrabile ne' suoi secreti, ma ricco d'amor proprio, e perciò presontuoso ed altiero: così ci è descritto dal Coxe sulla fede de' documenti ufficiali del ministero inglese. Ei possedeva a tal segno la confidenza della sua sovrana, che, essendo ella piissima, ha potuto tuttavia intraprendere e compire con mano ferma le riforme più delicate nelle materie ecclesiastiche. Per ciò che concerne la Lombardia, il compimento del catastro delle proprietà fondiarie, come base della giusta ripartizione del principale tributo, occupò le prime cure dell'imperatrice regina. Questa grande opera, tentata quasi due secoli prima dagli Spagnuoli con informi elementi, instaurata nei primordii della dominazione austriaca, era rimasta interrotta, dopo la spesa di più milioni, per le vicende belliche del 1733. Fu riassunta nel 1749 coll'erezione di una nuova giunta del censimento, cui fu dato a presidente un dottissimo giureconsulto, Pompeo Neri, espressamente chiamato dalla Toscana, ove copriva la carica di secretario del consiglio di reggenza. Nello stesso tempo fu questi incaricato di esaminare i mezzi più opportuni per una sistemazione del corso delle monete, colla quale fosse posto rimedio al gravissimo danno che si soffriva dal pubblico per il valore arbitrario di esse. A tal fine molte conferenze si tennero e molti esperimenti furono allora eseguiti, di concerto colla real corte di Torino, dove un altro gran ministro, il conte Giambattista Bogino, fece ogni sforzo perché il provvedimento da adottarsi fosse a comune beneficio esteso a tutta l'Italia. Però le corte viste e le piccole gelosie fecero riuscire a vuoto la saggia proposizione; onde questo gravissimo oggetto, rimasto allora deserto, con principii più sicuri, ma circoscritto alla sola Lombardia, fu poscia sistemato soltanto nel 1778.

(1758) Erano quasi ridotti al loro termine i lavori del censimento colle assidue cure di nove anni, quando, essendo stato il Neri richiamato a Firenze, la Giunta fu sciolta, e costituita una governativa delegazione; a questa fu dato l'onore di proclamare il compimento dell'opera, e s'incominciò nel 1760 a ripartire il tributo prediale sul nuovo catastro. Contemporaneamente alla partenza del presidente Neri, Milano rimase priva di un altro illustre ministro, il plenipotenziario conte Beltrame Cristiani, morto il 31 luglio, dopo una lunga malattia, che lasciò alternare speranza e timore. La sua morte fu da uomo senza la minima imbecillità. Spedì gli affari con mente serena fino all'ultimo giorno. Egli da un'umile condizione col suo merito e colla sua prudenza giunse al sommo grado di essere padrone del Milanese. Gli fa onore il ricordare ch'egli cominciò nel 1725 come podestà di Borgonuovo, feudo del marchese Giandemaria di Parma. Poi fu impiegato in Piacenza, dove il conte Trotti, governatore, lo conobbe e lo fece conoscere ai comandanti degli eserciti austriaci che guerreggiavano. La fermezza del carattere, la sagacità de' ripieghi, la fedeltà sua, gli utili servigi che rese, lo fecero ben presto ammirare. Il duca di Modena, incautamente unitosi agli Spagnuoli, avendo abbandonato i suoi Stati, ne fu commesso il governo al Cristiani, che seppe accontentare l'imperatrice, il duca e il paese. Popolare e disadatto nel suo aspetto, distratto talvolta e balbuziente, senza fasto, e memore sempre del suo primo stato, cercò di placare l'invidia, e l'implacabile superò coll'ingegno. Fu spedito a Vienna colla lusinga che la grossolana figura, anche sucida per l'uso del tabacco da masticare, dovesse spiacere alla imperatrice regina, e che l'ignoranza del tedesco e del francese lo dovesse far comparire un meschino curiale. Ma egli superò il sorriso che avea destato fra le colte persone, e l'imperatrice gli si rese affetta dopo che gli ebbe parlato. Egli non poteva sperare di essere governatore di Milano per difetto de' natali. Le aderenze colla casa di Modena gli diedero occasione di formare il progetto di far venire a governar stabilmente il Milanese il duca Francesco III col titolo di amministratore. Il duca s'annoiava a Modena, amava il soggiorno di Milano, e questo se gli offriva nel luminoso carattere di amministratore del governo, con soldo assai cospicuo, con tutti gli onori, purché lasciasse ogni cura al Cristiani e concedesse la principessa Beatrice sposa a un arciduca. Si presentò dall'altra parte all'imperatrice un matrimonio per un figlio cadetto, e con esso gli stati di Modena, Reggio, Mirandola, Massa e Carrara. Richiedevasi l'animo del conte Cristiani per condurre a termine e fermare tali idee. Questo sempre più gli acquistò il cuore e la confidenza dell'augusta sovrana, della quale teneva delle firme in bianco da riempire, occorrendo un dispaccio. Sin ch'egli visse, lasciò tutte le apparenze al duca, che ognuno credeva che comandasse. Questi mezzi, uniti alla sua mente e operosità, lo fecero trionfare de' nemici. Era uomo generoso, e fedele alla sua parola. Aveva la politica grande, e non pareva né imbarazzato né circospetto. Era capace di domandare scusa anche ad un povero, se in un impeto di collera l'avesse ingiustamente offeso. Chi riceveva un'ingiustizia da lui per precipitazione o prevenzione, era sicuro, non solamente d'essere risarcito, ma di fare qualche fortuna. Non era per altro né colto, né sensibile in conto alcuno al merito di un letterato o d'un artista. Sapeva il latino, l'italiano, la legge e un po' di storia e nulla più; ma sapeva l'arte di conoscere gli uomini.

