Sulla Ferrovia Perugina
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Sulla Ferrovia Perugina.
All’illustre Municipio di Perugia.
- Onorevoli Signori.
8 Dicembre, 1861.
Molto gentilmente, due mesi sono, mi favoriste d’un opuscolo sulla vostra ferrovia, aggiungendomi invito a dirne una parola nel Politecnico.1
Avrei fatto prima d’ora, se non fossero stati altri due impegni, e da ultimo, un repentino ed aspro malore che mi colse agli occhi non senza minaccia di peggio.
Or vi dirò sinceramente e brevemente ciò che la lettura del vostro libro mi suggerisce.
Per movere da idee ben certe e ben chiare, giova vedere in una carta d’Italia a che si riducano nel loro complesso codeste ferrovie dell’Italia Centrale.
Se prendiamo due punti verso il Mar Tirreno, cioè Livorno e Civitavecchia, e due verso l’Adriatico, l’uno dei quali può esser Ravenna o Rimini e l’altro è Ancona, veniamo ad avere una figura prossima ad un quadrato, tutta cinta di ferrovie. Tra Livorno e Civitavecchia abbiamo la linea maremmana; tra Livorno e Ravenna abbiamo la duplice ferrovia fiorentina e i passi dell’Apennino toscano; da quelle vicinanze abbiamo la litorale Adriatica fino ad Ancona e da Ancona una quarta linea, che, attraversando la penisola, ritorna per Fuligno e Roma a Civitavecchia.
Senonchè a compier l’edificio restano ancora due linee. Provengono ambedue da Firenze. L’una, passando per Empoli e Siena, tende a Roma; l’altra, passando per Arezzo e Perugia, dovrebbe con giungersi in Fuligno colla sopradetta quarta linea d’Ancona a Civitavecchia.
È chiaro che la ferrovia Senese, avendo a’ suoi due capi niente meno che Firenze e Roma, è una linea sopra tutte le altre nazionale. In Firenze si collega a tutta la conca del Po e dell’Adige; in Roma si collega a Napoli, a Otranto, al Faro, alla Sicilia.
Questo è nel fatto naturale e costante e nei destini del futuro.
Ma pel momento, pel tristo e inglorioso momento, la linea da Firenze a Roma è intercetta da una forza straniera, intorno a cui si stringono tutte le forze nemiche all’Italia. Quella ferrovia non può dunque per ora servire al supremo intento della nazionale difesa; anzi non può nemmeno servire al libero e sicuro passaggio di tutti i cittadini. Finchè ciò duri, gli officii di ferrovia nazionale si devolvono dunque alle due prossime linee, la Perugina e l’Adriatica. Or, fra le due, la Perugina avrebbe nella direzione da Firenze a Napoli l’aperto vantaggio della brevità, solchè venisse continuata per l’alta Sabina e la Marsica fino alla valle del Liri. Essa potrebbe adunque essere per ora la linea nazionale per eccellenza. — Ma fino a quando ancora codesta condizione fattizia le potrebb’essere assicurata?
Miei Signori, ciò dipende dall’avvenire del napoleonismo; il quale, finché duri, avrà sempre in forza sua di occupare anche queste due linee, come la Senese e la Maremmana. Io non intendo far qui dissertazioni politiche o atti di profezia. Vi dirò solo, perchè concerne il destino e il valore della vostra ferrovia, che in Italia la stampa e la diplomazia chiudono li occhi alla luce del giorno quando affettano d’ignorare il fenomeno chiaro e lampante del napoleonismo, ostinandosi a considerarlo, non come un’assoluta e imperiosa ragione di stato che consulta e calcola solo sè stessa ed ha una grande ed essenzial parte di sè in Italia, ma come una potenza sentimentale, che s’infervori a proteggere il papa re, quasi per capriccio di corte che dimani ben potrebbe mutarsi in altro contrario capriccio. No, il napoleonismo è venuto, or son dodici e più anni, in Italia assolutamente per suo proprio conto e interesse; soltanto si vale, all’antica, di tutti gli amminicoli che trova. Ma Perugia ben si ricorda che con pochi scrupoli il vecchio Napoleone la voltò di città papale in città francese del dipartimento del Trasimeno; ben sa che Luigi Napoleone, or son quasi dieci anni, determinò d’intitolarsi Napoleone III, il che lo annunciava erede di Napoleone II nato re di Roma; ben sa infine che il napoleonismo, in ogni suo detto e fatto, non mostrò di veder altro mai nel papa che il supremo elemosiniere dell’imperio, nè di stimarlo gran fatto più che un patriarca bizantino od un primate gallicano. È troppo evidente che nelle tradizioni di sua casa un Napoleone qualsiasi non può trovare altro precetto che quello di farsi in Italia un esercito ausiliare, confidato a più governi, o anche ad uno solo, purchè impopolare e debole, e di costituirvi una lunga frontiera, atta a coprire l’imperio come le marche di Carlomagno, ma inetta a fargli ostacolo.
