Statuto dei Lavoratori/Relazione
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La Relazione al Disegno di Legge
sullo Statuto dei Lavoratori
di Giacomo Brodolini
Onorevoli senatori, all’atto della presentazione dell’attuale governo ai due rami del Parlamento
il presidente del Consiglio precisò che:
«Prioritario il governo considera l’impegno a definire in via legislativa, indipendentemente e nella garanzia della libera attività contrattuale delle organizzazioni sindacali, e con la loro consultazione, una compiuta tutela dei lavoratori nelle aziende produttive di beni e servizi che assicuri sicurezza, libertà e dignità nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento ai problemi della libertà di espressione di pensiero, della salvaguardia dei lavoratori singoli e delle loro rappresentanze nelle aziende e delle riunioni sindacali nell’impresa».
In coerenza con tale impegno programmatico il ministro del Lavoro dopo aver sentito la Commissione di giuristi e di esperti di relazioni industriali nominata allo scopo, convocò il 5 e 6 marzo 1969 le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, per sentire le loro opinioni in ordine ad una iniziativa legislativa diretta a porre in essere norme di salvaguardia della libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Il disegno di legge, predisposto a seguito di queste consultazioni, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 20 giugno.
Il tema di uno Statuto dei lavoratori nell’impresa, accolto dai governi della legislatura
precedente, aveva dato luogo all’emanazione della legge del 15 luglio 1966, n. 604, relativa alla
disciplina dei licenziamenti individuali. Lo stesso argomento veniva inserito nelle previsioni
programmatiche legislative del primo piano quinquennale, il cui paragrafo 24 ribadiva la necessità
che allo sviluppo economico del paese si accompagnassero interventi diretti a garantire libertà,
dignità e sicurezza dei lavoratori.
Di pari passo, nella seconda legislatura e in quella presente, veniva presentata una serie di disegni di legge d’iniziativa parlamentare, oggi in discussione presso la Commissione lavoro del Senato. In occasione di tale discussione, anzi, nel mese di maggio, la stessa Commissione ha svolto una serie di udienze conoscitive, convocando rappresentanti delle imprese e dei lavoratori; da tali udienze è stata nettamente confermata la necessità di una iniziativa legislativa. I principi ispiratori Il presente disegno di legge costituisce pertanto un adempimento degli impegni programmatici sopra enunciati, con una precisa risposta del governo ad attese ed aspirazioni che si sono presentate in modo sempre più impellente nel mondo del lavoro. Il proposito del disegno di legge che il governo si onora di presentare è di contribuire in primo luogo a creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana nei luoghi di lavoro, riconducendo l’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare dell’imprenditore nel loro giusto alveo e cioè in una stretta finalizzazione allo svolgimento delle attività produttive. A tale fine si è ritenuto, nel Titolo i del presente testo, di riaffermare il principio di libertà di opinione, nonché di eliminare tutti quei sistemi di vigilanza e controllo disciplinare che, pur tenuto conto delle esigenze produttive, non sono compatibili con i principi della Costituzione, quali enunciati in particolare dall’art. 41, diretto a contemperare, come ènoto, lo svolgimento della iniziativa economico-privata con le esigenze di libertà, sicurezza e dignità umana.