(1759) Fu dato in successore al conte Cristiani nella carica di ministro plenipotenziario nella Lombardia il conte Carlo di Firmian, che giunse in Milano, il 16 giugno del 1759. Figlio cadetto di una famiglia nobile tirolese, egli avea passato la sua gioventù in Roma come aspirante nella carriera prelatizia senza far fortuna. Di carattere pusillanime e di scarsi talenti, amava più la rappresentazione che gli affari, ed avea l'arte di coprire le qualità che non possedeva, colla compostezza, colle scarse e misurate parole, e con un officioso sussiego. In altri tempi, quando i governatori erano i despoti e i legislatori del paese, questa mediocrità poteva nuocere; ma dacché il conte di Kaunitz fu assunto al supremo ministero della monarchia, le disposizioni legislative e di buon governo procedevano dall'alto, e i ministri nelle province divennero semplici referendarii ed esecutori; onde tutto il male che poteva farsi da essi, limitavasi a qualche sfavorevole relazione alla corte, e a qualche abuso di minuta polizia, della quale erano lasciati árbitri. Durante il ministero del conte di Firmian furono eseguite le più importanti riforme; e in queste si fecero procedere di pari passo le materie civili e le ecclesiastiche. Si fece sparire ciò che ancora rimaneva delle immunità personali e reali del clero; si proibirono le carceri private alle comunità religiose; fu abolito l'asilo sacro: istituzione incompatibile coi nuovi tempi, e per lo più scandalosa nella pratica. (1762-1768) Il Santo Ufficio dell'Inquisizione venne soppresso. Si limitò la giurisdizione ecclesiastica e il diritto di acquistare alle mani-morte, e si sottoposero le spedizioni di Roma alla cautela del regio Exequatur, senza il quale non potevano essere eseguite; fu delegata una Giunta per le materie ecclesiastiche miste, cui fu poscia sostituita una Giunta economale, con giurisdizione privativa ed inappellabile; s'instituì in fine una Giunta subalterna per la riforma dei luoghi pii e delle parrocchie; e queste diverse disposizioni, dopo l'esperienza di sei anni, furono dall'autorità sovrana definitivamente stabilite e confermate.

(1769) Forse il caso e forse la precoce antiveggenza dell'imperatore Giuseppe II a raffermare gli animi de' sudditi, fu cagione del primo viaggio che fece quel sovrano in Italia. Partito da Vienna sul fine di febbraio sotto il nome di conte di Falkenstein, che conservò sempre ne' viaggi successivi, trascorse senza fermarsi Mantova e Firenze, e fu diritto a Roma con piccolissimo seguito, dove dopo Carlo V nissun altro cesare erasi mostrato. L'improvviso arrivo, la modestia dell'accompagnamento, l'affabilità de' modi, il rifiuto d'ogni pomposa onorificenza furono argomenti di generale sorpresa e meraviglia. Giuseppe II, osservate le cose più insigni di Roma e di Napoli, visitate le nuove fortezze costrutte sull'Alpi dal re di Sardegna, si trattenne nel ritorno nella sua Lombardia nel 23 giugno al 15 luglio. Egli vi si fece ammirare come amico dell'ordine e della giustizia, desideroso del pubblico bene, nemico degli abusi, di un'attività straordinaria, e singolarmente ricco di utili cognizioni. E poiché i fatti parziali sono tavolta pù instruttivi di un'intiera storia, così non è da tacersi che quel sovrano, il quale appena ebbe dalla madre nella prima gioventù il potere di ordinare tutto ciò che concerneva l'esercito, ad imitazione del sistema prussiano volle introdotta la coscrizione militare in tutti gli stati austriaci, ad eccezione de' Paesi Bassi, dell'Ungheria, del Tirolo e del Milanese. Avendo, nella visita de' monasteri fatta in Milano, osservato che le monache non occupavansi se non di poco utili esercizi, mandò ad esse una gran quantità di tela affinché ne preparassero camicie per i soldati. Una inclinazione guerriera, associata ad un istinto di beneficenza e di novità, fu infatti il caratteristico di questo sovrano.

