Typee/VIII
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Traduzione dall'inglese di Bice Pareto Magliano (1931)
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Pericolosa traversata del precipizio – Discesa nella vallata.
La fiducia temeraria di Toby era contagiosa, ed anch’io cominciai a condividere le sue previsioni sugli Happars. Tuttavia non potevo esimermi da un certo senso di sgomento mentre ci inoltravamo in quelle tetre solitudini. Il nostro cammino, che dapprima era relativamente facile, diveniva sempre più difficile. Il letto del torrente era coperto di innumerevoli ammassi di roccia caduti dall’alto, che ostruivano di continuo il corso dell’acqua, la quale s’infrangeva stizzosamente contro di esse, formando ad intervalli piccole cascate precipitanti in capaci bacini o frangentesi selvaggiamente sui mucchi di sassi.
Dato l’angusta dimensione della gola e le sue ripide pareti, non v’era altro modo di procedere che guadando il torrente, cosa assai difficile in verità, perchè ad ogni istante si inciampava nelle roccie e nei sassi nascosti nell’acqua, o nelle radici enormi degli alberi. Ma l’intoppo più noioso era costituito da una moltitudine di virgulti contorti, che spingendosi orizzontalmente fuori dai lati del precipizio, si intersecavano in fantastici grovigli quasi fino alla superficie del torrente, impedendo il nostro passaggio, tranne che traverso gli archi da essi formati. Dovevamo strisciare carponi, scivolando sulla superficie melmosa delle roccie, oppure guazzando in fosse profonde, con scarsissima luce per guidarci. Di tanto in tanto davamo di cozzo col capo contro un ramo d’albero; e mentre imprudentemente stavamo fregando la parte ferita, precipitavamo nell’acqua che senza pietà ci ricopriva. Ma coraggiosamente lottavamo contro tutti questi ostacoli ben sapendo che solo avanzando potevamo sperare di salvarci.
Verso il tramonto ci fermammo in un luogo dove ci parve poter passare la notte. Vi costruimmo un capanno come la sera precedente, e stesevi le stanche membra, cercammo dimenticare nel sonno le nostre sofferenze. Ritengo che il mio compagno abbia dormito profondamente; ma, per parte mia, quando spuntò l’alba e feci per riprendere il cammino, mi sentii quasi nell’impossibilità di tentare altri sforzi. Toby consigliò qual rimedio per ogni mio male, una intera razione di cibo, ma io, malgrado le sue insistenze, non volli affatto consentire. Ci limitammo perciò alla nostra solita porzione dopo di che immediatamente riprendemmo il nostro viaggio.
Era il quarto giorno dacchè avevamo lasciato Nukuheva, e le torture della fame cominciavano a divenire insostenibili, sì che invano cercavamo di attutirle col masticare la tenera corteccia di radici e di virgulti che, se non ci davano nutrimento, purtuttavia erano dolci e piacevoli al palato.
Il nostro cammino lungo lo scosceso letto del fiume riusciva necessariamente lento, e quando ci raggiunse il meriggio, non avevamo coperto più d’un miglio. Fu appunto verso quell’ora che un fragore di cascate che già al mattino avevamo debolmente notato, si fece più distinto; e non passò gran tempo che dovemmo fermarci dinanzi a un pauroso burrone di più di trenta metri di profondità, in cui l’impetuoso torrente si buttava con un salto vertiginoso. D’ambo i lati le pareti discendevano a piombo tanto al disopra che disotto la cascata, nè offrivano mezzo alcuno di raggirarla.
— Ed ora che cosa faremo, Toby? – domandai.
— Che cosa vuoi fare? Non potendo ritornare sui nostri passi, non c’è che andare avanti – rispose lui.
— Benissimo; caro Toby; ma si può sapere come intendi fare?
— Facendo un salto dall’alto della cascata, se non v’è altro mezzo – replicò lui senza esitare. – Sarà certamente il metodo più spiccio per discendere, ma siccome tu non sei svelto come me, tenteremo qualche altro modo.
E così dicendo si avanzò cautamente verso l’abisso, mentre io congetturavo tra me in che maniera si sarebbe potuto sormontare l’ostacolo. Non appena mi accorsi che il mio compagno aveva completato il suo esame, gli chiesi quale ne fosse il risultato.