Il conte Cavour pensò di aver fatto buon negozio dando Savoja e Nizza per avere lo Stato di Milano. E infatti, a numero di maschi e femmine, era un guadagno maggiore del cento per cento. Dando poi la Sardegna per aver la Venezia, egli avrebbe fatto un grosso guadagno del trecento per cento. Ma non fece conto che in Savoja minava la Svizzera e demoliva l’unica frontiera sicura che l’Italia avesse. Non pensò come Nizza, l’antica via di Montenotte, la via che recide Torino e Milano dal corpo dell’Italia, sarebbe stata in mano al re di Roma una nuova stazione imperiosa e offensiva; non pensò che i porti della Sardegna, in faccia a Roma, a Napoli, a Palermo, stabilivano il blocco perpetuo della penisola. Non s’avvide insomma che a forza di far grande a quella maniera il suo padrone disarmandolo alle spalle, lo riduceva alla condizione d’un re Gioachino o d’un viceré Beauharnais. La Francia, oltre all’aver diviso in Nizza le Alpi dagli Apennini, può affacciare alla costa d’Italia un’irresistibile marina, appoggiata ad una vicina e continua base la quale si prolunga da Nizza all’Africa, mentre un’avanguardia fortificata s’interna già nel cuore della penisola, a destra e sinistra di Roma, sopra una linea di cento e più miglia. Intorno a questo baluardo sta proteso da Torino a Marsala il nuovo regno, in un arco di novecento e più miglia, che solo in un pajo di luoghi oltrepassa cento miglia di profondità. Un esercito disseminato sopra siffatta fronte, assolutamente antistrategica, può venire spezzato e intercetto in ogni punto. V’é una sola maniera possibile di difesa. La Svizzera, che ha solo una decima parte della popolazione dell’Italia, mostra come si possa costituire con modica spesa un nodo di forze difensive, che anche le potenze di primo ordine guardano con rispetto. Se l’Italia avesse dieci di siffatti nodi, tutti contigui, tutti ben congiunti da ferrovie, ciascuno dei quali valesse nulla più di quanto valsero nel 1849 i difensori di Roma, di Venezia, del Cadore, la Francia non avrebbe più codesta alta mano strategica su tutta l’Italia; poichè, per poco che il contrasto si prolungasse, non sarebbe più sicura della sua base maritima; e forzare la penisola solamente da un capo sarebbe altra impresa. Ma voi sapete, Signori, che l’armamento nazionale è reso impossibile dagli interessi della casta militare e dalle illusioni della casta elettorale; ond’è forza che l’Italia resti in arbitrio dello straniero. Scoperte così della necessaria difesa, anche le linee libere stanno sotto il dominio del cannone francese di terra e di mare. La vostra ferrovia può dunque divenir militare e nazionale sol quanto e quando convenga agli interessi dell’imperio francese; il quale, finchè duri, comprende nell’inalterabile e inesorabile sua geografia tutta l’Italia.
Or da questo malfermo e ruinoso pendio delle ferrovie militari, raccogliamoci sull’inconcusso terreno degli interessi immediati.
Una ferrovia regionale non è un viscere necessario alla vita della nazione, alla sua generale difesa, alla sua continuità. Ma essa è come una possente arteria che sgorga entro il braccio un caldo getto di sangue e fa vibrare i polsi d un popolo a tutte le opere della vita.