E le riforme proseguivano. Fino dal 1765 era stato creato un supremo consiglio di economia: in quasto dicastero, trasformato poscia in magistrato politico camerale, sedettero successivamente gli uomini che maggiormente onorarono il paese, Gian-Rinaldo Carli, Cesare Beccaria e Pietro Verri. (1770) Si eresse un nuovo monte dei creditori camerali, che, dal nome della sovrana, si disse di Santa Teresa, e in esso furono trasportati i creditori del monte civico e del banco di Sant'Ambrogio, salvo a quelli che non amassero il nuovo investimento di ritirare fra un mese i loro capitali. Si ordinò che nello stesso monte fossero versate le somme di riscatto dei debiti di mani-morte, de' quali era permessa la redenzione; e vi furono pure inscritti a credito de' possessori, coll'interesse del sei per cento, i capitali rappresentanti i dazi, i pedaggi e le altre gabelle d'ogni sorta, che nel corso di due secoli e mezzo erano stati venduti, e che furono rivocati alla regia camera. L'esame delle entrate e delle spese delle diverse amministrazioni dello Stato e de' pubblici, che da prima era generalmente avvolto nel mistero, confuso e arbitrario, fu ridotto in un solo centro e ad un metodo uniforme coll'istituzione di una Camera de' conti; e fu una prova del merito di essa, frammezzo a tante mutazioni successive, la continuata sua sussistenza. Per fine, le pubbliche finanze, che nella sola vista di servire al bisogno presente erano state, nel 1751, date in appalto ad una compagnia di speculatori, i quali, da una condizione oscura, salirono poi a grandi onori e richezze, furono per esse gradatamente richiamate allo Stato; prima, nel 1766, coll'averle ridotte ad una Ferma mista, con un terzo di utili e un rappresentante regio; e quindi, nel 1771, con una piena emancipazione, che recò inoltre al regio erario centomille zecchini di maggiore beneficio. (1771) Questo lucro servì all'appannaggio del reale arciduca Ferdinando, che nell'anno stesso si stabilì in Milano, dove il 16 ottobre contrasse, secondo le convenzioni, il matrimonio colla principessa estense Maria Beatrice Riccarda, ed entrò nell'esercizio della carica di governatore e capitano generale della Lombardia. Né perciò si restituì a' suoi dominii il vecchio duca di Modena, che lo avea fino allora rappresentato; ma alternando la sua dimora tra Milano e la sua villeggiatura di Varese, morì in quest'ultima, di ottantadue anni, il 22 febbraio del 1780. A questo tempo ebbe pure effetto un'istituzione di grande e permanente utilità, il pio albergo Trivulzio, aperto ai poveri de' due sessi che hanno oltrepassata l'età di sessant'anni. Benché questo stabilimento sia in origine dovuto alla privata munificenza, fu esso dalla provvidenza sovrana assai favoreggiato, sia coll'assenso prestato per i beni soggetti a vincolo feudale e assegnatigli in dote, sia coll'unire a quello l'antico ospitale de' vecchi e con altre proficue assistenze. Si vide allora una celebre donna dedicarsi spontaneamente in quell'albergo alla soprintendenza del quartiere femminile, e poscia ella stessa ricoverarvisi per essere più pronta a que' servizi. Fu dessa Maria Gaetana Agnesi. Nata in Milano, di nobile famiglia, nel 1718, educata alle lettere e nello studio delle matematiche dal dottissimo e modesto Ramiro Rampinelli, avea di trent'anni pubblicate le sue Istituzioni analitiche, che, neppure avvertite in patria, riscossero altissime lodi dalle primarie società scientifiche dell'Europa. Visse poi il restante della lunga sua vita nell'albergo Trivulzi, indifferente alla dimenticanza de' suoi concittadini, dividendo ogni sua cura tra le assunte opere di pietà e gli studi sacri, ai quali erasi intieramente dedicata, finché tardi venne la morte a raggiungerla nell'ottantesimoprimo anno della sua età.

(1773-1779) La presenza e l'attività del reale arciduca diedero moto a provvedimenti più immediatamente utili al paese. Ne' sette anni dal 1773 al 1779 si prepararono colla maggiore maturità i lavori, che diedero poi all'Italia nella moneta milanese i più bei tipi e il più ben calcolato sistema monetario che allora si conoscesse. Si instituì un magistrato generale degli studi, e l'università di Pavia fu riorganizzata, ampliata, arricchita; e salì poi ad altissima fama pei sommi uomini che onorarono le sue cattedre, Tissot, Gian-Pietro Frank, Mascheroni, Spallanzani, Volta. Milano che, fino dal 1766, avea avuta una specola astronomica, fondata sotto la direzione di Ruggiero Boscovich, vide quella ampliata dopo la soppressione de' Gesuiti nel 1773, data una nuova e più ampia consistenza alle loro scuole col titolo di real Ginnasio, raccolta e aperta al pubblico con gran dispendio nel loro collegio di Brera una copiosissima biblioteca, e applicati i beni di essi alla pubblica struzione. Le scuole Palatine, nelle quali era stata eretta qualche anno addietro una cattedra di economia pubblica col titolo di Scienze Camerali (seconda in Italia, dopo quella di Napoli, instituita da un privato filantropo), n'ebbero un'altra per ammaestrare nell'esercizio dell'atte notarile; all'instituzione della quale succedette il provvidissimo stabilimento di un generale archivio per la custodia degli atti de' notari civili di tutto il ducato. Nel 1773 venne fondato presso le scuole dì Sant'Alessandro un museo di storia naturale e di mineralogia, e di là a tre anni si vide eretta una Società Patriottica per i progressi dell'agricoltura, delle arti e delle manifatture, con una dotazione per i premii da distribuirsi annualmente, e l'assegno di un terreno per gli esperimenti: fondazione di gloriosa ricordanza per i beneficii da essa recati al paese, e di cui è comune vergogna il trascurato repristinamento dacché e Firenze e Torino e Verona hanno restituito in fiore le loro società e accademie agrarie. Nello stesso anno, dopo quasi tre secoli trascorsi in isterili progetti e in infelici tentativi, fu resa perfetta la navigazione dall'Adda a Milano coll'apertura del canale detto di Paderno, tagliato nel margine del monte, per cui le navi dal bacino di Lecco scendono liberamente nell'antico naviglio della Martesana. Le arti e le manifatture ebbero più sorta d'incoraggiamenti con premii, con privilegi, con sovvenzioni in danaro. E tra le belle arti l'architettura in ispecie godette del più deciso favore. Era di già stato chiamato da Napoli il migliore architetto che allora avesse l'Italia, Luigi Vanvitelli, a dirigere gl'importanti ristauri che si fecero nel palazzo di corte per l'arrivo del reale arciduca. Si chiamò poscia il più distinto de' suoi discepoli, Giuseppe Piermarini di Foligno, il quale cogli esempi de' molti nobili lavori che eseguì nel corso di più di vent'anni, potentemente in ciò sussidiato dagli abili professori ed allievi della nuova accademia delle belle arti, restituì in onore l'architettura tra noi, purgandola di quanto ancora le rimaneva degli stupri Borromineschi, benché né l'uno né gli altri fossero riusciti ad elevarla alla maestà dei grandi modelli. Sono opere di Piermarini la regia ducale corte, la real villa di Monza, il compimento del palazzo di Brera, il monte di Santa Teresa, il nuovo gran teatro costruito dove esisteva la collegiata della Scala, di cui ritenne il nome, compito nel 1778, e l'altro della Canobbiana, aperto al pubblico nell'anno seguente. I privati signori si volsero, com'è il solito, a corteggiare il gusto di chi presiedeva al governo dello Stato, imitandolo; onde si viddero più antichi palazzi ristaurati o rinnovati, e tra questi meritano speciale menzione i due palazzi del principe e del conte generale di Belgioioso, l'uno eretto circa i tempi di cui parliamo, sotto la direzione di Piermarini, l'altro nel 1790 (salito poi all'onore di real villa) dall'architetto Leopoldo Polack, di cui bell'opera fu pure la facciata dell'insigne tempio di Rhò, ch'era stata lasciata imperfetta dal celebre Pellegrini.

