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Informazioni generali raccolte alla Festa – Bellezza fisica dei Typees – Loro superiorità sugli abitanti delle altre isole – Diversità di colorito – Cosmetici e unguenti vegetali – Testimonianze di viaggiatori sulla straordinaria bellezza degli abitanti delle Marchesi – Loro scarsi contatti col mondo civile – Un moschetto inservibile – Primitiva semplicità del governo – Dignità regale di Mehevi.

Quantunque durante l’ultima festa mi fosse stato impossibile di appagare la mia curiosità su parecchi argomenti interessanti, pure quella importante ricorrenza non era trascorsa senza ch’io avessi potuto aggiungere altri dati alla mia conoscenza degli isolani.

Quello che più mi colpiva era la loro bellezza e forza fisica e la grande superiorità che, sotto questo aspetto, avevano in confronto degli abitanti della baia limitrofa di Nukuheva, nonchè il singolare contrasto esistente tra loro nelle varie sfumature del colorito.

Come perfezione di forme, essi sorpassavano tutto ciò che avevo veduto sino allora. Non un solo caso di deformità avrebbe potuto osservarsi nella folla partecipante alle Feste. Talvolta notai tra gli uomini delle cicatrici di ferite ricevute in combattimento; e qualche volta, ma raramente, la mancanza d’un dito, di un occhio o di un braccio, dipendenti dalla stessa causa. Tolte queste eccezioni, tutti gli indigeni indistintamente erano esenti da quei difetti che spesso guastano l’armonia di forme altrimenti perfette. Tuttavia la loro superiorità fisica non consisteva soltanto nell’esser privi di tali imperfezioni, chè quasi ognuno di quei selvaggi era così ben fatto e proporzionato da poter servire di modello a uno scultore.

Quando pensavo che questi isolani non s’avvantaggiavano menomamente del loro abbigliamento, ma si presentavano in tutta la nuda semplicità della natura, non potevo fare a meno di paragonarli ai bellimbusti e agli elegantoni che fanno bella mostra di sè nei nostri ritrovi alla moda. Privi dei sapienti artifici del sarto, e vestiti soltanto come i nostri progenitori nel Paradiso Terrestre, quale pietosa accozzaglia di spalle rotonde, di gambe a fuso, di colli da giraffa, mostrerebbero gli uomini del nostro mondo civilizzato! I polpacci imbottiti, i toraci ovattati e i pantaloni dal taglio scientifico, non servirebbero più a nulla, e l’effetto sarebbe davvero disastroso.

Una cosa che negli isolani mi stupiva assai, era il nitore dei loro denti. I romanzieri sogliono paragonare all’avorio i dentini delle proprie eroine. Ma per parte mia mi sento di affermare che i denti dei Typees sono ancor più belli dell’avorio. Le gengive dei più vecchi erano assai meglio guernite di quelle della gioventù dei nostri paesi civili; mentre i denti dei giovani e degli adulti erano addirittura abbaglianti per purezza e per candore. Tale meravigliosa bianchezza dei denti è da attribuirsi alla dieta quasi esclusivamente vegetariana di questi popoli e al loro tenore di vita particolarmente sano ed igienico.

Gli uomini sono assai alti di statura e salvo rare eccezioni non misurano mai meno di un metro e ottanta, mentre le donne sono singolarmente piccine. Merita pure di essere menzionata la precocità con cui in questi climi tropicali l’essere umano raggiunge la maturità. Una giovane creatura di non più di tredici anni, che sotto altri aspetti può considerarsi ancora una bimba, si vede sovente con un fantolino attaccato al petto; mentre giovanotti che, in climi meno caldi sarebbero ancora a scuola, qui sono già padri di famiglia, carichi di responsabilità.

Al mio primo arrivo fra i Typees, mi aveva colpito il notevole contrasto fra costoro e gli abitanti della baia ove avevamo approdato. In quest’ultimo luogo non ero rimasto favorevolmente impressionato dall’aspetto della parte maschile della popolazione, sebbene le femmine, salvo rare eccezioni, mi fossero piaciute assai.

Lasciando però da parte queste considerazioni credo che esista una differenza radicale tra le due tribù, se pur non sono due razze distinte. Coloro che sono soltanto discesi nella rada di Nukuheva senza poi visitare le altre parti dell’isola, stenterebbero a credere quali diversissime caratteristiche presentano le varie piccole tribù che popolano un luogo così esiguo. Ma l’ostilità ereditaria da secoli tramandatasi tra loro, spiega perfettamente la cosa.