L’Umbria, a cui capo sta Perugia, è in superficie la metà della Lombardia (chilometri quadri 10,622). È la gran valle del Tevere, valle spaziosa, alta sopra la campagna romana e le maremme toscane, salubre, ubertosa, protetta in tre parti dagli Apennini, fecondata con copiose piogge dai due mari. Essa è molto simile nell’aspetto, nell’ampiezza, nel clima, (benchè notabilmente più mite) nella feracità del terreno (benchè notabilmente maggiore) e forse nell’indole degli abitanti, all’alta Lombardia. Perugia è posta sopra un colle come Bergamo; fu sempre bellicosa come Brescia; Perugia sanguigna.
Ma v’è tra l’Umbria e l’Insubria, tra l’Umbria e l’Insubria, una immane differenza. L’Umbria è coltivata solo per due quinti della sua superficie; e ciò fa indurre che anche la parte coltivata noi sia quanto il potrebbe. La popolazione appena compie mezzo milione d’anime (504,000); non fa cinquanta per chilometro (47); e l’Insubria, benché in gran parte ingombra dalle eccelse Alpi e Prealpi, ne ha quasi tre volte tanto. Dorme dunque entro le glebe della vostra terra il pane e il vino per un millione di viventi, per centomila difensori della patria grande. Una ferrovia, collegata in molti modi ad ambo i mari e a tutte le terre d’Italia darà improvviso valore ai grani, agli olii, ai vini, i bestiami dei vostri campi, ai legnami delle selve apennine; darà un impeto di gioventù all’agricultura come nelle vergini terre delle colonie trasmarine.
Perchè codesta ferrovia non si farebbe come voi desiderate? Perchè far contrasto ai voti e ai voleri delle libere vostre popolazioni? Quando Garibaldi liberò il Mezzodì e il contracolpo delle sue vittorie ebbe reso irrefrenabile il moto dell’Umbria, si sarebbe potuto applicare ampiamente il principio della prima concessione aretina; incaricare degli studii, dei lavori e di misurate anticipazioni compagnie italiane, le quali non avessero lucri se non a misura delle opere compiute.
Ma sopra ogni cosa era necessario far d’un solo tratto tutte quante le grandi concessioni: intraprendere d’un colpo tutti gli studii e tutte le linee per compierle tutte ad un tempo nel più vicino termine possibile, salvo quelle opere avessero material necessità di maggior tempo. Un sistema di ferrovie, solamente nel simultaneo suo complesso, può avverare il sommo della sua efficacia, si per giovare alla popolazione, si per retribuire il capitale dei lavori. Tanto era trovare a tal uopo cento millioni come trovarne mille. I popoli, insieme col fausto grido della libertà e della fratellanza italica, avrebbero veduto scendere d’ogni parte una pioggia d’oro. Le fatiche larghe e largamente rimeritate avrebbero resa impossibile la miseria, impossibile il malcontento, assurdo ogni sogno di guerra civile. Al compiersi delle ferrovie, dovevano poi per necessità pullulare altre serie di lavori, principalmente d’alta agricultura. Garibaldi, mente aperta e anima benevola, accolse in Sicilia la feconda idea. Nei giorni di sue meraviglie, non ancora sconsacrate da una stampa indegna, gli giungevano offerte di denaro a patti trionfali. Ma non appena Cavour n’ebbe avviso, disse a’ suoi che assolutamente non si poteva lasciar fare agli avversarii si grandi cose; disfece e non fece; si mise a discrezione delle compagnie straniere. Intanto alla poesia dei volontarii succedeva la barbara prosa dei briganti; all’inveterata inerzia dei popoli s’aggiunse ogni sorta di miserie, di lutti e d’atrocità; il credito del novello regno precipitava; e Talabot voltava le spalle. Se il troppo tardo prestito dei settecento millioni si fosse fin da principio risolutamente dedicato a intraprendere di slancio tutte le maggiori linee, dando pegno sulle linee stesse e sui demanii delle relative provincie e altre assicurazioni siffatte; non sarebbe stata irragionevole la speranza d’ottenere il capitale a quel corso medesimo, al quale tutti sanno come fosse pochi mesi addietro il credito napolitano al quale è tuttora il debito francese, relativamente tanto maggiore del nostro.