Gli effetti di un tal regime illuminato e benefico erano rapidi e progressivi. La popolazione accrescevasi; le moderate imposizioni, e l'impiego della parte di esse eccedente le spese dello Stato, in opere pubbliche di strade, canali, fabbriche di ogni sorta, nell'arricchire le biblioteche, i musei, i gabinetti scientifici, in sovvenzioni e premii a promovere l'agricoltura e le manifatture, diffondevano l'istruzione, l'agiatezza e la prosperità in tutte le classi: beati tempi, allora non conosciuti né apprezzati abbastanza, non tanto per la naturale abitudine degli uomini di adattarsi al bene con indifferenza, quanto per l'apatìa propria dei Lombardi, e che, per la forza di più secoli di pessimo governo, era divenuta in essi una seconda natura. (1780) Tuttavia fu questa vinta dalla forza de' benefizi; e i Milanesi, che avevano già dato prova di affettuosa sensibilità verso la loro sovrana quando nel 1767 era stata posta dal vajuolo in grave pericolo della vita, accorrendo in folla ai tridui, che allora celebraronsi in tutte le chiese, mostrarono un sincero dolore all'inaspettato annunzio ch'essa avea cessato di vivere per idropisia di petto il 29 novembre del 1780. Essa avea sessantatré anni, quaranta de' quali ne trascorse tra le cure del governo de' vasti suoi dominii. Si mostrò costante e prudente, non meno nella contraria che nella prospera fortuna. Economa per abito, sapeva all'opportunità essere liberale. Fu zelante osservatrice della religione, e amante della giustizia; ma diede un'importanza eccessiva alle minute pratiche di quella, e si mostrò talora intollerante; dava pure facile orecchio alle segrete delazioni, e con predilezione occupavasi de' piccoli affari. Ebbe perciò alcuna volta a lagnarsi di essersi ingannata nelle sue scelte, e che le sue intenzioni fossero state male intese o mal eseguite. Con tutto ciò il regno di Maria Teresa è il secolo d'oro dei popoli della casa d'Austria. In essa si estinse l'illustre casa d'Absburg, dopo però di essersi quasi propaginata e già riprodotta in quella di Lorena, ora regnante. Il conte Gherardo d'Arco, Paolo Frisi e monsignor Turchi ne scrissero l'elogio, e ognuno di questi dotti uomini vi si mostrò quale doveva essere, colto e giudizioso patrizio, scrittore filosofo, frate panegirista.

L'indole del successore, l'augusto Giuseppe II, inclinato fervidamente a beneficare i suoi sudditi, temperò il danno della fatal perdita; se non che l'impeto e la precipitazione con cui soleva operare, resero spesso spiacevole, e talvolta agli occhi del volgo travisarono il beneficio. Con non lunghi intervalli si susseguirono tre altre morti, che per la Lombardia furono memorabili. (1782) La prima è quella del ministro plenipotenziario conte di Firmian, avvenuta il 20 giugno del 1782. Alcuna cosa già si disse del di lui carattere, al che poco rimane ad aggiungere. La sua autorità che, ne' primi dieci anni fu sufficientemente estesa in molti oggetti di minuto dettaglio, si attenuò dopo la venuta del reale arciduca. La di lui bontà permise che alcuni suoi scrivani favoriti abusassero della sua confidenza. Coloro che confondono la bibliomanìa coll'amore delle lettere il tennero e il dissero un mecenate. I Milanesi lo compiansero. Fu sostituito al conte di Firmian il conte di Vilzek, personaggio mediocre al pari di quello, e che lasciò fama di non aver fatto né bene né male. (1783) Nel seguente anno morì pure il cardinale arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli, dopo di avere presieduto alla chiesa Milanese per il lungo corso di anni quaranta: prelato saggio, attento e unicamente occupato del sacro suo ministero. Il 1° settembre dell'anno medesimo gli fu dato in successore monsignore Filippo Visconti, in di cui lode basterà il dire che ne' tempi burrascosi successivi al 1796 egli si meritò di essere pubblicamente difeso da un vecchio filosofo, il conte Pietro Verri, contro le forsennate invettive de' demagoghi rivoluzionarii. (1784) Non molto dopo morì l'insigne letterato e matematico Paolo Frisi, che, non potendo soffrire gl'incomodi di una fistola dolorosa, si sottopose ad un'operazione che in brevissimi giorni, in ancor fresca età, il trasse al sepolcro. Il poc'anzi citato conte Verri, di lui amico, supplì alla solita noncuranza della città, onorata dalla nascita e dagli studii di quell'uomo illustre, tessendo di lui un nobile elogio, ed ergendogli un modesto monumento in Sant'Alessandro, chiesa de' Barnabiti, alla di cui congregazione aveva il defunto appartenuto per qualche tempo.

