Trattato dei governi/Libro quarto/I

Libro quarto - Capitolo I: Della republica ottima

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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro quarto - Capitolo I: Della republica ottima
Libro quarto Libro quarto - II


Chi vuol ricercare convenientemente qual sia l’ottima republica, gli fa di mestieri prima chiarire qual sia la vita più d’ogn’altra desiderabile; perchè mentre che questa non si sa e’ non si può ancora sapere quale sia la republica ottima. Conciossiachè chi vive in essa, debba vivere virtuosamente, secondo le cose che gli ha; se già e’ non gli interviene cosa alcuna fuori di ragione. Debbesi pertanto convenire la prima cosa in questo punto, dove si ponga cioè la vita ottima; e dopo è da esaminare se tale vita, stando dispersè, o in compagnia d’altri, è la medesima, o è diversa.

Pensando io adunche d’aver detto molte cose a bastanza nei ragionamenti esterni circa la vita ottima, dico che al presente è da ricordarsene; che per dire il vero quanto a una divisione fatta quivi nessuno è, che mi si opponesse; cioè che essendo li beni divisi in tre maniere; in beni di fuori, in beni del corpo, ed in beni dello animo, che tutti quanti questi debbono essere nell’uomo da essere felice. Perchè nessuno potrà mai chiamare colui felice, che non ha pure alcun vestigio di fortezza, nè di temperanza, nè di giustizia, nè di prudenza, ma che abbia in spavento le mosche, che gli si aggirano attorno, e che non si sappia astenere, se e’ ne li viene appetito, dal mangiare, o dal bere cose sporcissime, e che per cagione d’un quattrino ammazzi gli amici carissimi; e così nella parte intellettiva sia talmente insensato, e fuori del segno, come se e’ fusse un fanciullo, o un pazzo.

Ma tutte queste cose, così come ogni uomo le confesserebbe per vere, parimente discorderebbe nella quantità d’esse, e nella soprabbondanza; perchè e’ non è uomo a chi non paja d’avere virtù tanta che gli basti, ma bene vorrebbe in eccessiva quantità, e infinitamente della roba della potenza e della gloria, e d’altri simili beni; ai quali (chè così stimano) dico io potersi fare di tai cose vero giudizio mediante li fatti stessi, che ne mostrano la verità. Conciossiachè e’ si vegga per prova, che non le virtù si acquistano, mediante li beni esterni, ma bene all’incontro questi mediante le virtù stesse. E che ’l vivere felicemente o sia egli collocato nell’avere piacere, o sia egli posto quanto agli uomini nelle virtù, o sia nell’una cosa, e nell’altra, ch’e’ si ritrova contuttociò maggiormente in coloro che hanno adornato assai l’animo, e che hanno l’appetito bene costumato, e che de’ beni esterni ne posseggono modestamente, piuttosto di chi ne possiede più che non gli bisogna, ed ha manco di quei dell’animo.

Ma oltre alla prova, che di ciò si vede, la ragione intessa, se e’ si va bene considerando, ci dimostra il medesimo; perchè li beni esterni hanno termino, siccome hanno tutti gli altri instrumenti e ciascuna cosa utile è tale, che l’eccesso suo per necessità nuoce, o veramente non giova a chi l’ha. Ma ciascun bene dell’animo quanto egli è maggiormente in soprabbondanza, tante più viene ad essere utile, se e’ si debbe a tai beni dare non solamente aggiunta d’onesto, ma ancora d’utile. Insomma e’ si dice, che ciascuna disposizione buona di qualunche cosa si conseguita l’una l’altra secondo la distanza di quelle cose, delle quali noi diciamo loro essere disposizioni. Onde se l’anima è più nobile della roba e del corpo, e assolutamente, e in quanto a noi, e’ conseguita di necessità, che l’ottima disposizione di ciascuna cosa abbia la medesima corrispondenza con le cose dette. Oltra di questo simili cose sono atte ad essere elette per cagione dell’animo, e ciascuno, che è saggio, debbe volerle, ma e’ non debbe già volere l’animo per cagione di loro.

Che adunche a ciascuno si aggiunga tanto di felicità, quanto egli ha di virtù e di prudenza, e d’opera d’azione da queste virtù derivanti, siami da ogn’uomo conceduto col testimonio di Dio ottimo, il quale è felice e beato non mediante alcun bene esterno, ma mediante lui stesso, e per essere di tal natura. E ancora perchè e’ si vede, che la buona fortuna, e la felicità sono cosa diversa; imperocchè la fortuna e il caso è cagione dei beni esterni, e perchè nessuno è nè giusto, nè temperato mediante il caso, nè la fortuna; e così conseguita, ed è alle ragioni medesime sottoposto, che la città felice sia l’ottima, e quella che vive virtuosamente. Ma egli è impossibile a virersi bene da chi non opera cose oneste. Nè si ritrova uomo alcuno, nè città alcuna, che senza virtù e prudenza possa operare cosa buona. E la fortezza, e la giustizia, e la prudenza d’una città han la medesima forza, e la medesima forma, che han quelle di che i particolari partecipando sono detti uomini giusti, temperati e prudenti.

Ma tai cose siensi dette qui da me per via di proemio, perchè e’ non si può fare senza toccarle, e a volerle dire esattamente tutte non è ancora possibile, perchè ella è impresa da altro ozio che da questo. Ma ora presuppongasi questo, cioè, che l’ottima vita, e generalmente della città sia quella, che congiunta alla virtù è accompagnata ancora dai beni esterni, insino a tanto che ella possa fare l’azioni virtuose. E lasciando al presente in questa dottrina il disputare con chi non volesse stare quieto alle ragioni dette, un’altra volta rispondendo loro, ci faremo considerazione, se alcuno si ritrova, che non voglia stare al detto nostro.