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V VII

L’altro versante della montagna – Delusione – Inventario degli articoli portati con noi dalla nave – Razionamento del pane – Aspetto dell’interno dell’Isola – Burroni e cascate – Notte insonne – Ulteriori scoperte – Mia infermità – Un paesaggio delle Isole Marchesi.

Per le descrizioni avute, sia Toby che io, eravamo curiosi circa il paese che avremmo incontrato dall’opposto versante della montagna. Noi avevamo supposto che non appena raggiunta la vetta, si sarebbero scorte le vaste baie di Happar e di Typee giacenti ai nostri piedi da un lato, mentre quella di Nukuheva giaceva dall’altro. Ma in ciò fummo delusi. La montagna da noi scalata, anzichè scendere dall’opposto versante fino a raggiungere ampie e vaste vallate, pareva conservare il suo aspetto generale, solo intersecato da giogaie e da scoscendimenti che a perdita d’occhio si stendevano dinanzi a noi. I fianchi ne erano rotti qua e là da burroni precipitosi coperti di smagliante verzura, da alberi e da ciuffi di piante. Tra quegli alberi però, non ci fu dato scorgere alcuna di quelle piante sulla cui frutta avevamo fatto assegnamento per ristorarci.

Era questa davvero una contingenza impreveduta, che pareva dovesse mandare a monte i nostri progetti, poichè scendere dalla montagna dal lato di Nukuheva alla ricerca di nutrimento, era cosa neanche da pensarci. Infatti se ci fossimo decisi a ritornare sui nostri passi, più che probabilmente avremmo incontrato gli indigeni, i quali, anche nella migliore ipotesi, ci avrebbero ricondotti a bordo nella speranza di una ricompensa in cotonina e in ornamenti, che, senza alcun dubbio, il nostro capitano avrebbe promesso a chi ci avesse catturati.

Che fare dunque? La «Dolly» non metterebbe alla vela che tra dieci giorni, e come campar la vita durante questo tempo? Mi rimproverai amaramente la nostra imprevidenza nel non esserci provvisti, come non sarebbe stato difficile di fare, di una buona scorta di gallette. Tutto mortificato, mi ricordai allora della misera manciata di galletta che avevo introdotto nel mio camiciotto e sentii il desiderio di accertarmi se aveva potuto resistere al rude trattamento subìto nello scalare la montagna. Perciò proposi a Toby di esaminare assieme i varii articoli che avevamo recato dalla nave. In questo intento ci sedemmo sull’erba, e un po’ curioso di vedere quale discernimento aveva guidato il mio compagno nella sua scelta, gli chiesi di cominciar lui le operazioni, stendendo per terra il contenuto del suo camiciotto.

Introdotta la mano in quel capace ricettacolo, egli ne tirò fuori circa una libbra di tabacco tutto compatto per l’umidità ed esternamente ricoperto dalle briciole mollificate della galletta. Così bagnato e gocciolante, pareva fosse stato pescato allora allora in fondo al mare. Io però non diedi grande importanza a roba di sì scarso valore nella nostra attuale situazione, visto che Toby dimostrava di aver pensato a provvedersi di cibo per la spedizione.

Ansiosamente gli chiesi che cos’altro avesse recato con sè, ed egli, frugando nuovamente nelle profondità del camiciotto, ne trasse una manciatina di una sostanza così molle, attaccaticcia e scolorita, che per qualche istante, nè lui nè io si riusciva a comprendere cosa fosse, e come mai un’amalgama così ripugnante avesse potuto prodursi nel suo camiciotto. Non posso meglio descriverlo che come una mistura di pane inzuppato e di frammenti di tabacco ridotta a consistenza di lievito dal sudore e dalla pioggia. Ma per quanto ripugnante potesse essere, io ora la considerai come tesoro preziosissimo, e con gran cura mi diedi a trasportare questo pastone sopra una larga foglia che avevo svelto da un cespuglio vicino. Toby mi spiegò che al mattino aveva posto due intere gallette nel suo camiciotto coll’idea di rosicchiarle, se ne avesse sentito voglia, durante la fuga; ed esse si erano poi trasformate in quello stato equivoco di cui ho detto.

