Storia d'Italia/Libro XX/Capitolo I

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LIBRO VIGESIMO

I

Firenze sola in guerra; il principe d’Oranges prende la Lastra; resa di terre dei fiorentini alle milizie imperiali e al pontefice. Trattative palesi e occulte di Malatesta Baglioni col pontefice. Disegni degli assedianti contro Firenze. Giuramento delle milizie in Firenze di difendere la cittá fino alla morte; infedeltá di Napoleone Orsini. Condotta ambigua del re di Francia per i maneggi del pontefice. Incoronazione di Cesare; come vien definita la questione fra il pontefice e il duca di Ferrara.

Posto, per la pace e confederazione predetta, fine a sí lunghe e gravi guerre, continuate piú di otto anni con accidenti tanto orribili, restò Italia tutta libera da’ tumulti e da’ pericoli delle armi, eccetto la cittá di Firenze; la guerra della quale aveva giovato alla pace degli altri, ma la pace degli altri aggravava la guerra loro. Perché, come le difficoltá che si trattavano furono in modo digerite che non si dubitava la concordia dovere avere perfezione, Cesare, levate le genti dello stato de’ viniziani, mandò quattromila fanti tedeschi, dumila cinquecento fanti spagnuoli, ottocento italiani, piú di trecento cavalli leggieri, con venticinque pezzi d’artiglieria, alla guerra contro a’ fiorentini. Nella quale si erano fatte pochissime fazioni, né a pena degne di essere scritte: non bastando l’animo a quegli di fuora di combattere la cittá, né essendo pronti quegli di dentro a tentare la fortuna; perché, reputando d’avere modo a difendersi molti mesi, speravano che, o per mancamento di danari o per altri accidenti, gli inimici non avessino a starvi lungamente. Aveva perciò il principe mandato mille cinquecento [p. 290 modifica]fanti quattrocento cavalli e quattro pezzi di artiglieria a pigliare la Lastra, dove erano tre bandiere di fanti; e innanzi arrivasse il soccorso di Firenze la prese, ammazzati degli inimici circa dugento fanti. Succedé che la notte degli undici di dicembre Stefano Colonna, con mille archibusieri e quattrocento tra alabarde e partigiane, tutti in corsaletto e all’uso spagnuolo incamiciati, assaltorono il colonnello di Sciarra, alloggiato nelle case propinque alla chiesa di Santa Margherita a Montici, sforzoronle, con morte di piú di dugento uomini e molti feriti, e tutto il colonnello in sbaraglio, né perderono uno uomo solo. E andando Pirro da Castel di Piero per pigliare Montopoli, terra del contado di Pisa, i fanti che erano in Empoli, tagliatagli la strada tra Palaia e Montopoli, lo roppono, fatti molti prigioni. E da uno colpo di artiglieria fu morto, nell’orto di Saminiato, Mario Orsino e Giulio da Santa Croce. E nel Borgo da Sansepolcro entrò Napolione Orsino, soldato de’ fiorentini, con cento cinquanta cavalli, perché Alessandro Vitelli, verso il Borgo e Anghiari, andava distruggendo il paese. Ma passate che ebbono l’Alpi le genti mandate nuovamente da Cesare, Pistoia e poi Prato, abbandonate dalle genti de’ fiorentini, si arrendorono al pontefice: però l’esercito, non avendo alle spalle impedimento, non si andò a unire con li altri, ma fermatosi dall’altra parte di Arno alloggiò a Peretola presso alle mura della cittá, sotto il governo del marchese del Guasto, benché a tutti era superiore il principe di Oranges: essendo giá ridotte le cose piú presto in forma di assedio che di oppugnazione. Arrendessi anche Pietrasanta al pontefice.

Nella fine di questo anno, il pontefice, ricercato da Malatesta Baglione che gli dava speranza di concordia, mandò a Firenze indiritto a lui Ridolfo Pio vescovo di Faenza; col quale furono trattate varie cose, parte con saputa della cittá in beneficio, parte occultamente da Malatesta contro alla cittá; le quali non ebbono altro effetto, anzi si credette che Malatesta, che era al fine della sua condotta, l’avesse tenute artificiosamente, acciò che i fiorentini, per timore di non essere abbandonati da lui, lo riconducessino con titolo di capitano generale; il che ottenne. [p. 291 modifica]

Seguitò l’anno mille cinquecento trenta la impresa medesima: dove benché Oranges, con cominciare nuovi cavalieri e nuove trincee, facesse dimostrazione di volere battere i bastioni piú d’appresso, e massime quel di San Giorgio molto gagliardo, nondimeno, parte per la imperizia sua parte per la difficoltá della cosa, non si messe a esecuzione disegno alcuno; appartenendo a Stefano Colonna la guardia di tutto il monte.