— Vuoi sapere qual’è il risultato delle mie osservazioni? – chiese Toby guardandomi con quel suo fare un po’ strano. – Ebbene, ragazzo mio, te lo dirò in poche parole. Per ora non è possibile decidere quale dei nostri due colli avrà l’onore di rompersi per primo; ma ci sono novantanove probabilità su cento che quest’onore toccherà a chi è il primo a saltare.
— Allora vuoi dire che è impossibile? – chiesi cupamente.
— Al contrario, amico mio; è anzi la cosa più facile che ci sia. L’unico punto scabroso della faccenda è in che stato giungeremo in fondo, e in che modo potremo poi continuare il viaggio. Ma ora seguimi, e ti mostrerò l’unica via che si può tentare.
Così dicendo mi condusse sull’orlo della cataratta e m’indicò certe strane radici, assai grosse e lunghissime che, uscendo tutte contorte dai crepacci di una delle due pareti, si protendevano perpendicolarmente sopra il baratro, come tanti ghiacciuoli, arrivando in alcuni punti fino all’acqua. Parecchie di esse, ricoperte di licheni e di musco, erano imputridite, mentre quelle nella vicinanza immediata dell’acqua erano tutte viscide per la grande umidità.
Il progetto di Toby, ed era un progetto disperato, consisteva nell’affidarsi a quelle radici infide e, lasciandosi andare dall’una all’altra, raggiungere il fondo.
— Ti senti di rischiare? – mi chiese Toby guardandomi seriamente, e senza aggiungere una parola che valesse a rischiararmi sulla praticabilità del suo piano.
— Sì, mi sento – fu la mia risposta; poichè ben vedevo che per proseguire non c’era che quella via, e quanto al ritornare indietro, ne avevamo da tempo abbandonato il pensiero.
Avuto il mio assenso, Toby, senza dir motto, si mise a strisciare lungo il cornicione, finchè raggiunse un punto dal quale poteva afferrare una delle più grosse radici pensili; la scosse; essa fremette nella sua stretta e, quando egli la lasciò andare, vibrò nell’aria come un grosso filo metallico violentemente percosso. Soddisfatto da questa prova, il mio compagno si slanciò agilmente e attorcigliate le gambe intorno alla radice all’uso dei marinai, scivolò per due o tre metri, facendola col suo peso oscillare come un pendolo. Non si azzardava a discendere oltre; perciò, tenendosi saldo con una mano, coll’altra scuoteva ad una ad una tutte le esili radici intorno a lui, finchè, trovatane una che gli parve resistente, si attaccò a quella e continuò la discesa.
Tutto fin qui pareva andar bene; ma io non potevo fare a meno di paragonare la mia corporatura più pesante e le mie deboli condizioni fisiche colla sua figura snella e con la sua notevole agilità; ma non c’era rimedio, e in men che non si dica, mi bilanciavo anch’io proprio sopra la sua testa. Non appena egli ebbe alzato gli occhi e mi scorse, esclamò nel solito suo tono indifferente:
— Ehi, amico, fammi la cortesia di non cadere fino a che non mi sia scansato – e bilanciandosi più in là, continuò a discendere.
Io intanto mi ero cautamente trasferito dalla radice sulla quale sdrucciolavo, verso altre due che m’erano a portata di mano, pensando che due corde erano meglio di una. Viceversa scuotendole per provarne la resistenza constatai che esse s’infrangevano, cadendo in frantumi contro la parete del baratro ed infine nell’acqua sottostante.
A misura che le infide radici si spezzavano, vedevo con angoscia la situazione farsi sempre più disperata. I rami sui quali ero sospeso sull’abisso, oscillavano nell’aria, e di minuto in minuto mi attendevo di vederli rompersi in due. Atterrito dalla terribile sorte che mi minacciava, cercai di afferrare l’unica grossa radice che vedevo a mia portata; ma invano; non potevo arrivarvi per quanto le mie dita quasi la raggiungessero. Di nuovo provai e riprovai, finchè finalmente, sentendo che in quella situazione impazzivo, mi diedi un gran slancio, spingendo con forza il piede contro la roccia, e raggiunta la grossa radice, la afferrai disperatamente. Essa vibrò con violenza per l’improvviso peso, ma fortunatamente non si ruppe.
— Bravo! – gridò Toby sotto di me. – In verità sei più agile di quanto mi sarei immaginato, e sai saltellare da una radice all’altra come un giovane scoiattolo. Ma appena tu ti sia abbastanza divertito, ti consiglio di procedere.