Un’altra ispezione nel camiciotto produsse quattro o cinque metri di cotonina stampata, il cui elegante disegno era alquanto sfigurato dalle macchie gialle del tabacco col quale era stato a contatto. Toby, nel ritirare palmo a palmo questa stoffa dal suo seno, aveva tutta l’aria di un prestidigiatore nella piena funzione dei suoi giuochetti. L’estrazione successiva fu più modesta: non si trattava che d’un piccolo sacchetto contenente aghi, filo, ed altri oggetti per cucire; dopo fu la volta d’un astuccio da rasoio, seguito da due o tre cicche di tabacco «Testa di negro» che egli pescò proprio in fondo alla sua blusa. Dopo aver esaminato queste varie provviste, fu la mia volta di esporre ciò che avevo portato con me.

Come era facile prevedere dallo stato in cui si trovavano le cibarie del mio compagno, anche le mie erano in condizione deplorevole, e ridotte in modo da costituire appena una mezza dozzina di bocconi per un individuo affamato, e cui piacesse abbastanza il tabacco da poterle ingoiare senza disgusto. Alcuni pezzi di galletta, un braccio o due di tela bianca di cotone, e varie libbre di tabacco scelto, componevano tutta la mia sostanza.

Il nostro fondo di articoli vari fu ora inventariato e riunito in un unico involto che decidemmo di portare alternativamente. Ma non era tanto facile disporre dei miserevoli resti della galletta, poichè le condizioni precarie in cui ci trovavamo ci inducevano a pensare che, con tutta probabilità, da essi dipendeva lo svolgersi della nostra avventura. Dopo breve discussione, in cui entrambi riconfermammo la nostra risoluzione di non scendere nella baia prima della partenza della nave, suggerii al mio compagno che per quanto fosse poco, sarebbe stato opportuno dividere quel pastone in sei porzioni uguali, ciascuna delle quali sarebbe stata la razione giornaliera per tutti e due. Accettata la proposta, mi tolsi dal collo il fazzoletto di seta, e tagliatone col mio coltello sei pezzi uguali, mi accinsi a fare una spartizione equa.

A tutta prima Toby, con una meticolosità che mi parve fuor di luogo, voleva mondare quel pastume glutinoso da ogni particella di tabacco, ma io protestai contro questo procedimento che ne avrebbe grandemente diminuita la quantità.

Allorchè la spartizione ebbe termine, constatammo che la razione giornaliera per entrambi non era gran che più copiosa di una cucchiaiata di roba. Tuttavia ogni porzione fu immediatamente avvolta nel rispettivo pezzo di seta già preparato, e riunendole tutte in un pacchetto solo, io lo affidai a Toby, colla solenne ingiunzione della più scrupolosa onestà. Decidemmo di digiunare pel rimanente del giorno, avendo avuto al mattino una abbondante colazione che ci aveva fortificati, e alzatici in piedi, ci guardammo intorno per trovare un riparo durante la notte che, dall’apparenza del cielo, prometteva di essere oscura e tempestosa.

Ma vicino a noi non si trovò nulla che ci convenisse, perciò, voltando le spalle a Nukuheva, cominciammo ad esplorare le regioni sconosciute situate dall’altro versante della-montagna.

Nessun segno di vita umana però si scorgeva, nè vicino nè lontano. L’intero paesaggio pareva una solitudine ininterrotta, come se l’interno dell’Isola fosse stato disabitato fino dai primordi della creazione; e a misura che ci avanzavamo in questo deserto, anche le nostre voci risuonavano in modo strano alle nostre orecchie, quasi che prima d’allora nessun accento umano non avesse mai turbato lo spaventoso. silenzio del luogo, solo interrotto dal lontano mormorio delle cascate.

Il nostro disappunto però, nel non trovare i vari frutti di cui intendevamo nutrirci durante la nostra permanenza in questi luoghi deserti, era di molto diminuito dal pensiero che, per tale medesima circostanza, saremmo stati assai meno esposti a un incontro colle tribù selvagge che ci circondavano, le quali, come ben sapevamo, dimoravano sempre sotto l’ombra di quelle piante da cui ritraevano il nutrimento.

Continuammo ad esplorare, gettando occhiate ansiose ad ogni boschetto, ad ogni cespuglio che si parasse sui nostri passi, sinchè, essendo riusciti a sormontare uno dei tanti rialzi che intersecavano il terreno, scorsi dinanzi a me nell’erba qualche cosa che rassomigliava a un sentiero vagamente tracciato, e che pareva diretto sul crinale del rialzo, per discendere poi in un profondo burrone a circa mezzo miglio dinanzi a noi.

Robinson Crosuè non fu certo così atterrito dall’orma umana lasciata nella sabbia quanto lo fummo noi dinanzi a questa spiacevole scoperta. Il mio primo impulso fu di battere in ritirata il più presto possibile e volgere i nostri passi in altra direzione; ma la curiosità di scoprire dove conducesse questo sentiero, ci indusse a proseguire lungo la traccia che si faceva man mano sempre più distinta, finchè giungemmo sull’orlo del burrone dove esso repentinamente finiva.

