Correva ai tempi antichi una leggenda
famosa, ch’io non so proprio se meriti
d’esser contata; a voi per quel che possa
aver di sale, amici, io ve la vendo.
Strombazzato la Fama avea pel mondo
che Alessandro, figliuol almo di Giove,
nulla volea di ciò che vive in terra
lasciar libero più, ma tutte quante
render le cose al scettro suo soggette.
Quindi ordinato avea che quanti sono
popoli a quattro ed a due piè sul globo,
elefanti, serpenti, uomini e vermi,
e tutta intera dei canori augelli
la famiglia, prostrati a’ suoi ginocchi,
giurasser tutti obbedienza e omaggio.
Va colle cento trombe, e gran spavento
diffonde la gran Dea fra gli animali
non avvezzi a servir che al capriccioso
e natural istinto. Or come mai
potranno a nuovo re piegare il collo?
Presto fuor delle tane a torme sbucano
e nel deserto in assemblea si adunano,
e dopo molta agitazione e chiacchiere
si vota di obbedire. Dell’omaggio
trascritta in cartapecora la formola,
alla Scimmia assegnâr la delicata
politica di svolgere gli articoli.
Quanto al tributo un vicin re, che molte
cave d’or possedea, diede i denari
fin che si volle. Indi si venne al modo
di trasportar il prezioso carico.
L’Asino e il Mulo offrirono la schiena
e a lor si aggiunse per aiuto in seguito
il Destriero e il Cammello. E vanno. Appresso
vien la Scimmia, l’illustre diplomatica.
E vanno un pezzo, allor che ad un crocicchio
incontran l’illustrissimo Leone,
(almen commendator) che dice: - O bravi,
ben trovati! viaggio anch’io, signori,
per quelle parti e vo a pagar la tassa:
anzi, fatemi grazia, ove non pesi
troppo, di prender questo mio fardello
un po’ per uno infino alla città.
Così potrò più libero e più pronto
difendervi, se mai ne assalti alcuna
delle bande che infestan questi boschi -.
Ad un Leon non si usa dir di no.
Anzi vien ricevuto con rispetto,
e sollevato, e corteggiato; e vanno
superbi di servir a un’Eccellenza,
che alla barba di Giove e di suo figlio,
grasso e beato del suo bel far nulla,
vive sui fondi della cassa pubblica.
Arrivan finalmente a un praticello
tutto smaltato a variopinti fiori,
tra ruscelli scorrenti, ove le mandre
lieta fanno sul pascolo la vita,
tranquillo albergo di soavi aurette.
Quivi accusa il Leon non so qual foco
che gli brucia le viscere e, piangendo,
- Lasciate, - dice, - ch’io rimanga in questo
luogo tranquillo a risanar la febbre.
Andate voi, lasciatemi soltanto
per le occorrenze il mio denar -. Si tolgono,
si slegano i sacchetti e - O vista! - esclama
il Leon, che di giubilo saltella, -
ve’, ve’, quanti figlioli a me le doppie
han generato, e già, guardate, amici,
molti son grandicelli e poco meno
delle madri. Il prodotto è roba mia... -
E sì dicendo, tutto l’oro acciuffa.
La Scimmia e gli altri restano sì scossi,
che non osan fiatar. Indi ripresa
lemme lemme la strada, ad Alessandro
chiedon ragione. - Ad Alessandro? e come
avria potuto render lor giustizia?
È ben che il ladro mai non rubi al ladro,
dice il proverbio, e poi si sa da un pezzo:
Leon non mangia carne di Leone.