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La sorgente di Arva Wai – Avanzi di antichi monumenti – Qualche idea sulla storia dei phi-phi rinvenuti nella valle.

Non v’è paese che non possegga le sue sorgenti rinomate per le loro virtù curative. La sorgente di Typee è racchiusa nella più profonda solitudine e assai raramente riceve dei visitatori. È lontana da ogni abitazione, a una certa altezza sulla montagna, vicino all’estremità della vallata, e vi si giunge da un sentiero ombreggiato dal più lussureggiante fogliame ed adorno di fiori fragranti.

Le acque minerali di Arva Wai1 scaturiscono dai crepacci d’una roccia; scendono sui suoi fianchi coperti di muschio, e cadono poi in pioggia in un bacino naturale di pietra dai bordi frangiati di erbe e di fiorellini color viola, sempre freschi e belli per la continua rugiada che li irrora.

Quest’acqua è tenuta in alto pregio dagli isolani, alcuni dei quali la considerano una bevanda aggradevole quanto medicinale; la raccolgono nelle loro calabasse e la ripongono sotto mucchi di foglie in qualche angolo ombroso vicino alle lor case. Il vecchio Marheyo amava molto l’acqua di quella sorgente. Di tanto in tanto si caricava di una grossa calebassa e se ne partiva per la montagna, ritornandone poi tutto ansante col suo prezioso carico.

Il suo sapore faceva venire in mente un’amalgama di mille gusti sgradevoli, ed era effettivamente così nauseante da poter far la fortuna del proprietario se la sorgente si fosse trovata in un paese civilizzato.

Siccome non sono chimico, non mi è possibile fornire un’analisi di quest’acqua. Quel che posso dire si è che avendo un giorno Marheyo vuotato l’ultima goccia dalla sua calebassa, osservai sul fondo del recipiente una piccola quantità di sedimento simile assai alla nostra sabbia comune. Se poi questa vi si trovi sempre e le comunichi lo speciale sapore e le speciali virtù, non saprei dirlo.

Un giorno, ritornando dalla sorgente attraverso un tortuoso sentiero, giunsi a un luogo che mi ricordò Stonehenge2 e le fatiche architettoniche dei Druidi.

Alla base di una delle montagne, e circondata da ogni lato da fitte boscaglie, sorge una serie di vaste terrazze di pietra innalzantesi scalino per scalino, fino a una considerevole altezza sul fianco della montagna. Coteste terrazze non possono avere meno di cento metri di lunghezza e venti di larghezza. La loro vastità però è meno sorprendente degli enormi blocchi che le compongono. Alcuni di essi di forma oblunga, misurano sino a cinque metri di lunghezza e due di spessore. I loro lati sono completamente lisci, ma per quanto quadrati e di fattura abbastanza regolare, non presentano traccia di scalpello. Sono collegati assieme senza cemento, e qua e là mostrano delle breccie. La terrazza più alta e quella più bassa sono di una costruzione alquanto singolare. Entrambe al centro presentano una depressione quadrangolare, mentre intorno raggiungono due o tre metri d’altezza Negli interstizi tra i blocchi sono radicati enormi alberi, e i loro vasti rami intrecciandosi, formano un baldacchino quasi impenetrabile ai raggi del sole. Su di essi si abbarbica una selva di viti selvatiche e sotto le loro spire le pietre più non si scorgono. Vi è un sentiero selvaggio che attraversa obliquamente due di queste terrazze ed è così profonda l’ombra e così densa la vegetazione, che lo straniero potrebbe passarvi senza accorgersi della loro esistenza.

Queste costruzioni mostrano di appartenere a una remotissima antichità, e Kory-Kory, che era il mio informatore su tutto quanto riguardasse ricerche scientifiche, cercò di farmi comprendere che esse erano vecchie come la creazione del mondo; che gli Dei stessi ne erano gli architetti, e che sarebbero durate fino alla consumazione dei secoli. La pronta spiegazione di Kory-Kory e il fatto che egli attribuiva una origine divina al lavoro, mi convinse subito che nè lui nè i suoi compagni ne sapevano nulla.

Mentre osservavo questa monumentale costruzione, certo opera di una razza estinta e dimenticata, così sepolta in questo angolo verde di un isola situata all’estremità della terra, la cui esistenza era fino a ieri ignorata, un senso di sacro timore mi prese, più profondo di quello che avrei provato dinanzi alla Piramide di Cheope. Nessuna epigrafe, nessuna scoltura, nessun indizio che potessero farne congetturare la storia: nulla tranne il muto sasso. Chi sa quante generazioni di quegli alberi maestosi che le ombreggiano sono nate cresciute e morte da quando esse furono erette!