— E così, – disse Toby spiando nell’abisso, – tutti coloro che passano per questo sentiero debbono fare un salto quando giungono qui?

— No, risposi, – perchè credo che potrebbero ingegnarsi a discendere altrimenti; che ti pare? Tentiamo noi questa discesa?

— E che diavolo ti aspetti di trovare in fondo a cotesto buco, se non la tua testa fracassata? È più buio della nostra stiva di bordo, e la violenza della cascata che si ode laggiù, è sufficiente a sbriciolarci il cervello.

— Oh! no, Toby, – esclamai io ridendo; – sta certo che vi è qualche cosa da scoprire, se no, non vi sarebbe il sentiero, ed io son deciso di vedere che cos’è.

— Hai da star fresco, ragazzo mio – replicò Toby, – se hai l’intenzione di ficcare il naso in ogni cosa in questi luoghi che ecciti la tua curiosità certo finirai coll’imbatterti in una banda di selvaggi e non credo che un tal incontro ti darà una grande soddisfazione. Segui una buona volta il mio consiglio, e lascia che mettiamo la prora al vento; poi si fa tardi e sarà bene buttar l’ancora per la notte.

— È appunto quello che pensavo anch’io, – risposi, e credo che questo burrone farà benissimo al caso nostro, perchè è vasto, appartato, fornito d’acqua, ed eventualmente può servirci di riparo contro la pioggia.

— Già, e impedirci anche di dormire con questo gran fragore d’acqua, e in pari tempo regalarci mal di gola e reumatismi, – gridò Toby, cui evidentemente sorrideva poco l’idea.

— Sta bene, ragazzo mio, – dichiarai allora. – Poichè tu non ti senti di accompagnarmi, me n’andrò da solo. Mi rivedrai domattina e sporgendomi sull’orlo del dirupo, cominciai a calarmi attraverso le radici intricate che s’abbarbicavano intorno alle fessure della roccia. Come ben m’ero immaginato, Toby, ad onta delle sue rimostranze, seguì il mio esempio, e lasciandosi scivolare come uno scoiattolo da un appiglio all’altro ben presto mi oltrepassò, raggiungendo il ripiano prima che io avessi compiuto due terzi della discesa.

La visuale che ci si presentò in quell’istante era tale che rimarrà sempre impressa nella mia mente. Cinque torrentelli spumeggianti, che i recenti acquazzoni avevano gonfiato e intorbidito, irrompendo da altrettante fenditure, si fondevano assieme in un fantastico salto di circa trenta metri, e precipitavano con assordante clamore in un bacino tenebroso e profondo, scavato nelle oscure roccie che si elevavano all’intorno; e raccolti poi in un sol corpo, si slanciavano attraverso uno stretto canale inclinato che pareva penetrare nelle viscere della terra. Grosse radici di alberi ai lati del burrone pendevano sopra di esso, tutte gocciolanti d’acqua e oscillanti per le ripercussioni delle cateratte. Si era al tramonto, e la fievole incerta luce che si faceva strada in queste caverne, ne accentuava la strana parvenza, e ci avvertiva che in breve tempo ci saremmo trovati in completa oscurità.

Non appena ebbi contemplato questo scenario sino a che la mia curiosità fu sodisfatta, mi chiesi come mai ciò che avevo creduto un sentiero, ci avesse condotto in un luogo così singolare, e mi persuasi che, dopo tutto, mi ero ingannato nel supporre che esso potesse essere stato tracciato dagli indigeni. Questa riflessione mi era piuttosto gradevole, poichè diminuiva il mio timore di incontrarci con costoro, e conclusi che non avremmo potuto scegliere un più sicuro rifugio. Toby fu d’accordo con me su questo punto, e ci demmo subito a raccogliere i rami degli alberi che giacevano sparsi per terra, allo scopo di costruirci un capanno provvisorio per la notte; ma fummo obbligati a costruirlo vicino al fondo della cateratta, poichè la corrente delle acque raggiungeva assai da presso le pareti del crepaccio. Impiegammo i pochi istanti di luce che ancor ci rimanevano a ricoprire il tetto del nostro capanno con larghe foglie di una strana pianta che cresceva nelle fessure del burrone. Il nostro ricovero, se così meritava d’esser chiamato, consisteva in una mezza dozzina di rami più o meno diritti collocati obliquamente contro la ripida parete di roccia, a circa trenta centimetri dal torrente. In tale angusto spazio ci industriammo ora di strisciare, stendendovi le nostre stanche membra nel modo meno scomodo possibile.