Pur essendo state previste per l’applicazione ditali norme di tutela del lavoratore adeguate sanzioni, è convinzione del governo che un vero clima di rispetto della libertà e dignità del lavoro non possa aversi se non potenziando adeguatamente lo strumento di rappresentanza e di autodifesa dei lavoratori, vale a dire del sindacato. La disciplina in oggetto, in altre parole, resterebbe incompiuta e forse anche non rigorosamente applicata, ove l’intervento legislativo non si traducesse altresì in un’azione di sostegno e di promozione all’attività rappresentativa del sindacato nell’azienda. È inoltre da avvertire che proprio per l’estrema multiformità delle situazioni, il legislatore non è in grado di individuare tutte le zone di possibile attrito tra le esigenze tecnico-produttive e quelle di salvaguardia dei lavori umani connesse allo svolgimento del lavoro, e che è pertanto da auspicarsi, anche in conseguenza della presente legge, un adeguato sviluppo di attività contrattuali, idonee a risolvere in modo elastico e su basi consensuali i nuovi problemi, via via che si presentano nel variegato contesto delle relazioni industriali. Il potenziamento del sindacato a livello di impresa è d’altronde ormai un orientamento di tutti i paesi ad alto livello di sviluppo. Basti pensare che tale esigenza è stata solennemente riaffermata l’anno passato dal Rapporto presentato dopo tre anni di studio al governo inglese da parte della Royal Commission e noto come Rapporto Donovan, e che nel dicembre scorso il governo francese emanò un provvedimento di riconoscimento dell’organizzazione sindacale a livello di impresa.
Il presente disegno di legge, comunque, è lungi dal proporsi di prefigurare uno schema fisso di rappresentanza sindacale a livello d’impresa che, anzi, una normativa di tale genere apparirebbe in flagrante contrasto con il principio di libertà sindacale da cui consegue la piena autonomia statutaria delle organizzazioni, né, per la stessa ragione, esso predispone modelli normativi di contrattazione o di rapporti sindacali nell’impresa. Il disegno di legge intende solo agevolare la presenza della rappresentanza sindacale, nelle forme che il sindacato stesso intenderà attribuirgli e tale scopo persegue lungo un duplice binano. Il primo è costituito dalle garanzie per il libero esercizio dell’attività sindacale e per la protezione dei lavoratori da discriminazioni di qualunque tipo, che incidono sia sulla sfera della libertà una sindacale sia su quella politica e religiosa. Il secondo consiste in una serie di norme che mirano ad agevolare l’esercizio dell’attività sindacale nell’impresa; norme necessarie, in quanto la pura e semplice garanzia di libertà, cioè di non interferenza nella sfera dei singoli, non sarebbe ancora sufficiente a consentire l’effettiva presenza del sindacato nei luoghi di lavoro.
Queste ultime norme trovano applicazione per i sindacati effettivamente rappresentativi, ma l’esistenza di esse, naturalmente, non inciderà in alcuna misura sulla libertà dei lavoratori di darsi autonomamente strumenti di rappresentanza, non espressamente contemplati dalla legge. Si rileva anche a questo proposito che il disegno di legge prende in considerazione solo in casi sporadici le commissioni interne. Ciò in considerazione del fatto che queste sono oggetto di una regolamentazione contrattuale dettagliata, nella quale non si è voluto intervenire, anche tenuto conto di possibili opzioni tra rappresentanza sindacale diretta e commissioni interne, che sono materia di stretta pertinenza dei soggetti dell’autonomia sindacale.
Il disegno di legge che viene presentato al parlamento è stato elaborato tenendo conto rigorosamente dell’esigenza di non sovrabbondare in formulazioni normative cui non ne si accompagni un adeguato apparato sanzionatorio. Sotto questo aspetto meritano rilievo particolare gli artt. 10 e 20 basati sul presupposto che la normativa sui rapporti sindacali, per essere efficace, postula anche un parziale rinnovamento della struttura sanzionatoria, elaborata in funzione di altre esigenze e in ragione dell’ispirazione individualistica propria dei nostri codici. Ciò considerato, il ricorso alle sanzioni penali è stato limitato allo stretto lento necessario, tenendo conto che queste ultime non rispondono normalmente all’esigenza d’immediata reintegrazione dell’interesse leso, nonché della tendenza in atto a sfoltire la sovrabbondante normativa penale.
