Trattatello in laude di Dante/XXIX
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Spiegazione del sogno
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La divina bontà, la quale ab ecterno, sì come presente, ogni cosa futura previde, suole, da sua propia benignità mossa, quale ora la natura, sua generale ministra, è per producere alcuno inusitato effetto infra’ mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segno o in sogno o in altra maniera farci avveduti, acciò che dalla predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nel Signore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione, se bene si riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto di sopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva egli fare che con tanta affezione e veduta e servata l’avesse, quanto colei che della cosa mostrata doveva essere madre, anzi già era? Certo a niuna. Mostrollo dunque a lei, e quello che egli a lei mostrasse ci è già manifesto per la scrittura di sopra; ma quello che egli intendesse con più aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire un figliuolo, e certo così fece ella infra picciolo termine dalla veduta visione. Ma che vuole significare l’alto alloro sotto il quale il partorisce, è da vedere.
Oppinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertù e influenzia de’ corpi superiori gl’inferiori e producersi e nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata non resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore sia più possente nel grado che sopra l’orizzonte sale in quella ora che alcun nasce, secondo quello cotale corpo più possente, anzi secondo le sue qualità, dicono del tutto il nato disporsi . Per che per lo alloro, sotto il quale alla donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi pare che sia da intendere la disposizione del cielo la quale fu nella sua natività, mostrante sé essere tale che magnanimità e eloquenzia poetica dimostrava; le quali due cose significa l’alloro, àlbore di Febo, e delle cui frondi li poeti sono usi di coronarsi, come di sopra è già mostrato assai.
Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli effetti da così fatta disposizione di cielo, quale è dimostrata, già proceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine, da’ quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioè ammaestrato il nostro Dante.
Il fonte chiarissimo, de la cui acqua le parea che questi bevesse, niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l’ubertà della filosofica dottrina morale e naturale; la quale si come dalla ubertà nascosa nel ventre della terra procede, così e queste dottrine dalle copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertà si possono dire, prendono essenza e cagione; senza le quali, così come il cibo non può bene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi ’l prende, non si può alcuna scienzia bene negl’intelletti adattare di nessuno, se dalli filosofici dimostramenti non v’è ordinata e disposta. Per che ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la filosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come già è detto, con tutta la sua sollecitudine studiava.
Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era a divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciò bisognosi. E sì come assai leggermente ciascuno può comprendere, due maniere sono di pastori: l’una sono pastori corporali, l’altra spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la prima è quella di coloro che volgarmente da tutti sono appellati <<pastori>>, cioè i guardatori delle pecore o de’ buoi o di qualunque altro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla sollecitudine de’ quali convegnono essere e pasciuti e guardati e governati la gregge de’ figliuoli e de’ servidori e degli altri suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono dire di due maniere, delle quali l’una è quella di coloro li quali pascono l’anime de’ viventi della parola di Dlo; e questi sono li prelati, i predicatori e’ sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l’anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora; l’altra è quella di coloro li quali, d’ottima dottrina, o leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovo ciò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano e l’anime e gl’intelletti degli ascoltanti o de’ leggenti, li quali generalmente dottori, in qual che facultà si sia, sono appellati. Di questa maniera di pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne il nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l’altre opere compilate da lui, riguardisi la sua Commedia, la quale con la dolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma i fanciulli e le femine; e con mirabile soavità de’ profondissimi sensi sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea e pasce gli solenni intelletti.
Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l’ha nutricato, niuna altra cosa ne mostra che l’ardente disiderio avuto da lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per nulla altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le quali frondi mentre che egli più ardentemente disiderava, lui dice che vide cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si ricorda di ciò che di sopra è detto, gli avvenne quando più la sua laureazione disiava.
Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un paone: per lo qual mutamento assai bene la sua posterità comprendere possiamo, la quale, come che nell’altre sue opere stea, sommamente vive nella sua Commedia, la quale, secondo il mio giudicio, ottimamente è conforme al paone, se le propietà de l’uno e de l’altra si guarderanno. Il paone tra l’altre sue propietà per quello che appaia, n’ha quattro notabili. La prima si è ch’egli si ha penna angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è che egli ha sozzi piedi e tacita andatura; la terza si è ch’egli ha voce molto orribile a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e incorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la Comedia del nostro poeta; ma, perciò che acconciamente l’ordine posto di quelle non si può seguire, come verranno più in concio or l’una ora l’altra le verrò adattando, e comincerommi da l’ultima.
Dico che il senso della nostra Comedia è simigliante alla carne del paone, perciò che esso, o morale o teologo che tu il dèi a quale parte più del libro ti piace, è semplice e immutabile verità, la quale non solamente corruzione non può ricevere, ma quanto più si ricerca, maggiore odore della sua incorruttibile soavità porge a’ riguardanti. E di ciò leggiermente molti esempli si mostrerebbero, se la presente materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne agl’intendenti.
Angelica penna dissi che copria questa carne; e dico <<angelica>>, non perché io sappia se così fatte o altramenti gli angeli n’abbiano alcuna, ma, congetturando a guisa de’ mortali, udendo che gli angeli volino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra questi nostri uccelli più bella, né più peregrina, né così come quella del paone, imagino loro così doverle avere fatte; e però non quelle da queste, ma queste da quelle dinomino perché più nobile uccello è l’angelo che ’l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si cuopre, intendo la bellezza della peregrina istoria, che nella superficie della lettera della Comedia suona: sì come l’essere disceso in inferno e veduto l’abito del luogo e le varie condizioni degli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite le lagrime e i lamenti di coloro che sperano d’essere santi; e quindi salito in paradiso e la ineffabile gloria de’ beati veduta. Istoria tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da alcuno più non fu pensata non che udita, distinta in cento canti, sì come alcuni vogliono il paone avere nella coda cento occhi. Li quali canti così provvedutamente distinguono le varietà del trattato opportune, come gli occhi distinguono i colori o la diversità delle cose obiette. Dunque bene è d’angelica penna coperta la carne del nostro paone.
Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l’andatura queta: le quali cose ottimumente alla Comedia del nostro auttore si confanno, perciò che, sì come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, così prima facie pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura composta si sostenga; e il parlare volgare, nel quale e sopra il quale ogni giuntura della Comedia si sostiene, a rispetto dell’alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è sozzo, come che egli sia più che gli altri belli agli odierni ingegni conforme. L’andar queto significa l’umiltà dello stilo, il quale nelle commedie di necessità si richiede, come color sanno che intendono che vuole dire <<comedia>>.
Ultimamente dico che la voce del paone è orribile: la quale, come che la soavità delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla prima apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderà, ottimamente a lui si confà. Chi più orribilmente grida di lui, quando con invenzione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle de’ preteriti gastiga? Qual voce è più orrida che quella del gastigante a colui ch’è disposto a peccare? Certo niuna. Egli ad una ora colle sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la qual cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si può dire avere. Per la qual cosa, e per l’altre di sopra toccate, assai appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto paone, sì come credere si puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato alla cara madre.
Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e questo per più cagioni. Primieramente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa si richiederebbe, non c’era; appresso, posto che stata ci fosse, la principale intenzione nol patia; ultimamente, quando e la sufficienzia ci fosse stata e la materia l’avesse patito, era ben fatto da me non essere più detto che detto sia, acciò che ad altrui più di me sofficiente e più vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciò quello, che per me detto n’è, quanto a me dee convenevolmente bastare; e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.