Come potrò mai dimenticare quell’orribile nottata? Quanto al povero Toby non mi fu possibile fargli pronunciare una parola. Eppure sarebbe stato un conforto udirne la voce. Invece giacque per tutta la lunga notte scosso da un tremito come di paralisi, colle ginocchia rattrappite sino al mento e il dorso appoggiato contro la parete della roccia stillante umidità. Nulla mancò in quell’infame notte per rendere più grave la nostra situazione. La pioggia scendeva a torrenti, e il nostro misero riparo a nulla serviva: invano tentai di evitare gli scrosci d’acqua che mi si rovesciavano addosso; per proteggermi da una parte mi esponevo dall’altra, e l’acqua pareva trovare continuamente nuovi sbocchi per inondarci.

Non poche volte nella mia vita mi ero ritrovato bagnato come un pulcino, e tuttavia non ci avevo neppure badato; epperò il cumulo di orrori di quella notte, il freddo mortale di quel luogo, la spaventevole oscurità e il triste senso della nostra miserabile situazione, mi prostrarono come non mai.

Nessuno dubiterà quindi che il mattino dopo ci alzassimo di buon’ora. Per parte mia, non appena credei scorgere quelli che mi sembravano i primi barlumi dell’alba, scossi il mio compagno. Il povero Toby alzò il capo e quando gli dissi che il sole stava levandosi rispose con voce roca:

— Sarò allora cieco, amico mio, perchè vedo ancor più buio di quando avevo gli occhi chiusi iersera.

— Storie! – esclamai. – Si vede che non sei ancora desto.

— Desto! – urlò Toby stizzito, – desto! Vorresti forse dire che ho dormito? È un insulto supporre che una persona abbia potuto dormire in un posto simile.

Intanto si era fatto più chiaro e noi ora strisciammo fuori del nostro covo. La pioggia era cessata, ma intorno a noi tutto gocciolava. Ci togliemmo i vestiti inzuppati d’acqua, e dopo averli strizzati ben bene, li stendemmo sopra una roccia meno umida delle altre; quindi fatte le nostre abluzioni nel torrente e proceduto a un vigoroso massaggio che ricondusse un po’ di calore nelle nostre membra, indossammo di bel nuovo i nostri vestiti, pur troppo ancora assai umidi. E ci parve allora venuto il momento di rompere il nostro digiuno che durava ormai da ventiquattro ore.

Tirammo perciò fuori la nostra razione giornaliera, e sedutici sopra una roccia ci accingemmo a consumarla. Prima di tutto però la dividemmo in due parti uguali, e ripostane una pel nostro pasto serale, dell’altra ne facemmo due metà, tirando a sorte chi doveva avere la prima scelta. In verità il boccone che toccò a me era ben misero, ciò nonostante feci in modo che mi durasse dieci minuti buoni prima di ingoiarne l’ultima briciola. Com’è vero che «il miglior cuoco è l’appetito»! V’era un tal sapore in questa porzioncina di cibo che in altre circostanze non avrei trovato nei più prelibati manicaretti. Un’abbondante sorsata dell’acqua purissima che scorreva ai nostri piedi, completò il pasto, dopo di che ci rialzammo rinfrescati e pronti ad affrontare tutto quanto potesse ancora capitarci.

Dopo aver esaminato attentamente la gola in cui avevamo trascorso la notte, traversammo il torrente, e raggiunto il lato opposto del bacino summenzionato, io scopersi da alcune traccie che quel luogo doveva essere stato visitato qualche tempo prima che vi giungessimo noi. Anzi, guardando meglio mi convinsi che doveva essere molto frequentato, probabilmente per cercarvi una certa radice dalla quale gli indigeni ricavano una specie d’unguento.

Queste scoperte ci decisero immediatamente ad abbandonare un posto che ci avrebbe potuto indurre a rimanere soltanto per la sicurezza; e avendo trovato un lato praticabile della roccia, dopo mezz’ora di aspra salita ci trovammo sulla balza dalla quale eravamo discesi la sera prima.

Proposi a Toby che, invece di vagare nell’Isola esponendoci ad essere scoperti ad ogni passo, dovremmo scegliere un posto per fissarvi la nostra dimora sinchè durassero le nostre provviste, fabbricarci un abituro abbastanza confortabile e agire con quanta più prudenza e circospezione possibile. A questa proposta il mio compagno assentì e ci accingemmo quindi ad attuare il nostro piano.