Un rilievo finale concernente il problema dei rapporti tra questo disegno di legge è l’art. 39 della Costituzione. Come sarà emerso dalla esposizione che ha preceduto, esso si pone in funzione di diretta attuazione del primo comma della norma costituzionale, così come delle Convenzioni n. 87 e 98 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), ratificate a suo tempo dal governo italiano, a cui anzi il testo di talune norme è direttamente ispirato. Per quanto attiene al secondo e terzo comma dell’art. 39 è sufficiente rilevare che essi hanno per oggetto da un lato l’attribuzione della personalità giuridica ai sindacati e dall’altro la stipulazione dei contratti con efficacia generale: aspetti, ambedue, che non sono affrontati dal presente disegno di legge, per cui il confronto con la norma costituzionale non si pone neppure.
L’importanza del presente disegno di legge non corre certamente il rischio di essere sopravvalutata. Con essi il governo opera una scelta a sostegno dell’autonomia sindacale, che supera qualsiasi contrapposizione, quale si è avuta in passato, tra iniziativa legislativa e autonomia sindacale, giacché è proprio la prima che si pone in funzione di promozione e di potenziamento della seconda. Naturalmente nel presente testo non vengono considerati tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Esso non è, né intende essere, un codice del lavoro, e per la trattazione di altre materie pur di primaria importanza nella vita del lavoro (prevenzione degli infortuni, tutela della salute, formazione professionale ecc.) non può che rinviare ad ulteriori iniziative in cui i principi di base vengano calati in adeguate strutture organizzative ed amministrative. Tale impegno il governo ribadisce, considerandolo come un momento necessario della politica di sviluppo economico, sociale e politico del paese.
Della libertà e dignità dei lavoratori
Come si è già avuto cura di evidenziare, la salvaguardia della libertà e dignità, umana e sociale, del lavoratore, nella sua duplice qualità di cittadino e di parte del rapporto di lavoro, non potrebbe ritenersi compiutamente realizzata da una normativa che si esaurisca nella garanzia di una attiva presenza del sindacato nel luogo di lavoro; né può tacersi che vi sono interessi in ordine ai quali lo 4 / Istituto Regionale di Studi sociali e politici “A. De Gasperi” - Bologna Stato non può esimersi dalla emancipazione di una disciplina che ponga a disposizione del lavoratore mezzi di tutela diretta, azionabii, cioè, indipendentemente dall’intervento delle associazioni sindacali.
In considerazione di ciò, il titolo primo della presente legge vuole assicurare ai lavoratori l’effettivo godimento di taluni diritti e libertà fondamentali che, pur trovando nella Costituzione una disciplina e una garanzia complete sul piano dei principi, si prestano tuttavia, in carenza di disposizioni precise di attuazione, ad essere compressi nel loro libero esercizio. Queste considerazioni giustificano e, al tempo stesso, impongono le disposizioni contenute nel Titolo I.
L’art. 1 ribadisce il fondamentale principio che vuole garantito ai lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche e di fede religiosa, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero nel rispetto dell’altrui libertà, in forme che non rechino intralcio allo svolgimento dell’attività aziendale.
I successivi art. 1 e 2 disciplinano l’utilizzazione di guardie giurate e l’installazione di impianti audiovisivi, precludendone la strumentalizzazione a finalità diverse da quelle tipicamente correlate alla rispettiva funzione di tutela del patrimonio aziendale e di organizzazione dell’attività produttiva.
La normativa concernente le guardie giurate elimina la pratica delle cosiddette “polizie private”, che hanno sollevato vive proteste nell’ambiente di lavoro, riconducendo l’uso delle guardie giurate ai compiti istituzionali di tutela del patrimonio aziendale. La norma stessa vuole favorire il necessario coordinamento tra la funzione di vigilanza e di tutela dei lavoratori, che è propria dell’Ispettorato del lavoro, e le istituzionali attribuzioni di controllo che sono proprie degli organi di polizia. A tal fine l’articolo stabilisce che l’Ispettorato del lavoro promuove presso il questore la sospensione della guardia giurata che abbia tra-valicato dai propri doveri.
