Storia d'Italia/Libro XVI/Capitolo XII
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Capitolo dodicesimo
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XII
Lione, che portò primo grandezza ecclesiastica nella casa de’ Medici, e con l’autoritá del cardinalato sostenne tanto sé e quella famiglia, caduta di luogo eccelso in somma declinazione, che e’ potetteno aspettare il ritorno della prospera fortuna, fu uomo di somma liberalitá; se però si conviene questo nome a quello spendere eccessivo che passa ogni misura. In costui, assunto al pontificato, apparí tanta magnificenza e splendore e animo veramente regale che e’ sarebbe stato maraviglioso eziandio in uno che fusse per lunga successione disceso di re o di imperadori: né solo profusissimo di danari ma di tutte le grazie che sono in potestá di uno pontefice; le quali concedeva sí smisuratamente che faceva vile l’autoritá spirituale, disordinava lo stile della corte, e per lo spendere troppo si metteva in necessitá di avere sempre a cercare danari per vie estraordinarie. A questa tanta facilitá era aggiunta una profondissima simulazione, con la quale aggirava ognuno nel principio del suo pontificato, e lo fece parere principe ottimo; non dico di bontá apostolica, perché ne’ nostri corrotti costumi è laudata la bontá del pontefice quando non trapassa la malignitá degli altri uomini; ma era riputato clemente, cupido di beneficare ognuno e alienissimo da tutte le cose che potessino offendere alcuno. Il medesimo fu deditissimo alla musica alle facezie e a’ buffoni; ne’ quali sollazzi teneva il piú del tempo immerso l’animo, che altrimenti sarebbe stato volto a fini e faccende grandi, delle quali aveva lo intelletto capacissimo. Credettesi per molti, nel primo tempo del pontificato, che e’ fusse castissimo; ma si scoperse poi dedito eccessivamente, e ogni dí piú senza vergogna, in quegli piaceri che con onestá non si possono nominare. Ebbe costui, tra le altre sue felicitá, che furono grandissime, non piccola ventura di avere appresso di sé Giulio de’ Medici suo cugino; quale, di cavaliere di Rodi, benché non fusse di natali legittimi, esaltò al cardinalato. Perché essendo Giulio di natura grave, diligente, assiduo alle faccende, alieno da’ piaceri, ordinato e assegnato in ogni cosa, e avendo in mano per volontá di Lione tutti i negozi importanti del pontificato, sosteneva e moderava molti disordini che procedevano dalla sua larghezza e facilitá; e quel che è piú, non seguendo il costume degli altri nipoti e fratelli de’ pontefici, preponendo l’onore e la grandezza di Lione agli appoggi potesse farsi per dopo la sua morte, gli era in modo fedelissimo e ubbidientissimo che pareva che veramente fusse un altro lui; per il che fu sempre piú esaltato dal pontefice, e rimesse a lui ogni dí piú le faccende: le quali, in mano di due nature tanto diverse, mostravano quanto qualche volta convenga bene insieme la mistura di due contrari. L’assiduitá la diligenza l’ordine la gravitá di costui, la facilitá la prodigalitá i piaceri e la ilaritá di quell’altro, facevano credere a molti che Lione fusse governato da Giulio, e che egli per se stesso non fusse uomo da reggere tanto peso, non da nuocere ad alcuno e desiderosissimo di godersi i comodi del pontificato; e allo incontro, che in Giulio fusse animo ambizione cupiditá di cose nuove, in modo che tutte le severitá tutti i movimenti tutte le imprese che si feceno a tempo di Lione si credeva procedessino per istigazione di Giulio, riputato uomo maligno ma di ingegno e di animo grande. La quale opinione del valore suo si confermò e accrebbe dopo la morte di Lione; perché, in tante contradizioni e difficoltá che ebbe, sostenne con tanta dignitá le cose sue che pareva quasi pontefice, e si conservò in modo l’autoritá appresso a molti cardinali che, entrato in due conclavi assoluto padrone di sedici voti, aggiunse finalmente, nonostante infinite contradizioni della maggiore parte e de’ piú vecchi del collegio, dopo la morte di Adriano, al pontificato, non finiti ancora due anni dalla morte di Lione: dove entrò con tanta espettazione che fu fatto giudizio universale che avesse a essere maggiore pontefice e a fare cose maggiori che mai avesse fatte alcuni di coloro che avevano insino a quel dí seduto in quella sedia. Ma si conobbe presto quanto erano stati vani i giudizi fatti di Lione e di lui. Perché in Lione fu di grande lunga piú sufficienza che bontá, ma Giulio ebbe molte condizioni diverse da quello che prima era stato creduto di lui: con ciò