Ma, nel modo appassionato e improvido con cui si spinge sempre ogni cosa, duecento millioni sono svaniti anzi tratto; e dei rimanenti non si può dire quanti si potranno togliere alla voragine della guerra civile, della confusione amministrativa, degli imprevedibili casi, per consolidarli in ferrovie. Mentre l’enorme monte d’oro si va rastremando, tutte le popolazioni implorano lavoro, non più come arra d’alta e ideale prosperità, ma come elemosina per le scioperate e fameliche genti. Quindi è necessità distribuire un poco a tutte. Quindi un breve tronco a Presenzano, uno al Tronto, uno a Eboli, uno a Bagheria. Sarà forza aspettare che una serie sia compiuta, per poterne intraprendere con sì circoscritti mezzi un’altra. Converrà favorir le linee che siano continuazione di linee già compiute; pertanto le provincie estreme rimarranno defraudate; poco vedrà la Calabria; poco la Sicilia; nulla mai la Sardegna; e il secolo XX arriverà prima che ogni popolo italiano abbia la gusta sua parte di quelle ferrovie che debbono essere lo strumento supremo di sua sicurezza e il più largo ristoro delle sue vene.
Or qui si offre un pensiero. Le singole regioni, anzichè correre in giostra per vincere nel favore degli instabili ministerii una particella del prestito generale, che potrebbe frattanto venire via casi repentini interamente sviato, dovrebbero studiare se non vi fosse altro modo d’assicurarsi prontamente quella modica misura di capitali che si richiede per condurre le proprie loro ferrovie. Per forza d’esempio tutte le regioni poi verrebbero a fare altrettanto, anche senza appositi accordi. Onde, se tutte le vostre città convenissero a fare un Comitato promotore per le ferrovie dell’Umbria, son certo che l’esempio sarebbe salutare a quante parti d’Italia non hanno ferrovie, nè in altro modo si presto le avranno. Si, bisogna che le regioni si sveglino alla vita publica, che pongano mano forte nei loro interessi, che alleggeriscano il governo centrale e la finanza commune da un carico troppo maggiore delle forze. Tutte le regioni hanno immense fonti d’attività, nei demanii non ancora dissipati, nelle imperfette agriculture, nei commercii ancora dissociati, nelle capacità personali oziose e ignorate, nel credito assopito. La Sardegna stessa ha immensi valori, improvidamente controversi dal governo, i quali, con un soffio di buon volere e di buon senso, il parlamento potrebbe tradurre in opere publiche 2. Ma bisogna che i popoli spingano il parlamento; nè possono farlo, se prima non hanno ben determinato la via. Pare che i popoli amino quasi d’aver diritto di lagnarsi, di poter dire che sono malgovernati, d’accusare l’intemperante primogenitura piemontese. Ma una forza che si espande indiscretamente non può venir frenata se non dall’espansione d’altre forze, se non dalla potenza morale, dalla coscienza del diritto, dal genio della libertà. Tutto ciò che si fa in Italia di bene o di male è opera infine di qualche centinajo d’uomini; i quali nulla hanno in sè che chiunque altro non abbia. Chiunque può fare quant’essi fanno. Diceva l’antico proverbio de’ Fiorentini, quand’erano il popolo più libero, e pertanto il primo popolo d’Europa: Tanto può altri quant’altri.
Sono in più luoghi del vostro libro parole amare, parole che non avreste forse pensato d’aver si presto a dire; e ben vi stanno; le ferite dell’ingratitudine sono crudeli. Ma io vorrei piuttosto udir da voi parole risolute, che scaturissero da ben meditati propositi e mostrassero l’animo intraprendente. Nessun governo legale potrebbe torvi di fare in casa vostra ciò che vi convenisse, se vi poneste con animo deliberato a far ciò ch’è necessario per conseguire ciò che bramate.