Questi ruderi suggeriscono naturalmente molte riflessioni interessanti. Stabiliscono innanzi tutto la grande antichità dell’Isola, cosa che teorici studiosi della formazione dei varî arcipelaghi dei Mari del Sud, non sono sempre disposti ad ammettere. Per parte mia penso che sia altrettanto probabile che esseri umani vivessero nelle valli delle Marchesi tremila anni fa, quanto che popolassero l’Egitto alla stessa epoca. L’origine dell’Isola di Nukuheva non può essere ascritta all’insetto corallifero3, poichè, per quanto tale meravigliosa creatura sia infaticabile, essa non avrebbe certamente muscoli sufficienti per accumular roccie una sull’altra a più di novecento metri sul livello del mare. Tra le ipotesi possibili c’è anche quella che queste terre siano state prodotte dall’eruzione di un vulcano subacque. Nessuno potrebbe giurare il contrario, e perciò nulla dirò che combatta questa teoria. Anzi, giungo ad affermare che se i geologhi affermassero che l’intero continente dell’America è stato formato in simile guisa dalla simultanea esplosione di una teoria di vulcani stendentesi sott’acqua dal Polo Nord al parallelo di Capo Horn, sarei l’ultimo io a contraddirli.

Ho già detto che le abitazioni degli isolani erano invariabilmente costruite su fondamenta massiccie di pietra che essi chiamano phi-phi. Le dimensioni di queste però, come pure delle pietre che lo compongono, sono relativamente piccole; ma in quasi tutte le valli dell’isola vi sono altre costruzioni assai più vaste, di simile fattura che comprendono i «morais» o cimiteri, e i luoghi adibiti a giuochi e feste. Alcuni di questi edifici sono così vasti e una così gran somma di lavoro e di abilità deve essere stata richiesta per costruirli, che non mi par possibile siano stati edificati dagli antenati degli attuali abitanti. Se però così fosse, la razza dimostrerebbe di avere assai degenerato, visto che attualmente non hanno nozione alcuna delle arti meccaniche. Senza tener conto della loro indolenza abituale, con quali ordegni alla portata di gente tanto primitiva, si sarebbero potuti smuovere e fissare al loro posto blocchi così enormi? E come, coi loro primitivi utensili, avrebbero potuto scalpellarli e sagomarli?

Tutti questi vasti phi-phi, ad esempio, quello di Hoolah-Hoolah nella valle Typee, recavano incontestabili segni di remotissima età; e io sono del parere che la loro costruzione sia da ascriversi alla stessa razza d’uomini che costruì quei più antichi monumenti i cui resti ho più sopra descritti.

Stando a ciò che mi raccontò Kory-Kory, il phi-phi su cui sorge l’Hoolah-Hoolah, sarebbe stato fabbricato or sono un infinito numero di lune, sotto la direzione dell’eccelso capo e guerriero Monoo che, da quanto si arguisce, doveva essere fra i Typees un capo mastro famoso. Esso sarebbe stato eretto per l’esplicito scopo a cui serve ora, nell’incredibilmente breve periodo del giro di un sole; e dedicato agli immortali idoli di legno in una grande festa che durò dieci giorni e dieci notti.

Tra i phi-phi di più modeste pretese su cui sorgono le case degli indigeni, non ne ebbi mai ad osservare uno che dimostrasse una costruzione recente. In ogni parte della valle si scorgono anche parecchie massiccie fondamenta di pietra, senza nessuna casa: la qual cosa è di grande utilità, perchè in tal modo l’isolano che desideri trasferirsi a qualche centinaia di metri di distanza dalla casa nativa, non ha altro da fare, che scegliersi uno dei tanti phi-phi che non appartengono a nessuno, e senz’altra cerimonia piantarvi sopra la sua tenda di bambù.

  1. Ritengo che questa parola voglia significare «Forti Acque». Arva è il nome che gli isolani danno a una radice le cui proprietà sono sia medicinali che inebrianti, e «Wai» è il vocabolo che significa acqua.
  2. Pietre pendenti – avanzi di un tempio druidico presso Salisbury. (N. d. T.).
  3. Madrepora o corallo delle isole. Alghe calcarifere e foraminifere. Con la madrepora e, goniopora columa formarsi le isole coralline e madreporiche. (N. d. T.).