Storia d'Italia/Libro XI/Capitolo V

Capitolo V

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V

Cessione, da parte dei francesi, di Brescia al viceré; cessione di Crema ai veneziani. Accoglienza al vescovo Gurgense a Roma. Trattative fra il vescovo e i veneziani e fra il pontefice e gli ambasciatori del re d’Aragona; la questione di Parma e di Piacenza. Confederazione fra Cesare e il pontefice ed esclusione dei veneziani dalla lega. Solenne ingresso in Milano di Massimiliano Sforza. Nuovi e vani sforzi del pontefice per la pace fra Venezia e Massimiliano Cesare.

Espedite le cose di Firenze e ricevuti i danari promessi, il viceré mosse l’esercito per andare a Brescia; intorno alla quale cittá, avendo mitigata la volontá de’ svizzeri, combatteva l’esercito viniziano, alloggiato alla porta di San Giovanni; e battevano in un tempo la cittá e, con l’artiglierie piantate in sul monte opposito, la fortezza: speravano medesimamente di essere messi dentro, per mezzo di uno trattato, per la porta delle Pile; il quale venuto a luce restò vano. Ma giunto che fu l’esercito spagnuolo al castello di Gairo vicino a Brescia, Obigní, capitano de’ franzesi che vi erano dentro, elesse di darla insieme con la fortezza al viceré, con patto che tutti i soldati che vi erano dentro n’uscissino salvi con le cose loro ma con le bandiere piegate e con l’armi in asta abbassate, e lasciate l’artiglierie; e si crede che Obigní anteponesse il viceré a’ viniziani per comandamento avuto prima dal re che piú tosto la desse agli spagnuoli o a Cesare, non per odio contro a essi ma per suggerire materia di contenzione con Cesare e col re d’Aragona. Il medesimo consiglio aveano, innanzi che gli spagnuoli passassino in Lombardia, seguitato i franzesi che guardavano Lignago; i quali, dispregiate molte offerte de’ viniziani, l’aveano dato al vescovo Gurgense: a cui, nel tempo medesimo che il viceré entrò in Brescia, si arrendé similmente Peschiera. E dimandava Gurgense la possessione di Brescia, ma al viceré piacque di ritenerla, per allora, per la lega in cui nome l’aveva ricevuta. Diverso successo ebbono le cose di Crema, intorno alla quale era Renzo da Ceri con una parte de’ soldati viniziani: perché appropinquandosi [p. 238 modifica]quattromila svizzeri mandati da Ottaviano Sforza vescovo di Lodi, governatore di Milano, per acquistarla in nome di Massimiliano Sforza futuro duca, Benedetto Cribrario, corrotto con doni e con la promessa di essere creato gentiluomo di Vinegia, la dette a’ viniziani; consentendo monsignore di Duraso preposto alla guardia della rocca, perché non confidava la sua salute alla fede de’ svizzeri.

Andò dipoi il vescovo Gurgense a Roma: l’animo del quale desiderando il pontefice estremamente di conciliarsi, sforzando la sua natura, lo fece per tutto il dominio ecclesiastico ricevere con ogni specie d’onore; fatte, per tutto il cammino, a lui e a tutti coloro che lo seguitavano, lautissime spese. Ricevevanlo per tutto le terre con eccessivi anzi inusitati onori, piene le strade di quegli che gli andavano incontro, visitato in molti luoghi da nuove imbascerie di prelati e persone onorate mandate dal pontefice; e arebbe voluto che il collegio de’ cardinali fusse andato a riceverlo alla porta di Roma. Ma recusando il collegio, come cosa non solo nuova ma piena di somma indignitá, andorono insino in su’ Prati, un mezzo miglio fuora della porta, a riceverlo in nome del pontefice il cardinale agenense e quello di Strigonia; da’ quali, andando in mezzo come luogotenente di Cesare, fu menato insino alla chiesa di Santa Maria del popolo. Dalla quale, poi che da lui furno partiti i due cardinali, accompagnato da moltitudine innumerabile, si presentò al pontefice, che nella sedia pontificale in abito solenne l’aspettava nel concistorio publico: nel quale aveva, pochi dí innanzi, ricevuti molto onoratamente dodici imbasciadori de’ svizzeri, mandati da tutti i cantoni a dargli publicamente l’ubbidienza e a offerire che quella nazione voleva in perpetuo difendere lo stato della Chiesa, e a ringraziarlo che a quella avesse con tanto onore donato la spada il cappello l’elmetto e la bandiera, e il titolo di difensori della libertá ecclesiastica.