Fece Giuseppe II due nuovi viaggi in Italia, l'uno in quest'anno, l'altro nel successivo. Nel primo corse fino a Roma, dove ricusò il ricambio di onorificenze che il papa voleva prestargli per quelle a lui usate in Vienna due anni addietro. Conchiuse però con esso un concordato, col quale fu conceduto ai duchi di Milano la nomina ai vescovati e ai beneficii della Lombardia austriaca, che prima spettava alla Santa Sede. Stipulò pure colla Toscana, il 4 dicembre, a favore della Lombardia stessa, un trattato per le reciproche successioni de' sudditi nel due Stati, del pari ch'erasi precedentemente stabilito colla Francia e la Prussia, col governo Sardo e colla repubblica di Venezia. (1785) Egli si trattenne in Milano dal 19 febbraio al 9 marzo. L'ultimo viaggio fu limitato alla Lombardia, con una permanenza di soli sette giorni: la più lunga fu quella del primo viaggio nel 1769, che ne durò ventuno. In quest'anno vendette l'imperatore al papa i possedimenti della Mesola nel Ferrarese per novecentomila scudi; e il re e la regina di Napoli, visitando per piacere l'Italia, si trattennero in Milano dal l° al 23 luglio, festeggiati con sontuosa magnificenza. Prima di partire da Vienna per il suo secondo viaggio, lasciò Giuseppe II ai capi dei dicasteri aulici la legge de' suoi voleri, che, tradotti dal tedesco, circolarono allora per l'Italia. Appare in essi ad ogni passo il suo amore per l'ordine, per il buon servigio e per il pubblico bene; e, nella certezza di farne un gradito dono ai lettori, si riportano in pié di pagina.

L'Imperatore in que' viaggi raccoglieva e maturava gli elementi per compire le sue riforme. Intanto le parti di esse ch'erano già in corso presso il ministero, andavansi successivamente pubblicando e mettendo in esecuzione. Erano queste d'ogni specie, scientifiche ed economiche, di beneficenza e di polizia, civili e religiose, e si estendevano dai minimi ai massimi argomenti. A rendere più comune l'arte di frenare e regolar le acque, che in ispecie devastavano frequentemente il Mantovano, fu eretta una cattedra d'idrostatica ed idraulica. Perché i piccoli commercianti di seta non fossero più posti nella necessità di vendite precipitose, s'instituì un Monte o Depositorio delle sete, da cui, mediante un tenue prò, potevano avere in prestito quasi l'intiero loro capitale per alimentare le successive speculazioni. Fu proclamata la tolleranza dell'esercizio delle diverse religioni separate dalla Chiesa romana. Si proibì di ricorrere a Roma per le dispense agl'impedimenti canonici de' matrimoni; indi fu stabilita su quest'oggetto una speciale legislazione. Si tolse pure alla corte di Roma la collazione de' benefici, restituendola ai vescovi diocesani per quelli in cura d'anime o portanti dignità capitolare, e attribuendo quella de' semplici al governo; e tutti per concorso. E di tolleranza, e di matrimoni, e di benefizi, e di ricorsi a Roma si trattò di nuovo in successivi ordini, chiarendo, modificando, confermando. Anche l'università di Pavia ebbe confermati ed ampliati i suoi regolamenti. E i monti di Pietà che esistevano per antica istituzione in varie parti dello Stato, e in particolare quello di Milano, furono riorganizzati, estesi e muniti di provvide norme.

(1786) Il torrente delle innovazioni proruppe nel 1786. Tutti gli ordini civili furono sconvolti e obbligati a subire una nuova forma. Il magistrato politico camerale, la commissione ecclesiastica, il tribunale araldico, quello della Sanità, la Commissarìa generale e la Congregazione dello Stato vennero soppressi, e le loro attribuzioni concentrate in un consiglio di governo; conservarono soltanto una separata esistenza la Camera de' conti, l'Intendenza generale delle finanze e una congregazione di Patrimonio per ciascuna città. S'istituirono otto intendenze politiche in altretante province, nelle quali fu diviso il paese; e si eresse in Milano un nuovo ufficio generale di polizia, conforme a quello stabilito nella Germania, donde fu mandato un buon numero di soldati invalidi per fare le funzioni di guardie, che, con denominazione francese, chiamaronsi di Police, e procedevano armati di bastone. Nuova forma, nuovo metodo, nuovi vocaboli ebbero i tribunali giudiziari. Il senato fu soppresso. Questo corpo, rispettabile per la ruggine dell'età, e che aveva introdotto il dispotismo nel santuario della giustizia, vantandosi di giudicare tamquam Deus, si estinse dopo ducentottantacinque anni di esistenza senz'aver lasciato memoria di un solo beneficio recato allo Stato. Si crearono più giudici o tribunali di Prima Istanza, uno d'Appellazione ed un supremo di Revisione per i casi che le due precedenti sentenze fossero discordanti; le cause di commercio e di cambio ebbero ne' tribunali mercantili una prima Istanza separata. Un regolamento giudiziario civile stabilì le norme per la procedura, e queste per la chiarezze dell'ordine, per l'esclusione d'ogni arbitrio, per la sobria tutela prestata ai litiganti meritarono gli encomii de' saggi giureconsulti. Di un conio meno felice fu il codice criminale. Mentre questo proscrisse quasi la pena di morte, riservandola ai soli delitti di ribellione, surrogò ad essa una lenta morte con durissimi supplici, esercitati nel segreto degli ergastoli, e perciò senza pubblico esempio. Dopo di avere stabilito la giusta massima che la pena non può colpire che l'autore del delitto, così che il castigo e il supplizio stesso del malfattore non debbano recar danno alla moglie, ai figli, ai parenti, agli eredi, ordina pei delitti di lesa maestà e di ribellione la confisca de' beni, senza riguardo alcuno che vi siano figli. Si aggiunsero come inasprimenti di pena la marca infame della forca da imprimersi con un bollo a fuoco sulle guance o ne' fianchi, un più rigoroso digiuno, e bastonate e nervate e vergate, delle quali e della loro ripetizione è lasciato arbitro il giudice colla sola riserva di non oltrepassare i cento colpi per volta. Il qual malaugurato esercizio del bastone s'incontra ad ogni passo in quel codice criminale, e figura non meno distintamente nel codice de' delitti politici, che a quello succede; onde, dopo di avere con filosofica idea dichiarato doversi i bestemmiatori trattare come frenetici, imprigionandoli nello spedale de' pazzi, vuole che alle pene della prigionia più o meno dura e del lavoro pubblico decretate contro gli sprezzatori della religione, gli scandalosi, i rei di delitti venerei, i banditi disobbedienti, sia sempre aggiunta l'altra delle bastonate. Un inasprimento di pena non accennato nel codice, e che sarà stato ordinato da posteriori istruzioni, ricordomi di aver veduto in Milano nella mia prima gioventù, nell'essere condotti i rei a ricevere in pubblico l'impressione della marca infame, distesi sopra un graticcio, e strascinati da un cavallo al luogo del supplizio.