sia che e’ non vi fusse né quella cupiditá di cose nuove né quella grandezza e inclinazione di animo a fini generosi e magnanimi che prima era stata l’opinione, e fusse stato piú presto appresso a Lione esecutore e ministro de’ suoi disegni che indirizzatore e introduttore de’ suoi consigli e delle sue volontá. E ancora che avesse lo intelletto capacissimo e notizia maravigliosa di tutte le cose del mondo, nondimeno non corrispondeva nella risoluzione ed esecuzione; perché, impedito non solamente dalla timiditá dell’animo, che in lui non era piccola, e dalla cupiditá di non spendere ma eziandio da una certa irresoluzione e perplessitá che gli era naturale, stesse quasi sempre sospeso e ambiguo quando era condotto alla determinazione di quelle cose le quali aveva da lontano molte volte previste, considerate e quasi risolute. Donde, e nel deliberarsi e nello eseguire quel che pure avesse deliberato, ogni piccolo rispetto che di nuovo se gli scoprisse, ogni leggiero impedimento che se gli attraversasse, pareva bastante a farlo ritornare in quella confusione nella quale era stato innanzi deliberasse; parendogli sempre, poi che aveva deliberato, che il consiglio stato rifiutato da lui fusse il migliore: perché, rappresentandosegli allora innanzi solamente quelle ragioni che erano state neglette da lui, non rivocava nel suo discorso le ragioni che l’avevano mosso a eleggere, per la contenzione e comparazione delle quali si sarebbe indebolito il peso delle ragioni contrarie; né avendo, per la memoria di avere temuto molte volte vanamente, presa esperienza di non si lasciare soprafare al timore. Nella quale natura implicata e modo confuso di procedere, lasciandosi spesso trasportare da’ ministri, pareva piú presto menato da loro che consigliato.
Di questi furono appresso a lui in somma potenza Niccolò Scombergh germano e Giammatteo Giberto da Genova: quello reverito e quasi temuto dal pontefice, questo gratissimo e molto amato da lui. Quello, seguitando l’autoritá di Ieronimo Savonarola, dedicatosi, mentre studiava nelle leggi, nell’ordine de’ frati predicatori, ma dipoi partitosi dalla religione benché ritenendo l’abito e il nome, [aveva] seguitate le faccende secolari; questo, nella etá puerile dedicatosi alla religione ma dipoi partitosene per la autoritá paterna, benché non fusse di legittimi natali, aveva abdicato in tutto, e con l’abito e col nome, quella professione. Questi, concordi nel suo cardinalato e poi nel principio del pontificato, guidorono ad arbitrio loro il pontefice; ma cominciando poi a discordare, o per ambizione o per la diversitá delle nature, lo distrassono e lo confusono. Perché fra’ Niccolò, affezionatissimo, per il vincolo della nazione o per qualunque altro rispetto, al nome di Cesare, e per natura fisso nelle opinioni proprie, le quali spesso discordavano dalle opinioni degli altri uomini, favoriva tanto immoderatamente le cose di Cesare che spesso venne in sospetto al pontefice come piú amatore degli interessi di altri che de’ suoi; l’altro, non conoscendo in veritá né altro amore né altro padrone, ma per natura ardente nelle cose sue, se in qualche cosa errava, procedeva piú presto da volontá che da giudicio; e se bene nel tempo di Lione fusse stato inimico acerrimo de’ franzesi e fautore delle cose di Cesare, morto Leone, era diventato tutto l’opposito: donde, essendo questi due ministri potentissimi tra loro in manifesta dissensione né procedendo con maturitá o con rispetto dell’onore del pontefice, e facendo notorio a tutta la corte la sua freddezza e irresoluzione, lo rendevano appresso alla maggiore parte degli uomini disprezzabile e quasi ridicolo.
Essendo egli adunque di natura irresoluto, e in una deliberazione sí perplessa e sí difficile aiutato confondere da coloro che dovevano aiutarlo risolvere, non sapeva egli medesimo dove si volgere: finalmente, piú perché era necessario deliberare qualche cosa che per risoluzione e giudicio fermo, trovandosi massime in termine che anche il non deliberare era specie di deliberare, si inclinò a fare la lega, e a rompere in compagnia degli altri la guerra a Cesare. Concordoronsi e distesonsi i capitoli, né mancava altro che lo stipulargli, quando ebbe nuove che a Genova era arrivato il comandatore Errera mandato a lui da Cesare; quale avvisava che veniva subito in diligenza, e con grata e buona espedizione: deliberò adunque di aspettarlo, con gravissima querela degli imbasciadori, a’ quali aveva dato ferma intenzione di stipulare il dí medesimo la confederazione.