Di che si tratta infine? Dal vostro libro non si rileva se i capitali per la vostra ferrovia debbano venir forniti dall’erario o dai concessionarii. In un modo o nell’altro, dal confine toscano di Cortona a Fuligno si possono contare forse novanta chilometri; nè vi sono opere d’alta difficultà, poichè tali non sarebbero nè il sottopasso di Perugia nè il ponte del Tevere. Si tratta dunque di 20 a 25 millioni di capitale, si tratta d’assicurare un milione d’interessi o poco più. L’Umbria ha immensi beni di mano morta, la dispersione dei quali sarà severamente giudicata dai popoli, qualora non li vedessero almeno in larga parte destinati al publico bene. La possidenza tutta avrebbe poi manifesto interesse a entrare essa medesima nell’acquisto d’azioni che fossero in qualche misura assicurate o sull’erario nazionale o sui sopradetti demanii. O viceversa, potrebbe essa contribuire ad assicurare un parte d’interessi alle azioni assunte dai banchieri. Le combinazioni possibili sono molte. Intanto supponiamo, a cagion d’esempio, che il trasporto dei bestiami non bastasse a compiere un dividendo alle azioni. Ma quando, in luogo di più giorni di viaggio sulle vie polverose, al sole ardente, male abbeverati, mal pasciuti, facilmente guasti o infetti, i bestiami potranno dall’alba a mezzodì, lanciati sulle rotaje, pervenire pingui e freschi al loro destino, è manifesto che a prezzo pari il loro valore ne avrebbe aumento, io non oso dire, ma forse d’un quinto; il quale ben compenserebbe al corpo dei possidenti il debole reddito delle azioni. E altro simil vantaggio potrebbe esser particolare agli abitanti delle città. Le popolazioni non s’avvedono della perpetua gravezza onde è causa a loro la distanza tra le stazioni e il cuore dell’abitato. È certo che, chi cammina a piedi, logora tempo e spesso salute; chi va in vettura, paga in ragione delle distanze; se il tenere una carrozza pesa ad una famiglia, il tenerne senza necessità parecchie aggrava nelle medesime proporzioni una città. Certo è che se la stazione di Perugia dovesse veramente essere lontana dalle sue mura lo sproposito di sette chilometri e più, il che in andata e venuta sommerebbe dieci miglia incirca, nè ai poveri converrebbe più di andarvi a piedi, nè di pagare il tragitto; l’utilità della ferrovia non si diffonderebbe a tutte le industrie; e peserebbe sulle classi ricche il peso d’una imposta perpetua, come sul capitale della ferrovia il peso d’una perpetua perdita.
Qui non si tratta nemmeno d’apportare offerte alla patria, ma di promuovere i domestici interessi dei ricchi e dei poveri. Proponete adunque, in qualche opportuno modo, al governo d’assumer voi parte de’ suoi pesi, se il carico delle opere incumbe ad esso. Fatelo libero di rivolgere le inadequate sue forze a beneficio di altre men fortunate popolazioni. E chiedete in compenso che il tracciamento delle vostre ferrovie venga modificato giusta il vostro desiderio. Poichè, nello stato normale delle cose, la vostra ferrovia è regionale; nè l’Italia tiene altro maggiore interesse sulla linea perugina che d’arrivare a Perugia.
Nè vedo che il parlamento abbia tanto a gloriarsi di ciò che ha fatto, da potervi negare ogni modificazione della legge, salvo il diritto dei concessionarii. Fa veramente stupore la forma al tutto negletta della convenzione tra la società Fenzi e il conte Cavour, quale venne incorporata poi nell’atto del parlamento. Vi si parla d’una ferrovia — « da Firenze per Arezzo ad Ancona e pressi di Perugia ». ― Dunque chi altro non sapesse, dovrebbe mettersi in capo quest’ordine: 1° Firenze; 2° Arezzo; 3° Ancona; 4° i pressi di Perugia. Avrebbe dunque a credere che Perugia fosse un bel tratto oltre Ancona, sul monte Gargano forse, o in terra di Bari.