— Sì, Toby, sta bene; chi va piano va sano, lo sai. Ancora una o due di queste famose radici e sono con te.
Il resto della mia discesa fu abbastanza facile; le radici abbondavano, e in uno o due punti trovai degli speroni di roccia che non poco mi aiutarono. Dopo pochi istanti ero vicino al mio compagno.
Ci armammo ora di forti bastoni e continuammo il nostro cammino lungo il fondo del burrone. Di lì a non molto ci colpì un nuovo strano fragore che, di istante in istante, divenne sempre più fragoroso, mentre il rumore della cataratta che ci lasciavamo indietro si affievoliva sempre più.
— Ecco un altro precipizio, Toby.
— Benone; ormai sappiamo come fare per discendervi; su, andiamo.
Davvero che nulla sembrava sgomentare quell’intrepido ragazzo. Typee o cataratta del Niagara, per lui era tutt’uno; e non potevo che congratularmi di avere un compagno come lui nella mia avventurosa impresa.
Dopo un’ora di penoso cammino, raggiungemmo l’orlo di un’altra cascata, ancora più maestosa della prima, e rinserrata, sia nella parte superiore che in quella inferiore, dagli stessi massi scoscesi di roccie, che presentavano però qua e là degli stretti ed irregolari lastroni, ricoperti da un terriccio poco profondo su cui cresceva una varietà di cespugli e di alberelli, la cui smagliante verzura faceva un pittoresco contrasto colle spumeggianti acque che fluivano disotto.
Toby, che ormai consideravo il pioniere della spedizione, si pose in servizio d’avanscoperta. Al ritornò, riferì che i ripiani di roccia alla nostra destra, ci avrebbero permesso di raggiungere senza soverchio rischio, il fondo della cataratta. Allora, abbandonando il letto del torrente proprio nel punto in cui, con fragore di tuono, esso precipitava nell’abisso, ci mettemmo a strisciare lungo uno di questi ripidi pendii, sinchè da esso giungemmo ad un altro ancor più ripido sul quale avanzammo cautamente, aiutandoci colle radici e coi cespugli che facevano capolino da ogni fessura. A misura che procedevamo, lo stretto sentiero diveniva sempre più angusto, sì che a stento si poteva conservare l’equilibrio; e a un tratto, raggiunto un angolo della parete rocciosa, ci accorgemmo con nostro grande disappunto, che esso terminava bruscamente due metri più in là, in un luogo dove pareva esservi ben poca probabilità di poter passare.
Come di consueto, Toby era all’avanguardia, ed io attesi in silenzio di sapere ciò che avrebbe trovato per cavarci da questa nuova difficoltà.
— Ebbene, ragazzo mio – esclamai dopo aver atteso varii minuti, vedendo che non pronunciava parola – e ora che cosa facciamo?
Rispose tranquillamente che secondo lui la miglior cosa da fare nella presente contingenza, era di uscirne al più presto possibile.
— Sta bene, mio caro Toby, ma, dimmene il modo.
— Eccolo – rispose, e così dicendo si lasciò scivolare trasversalmente dalla roccia, e io credo, solo perchè assistito dalla fortuna, andò a cadere tra i rami stesi di una specie di palmizio che, abbarbicato colle radici in una fessura sottostante, curvava il tronco all’insù, e presentava una fitta massa di fogliame a circa sei metri sotto il punto in cui avevamo dovuto fermarci. Rimasi quasi senza respiro in attesa di vedere il corpo del mio compagno, dopo quasi un istante di sospensione a fra i rami dell’albero, precipitare nel vuoto. Tuttavia, con mia gran gioia e sorpresa, egli si riprese, e liberatosi dai rami che aveva rotti cadendo, fece capolino dal suo nascondiglio fogliuto, gridando allegramente:
— Avanti, scendi anche tu, carissimo, non v’è altro da fare!
Quindi scomparve tra le foglie, e scivolando sul tronco dell’albero, fu in un momento a circa venti metri sotto di me, in piedi su un ampio lastrone di roccia dal quale sorgeva l’albero che lo aveva salvato.
Che cosa non avrei dato in quel momento per essergli vicino? Il gesto da lui compiuto mi pareva poco meno che miracoloso, e quasi non riuscivo a credere che un semplice atto di audacia avesse posto tanta distanza tra noi.
