Trattato dei governi/Libro terzo/VI

Libro terzo - Capitolo VI: Del giusto popolare, e di quel dei pochi potenti

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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro terzo - Capitolo VI: Del giusto popolare, e di quel dei pochi potenti
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Ma piglinsi primieramente li termini che si danno all’uno e all’altro stato, e il giusto il quale è nell’uno, e nell’altro; che amendue questi invero attingono a qualche giusto, ma vanno infino a un certo che, e non hanno il giusto assoluto. Com’è, verbigrazia, l’eguale pare che sia giusto, ed è infatto: ma e’ non è ad ogni uomo, ma è agli eguali. Ed all’incontro l’ineguale pare che sia giusto, ed è infatto; ma non a ogni uomo, ma è agli ineguali. Ed in questi stati si to’ via a chi e’ sia giusto, e però vi si giudica male. E la ragione è, che ’l giudicio è di loro stessi; ma quasi la più parte degli uomini sopra le cose proprie danno male giudizio.

Laonde perchè ’l giusto è a certi, e dividesi nel modo detto; cioè e nella cosa, e negli uomini, siccome io ho detto innanzi nell’Etica, però questi tali confessano la parità delle cose. Ma le contese sono di chi ell’hanno a essere. E questo nasce da quello, che io ho detto cioè perchè e’ fanno male giudizio di loro stessi, e ancora perchè volendo ciascuno di tali stati il giusto insino a un certo che, e’ par loro, che un certo che di giustizia sia la giustizia vera. Chè questi se in alcuna cosa sono inuguali (come è dire nelle ricchezze), e’ si stimano d’essere interamente inuguali; e quegli, se in qualche cosa e’ son pari (come è dire nella libertà), e’ si stimano d’essere pari in tutti i conti; e così non dicono il giusto principalissimo, e il vero.

Perchè se il fine di ragunare insieme li cittadini fusse per le facultà, egli avrebbe uno a partecipare per questa ragione tanto nel governo, quanto egli ha partecipazione nella roba; onde la ragione dello stato dei pochi potenti varrebbe: perchè ei dicono non essere giusto, che e’ partecipi dell’utile di cento scudi, chi n’ha messo nel traffico un solo per tanto, quanto chi v’ha messo tutto il restante, così negli utili fatti innanzi, come ’n quei che sono fatti dappoi.

Ma tale ragione non è valida se la città è stata constituita non solamente per cagione del vivere, ma molto più per cagione di bene vivere; perchè stando altrimenti, ella verrebbe ad essere ancora partecipata dai servi, e dagli altri bruti animali; ma ella non è, perchè tali non partecipano di felicità, nè della vita, che si fa con elezione: nè ancora è constituita per fine d’una lega insieme fatta, acciocchè li collegati non siano offesi da nessuno. Nè per cagione di barattare, nè per farsi comodi l’uno all’altro; perchè in tal modo li Toscani, e li Cartaginesi, e tutti quegli che hanno insieme commerci, verrebbono come a essere d’una città medesima cittadini, essendo in fra loro convenzioni ferme intorno alle mercanzie, che vanno e vengono di qua, e di là, che a nessuno sia fatto ingiuria: e sono in fra loro capitoli, e convenzioni di società. Ma e’ non sono già nell’uno popolo, e nell’altro i magistrati comuni, ma sonvi diversi. Nè tengono cura l’uno dell’altro, qualmente e’ si sieno; nè qualmente a nessuno di loro, che vivono sotto quei patti, non vi sia ingiustizia, o manchino di cattività alcuna, ma solamente avvertiscono di non s’ingiuriare l’un l’altro. Ma delle virtù, e del vizio de’ cittadini han cura tutti quegli, che intorno alle buone leggi s’esercitano. Onde è manifesto, ch’ei si debbe mettere diligenza in fare li cittadini virtuosi da quella città, che veramente è città, e non solo in nome, perchè ancora una lega si può dire compagnia in fra molti, e solamente differente dalla civile, per essere lontana per il sito degli altri compagni. E la legge ancora è una convenzione (siccome dice Licofrone Sofista) che entra mallevadore in fra gli uomini della giustizia; ma ella non è già bastante a fare li cittadini buoni, nè giusti.

E che la cosa stia così è certissimo, perchè se uno potesse accozzare insieme diversi luoghi, e farne uno, di maniera che le città di quei di Megara, e di quei di Corinto si toccassino con le mura l’una con l’altra, contuttociò dico, ch’elle non sarebbono una città medesima, ne ancora che e’ facessino insieme dei parentadi. E è pure questa una principale compagnia, e propria che sia nelle città. Nè ancora sarebbono d’una città medesima cittadini sebbene egli abitassino dispersè; ma non però tanto l’uno dall’altro lontàni, che e’ non potessino convenire insieme, anzi di più avessino leggi, che proibissino l’uno all’altro l’ingiurie nei commerci. Com’è se l’uno fosse fabbro, e questo contadino, e quel cojajo, e quell’altro un’altra cosa; e così fussino diecimila, i quali non convenissino insieme in nessun altro conto, che in questo; cioè in barattare le loro merci e in ajutarsi l’un l’altro nelle guerre, dico, che in tal modo ancora non sarebbe questa città. Ma per qual cagione? Non già perchè tali non comunicassino insieme, e non fussino vicini, che sebbene e’ covenissino insieme in tal modo, e ciascuno usasse la propria sua casa, come la città, e porgessino ajuto l’un l’altro come confederati contra di chi volesse offendergli solamente, dico, che nè ancora, in tale modo stando la cosa, sarà città questa tenuta da chi andrà veramente esaminando, sebbene per tale verso e’ potessino conversare insieme, e dispersè come a loro paresse. È manifesto pertanto la città non essere comunione di luogo, nè essere patto di non s’ingiuriare l’un l’altro, e non essere constituita per fine di potere trafficare insieme, ma ben essere di necessità, che tai cose vi sieno, s’ella ha ad essere città. E con tutto che le cose sopraddette tutte vi fussino, non però è città, ma è città quella compagnia, che è instituita per cagione di bene vivere, e in vita lunga sì nelle case private, e sì nelle stirpi, e che sia sufficiente.

E tale fine non può esser conseguitato da chi non abita in un luogo medesimo, e da chi non fa insieme de’ matrimonî. Onde nelle città sono stati trovati li parentadi, le compagnie, li sacrificî, e gli altri modi di conversare l’uno con l’altro. E questo tale ufficio all’amicizia appartiensi, imperocchè l’elezione del vivere insieme non è altro che amicizia. E per tanto il bene vivere fine della città, e queste altre cose dette sono mezzo per conseguirlo. E la città è una compagnia fatta nelle famiglie, e nei borghi; una compagnia dico di vita perfetta, e per sè stessa sufficiente, e questo è, come io ho detto, il vivere con felicità e con virtù. Debbesi adunche constituire la civile compagnia per cagione di fare azioni oneste e non per cagione di vivere insieme.

Onde tutti quegli che più giovano in questa civile compagnia, questi più debbone partecipare nel governo della città di quegli, che per via di libertà, o di sangue sono pari a loro, o maggiori, ma ben sono loro inferiori nella virtù civile: e più di quegli che gli avanzano nelle ricchezze, ma che nelle virtù sono da loro avanzati. E per li detti nostri è manifesto, che tutti quegli, che contendono nelle città, affermano di volere un certo che di giustizia.