Alla venuta di Gurgense si cominciò a trattare lo stabilimento delle cose comuni; di che il fondamento consisteva in rimuovere le differenze e contese particolari, acciò che Italia [p. 239 modifica]rimanesse ordinata in modo che, con animo e consiglio unito, si potesse resistere al re di Francia. E in questo era la piú difficile la composizione, tante volte trattata, tra Cesare e il senato viniziano: perché Gurgense consentiva che a’ viniziani rimanessino Padova, Trevigi, Brescia, Bergamo, Crema ma che a Cesare restituissino Vicenza, rinunziassino alle ragioni di quelle terre che riteneva Cesare; pagassingli di presente dugentomila fiorini di Reno, e in perpetuo, ciascuno anno per censo, trentamila. Grave era a’ viniziani il riconoscersi censuari di quelle terre le quali tanti anni aveano posseduto come proprie; grave il pagamento de’ danari, con tutto che il pontefice offerisse prestarne loro una parte; piú grave il restituire Vicenza, allegando che, separando il ritenerla Cesare il corpo del loro stato, gli privava della comoditá di passare dal capo e dall’altre membra principali all’altre membra, e perciò rimanere loro incerta e malsicura la possessione di Brescia, Bergamo e Crema. Allegavano oltre a questo, per fare la recusazione piú onesta, avere data la fede a’ vicentini, quando ultimamente si arrenderono, di non separargli giammai da loro. Trattavansi altre controversie tra il pontefice e gli imbasciadori del re d’Aragona, proposte una parte piú per ricompenso delle querele degli altri che per speranza d’ottenerle. Perché il pontefice dimandava che quel re, secondo si disponeva nella confederazione, l’aiutasse ad acquistare Ferrara; dimandava lasciasse la protezione di Fabrizio e di Marcantonio Colonna, contro a’ quali avea cominciato a procedere con l’armi spirituali, per avere violentata la porta lateranense, e ricettato Alfonso da Esti ribelle suo nelle terre delle quali il dominio diretto apparteneva alla Chiesa; dimandava rinunziasse alle protezioni, che avea accettate nella Toscana, de’ fiorentini de’ sanesi de’ lucchesi e di Piombino, come fatte in diminuzione delle ragioni dello imperio e come sospette a Italia in comune e in particolare alla Chiesa, perché né agli altri potentati era utile che in Italia avesse tante aderenze, e alla Chiesa molto pericoloso che una provincia congiunta col dominio di quella dependesse dalla sua autoritá. Alle quali cose [p. 240 modifica]replicavano gli spagnuoli: non si recusare di aiutarlo contro a Ferrara, purché, secondo l’obligazioni della medesima lega, pagasse i danari debiti all’esercito per il tempo passato e provedesse per il futuro; non essere cosa laudabile il procedere contro a Fabrizio e Marcantonio Colonna, perché [per] le dependenze che avevano e perché erano capitani di autoritá, il perseguitarli sarebbe materia di nuovo incendio; non potere il re cattolico, senza pregiudicio grave dell’onore proprio, abbandonargli, né meritare tale rimunerazione le cose fatte in servigio del pontefice e suo dall’uno e l’altro di loro nella guerra contro al re di Francia. Né nascere da giusto zelo o da sospetto la querela delle protezioni di Toscana, ma perché alla sua cupiditá rimanessino in preda Siena, Lucca e Piombino; accennando nondimeno che di queste si riferirebbe il re all’arbitrio di Cesare. Consentivano tutti i confederati unitamente che nel ducato di Milano entrasse Massimiliano Sforza, non consentendo per ciò Cesare di investirnelo, o di dargli nome di duca o alcuno titolo giuridico. Ma insorgeva la querela di Gurgense e degli spagnuoli, dell’occupazione di Parma e di Piacenza, in pregiudicio delle ragioni dello imperio, in troppa grandezza de’ pontefici e in troppa debolezza del ducato di Milano; il quale sarebbe stato necessario fare piú potente perché aveva sempre, a essere il primo percosso da’ franzesi. Non avere ne’ capitoli della lega parlato il pontefice d’altro che di Bologna e di Ferrara; ora, con ragioni delle quali non apparisca alcuna autentica memoria, usurparsi quello che da grandissimo tempo in qua non avesse mai la Chiesa romana posseduto, né che anche si avesse certa notizia che l’avesse mai possedute, eziandio ne’ tempi antichissimi; né mostrarsi delle donazioni degli imperadori altro che una semplice carta che poteva essere stata finta ad arbitrio di ciascuno, e nondimeno il pontefice, come in cosa manifesta e notoria, con la occasione de’ tumulti di Lombardia, aversi amministrato ragione da se stesso.