(1786-1789) Le cose ecclesiastiche, argomento favorito in allora del ministero austriaco e prediletto dall'imperatore, furono in quell'anno soggetto di tanti ordini, editti, regolamenti, che sembrava che, dopo il molto ch'erasi già operato da venticinque anni in poi, nulla ancora si fosse fatto. Fino dal 1782 erasi dato mano a sopprimere i conventi e monasteri, specialmente i più ricchi, come Certosini, Cisterciensi, Olivetani e simili. Fattesi ora le soppressioni più numerose, s'intimò un'egual sorte alle monache, quando non si prestassero a rendersi utili nell'educazione femminile; e talmente prevalse l'abitudine al tedio dell'ozio claustrale, che il più gran numero preferì di essere soppresso, rendendosi generalmente oggetti di ludibrio per l'imperizia de' costumi sociali, e a molti di compassione. Si espulsero i seminaristi elvetici dal loro collegio, e vi s'installò il consiglio di governo. Fu stabilito un nuovo compartimento delle Parrocchie; si determinò lo stipendio de' parrochi, e sulle rendite de' regolari soppressi fu supplito alle mancanti congrue; si vietò l'ordinazione de' cherici quando non avessero fatto il corso de' loro studi nel seminario generale eretto in Pavia; tutti i consorzi, che vari e sotto diversi nomi esistevano presso le chiese, furono aboliti, salve le confraternite della carità o della dottrina cristiana, che si dissero poi del Santissimo. Una legge sontuaria fu emanata pe' funerali, la tumulazione nelle chiese, già dapprima abrogata, fu di nuovo proibita severamente, sostituendovi i cimiteri da erigersi fuori dell'abitato. Il numero de' giorni festivi fu ridotto; limitate le funzioni sacre e le processioni, vietate le novene, le ottave, i tridui; fissato il tempo di suonare le campane, e l'orario per tener aperte le chiese. Queste minuzie, bensì opportune, ma disdicenti alla maestà del sovrano, spiacquero al volgo più che le grandi riforme, sparsero di ridicolo i di lui regolamenti, e giustificarono il frizzo di Federico II, re di Prussia, che usava chiamarlo: mio fratello il sagrista. Provvedimenti che più generalmente ottennero la pubblica soddisfazione, furono la sistemazione de' dazi e l'erezione delle scuole normali. La prima, contro il solito, procedette per gradi, e non fu fissata che dopo lunghi e maturi esami; durò quindi più che ogni altra. Si fece precedere l'abolizione dei dazi intermedi tra i territorii dell'una e dell'altra città; si soppressero varie minute gabelle locali, di sostratico, di pascolo, sui quadrupedi, detta della dogana viva, su molti prodotti indigeni, sulle manifatture, sui pellami, sulle telerie, sul sapone, sui nastri e perfino sugli zolfanelli. Fu quindi pubblicata una nuova tariffa daziaria, con lo stabilimento di un dazio unico e la libertà dell'interna circolazione delle merci. L'istruzione elementare erasi in addietro abbandonata alla tirannìa de' pedanti; si volle rendere ragionevole, più generale ed uniforme; il che si ottenne colle scuole normali, benché abbiasi voluto fare una distinzione tra il povero e il facoltoso, prescrivendo per quest'ultimo. l'obbligo di un meschino annuo pagamento, abrogato poscia nel 1791. Non furono trascurati l'ornato e la decenza della città, e ciò che spetta alla polizia amministrativa. Le case furono numerizzate, le lampade dell'illuminazione poste per le strade, formato un giardino pubblico dove prima era il ritiro delle Celestine. La libera circolazione ed esportazione de' grani fu proclamata e regolata. Non meno le farmacìe, che l'esercizio della medicina e della chirurgia ebbero una nuova sistemazione. Con saggio intendimento fu deciso di togliere la mendicità questuante, ma non si provvide a sufficienza per renderla operosa. Perciò i cittadini con compassione ed isbigottimento videro gli agenti della Police dare la caccia ai pitocchi per le strade e strascinarli in carcere; ma per risparmiare il pane che consumavano, rilasciavansi in breve con giuramento di non più mendicare; quindi, con quasi ridicola vicenda, imprigionavansi di nuovo per aver contravvenuto al giuramento, costretti dalla necessità. Prima di dar mano a tante mutazioni, e frattanto che si eseguivano le più clamorose, si trovò conveniente che il reale arciduca governatore partisse per un viaggio. Egli lasciò la sua residenza il 29 dicembre 1785; andò da Genova a Nizza, dove passò l'inverno; poi dopo un viaggio in Francia, Inghilterra e Germania, ritornò in Milano la sera del 16 dicembre dell'anno successivo. La popolazione, riguardando la sua assenza come una disapprovazione delle fatte novità, gli andò incontro con immenso concorso.

