Trattato dei governi/Libro terzo/XII

Libro terzo - Capitolo XII: Del re assoluto

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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro terzo - Capitolo XII: Del re assoluto
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Ma il nostro ragionamento è ora di quel re, che fa ogni cosa secondo la voglia sua; e di questo sì fatto è da considerare. Imperocchè il re, che è per legge, non fa specie di regno, siccome io ho detto innanzi; perchè in tutti gli stati può farsi uno, che abbia perpetua autorità negli eserciti; com’è nel popolare stato, e negli ottimati. E in molti luoghi s’usa di preporre un solo alla amministrazione di tai cose. E un tale magistrato s’usa in Epidanno. E in Opuntio v’è ancora, ma limitato alquanto più.

Ma del regno, che ha la podestà assoluta (e tale è quello che ogni cosa governa ad arbitrio suo) in questo dico pare ad alcuni, che e’ non sia naturale cosa fare padrone assoluto uno dei suoi cittadini in quei luoghi, dove le città sono composte di simili: imperocchè alli pari di natura essendo giusto il medesimo, però conseguita necessariamente per via della natura, che tali ancora debbino avere l’onore a uno pari. Per il che se egli è nocivo ai corpi, che gli inuguali abbino cibo, o vestimento eguale, il medesimo avverrà ancora negli onori, e medesimamente s’egli è cosa dannosa, che gli eguali abbino l’ineguale. Laonde non viene ad essere più giusto il comandare che l’ubbidire, e così scambievolmente, e questo già diventa legge, perchè l’ordine è legge. Per la qual cosa è meglio, che la legge comandi, che nessun altro particolare cittadino. E per questa ragione istessa, se e’ fusse meglio dare il governo in mano ai più, dico, che tali si debbono in tale modo constituire principi, che e’ sieno guardiani delle leggi e ubbidienti a loro; perchè invero e’ fa mestieri, che e’ sieno alcuni magistrati. Ma e’ si niega bene essere giusto, che uno solo sia dei magistrati tutti amministratore, dove tutti gli altri cittadini vi sieno simili.

Ma li casi, che non può determinare la legge, ma sì l’uomo può conoscergli, in tali la legge ha fatto prudentemente, che di tutto ciò ne sia permesso il giudizio a una giustissima mente, e hallo lasciato amministrare ai magistrati. Oltra di questo ella concede ancora d’essere corretta in tutti i casi, che tentasse uno, o li paresse di poterla ridurre a meglio di quel che ella è. Chi vuole adunche, che la legge comandi, pare ch’e’ voglia che ei comandi Dio, e la legge. E chi vuole, che e’ comandi l’uomo, v’aggiugne ancora la bestia; perchè la concupiscenza ha del bestiale, e l’ira sforza ancora gli uomini buoni, che sono constituiti in imperio. Onde la legge non è altro, che mente senza perturbazione.

E falsamente pare invero, che sia posto qui l’esempio dell’arti, cioè che e’ sia male ordine il medicare per via dello scritto, anzi è meglio usare per medici quei che hanno l’arte: perchè tali senza essere svolti dalla amicizia non fanno cosa alcuna fuori di ragione, nè vogliono essere pagati se non poi che gli hanno guarito l’infermo. Ma quei, che sono nei magistrati civili, molte cose amministrano per conciliarsi grazia, e per far piacere. Provasi il medesimo, che quando e’ si sospetta, che il medico non sia corrotto per danari dalli suoi nimici, allora e’ si ricorre piuttosto alle medicine, che sono date da chi ha scritto.

Usano ancora i medici quando e’ sono infermi di chiamare altri medici. E li maestri dei giuochi, che s’esercitano, chiamano degli altri maestri; come se essi non fussino bastanti di giudicare il vero per giudicare di cose proprie, e per essere in perturbazione. Onde è manifesto, che, cercando gli uomini del giusto, e’ cercano del mezzo; e la legge non è altro che mezzo. Le leggi ancora, che sono per via di consuetudine, sono più di autorità; e trattano di cose di più autorità, che non sono le leggi per via di scritto. Onde sebbene l’uomo, che governa secondo le leggi scritte è più sicuro, e’ non è però più sicuro di chi governa secondo le leggi, che sono in costume.

Ben è vero, ch’egli è impossibile, che un solo vegga il tutto; perciò debbe egli sotto di sè constituire più magistrati. Onde che differenza è, che dapprima questo sia nella republica? o che uno dappoi così l’ordini? Oltra di questo replicando quello che innanzi fu detto, egli è certo, che l’uomo virtuoso merita d’essere principe, perchè egli è migliore degli altri; e se d’un solo sono migliori due, che sieno buoni, più lo meriteranno questi due. E questo vuol significare:

E li due insieme andanti.

E il prego d’Agamennone

Avess’io dieci tai nel mio consiglio.

Sono ancora oggi i magistrati padroni di giudicare certe cose, siccome avviene nel giudice nei casi, che non può determinare la legge; come se la legge non potesse ben comandare, nè ben giudicare; che dove la legge può arrivare, nessuno è che quivi dubiti punto, ch’ella non abbia ad esser padrona.