Nel principio di questo anno, i fiorentini, presa speranza dalle cose trattate col vescovo di Faenza, mandorono di nuovo oratori al pontefice e a Cesare; ma con precisa commissione di non udire cosa alcuna per la quale si trattasse di alterare il governo o diminuire il dominio: però, essendo discordi nello articolo principale, non avendo anche potuto ottenere udienza da Cesare, ritornorono presto a Firenze senza conclusione. Dove erano nove in diecimila fanti vivi, ma pagati di sorte che ascendevano a piú di quattordicimila paghe. Però i soldati difendevano la cittá con grande affezione e prontezza di fede: i quali per stabilire tanto piú, i capitani tutti, convocati nella chiesa di San Niccolò, dopo avere udita la messa, feciono, presente Malatesta, uno solenne giuramento di difendere la cittá insino alla morte. Solo in questa costanza e fedeltá de’ fanti italiani si dimostrò incostante e infedele Napolione Orsino; il quale, ricevuti danari da’ fiorentini, se ne ritornò a Bracciano, e composte le cose sue col pontefice e con Cesare, fece opera che alcuni capitani stativi mandati da lui si partissino da Firenze.

Ma il pontefice, non lasciando indietro diligenza alcuna per ottenere lo intento suo, operò che il re di Francia mandò Chiaramonte a Firenze a scusare l’accordo fatto, per la necessitá di riavere i figliuoli, e lo essere stato impossibile lo includervi loro; confortandogli a pigliare gli accordi potevano, pure che fussino utili e con la libertá: offerendo quasi di volersi intromettere. Comandò ancora a Malatesta e a Stefano Colonna, come uomini del re, e protestò loro che partissino di Firenze; benché da parte segretamente dicesse il contrario. [p. 292 modifica]Ma quel che importò piú, per la perdita della riputazione e spavento del popolo, fu che, per sodisfare al pontefice e Cesare, levò monsignore di Viglí che ordinariamente risedeva suo oratore in Firenze, lasciatovi però come privato Emilio Ferretto per non gli disperare del tutto; e promettendo anche loro segretamente di aiutargli, come avesse ricuperato i figliuoli. E vacillò anche il re di fare partire l’oratore fiorentino dalla sua corte: aiutandosi il pontefice con tutte l’arti, perché per Tarbes mandò il cappello del cardinalato al cancelliere, e non molto dipoi la legazione del regno di Francia. Per il quale introdusse anche pratica di nuovo abboccamento, a Turino, tra Cesare il re di Francia e lui. Ma fu risposto a Tarbes, nel consiglio regio, che stando i figli in prigione era stoltizia che il re andasse cercando di entrarvi anche lui.

Statuirono poi il pontefice e Cesare andare a Siena, per dare piú dappresso favore alla impresa, e poi trasferirsi a Roma per la corona: ma essendo giá in procinto di partirsi, o vera o simulata che fusse la deliberazione, sopravenneno lettere di Germania che lo sollecitavano a trasferirsi di lá facendone instanza gli elettori e i príncipi per conto delle diete; Ferdinando per essere eletto re de’ romani, gli altri per rispetto del concilio. Però, omesso il pensiero di andare innanzi, prese in Bologna, con concorso grande ma con piccola pompa e spesa, la corona imperiale, il giorno di san Mattia, giorno a lui di grandissima prosperitá; perché in quel dí era nato, in quel dí era stato fatto suo prigione il re di Francia, in quel dí assunse i segni e ornamenti della degnitá imperiale. Attese nondimeno, innanzi partisse, alla concordia del duca di Ferrara col pontefice; il quale a’ sette di marzo venne a Bologna con salvocondotto. Né si trovando altro esito a questa differenza, fecieno compromesso di ragione e di fatto di tutte le loro controversie in Cesare: inducendosi il pontefice a farlo perché, essendo il compromesso generale, in modo che includeva ancora la controversia di Ferrara, la quale non si dubitava che seconda i termini giuridichi non fusse devoluta alla sedia apostolica, gli parve che Cesare avesse il modo facile, col [p. 293 modifica]porgli silenzio sopra Ferrara, a restituirgli Modena e Reggio; e perché Cesare gli impegnò la fede, trovando che avesse ragione sopra quelle due cittá, pronunziare il giudizio, trovando altrimenti lasciare spirare il compromesso. E per sicurtá della osservanza del laudo, convenneno che il duca deponesse Modena in mano di Cesare: il quale prima, a instanza di Cesare, [aveva] rimosso l’oratore suo di Firenze e mandato guastatori allo esercito. Partí dipoi Cesare da Bologna a’ ventidue, avuta intenzione dal pontefice di consentire al concilio se si conoscesse essere utile per estirpare la eresia de’ luterani; e con lui andò legato il cardinale Campeggio. Ma arrivato a Mantova, ricevuti dal duca di Ferrara sessantamila ducati, gli concedette la terra di Carpi in feudo perpetuo. E il pontefice partí, a’ trentuno, alla volta di Roma; restando le cose di Firenze nelle medesime difficoltá.