Ma tutte queste dispute [non] difficilmente si risolvevano: solamente turbava tutte le cose la differenza tra Cesare e i [p. 241 modifica]viniziani. Affaticavasene quanto poteva il pontefice, ora confortandogli ora pregandogli ora minacciandogli; desideroso, come prima, per il bene publico di Italia, della conservazione de’ viniziani, e perché sperava potere cogli aiuti loro, senza l’armi spagnuole, espugnare Ferrara. Affaticavansene gli imbasciadori del re d’Aragona, temendo che con pericolo comune non si desse causa a’ viniziani di rivolgere l’animo a riunirsi col re di Francia; ma erano necessitati procedere cautamente per non provocare Cesare a fare unione co’ franzesi, la quale il loro re aveva con tanta fatica separata, e perché per altre cagioni non voleva partirsi dalla amicizia sua. Affaticavansene gli imbasciadori de’ svizzeri perché, obligati a difendere i viniziani convenuti a pagare loro, per questo, ciascuno anno venticinquemila ducati, desideravano non venire in necessitá o di non osservare le promesse o di opporsi a Cesare in caso gli assaltasse. Finalmente, non si potendo rimuovere Gurgense dalla dimanda di riavere Vicenza né disporre i viniziani a darla, discordando ancora nelle quantitá de’ danari, il pontefice, il quale sopratutto desiderava, per estinguere il nome e l’autoritá del conciliabolo pisano, che Cesare approvasse il concilio lateranense, protestò agli oratori loro che sarebbe costretto a perseguitare quella republica con l’armi spirituali e temporali; il quale protesto non gli movendo, venne alla confederazione con Cesare solo, perché l’oratore spagnuolo recusò di intervenirvi, o non avendo commissione dal suo re o perché quel re, ancora che avesse in animo di aiutare Cesare, cercasse di potere nutrire con qualche speranza i viniziani.

Narravasi nel proemio della confederazione, che si publicò poi solennemente nella chiesa di Santa Maria del popolo, che avendo i viniziani recusata ostinatamente la pace, e il pontefice, per le necessitá della republica cristiana, protestato di abbandonargli, Cesare entrava e accettava la lega fatta l’anno mille cinquecento undici tra il pontefice il re d’Aragona e i viniziani, secondo che allora gli era stata riserbata la facoltá; prometteva aderire al concilio lateranense, annullando il mandato e revocando tutte le procure e atti fatti in favore del [p. 242 modifica]conciliabolo pisano; obligavasi non aiutare alcuno suddito o inimico della Chiesa, e specialmente Alfonso da Esti e i Bentivogli occupatori di Ferrara e di Bologna, e di fare partire i fanti tedeschi che erano agli stipendi d’Alfonso e Federigo da Bozzole suo feudatario. Da altra parte il pontefice prometteva aiutare Cesare contro a’ viniziani con l’armi temporali e spirituali insino a tanto avesse ricuperato tutto quello che si conteneva nella lega di Cambrai: dichiaravasi, i viniziani essere in tutto esclusi dalla lega e dalla tregua fatta con Cesare, perché aveano contravenuto a l’una e a l’altra in piú modi, ed essere inimici del pontefice, di Cesare e del re cattolico, riservando nondimeno luogo di entrare nella confederazione fra certo tempo e sotto certe condizioni: non potesse il pontefice fare convenzione alcuna con loro senza consentimento di Cesare, o se Cesare non avesse prima ricuperato quel che se gli apparteneva come di sopra: non potessino né il pontefice né Cesare, senza consenso l’uno dell’altro, convenire con alcuno principe cristiano: che durante la guerra contro a’ viniziani non molestasse il pontefice Fabrizio e Marcantonio Colonna, riservatogli il procedere contro al vescovo Pompeio e Giulio, e alcuni altri dichiarati rebelli: che per questa capitolazione, se bene si tollerava il possedere Parma, Reggio e Piacenza, non si intendesse pregiudicato alle ragioni dello imperio. Publicata la confederazione, Gurgense nella prossima sessione del concilio lateranense aderí al concilio in nome di Cesare e come luogotenente suo generale in Italia, annullando il mandato, gli atti fatti e le procure; e presente tutto il concilio, testificò non avere mai Cesare assentito al conciliabolo pisano, detestando ciascuno che avesse usato il nome suo.