Ma perchè e’ può essere, che certe cose sieno state da lei tralasciate, e certe non è possibile che ell’abbia compreso, però avviene questo dubbio; e però si va cercando s’egli è meglio, ch’ei comandino l’ottime leggi, o l’uomo che sia ottimo: perchè e’ non è possibile por le leggi di quelle cose che caggiono sotto il consiglio. Non si niega pertanto, che ei non sia necessario, che di tai cose non debba l’uomo essere giudice, ma bene si niega, che ei debba essere un solo: ed è me’ che e’ sieno molti, perchè ciascuno, che è in magistrato, giudica bene quando egli è ammaestrato dalla legge.

E forse qui parrebbe disconvenevole a dirsi, che un vedesse meglio con due occhî, e meglio udisse con due orecchî, e con due piedi, e con due mani meglio operasse, che non farebbono molti con più membri dei racconti. Conciossiachè e’ si vegga essere messo in costume dai monarchi di farsi più occhî, più orecchî, più mani e più piedi; facendosi compagni del principato quei che sono di loro e di quel principato amici. Imperocchè quegli, che non fussino amici, farebbono quello che volesse il principe; e quegli, che li sono amici, farebbono quello che vuole il principe, e il principato: imperocchè l’amico è pari, ed è simile. Onde chi stima, che questi debbino essere nei magistrati, stima che gli pari, e li simili debbino egualmente governare. Queste adunche sono le ragioni di chi dà contra la podestà regia.

Ma tai cose forse sono buone in certi casi, e in certi non sono così; e la ragione è che e’ si dà quello che per natura debbe stare sotto al signorile imperio, e quello che sta sotto il regale, e quello, che sta sotto il civile. Il quale imperio è utile e giusto. Ma l’imperio tirannico non è secondo la natura, nè alcun altro modo di stato, che sia trapassato; perchè tali sono contra natura. Ma per le cose dette è manifesto, che infra gli pari e simili ei non è nè utile, nè giusto, che uno sia padrone d’ogni cosa, nè senza legge governando, ma essendo ei legge; ne ancora essendo esecutore delle leggi, nè essendo come buono preposto ai buoni, nè essendo come non buono ai non buoni, nè avvenga che per natura e’ fusse migliore degli altri, se non in un certo modo. Il quale modo si dirà come e’ sia fatto ed essene detto ancora innanzi.

Ma prima è da determinare qual soggetto sia quello che debba stare sotto il regno, e quale sotto lo stato ottimate, e quale sotto la repubblica.

Sotto il regno adunche debbe stare un popolo, che per natura sia atto a sopportare per signore civile una stirpe, che per virtù avanzi altri. Sotto l’ottimate sta bene quel popolo, che per natura sia atto a sopportare d’essere signoreggiato d’imperio da liberi, da quei che sopravanzino gli altri di virtù per dominare civilmente. E da republica è quello, dove per natura viene su una gente atta alla guerra, ed atta a comandare, ed atta ad ubbidire secondo le leggi che convenevolmente distribuischino i magistrati alli cittadini poveri.

Dove adunche o tutta una stirpe, o uno solo avanza tanto di virtù gli altri, ch’egli, o ella sia sopra quella di tutti, allora è cosa giusta, che quella stirpe sia regia, e che quel solo sia re, e padrone di tutti gli altri; chè, come io ho detto innanzi, la cosa non sta così solamente per via di quel giusto, che proferiscono quei, che costituiscono gli stati, e gli ottimati, dico, e quei de’ pochi potenti, e li popolari, che tutti cioè vogliono dare gli onori alla eccellenza.

Ma e’ non convengono già tutti in chiarire la medesima, ma ella sta così ancora per via del giusto detto innanzi, cioè ch’e’ non è convenevole, e che un tale uomo, che gli altri sì di virtù trapassi, sia ammazzato, o fatto ribelle, o perseguitato con l’ostracismo; nè ancora è convenevole stimare per ben fatto, che egli ubbidisca scambievolmente; perchè la natura non vuole, che la parte avanzi il tutto. E ciò interviene a chi siffattamente trascende gli altri.

Onde resta a conchiudersi, che a tale si debba ubbidire e che e’ debba essere fatto padrone non ora sì, e ora no, ma assolutamente. Quai sieno adunche le differenze del regno, e se egli è, o non è utile alle città, e a quali, e in che modo, siensene determinate nel modo detto. E perchè io ho detto gli stati buoni essere di tre sorti, l’ottimo dei quali per necessità è il governato dagli ottimi. E tale è, dove accade, che un solo uomo, o che una stirpe o che una moltitudine di cittadini avanzi di virtù tutto il resto, che possa stare sottoposto, e a chi tali possino comandare per fine di vivere felicemente. E ne’ primi discorsi avendo mostrato ancora essere necessario, che la virtù dell’uomo, e del buon cittadino sia la medesima, però è manifesto ancora, che con le medesime arti un solo uomo si fa virtuoso, e la città intera si può instituire alla forma ottimate, o regia. Laonde le instruzioni e i costumi, che possono fare un uomo buono, quasi le medesime possono fare un uomo civile e regale.

Ma queste cose essendosi determinate, sforziamoci oramai di dire della republica ottima, in che modo cioè ella stia per natura, e qualmente ella si possa constituire, che ciò si debbe fare per necessità da chi vuole di lei considerare convenientemente...


FINE DEL LIBRO TERZO.