Questo generale sconvolgimento, e ricostituzione degli ordini di uno Stato, non operavasi nella sola austriaca Lombardia; anzi non fu che l'applicazione ad essa di quanto erasi già posto in pratica nella Germania. I motupropri, gli editti, le istruzioni, i regolamenti, i decreti furono colà del pari così varii e moltiplicati, che colla loro unione si formò una raccolta assai voluminosa. Né queste altresì erano le sole cure che occupavano l'ardente, inquieto e risoluto animo del sovrano. Nel breve e tumultuario suo regno di dieci anni, egli impegnò gravi discussioni coll'Olanda per la libera navigazione della Schelda; assistette nell'acquisto importantissimo della Crimea l'imperatrice delle Russie, che male il rimeritò; drizzò le più diligenti macchine politiche ad impossessarsi della Baviera in cambio de' suoi Paesi Bassi, e ne rimase deluso per l'astuzia e l'opposizione del vecchio re di Prussia; e mentre già trovavasi in gravi imbarazzi per la ribellione dei Fiamminghi, la brama di partecipare colla Russia allo smembramento della Turchia l'impegnò improvvidamente in una guerra disastrosa e disgraziata che divorò uomini e tesori, per i cui danni inestimabili non ebbe specie di compenso, e nel corso della quale l'onore dell'armi fu appena salvato dalla vittoria sociale di Rimnick, e dalla presa di Belgrado, seguìta il 9 ottobre 1789. Fu questa una scarsa consolazione all'animo afflitto e abbattuto dell'imperatore per l'offeso amor proprio, per la delusa ambizione, per le perturbazioni e disobbedienze interne, essendo esausti e malcontenti i popoli, più province rovinate dalla guerra, e vuoto l'erario, (1790) I disagi del corpo nei campeggiamenti militari, ai quali infaustamente ha voluto prender parte nella guerra turchesca, la soverchia applicazione agli affari, e le angustie e le afflizioni morali aveano logorato la robustezza del suo fisico temperamento, e lo ridussero a morire di consunzione il 20 febbraio del 1790, essendo appena giunto all'età d'anni quarantanove. Sembra che Giuseppe II avrebbe dovuto essere fra i sovrani il più facile ad essere giudicato, perché fece più fatti; pure fu quello su cui i giudizi rimasero più divisi, perché le sue opere erano talvolta fra sé contraddicenti, e perché le passioni, una religione male intesa, e gli offesi interessi presero parte a que' giudizi. Tutti si accordano nell'attribuirgli un carattere dispotico, inflessibile, irrequieto, novatore. Era economo e temperante, avea modi disinvolti e famigliari, e discorsi insinuanti. In generale le sue intenzioni furono migliori che i fatti, e questi, migliori dei modi usati nell'eseguirli. Chi disse ch'egli avea voluto procurare la felicità dei sudditi a colpi di bastone, disse il vero con acerbe parole. Uno de' primi suoi atti fu, nel 1780, l'abolizione della servitù feudale ne' suoi stati della Germania. Fece costruire a grandi spese strade e canali, incoraggì il commercio e le manifatture, e rese aperte e libere le comunicazioni tra le province. Protesse, senza ostentarlo, le lettere e le scienze in tutti i suoi Stati, instituì cattedre, scuole, biblioteche, o accrebbe le esistenti; promosse la libertà della stampa e la pubblica istruzione; e, per una delle sue abituali contraddizioni, proibì ad ognuno dei suoi sudditi il visitare paesi esteri prima di aver compito i ventisette anni. Non ostante le sua filantropia, le sue massime diplomatiche si trovarono al livello di quelle de' gabinetti di Berlino e di Pietroburgo. Ebbe pure rimprovero di simulazione e di doppiezza, non meno nelle relazioni cogli esteri che coi propri sudditi. Il molto bene che fece e le sue utili riforme, benché duramente eseguite, male accolte, contrastate, e in parte rivocate, furono un seme che fruttificò largamente, e un frutto certissimo e indistruggibile sarà quello per cui la magia e la tirannia delle opinioni vennero dissipate per sempre. Più amara fu la ricompensa raccolta dall'autore di tanti cangiamenti, mentre n'ebbe dispiaceri infiniti, e prima di morire vidde ne' varii suoi dominii disdegnate le sue riforme, generale il malcontento per i danni di una guerra sconsigliatamente intrapresa e peggio condotta, e sordo, ma sensibile, fra i sudditi un fermento, che esprimeva il bisogno di cangiar sorte.

Restituire la calma fra i popoli, metter fine alla guerra e ad ogni spesa straordinaria, ristaurare le fonti della rendita, furono le prime cure di Leopoldo II, giunto in Vienna il 12 marzo. Dopo di aver formato nel lungo governo di venticinque anni la felicità della Toscana, egli recava sul trono austriaco la più bella riputazione di un sovrano filosofo e filantropo, ed ebbe in questa il miglior mediatore per riuscire nel suo intento. Eletto il 30 settembre all'Impero, ricevette il 15 novembre la corona d'Ungheria, e partì da Buda pienamente riconciliato con quella generosa nazione. Ristabilì come poté e gli parve la sua autorità nelle province belgiche; e nell'estate seguente fermò la pace co' Turchi, con restituir loro Belgrado e le altre conquiste. In questa sistematica riconciliazione del sovrano de' suoi sudditi la Lombardia non fu trascurata. I corpi civici furono invitati ad esporre in iscritto le loro rimostranze, e queste furono recate a Vienna dai deputati loro, colà espressamente chiamati. (1791) Né tardarono ad essere conosciute le sovrane risoluzioni. La congregazione dello Stato di Milano, abolita nel 1786, venne repristinata. Si confermarono le prerogative ai corpi civici. L'amministrazione de' luoghi pii fu restituita ai capitoli e alle congregazioni, conservato in Milano il corpo elemosiniere. Soppresse le intendenze politiche provinciali, ne furono delegate le incumbenze ai pretori; così la polizia di Milano passò nelle attribuzioni del capitano di giustizia. Fu modificato il regolamento per le scuole normali, e queste rese gratuite indistintamente. A tali provvidenze seguì dappresso una nuova sistemazione del governo, coll'erezione di una conferenza governativa e la repristinazione del magistrato politico camerale, cui furono aggregate le attribuzioni del soppresso consiglio. Anche i Mantovani furono rimandati contenti, coll'essersi separata l'amministrazione della loro provincia da quella del Milanese, alla quale era stata aggregata sei anni avanti, colla sola dipendenza dal governo generale della Lombardia. Ho creduto di dover esporre con un preciso dettaglio la storia sommaria della legislazione austriaca in questo paese, incominciando dal regno di Maria Teresa, per più ragioni. Primieramente perché finora questo lavoro non era stato fatto; inoltre perché corre di quella una confusa celebrità, mentre i contemporanei in generale, per la rapida successione, e l'affastellamento delle cose, se ne formarono un'idea poco diversa da quella del caos; e finalmente perché, oltre qualche nascita o morte di persone illustri, e qualche caso o istituzione patria, le fasi e i fatti dell'amministrazione interna sono i soli elementi per la storia di uno Stato di provincia. Ché se quelli tra i miei lettori, non avvezzi a siffatte discussioni, a questa parte della mia narrazione si saranno annoiati, io confesso con verità che ben più di essi mi sono annoiato scrivendola.