Inoltre codesta concessione giunge, sì o no, fino ad Ancona? Se in verità non vi giunge, le parole del contratto involgono un vanto di Borsa, al quale non so come i corpi legislativi abbiano potuto sovraporre l’augusta loro sanzione.
Nè questa grave irregolarità rimane corretta dalla successiva clausula che la linea debba procedere — « riunendosi alla ferrovia da Roma ad Ancona, prima della traversa del colle di Fossato ». — Perocchè la condizione di doversi riunire alla ferrovia « da Roma ad Ancona » non cancella l’antecedente concessione della ferrovia « da Firenze ad Ancona ». Solamente ne consegue che le ferrovie le quali vanno « ad Ancona », secondo la lettera del contratto Cavour, dovrebbero esser due: l’una da Roma; l’altra da Firenze; e dovrebbero esser fra loro congiunte prima di un dato luogo. La linea « da Firenze ad Ancona » dovrebbe, per quanto vale questa condizione, non inoltrarsi più a mezzodi della galleria che attraversi l’Apennino sotto il colle di Fossato. Pertanto dovrebbe toccare, al più, Città di Castello ed Eugubio, e via scampare per l’angolo più alto e alpestre della valle Tiberina. Or ciò non è compatibile colla precedente concessione del passaggio pei pressi di Perugia. Altrimenti sarebbe necessario dare a quel nuovo e strano vocabolo di pressi, cioè di vicinanze, l’opposto senso di lontananza. No, mai non si accumularono in atto publico tante incongruenze; nè fu mai tanto flagrante nei corpi legislativi il dovere di ripararvi.
Quanto al modo d’emendare il tracciamento, io non dubito che convenga mirar direttamente alla vostra e a tutte le altre città vicine. Cortona, Perugia, Assisi, Spello, Fuligno stanno già tutte lungo un asse rettilineo, o lievemente spezzato. Giacchè la ferrovia d’Ancona a Roma tocca già Fuligno, Trevi, Spoleto, Terni e Narni, tutte quasi le città umbre si troverebbero raccolte in famiglia, con inapprezzabile vantaggio materiale e morale; sarebbero posti in commune tutti li affari, i diporti, i voti publici; sarebbe adunato quanto avete di ricchezze, d’industria, d’intelligenza. Giustamente fate conto anche sui visitatori che dall’Italia e da tutto il mondo civile verranno a contemplare i tesori della vostra pittura soavemente sublime; e avreste potuto aggiungere anche li edificii nei quali primamente si svolse quell’architettura bramantesca che venne ad abbellire le nostre città transpadane. Giustamente fate conto anche sulle memorie del Trasimeno, sui monumenti delle origini italiche, sulle tradizioni proprie dei vostri studii. Ma tutto ciò fa sempre più manifesta la convenienza di concatenare quanto più direttamente si possa tutte le vostre città.
Sulla mappa alquanto negletta che correda il vostro libro, non è facile tentar calcoli; altrimenti oserei proporvi di movere da Cortona, tenendovi quanto più alto si potesse sulla spina dei colli fino a raggiunger Perugia da settentrione; e viceversa nel partire, vi consiglierei di rivolgervi ad Assisi, anche per diminuire in parte la discesa, passando il Tevere alquanto sopra Ponte S. Giovanni.
Insomma, deliberatevi a fare uno studio compiuto del vostro terreno, dei vostri bisogni, dei vantaggi ed anche dei piaceri vostri, in quanto non turbino il supremo intento di congiungere nel modo più spedito all’Italia tutte le vostre città. Ma prendete una forte iniziativa; fate valere le ricchezze che avete, poichè si tratta d’accrescerle.
Ciò facendo, avrete dato, come già in altre cose, utile e generoso esempio agli altri popoli italiani. Convien che da popolo a popolo si tenda la catena dell’esempio, che si susciti quel vitale fermento senza cui l’Italia ben presto sarebbe di nuovo una grotta di dormenti.
Io vi rendo grazie d’avermi porto l’occasione d’associarmi ai giusti voti d’una città che a ragione stimo e amo.
A voi,
- Onorevoli Signori,
Devotissimo
Dott. Carlo Cattaneo
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