Non è altrettanto facile di trovare una causa adeguata all’infinita varietà di coloriti che si osservano nella vallata Typee. Nel corso delle feste avevo notato varie giovani donne la cui pelle era quasi altrettanto bianca quanto quella di qualsiasi fanciulla inglese, essendo soltanto velata da una leggerissima sfumatura di bruno. Questa carnagione chiara, sebbene sino a un certo grado perfettamente naturale, è in parte il risultato di un processo artificiale e di una completa astensione dal sole. Il succo della radice di «papa», che trovasi in grande abbondanza nel fondo della vallata, è tenuto in grande pregio quale cosmetico con cui molte donne si ungono giornalmente tutto il corpo. L’uso abituale di esso imbianca e abbellisce la pelle. Le fanciulle che usano questo metodo per aumentare i propri vezzi, non si espongono mai ai raggi del sole. Cosa per altro che non reca alcun disturbo, perchè vi sono ben poche parti abitate della valle che non siano ombreggiate da tettoie di fronde, così che si può andare da una casa all’altra senza vedere mai la propria ombra delinearsi sul terreno.

Si usa la «papa» lasciandola per varie ore sulla pelle; siccome ha una tinta verde pallido, le imprime tale colore per tutto il tempo, che vi rimane. Non si può quindi immaginare nulla di più strano dell’aspetto di queste fanciulle subito dopo l’applicazione del cosmetico.

Tutti gli isolani hanno più o meno l’abitudine di ungersi con olii e cosmetici; le donne preferiscono l’«aker» o la «papa»; gli uomini usano l’olio della noce di cocco. Mehevi aveva una speciale predilezione per quest’unguento col quale usava ungersi tutta la pelle. Talvolta lo si vedeva lucente e profumato, che pareva quasi fosse allora allora emerso dal tino d’una fabbrica di sapone, o da un bagno nel sego. È forse a quest’uso, unitamente a quello delle frequenti immersioni nell’acqua e all’estrema pulizia, che gli indigeni debbono la meravigliosa purezza e morbidezza della propria pelle.

Il colorito prevalente delle donne Typees è un chiarissimo olivastro, e di questo Fayaway era il più bell’esemplare. Alcune altre erano più scure; altre ancora di un colorito dorato, e qualcuna addirittura bruna.

A conferma di quanto da me accennato precedentemente, posso qui riferire che Mendanna, ossia colui che scoperse le Isole Marchesi, afferma che gli indigeni sono meravigliosamente belli e assai somiglianti ai popoli dell’Europa Meridionale. La prima delle isole visitata da Mendanna era La Madelena, che non dista molto da Nukuheva; e i suoi abitanti somigliano sotto ogni aspetto a quelli risiedenti in quest’ultima, e nelle altre isole dell’arcipelago Figueroa; il cronista del viaggio di Mendanna, dice che nel mattino in cui fu avvistata la terra, mentre gli spagnuoli si avvicinavano alla spiaggia, settanta canoe si avanzarono, sfilando in processione, e un gran numero di abitanti (femmine, probabilmente) si recarono a nuoto incontro alle navi. Aggiunge che «di carnagione erano pressochè bianchi, di prestante statura e di bellissime forme; e che sul viso e sul corpo portavano disegnati dei pesci ed altre figure».

Alcuni degli indigeni presenti alle Feste delle Calebasse avevano fatto pompa di qualche oggetto d’abbigliamento europeo, che tuttavia avevano disposti sulla propria persona in modo completamente originale. Fra tali oggetti notai i due pezzi di cotonina che il povero Toby ed io avevamo donato alle nostre giovani guide il giorno del nostro arrivo nella vallata. Evidentemente li serbavano pei giorni di gala, e in quella ricorrenza servirono a far risaltare le figure eleganti dei due giovani isolani. Il numero ristretto di indigeni adorni di vestiario europeo e il modo con cui mostravano di apprezzarlo, sia pur trattandosi di comunissimi oggetti senza alcun valore, stanno a dimostrare ampiamente come fossero scarsi i loro contatti colle navi che approdavano nell’Isola. Alcuni fazzoletti di cotone multicolore legati intorno al collo e ricadenti sulle spalle, striscie di cotonina a disegni fantastici fasciate intorno alle reni, fu tutto quello che notai.

Effettivamente in tutta la vallata v’erano ben pochi oggetti di qualsiasi genere che potessero vantare un’origine europea. A prescindere da ciò che ho già descritto, per parte mia non vidi che i sei moschetti conservati nel Ti, e tre o quattro simili ordegni di guerra appesi sulle pareti di altre case; alcuni piccoli sacchetti di tela contenenti un po’ di pallottole e di polvere da sparo, e una mezza dozzina di vecchie accette con la lama così ottusa e logora, da essere pressochè inservibili. Queste ultime parevano non aver valore per gli indigeni; anzi varie volte essi ne brandivano qualcuna dinanzi a me, buttandola poi via, come per farmi capire il loro disprezzo per un oggetto che così presto diveniva fuori uso.

