Favole (La Fontaine)/Libro settimo/XVIII - Un Animale nella Luna

Libro settimo

XVIII - Un Animale nella Luna

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Jean de La Fontaine - Favole (1669)
Traduzione dal francese di Emilio De Marchi (XIX secolo)
Libro settimo

XVIII - Un Animale nella Luna
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Di qui viene un filosofo e proclama che l’uom de’ Sensi suoi fatto è zimbello, di là ne viene un altro e per sé giura che buon giudice è il Senso. Ebben, io dico che sta nel ver Filosofia che prova e l’una cosa e l’altra, ove s’intenda con discrezion. Se gli uomini nel Senso ciecamente s’affidano, è comun fonte d’errori; ma rimosso il velo, che al Senso fa la lontananza e l’aria in cui nuotan le cose, e i cento screzi che la macchina umana e gli apparati soffron nel tempo, ancor il Senso estimo che sia netto e fedel specchio del vero. Saggia fu la natura il dì che queste cose ordinò nel mondo e un giorno io spero manifestarne l’intime ragioni.

Quel Sol che vedi di quaggiù, non largo più di tre spanne, ove potessi in alto, nella sua sede giudicarlo, immenso, sterminato diresti occhio del mondo. Il mio pensier lo immagina, se il giro colla man ne misuro e lo distendo per l’infinita via che lo divide dall’umil Terra. Il contadin lo crede schiacciato scudo, ma il pensier del saggio l’arrotonda, lo ferma in mezzo al Cielo e in giro a lui fa camminar la Terra. Tutti i miei Sensi io nego e so ritrarne contro la stessa illusïon de’ Sensi il ver che v’è nascosto, anche se l’occhio vede color diverso, anche se il suono tardi arriva all’orecchio che l’accoglie. È il mio pensier, è la ragion maestra, che drizza del baston l’angol riflesso nell’onda chiara, e da ragion guidati, non sgarrano gli sguardi, e più non sogni capo di donna della Luna in grembo: (favola assurda!) male macchie e i nèi che Cinzia ne’ sereni pleniluni mostra, tu pensi esser montagne, dossi, che gettan ombre e fan vedere al volgo uomini spesso e bovi ed elefanti.

In Albïon, or non è molto, un dotto astronomo, puntando il telescopio, ben credette veder non so qual mostro nel bel disco lunar. Io non vi dico le meraviglie e il grido della gente. Parve presagio di sicura guerra, e qual presagio! Accorre anche il monarca che suol da re proteggere i sublimi studi, e col suo regal occhio scoperse il mostro... Ebben, che vi credete, amici? Fra due lenti rinchiuso un topolino era sola cagion di tanta guerra.

O popolo beato, a cui null’altra cagion turba la pace, e te beato, o buon popol di Francia, il dì che a questi studi soltanto sacrerai l’ingegno! Marte ha di palme seminato i campi e dietro al gran Luigi è la Vittoria fedele amante. Temono i nemici, e noi cerchiamo il bel rumor dell’armi, onde liete saranno anche le Muse e superba l’Istoria... Ahi! ma la pace fia sempre a noi dolente desiderio, non riposo giammai. Carlo, il sovrano signor inglese, poiché molto in guerra di valore brillò, cerca comporre diuturne contese e coll’olivo benedire la pace. O date incenso al benigno sovrano! e v’è missione di re più degna e di tal re? d’Augusto non fu l’impresa placida più bella che le geste di Cesare famose? O veramente popolo beato, quando verrà questa diletta pace a ricondur tra noi dell’arti il regno?