A questo scopo, dopo aver esplorato senza alcun successo un boschetto vicino, attraversammo alcuni dei crinali di cui già parlai; e il pomeriggio ci trovò mentre stavamo scalando un lungo pendio, ma senza ancora aver trovato il luogo che cercavamo. Intanto nubi pesanti e basse ci annunciavano un prossimo temporale, e noi ora ci affrettammo verso un gruppo di fitti cespugli che parevano coronare la sommità del pendio. Ci buttammo a ridosso di cotesti cespugli e tirando verso di noi le lunghe erbe che crescevano all’intorno fino a coprircene interamente, attendemmo che il temporale si sferrasse.

Ma questo non giunse tanto presto, e nell’attesa il mio compagno s’addormentò profondamente, mentre anch’io mi sprofondavo nello stesso stato di felice oblio d’ogni cosa. Ma proprio in quel mentre, cominciò a piovere con tale inaudita violenza da farmi rinunciare a ogni idea di dormire. Per quanto abbastanza riparati, pure i nostri vestiti furono in breve inzuppati, e questo, dopo tutto il lavoro compiuto per asciugarli, era tutt’altro che piacevole; ma non c’era nulla da fare; e a me non resta che raccomandare a tutti i giovanotti che abbandonano le loro navi per avventurarsi, durante la stagione delle pioggie, in isole romantiche, di provvedersi almeno almeno di ombrelli.

Il temporale terminò dopo circa un’ora. Il mio compagno dormì tutto il tempo, ed ora che era finito, non avevo il coraggio di destarlo.

Nelle due ore trascorse sotto quei cespugli, cominciai a provare un malessere che lì per lì attribuii alle intemperie della notte precedente. Brividi gelati ed una febbre ardente, si succedevano ad intervalli; e avevo una gamba così gonfia e dolorante, che quasi sospettavo di essere stato morso da qualche rettile velenoso, ospite del crepaccio dal quale eravamo usciti. È opportuno io noti qui una cosa che più tardi appresi. Pare che tutte le Isole della Polinesia godano della riputazione, in comune coll’Irlanda, di essere completamente immuni dalle vipere; ignoro però, nè starò a discutervi sopra, se San Patrizio1 abbia mai visitato quelle isole.

Aumentando in me il parossismo della febbre, mi volgevo sussultando da un lato all’altro, e siccome non volevo disturbare il sonno del mio compagno, me ne allontanai di qualche metro; smossi così facendo un ramo, e nel fare questo mi si presentò dinanzi un panorama che, anche adesso posso rammentare con tutta la vivida gioia di quella prima impressione. Se mi fosse stato rivelato un barlume del paradiso terrestre, non avrei potuto essere più incantato di tale visione.

Dal posto in cui mi trovavo, impalato per la sorpresa e l’ammirazione, i miei sguardi si portavano nel fondo di una valle che degradava con molli ondulazioni fino alle acque azzurre del mare che si scorgeva a distanza. A metà strada, facevano capolino tra il fitto fogliame, le abitazioni coperte di foglie di palmetto degli abitanti: e brillavano al sole che ne aveva imbiancato il colore, fino a farle apparire di scintillante argento. La vallata era lunga più di tre leghe, e nella sua maggior larghezza, appariva di circa un miglio.

La rinserravano ripidi e verdeggianti acclivi, che riunendosi vicino al luogo ove io giacevo, formando un termine repentino e semicircolare di pendii erbosi e di precipizi di una trentina di metri, sopra i quali fluivano innumerevoli cascatelle. Ma la maggior bellezza del panorama, stava nell’abbagliante verzura; e credo, anzi, che appunto in questo consista l’incanto speciale di ogni paesaggio della Polinesia. Sotto di me, ovunque si posasse lo sguardo, la superficie della vallata presentava una massa di fogliame sparso con così ricca profusione, che era impossibile determinare di che alberi si trattasse.

Ma forse ciò che più colpiva del paesaggio erano quelle silenziose cascate, i cui tenui fili d’acqua balzavano dai ripidi pendii per poi perdersi nel verde lussureggiante della valle.

Un silenzio solenne regnava ovunque e io temevo di romperlo, quasi che una parola potesse dissolvere l’incanto del fiabesco paesaggio. Lungo tempo rimasi collo sguardo che spaziava in tanta fascinosa bellezza, dimentico della mia situazione e del mio compagno ancora immerso nel sonno.

  1. Si dice che San Patrizio, protettore dell’Irlanda, facesse sparire tutti i rettili velenosi.