Ma i moschetti, la polvere e le pallottole, eran tenuti preziosissimi. I primi, sia per l’età venerabile, che per le loro caratteristiche, erano degni di figurare nell’armeria di un antiquario. Me ne ricordo sopratutto uno di quelli del Ti, che Mehevi, supponendo naturalmente io fossi capace di aggiustarlo, mi aveva una volta posto tra le mani a questo scopo. Era una di quelle rozze, antiche bocche da fuoco inglesi conosciute sotto il nome di Moschetti Tower Hill, che, secondo me, avrebbe potuto benissimo essere lasciate nell’Isola da Wallace, Carteret, Cook o da Vancouver. Il calcio era mezzo fradicio e tarlato; il grilletto del tutto arrugginito e inservibile; il rinforzo delle viti intorno al grilletto completamente logoro, mentre la canna tentennava nel legno. Ecco l’arma che il capo avrebbe desiderato io restituissi al suo primiero stato. Siccome ero lungi dal conoscere l’arte dell’armaiuolo e d’altronde non possedevo gli utensili adatti, dovetti pur troppo confessare la mia incapacità ad eseguire tale compito. Dinanzi a questa inaspettata notizia, Mehevi mi squadrò come se io fossi d’una razza inferiore di bianchi, che, dopo tutto, ne sapeva ben poco di più dei Typees. Tuttavia con una difficile e complicata spiegazione della faccenda, riuscii a fargli comprendere l’estrema difficoltà del lavoro. Poco soddisfatto però delle scuse, Mehevi finì di andarsene coll’antico moschetto, come se non volesse ulteriormente esporlo ad essere maneggiato da mani così poco abili.

Durante le feste non avevo mancato di osservare la semplicità dei modi, la libertà da ogni ritegno, e, fino a un certo punto, l’eguaglianza di condizione manifestata dagli indigeni. Nessuno pareva assumere pretese arroganti. Soltanto una lievissima differenza nell’abbigliamento, segnava la differenza tra i capi e gli altri isolani. Tutti si comportavano l’uno coll’altro colla massima libertà e senza nessuna soggezione; notai però che i desideri di un capo, anche se esposti nel più mite dei toni, erano seguiti da una pronta obbedienza che altrove si sarebbe ottenuta soltanto con un ordine perentorio.

Sino a che punto potesse arrivare l’autorità dei Capi sulla Tribù non saprei dirlo, tuttavia da quanto mi fu dato di osservare durante la mia permanenza nella valle, ritengo che nei riguardi degli interessi generali della popolazione, essa fosse molto limitata. La necessaria deferenza verso di loro però, veniva concessa dagli isolani molto volentieri e con prontezza; e siccome l’autorità è trasmessa da padre a figlio, non dubito punto che uno degli effetti che derivano, qui come altrove, dagli alti natali, è di indurre il popolo al rispetto e all’obbedienza1.

Non potrei tuttavia precisare i diversi gradi esistenti tra i Capi di Typee. Prima della festa delle Calebasse, sarei stato assai imbarazzato a definire la posizione di Mehevi di fronte agli altri indigeni. Ma l’importante carica che gli vidi rivestire in quella occasione, mi convinse che nessuno gli era superiore tra gli abitanti della vallata.

La baldoria di quei giorni aveva riunito tutti i guerrieri che io avevo prima veduto individualmente o a gruppi, in diversi luoghi e circostanze. Tra loro Mehevi si diportava con un’aria disinvolta di superiorità su cui non ci si poteva ingannare; e colui nel quale io non avevo veduto che l’ospitale anfitrione del Ti ed un condottiero militare della tribù, assunse ora ai miei occhi dignità di Re. Il suo straordinario costume non meno che la sua figura imponente, sembravano effettivamente assegnargli una preminenza sul resto della popolazione. L’elmo torreggiante di piume, lo alzava in statura al di sopra di tutti quelli che lo attorniavano; e per quanto vi fossero altri Capi similmente adorni, la lunghezza e la ricchezza delle loro piume erano ben lontane da quelle delle sue.

Difatti Mehevi era il più grande dei Capi – era il Capo della sua tribù – il sovrano della vallata; e la semplicità delle istituzioni sociali del popolo non poteva avere miglior prova del fatto che, dopo varie settimane di soggiorno fra i Typees e di continuo contatto con Mehevi, ero ancora completamente ignaro della sua condizione regale. Ma ora la luce s’era fatta nella mia mente, Il Ti era il palazzo, e Mehevi era il Re. Bisogna dire, però, che sia l’uno che l’altro erano molto semplici e patriarcali, nonchè completamente esenti dal fasto e dalla pompa che di solito circonda la porpora.

Appena fatta questa scoperta, non potei fare a meno di congratularmi meco stesso che Mehevi mi avesse preso fin dal primo momento sotto la sua reale protezione e che continuasse a nutrire per me una calda simpatia, come almeno dalle apparenze potevo giudicare. Perciò decisi per l’avvenire di fargli una assidua corte, nella speranza di poter eventualmente ottenere dalla sua bontà di essere liberato.

  1. L’autore scrive questo nel 1830. (N. d. T.).