La voce di Toby che mi chiamava, risuonò nuovamente al mio orecchio, e temendo di perdere ogni fiducia in me stesso se indugiavo a meditare sul passo che dovevo fare, guardai un’altra volta sotto di me, e mentalmente innalzando una preghiera, mi slanciai nell’abisso, andando a cadere con gran fragore nei verdi penetrali dell’albero. I rami si infransero sotto il mio peso, ma uno di essi più resistente mi sorresse, arrestando ogni mia ulteriore caduta.
Mi assicurai di essere ancora tutto intero e mi accinsi a continuare la discesa, la quale, però, si compì ormai facilmente. Raggiunto quindi il burrone, consumammo il nostro pasto serale, costruimmo come al solito il nostro capanno e di lì a mezzora c’eravamo già sdraiati dentro per passarvi la notte.
Il mattino dopo, malgrado la nostra debolezza e gli spasimi della fame da cui, pur senza confessarcelo, eravamo tormentati, ci rimettemmo in cammino lungo il sentiero tuttora difficile e pericoloso; allietati tuttavia dalla speranza di poter presto scorgere la vallata; e verso sera il rumore di una cataratta che da tempo udivamo accompagnarsi con voce di basso profondo al suono di più piccole cascate, si fece ancor più fragoroso, accertandoci così, che ormai vi eravamo assai vicini.
Non tardò molto che ci trovammo sull’orlo di un precipizio sul quale l’oscura fiumana precipitava con un salto finale di novanta metri, terminando nella vallata che da tanto tempo cercavamo. Da ambo i lati della cascata, due maestosi promontori pressochè perpendicolari facevano da contrafforti all’enorme rupe e si protendevano sul mare di verzura ondeggiante lungo la vallata. Altre alture minori erano disposte in semicerchio formando così la testata della valle, mentre un fitto baldacchino di alberi, sospeso sull’estremo limite della cascata si apriva come un arco sul passaggio delle acque rendendo il paesaggio ancor più pittoresco.
L’agognata meta stava dunque dinanzi a noi; ma anzichè portarci nel ridente paese con una discesa graduale, il profondo corso d’acqua da noi sin lì seguito, pareva proprio con la sua brusca terminazione voler frustrare tutte le nostre fatiche. Tuttavia, non disperammo ancora.
Siccome si approssimava il tramonto, decidemmo di passar la notte ove ci trovavamo, per poi al domani compiere, più riposati, la definitiva discesa nella valle a costo anche di lasciarci la pelle.
Quella sera ci coricammo in un punto il cui ricordo ancora oggi mi fa rabbrividire. Un’angusta sporgenza di roccia che, da un lato del torrente, si proiettava sull’abisso ed era bagnata dallo spruzzo della cascata, serviva di sostegno a un enorme tronco d’albero che doveva essere stato deposto colà da qualche forte inondazione. Esso giaceva obliquamente, con un’estremità posata sulla roccia e l’altra sostenuta dalla parete del precipizio. Contro questo tronco noi disponemmo una gran quantità di rami secchi e coprendo il tutto con foglie e virgulti, attendemmo la luce del giorno allo scarso riparo che tale asilo poteva concederci.
Durante l’intera notte il continuo fragore della cataratta – il triste lamento della tempesta tra gli alberi – il picchiettio della pioggia e le profonde tenebre – mi impressionarono come mai m’era successo. Affamato e bagnato fino al midollo per l’umidità del luogo, ed esaurito per le sofferenze, mancò poco mi dessi per vinto di fronte all’avversità che si accaniva contro di noi. Quanto al mio compagno, la sua energia pareva infine fiaccata, e non pronunciò una sola parola durante l’intera notte.
Alla fine spuntò l’alba ed alzandoci dal misero giaciglio tutti indolenziti, dopo aver consumato tutto quanto ci rimaneva del nostro cibo, ci preparammo per l’ultima parte del viaggio.
Non mi dilungherò a raccontare tutte le difficoltà da noi incontrate, nè a descrivere i nuovi pericoli cui sfuggimmo prima di riuscire a raggiungere la vallata. Basti dire che, dopo inaudite fatiche e non lievi pericoli, ci trovammo senza niente di rotto, all’imboccatura della magnifica vallata che, cinque giorni prima, c’era improvvisamente apparsa all’ombra di quelle rocciose montagne dalla cui vetta l’avevamo contemplata.