In quest'anno, per la morte della principessa Maria Teresa Cibo Malaspina, vedova del duca di Modena Francesco III e signora del ducato di Massa e Carrara, la di lei figlia Maria Beatrice, consorte del reale arciduca Ferdinando, le succedette in que' dominii. Nel mese di aprile venne l'imperatore in Italia, accompagnando a Firenze il suo secondogenito Ferdinando, nuovo gran duca di Toscana. Passò da Venezia, dove ritrovossi col re e colla regina di Napoli; nel ritorno dalla Toscana visitò Mantova, indi Cremona, Lodi, Pavia, e il 28 maggio entrò in Milano. Ammise primo all'udienza l'arcivescovo, quindi il ministro plenipotenziario, poi il comandante delle armi; in seguito tutti ad un tratto i consiglieri, e finalmente in corpo i ciambellani. La vita che menò in Milano era uniforme. Alla mattina visitava i pubblici stabilimenti, poscia ammetteva chiunque all'udienza. Nell'anticamera vi era tutta la cortesìa, e il primo venuto era il primo introdotto, col solo riguardo che le donne precedevano. La sera poche volte fu in teatro, e fu veduto a piedi girare per le strade della città colla sola compagnia di due arciduchi suoi figli, che seco avea condotti. Questo principe non amava di accostarsi né i magnati, né i militari, né i prelati, né alcuna persona che si desse per importante; e preferiva di ammettere alla familiarità persone che non avessero pretensione alcuna. Era co' suoi figli affettuoso senza sovranità, ed essi lo trattavano come un amico. Visitò minutamente le carceri, ma non fece liberare alcuno. Parve che le opinioni teologiche e le teorie criminali fossero le due cose che sopra le altre lo interessassero. Si trattenne in Milano fino alla sera del 28 giugno. Partendo lasciò il popolo a sé affezionato, ed ha potuto conoscerlo dalla folla accorsa alla partenza, e dalle voci che mostravano desiderio della sua felicità e brama del suo ritorno.

Né egli, né il popolo sapevano che salutavansi per l'ultima volta. Non era per anco tornato a Vienna che s'avvide della mala riuscita delle pratiche da lui mosse per frenare il torrente della rivoluzione di Francia a difesa di una sorella e di un cognato che sedevano su quel trono, e d'essersi tirato addosso la guerra che voleva evitare. (1792) Essendo in quest'angosciosa agitazione d'animo, egli esalò in Vienna il 1° di marzo l'ultimo fiato, in tre soli giorni di malattia, dopo due anni del nuovo regno, e circa quarantacinque di età. Chi il disse morto di malattia di petto, chi di dissenteria; e come è costume del volgo nel giudicare delle morti precipitose dei grandi, non mancò chi pretese di attribuirla ad una causa straordinaria. Egli lasciò i popoli più tranquilli, ma angustiati dalle esigenze dei preparativi guerreschi, e agitati per la prospettiva di un procelloso e sinistro avvenire. E non s'ingannarono; mentre l'eredità che da lui conseguirono il successore e i sudditi, furono ventidue anni di guerre distruggitrici e di calamità senza fine e senza esempio. Fu principe di carattere pacifico, affabile, amante dell'ordine e dell'economia. Col suo fratello e antecessore ebbe comune il rimprovero di essere stato troppo amico delle novazioni e troppo minuzioso ne' regolamenti, come la lode di avere fondato tra i popoli un migliore governo. Più del fratello rispettò la pubblica opinione, e non meno fermo di lui, si mostrò più avveduto e più prudente. La stima che lasciò di sé come imperatore, fu inferiore a quella che aveasi acquistato come gran duca. A giustificare questa differenza possono allegarsi più cause: la brevità del nuovo regno, la confusione e gli imbarazzi in cui l'ha trovato, la somma difficoltà de' tempi, che preludevano al più grande sconvolgimento politico, e alla successiva più grande catastrofe che abbia mai veduto il mondo; ma quando si osservi che ne' fatti pubblici di que' due anni (che pure molti ne operò) non fece mostra Leopoldo di alcun lampo di quel genio che sfavillò di sì bella luce nella Toscana, sembra potersi accostare di più alla verità, dicendo che il nuovo teatro delle sue azioni fu per esso troppo vasto; e avvenne di lui ciò che sarebbe accaduto nel regno delle belle arti a Giulio Clovio, miniatore eccellentissimo, se la sorte lo avesse costretto ad eseguire le gigantesche imprese di Michelangelo.