Storia d'Italia/Libro XII/Capitolo IX
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IX
Ma in questi tempi medesimi, il re di Francia, intento con l’animo ad altro che a pompe e spettacoli, sollecitava tutte le altre provisioni della guerra: e desideroso di certificarsi dell’animo del pontefice, ma determinato, qualunque e’ fusse, di proseguire la impresa destinata, lo ricercò che volesse dichiararsi in suo favore, riconfermando l’offerte prima fatte e affermando che, escluso dalla sua congiunzione, accetterebbe da Cesare e dal re cattolico le condizioni giá recusate. Riducevagli in considerazione la potenza del regno suo, la confederazione e gli aiuti promessigli da’ viniziani; essere allora piccole in Italia le forze di Cesare e del re d’Aragona, e l’uno e l’altro di questi re bisognosissimo di danari, e impotenti a pagare i soldati propri non che a fare muovere i svizzeri; i quali, non pagati, non scenderebbono de’ monti loro: non desiderare altro tutti i popoli di Milano, poi che avevano provato il giogo acerbo degli altri, che di ritornare sotto lo imperio de’ franzesi: né avere cagione il pontefice di provocarlo a usare contro a lui inimichevolmente la vittoria, perché la grandezza de’ re di Francia in Italia e la sua propria essere stata in ogni tempo utile alla sedia apostolica, perché contenti sempre delle cose che di ragione se gli appartenevano, non avere mai, come avevano tante esperienze dimostrato, pensato a occupare il resto di Italia: diversa essere la intenzione di Cesare e del re cattolico, che mai avevano pensato se non, o con armi o con parentadi o con insidie, di occupare lo imperio di tutta Italia, e mettere in servitú, non meno che gli altri, la sedia apostolica e i pontefici romani, come sapeva tutto il mondo essere antichissimo desiderio di Cesare: però provedesse in uno tempo medesimo alla sicurtá della Chiesa alla libertá comune d’Italia e alla grandezza della famiglia sua de’ Medici; occasione che mai arebbe né in altro tempo né con altra congiunzione che con la sua. Né mancavano al pontefice, in contrario, efficacissime persuasioni di Cesare e del re d’Aragona, perché si unisse con loro alla difesa d’ ltalia; dimostrandogli che se, congiunti insieme, avevano potuto cacciare il re di Francia del ducato di Milano, erano molto piú bastanti a difenderlo da lui; ricordassesi dell’offesa fattagli l’anno passato, d’avere, quando l’esercito suo passò in Italia, mandato danari a’ svizzeri, e considerasse che, se il re ottenesse la vittoria, vorrebbe in uno tempo e vendicarsi contro a tutti delle ingiurie ricevute e assicurarsi da’ pericoli e da’ sospetti futuri. Ma piú movevano il pontefice l’autoritá e le offerte de’ svizzeri; i quali, perseverando nel pristino ardore, offerivano, ricevendo seimila raines il mese, di occupare e difendere con seimila fanti i passi del Monsanese di Monginevra e del Finale e, essendo pagati loro quarantamila raines il mese, di assaltare con ventimila fanti la Borgogna. In queste conflittazioni ambiguo il pontefice in se medesimo, perché donde lo spronava la voglia lo ritraeva il timore, dando a ciascuno risposte e parole generali, differiva di dichiarare quanto poteva la mente sua. Ma instando, giá quasi importunamente, il re di Francia, gli rispose finalmente: niuno sapere piú di lui quanto fusse inclinato alle cose sue, perché sapeva quanto caldamente l’avesse confortato a passare in Italia in tempo che si poteva senza pericolo e senza uccisione ottenere la vittoria; le quali persuasioni, per non si essere osservato il segreto tante volte ricordato da lui, erano pervenute a notizia degli altri con detrimento di tutti a due, perché e lui era stato in pericolo di non essere offeso da essi e alla impresa del re erano cresciute le difficoltá, perché gli altri avevano riordinate le cose loro di maniera che non si poteva piú vincere senza gravissimo pericolo e senza effusione di molto sangue, e che essendo nuovamente cresciuta con tanto successo la potenza del principe de’ turchi, non era né conforme alla sua natura né conveniente allo officio di uno pontefice favorire o consigliare i príncipi cristiani a fare guerra tra loro medesimi; né potere altro che confortarlo a soprasedere, aspettando qualche facilitá e occasione migliore, la quale quando apparisse riconoscerebbe in lui la medesima disposizione alla gloria e grandezza sua che aveva potuto riconoscere a’ mesi passati. La quale risposta, benché non esprimesse altrimenti il concetto suo, non solo arebbe privato il re di Francia della speranza d’averlo favorevole ma, se gli fusse pervenuta a notizia, l’arebbe, quasi certificato che il pontefice sarebbe congiunto, e co’ consigli e con l’armi, contro a lui. E queste cose si feciono l’anno mille cinquecento quattordici.