Partí dipoi Gurgense da Roma per essere presente quando Massimiliano Sforza, venuto per commissione di Cesare a Verona, prendeva la possessione del ducato di Milano; la venuta del quale aspettare si disponevano difficilmente il cardinale sedunense e gli imbasciadori di tutta la nazione svizzera, che erano a Milano, perché volevano che nelle dimostrazioni e nella solennitá degli atti che s’aveano a fare apparisse (quel [p. 243 modifica]che era negli effetti) i svizzeri essere quegli che aveano cacciato i franzesi di quello stato, quegli per la virtú e opera de’ quali lo riceveva Massimiliano. Ottenne nondimeno il viceré, piú con l’arti e con la industria che con l’autoritá, che si aspettasse. Il quale, ratificato a Firenze in nome di Cesare la confederazione fatta in Prato, e ricevuta certa somma di danari da’ lucchesi accettati nella sua protezione, pervenne a Cremona: nel qual luogo l’aspettavano Massimiliano Sforza e il viceré, [donde] andorno tutti insieme a Milano, per entrare il dí deputato in quella cittá con le solennitá e onori consueti a’ nuovi príncipi: nel quale atto benché fusse disputa grande tra ’l cardinale sedunense [e il viceré], chi di loro gli avesse, all’entrare della porta, a consegnare le chiavi in segno della consegnazione del possesso, nondimeno, cedendo finalmente il viceré, il cardinale in nome publico de’ svizzeri gli pose in mano le chiavi, ed esercitò quel dí, che fu degli ultimi dí di dicembre, tutti gli atti che dimostravano Massimiliano ricevere la possessione da loro. Il quale fu ricevuto con incredibile allegrezza di tutti i popoli, per il desiderio ardentissimo d’avere uno principe proprio, e perché speravano avesse a essere simile all’avolo o al padre; la memoria dell’uno de’ quali per le sue eccellentissime virtú era chiarissima in quello stato, nell’altro il tedio degli imperi forestieri avea convertito l’odio in benivolenza. Le quali feste non ancora finite, si ricuperò, arrendendosi quegli che vi erano dentro, la rocca di Novara.

Non aveva la confederazione fatta in Roma interrotta del tutto la speranza della concordia tra Cesare e i viniziani. Perché il pontefice avea mandato subito a Vinegia Iacopo Staffileo suo nunzio, col quale erano andati tre imbasciadori de’ svizzeri, per persuadergli alla concordia; e da altra parte il senato, per conservarsi la benivolenza del pontefice e non dare causa a Cesare di assaltargli con l’armi, aveva commesso agli imbasciadori suoi che aderissino al concilio lateranense e, subito fatta la confederazione, comandato alle genti loro che si ritirassino nel padovano; e però il viceré, non volendo turbare la speranza della pace, avea voltato l’esercito verso Milano: [p. 244 modifica]nondimeno perseverando le medesime difficoltá della restituzione di Vicenza e de’ pagamenti de’ danari erano vane queste fatiche. La qual cosa era cagione che il pontefice non assaltasse il duca di Ferrara: perché in tal caso arebbe sperato bastargli alla vittoria le forze sue e gli aiuti de’ viniziani, col nome solo di accostarvi, bisognando, gli spagnuoli; altrimenti si risolveva a differire alla primavera, perché era riputato difficile l’espugnare nel tempo della vernata Ferrara, forte di sito rispetto al fiume, e la quale Alfonso aveva molto fortificata e senza intermissione alcuna fortificava.