Ma interpose dilazione alla guerra giá imminente la morte, solita a troncare spesso nelle maggiori speranze i consigli vani degli uomini: perché il re di Francia, mentre che dando cupidamente opera alla bellezza eccellente e alla etá della nuova moglie, giovane di diciotto anni, non si ricorda della etá sua e della debilitá della complessione, oppresso da febbre e sopravenendogli accidenti di flusso, partí quasi repentinamente della vita presente; avendo fatto memorabile il primo dí dell’anno mille cinquecento quindici con la sua morte. Re giusto e molto amato da’ popoli suoi, ma che mai, né innanzi al regno né re, ebbe costante e stabile né l’avversa né la prospera fortuna. Conciossiaché, di piccolo duca d’Orliens pervenuto felicissimamente al reame di Francia per la morte di Carlo piú giovane di lui e di due suoi figliuoli, acquistò con grandissima facilitá il ducato di Milano e poi il regno di Napoli, reggendosi per piú anni quasi a suo arbitrio tutta Italia; ricuperò con somma prosperitá Genova ribellata, vinse gloriosissimamente i viniziani, intervenendo a queste due vittorie personalmente. Da altra parte, giovane ancora, fu costretto da Luigi undecimo di pigliare per moglie la figliuola, sterile e quasi mostruosa, non acquistata per questo matrimonio né la benivolenza né il patrocinio del suocero; e dopo la morte sua non ammesso, per la grandezza di madama di Borbone, al governo del nuovo re pupillo, e quasi necessitato a rifuggirsi in Brettagna: preso poi nella giornata di Santo Albino, stette incarcerato due anni. Aggiugni a queste cose l’assedio e la fame di Novara, tante rotte avute nel regno di Napoli, la perdita, dello stato di Milano, di Genova e di tutte le terre tolte a’ viniziani, e la guerra fattagli da inimici potentissimi nel reame di Francia; nel qual tempo vidde lo imperio suo ridotto in gravissimi pericoli. Nondimeno morí in tempo che pareva gli ritornasse la prosperitá della fortuna, avendo difeso il regno suo, fatta la pace e parentado e in grandissima unione col re d’Inghilterra, e in grande speranza di recuperare lo stato di Milano.X
A Luigi duodecimo succedette Francesco monsignore di Anguelem, piú prossimo a lui de’ maschi del sangue reale e della linea medesima de’ duchi di Orliens, preferito nella successione del regno alle figliuole del morto re per la disposizione della legge salica, legge antichissima del reame di Francia; per la quale, mentre che della medesima linea vi sono maschi, si escludono dalla degnitá reale le femmine. Delle virtú, della magnanimitá, dello ingegno e spirito generoso di costui s’aveva universalmente tanta speranza che ciascuno confessava non essere, giá per moltissimi anni, pervenuto alcuno con maggiore espettazione alla corona; perché gli conciliava somma grazia il fiore della etá, che era di ventidue anni, la bellezza egregia del corpo, liberalitá grandissima, umanitá somma con tutti e notizia piena di molte cose; e sopratutto grato alla nobiltá, alla quale dimostrava sommo favore. Assunse, insieme col titolo di re di Francia, il titolo di duca di Milano, come appartenente a sé non solo per le antiche ragioni de’ duchi di Orliens ma ancora come compreso nella investitura fatta da Cesare per la lega di Cambrai: avendo a recuperarlo la medesima inclinazione che aveva avuto l’antecessore. Alla qual cosa stimolava non solamente lui ma eziandio tutti i giovani della nobiltá franzese la gloria di Gastone di Fois, e la memoria di tante vittorie ottenute da’ prossimi re in Italia; benché, per non invitare innanzi al tempo gli altri a prepararsi per resistergli, la dissimulasse per consiglio de’ suoi, attendendo in questo mezzo a trattare, come si fa ne’ regni nuovi, amicizia con gli altri príncipi: di molti de’ quali concorsono a lui subito imbasciadori, ricevuti