Il divieto di utilizzazione di mezzi di controllo a distanza tra i quali, in primo luogo, gli impianti televisivi parte dal presupposto che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione “umana”, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro.
Può accadere, inoltre, che determinati impianti ed apparecchiature di controllo, pure obiettivamente rispondenti ad esigenze organizzative ovvero alla sicurezza del lavoro, si prestino tuttavia ad essere strumentalizzati per finalità di controllo. Quando ciò avvenga, l’installazione ne è condizionata all’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, ovvero, in difetto di accordo, all’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro. Un’apposita procedura è prevista per gli impianti e le apparecchiature esistenti.
L’art. 4 ha per oggetto la regolamentazione dei controlli sulle assenze per malattia che, come è risultato anche dalle recenti udienze conoscitive svolte dalla Commissione lavoro del Senato, rappresenta uno dei problemi più sentiti dai lavoratori; come, d’altronde, è sentito dagli imprenditori il problema dell’assenteismo, sovente determinato da una tendenza alla concessione troppo facile dei certificati da parte dei medici di fiducia dei lavoratori. Per contemperare le due esigenze, parimenti valide, oltre a far obbligo al datore di lavodi comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in mancanza di queste, all’Ispettorato del lavoro, il nominativo del sanitario preposto a questo tipo di controllo, ci si è preoccupati di rendere possibile l’attivazione di una procedura di accertamento imparziale, demandata ad un sanitario nominato, su istanza di una delle parti, dall’Ispettorato del lavoro.
L’art. 5 disciplina le visite personali di controllo sul lavoratore, limitandone l’ammissibilità ai casi in cui siano indispensabili in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti. In tali ipotesi d’altronde, la possibilità di questo mezzo di controllo, che peraltro è di applicazione comune anche all’estero, può essere sostitutiva di forme di vigilanza diretta sul posto di lavoro, che sarebbero, tutto considerato, ancor meno ben accette. Tali visite dovranno comunque essere effettuate con modalità rivolte a garantire la personalità umana del lavoratore, in particolare mediante l’applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla 5 / Istituto Regionale di Studi sociali e politici “A. De Gasperi” - Bologna collettività o a gruppi di lavoratori.
Le ipotesi nelle quali ricorrono le esigenze che giustificano le visite personali di controllo dovranno essere concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali. In difetto di accordo, provvederà, su istanza del datore di lavoro, l’Ispettorato del lavoro. La regolamentazione delle sanzioni disciplinari costituisce uno degli aspetti di a quelle maggior rilievo ai fini di un ordinato svolgimento delle relazioni di lavoro. Vi è convergenza di opinioni sulla inerenza di questa pena privata alle istituzioni organizzate, il cui regolare funzionamento deve essere garantito mediante l’attribuzione di un potere che consenta la repressione di comportamenti contrari agli obblighi assunti da coloro che sono inseriti in tali istituzioni con un procedimento il più possibile sollecito.
E’ altrettanto evidente, peraltro, che l’incidenza di questo tipo di sanzioni sui diritti contrattuali del lavoratore e la loro eventuale rilevanza ai fini del licenziamento per giustificato motivo, quando il datore di lavoro ne colga motivo per fornire la dimostrazione del notevole inadempimento agli obblighi contrattuali di cui è parola nell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, rende altrettanto inderogabile un sistema di garanzia del lavoratore contro l’uso indiscriminato di tale potere da parte del datore di lavoro. Frequentemente i contratti collettivi disciplinano il contenuto di queste sanzioni nonché le infrazioni in relazione alle quali possono essere applicate, ma tale regolamentazione è, invero, in molti settori produttivi alquanto incompleta, e risale talvolta addirittura ai contratti collettivi corporativi. La normativa contrattuale comunque, ove risponda ai principi fissati dalla legge, viene espressamente fatta salva dall’art. 6 del disegno di legge; soltanto con riferimento all’ipotesi che la contrattazione non disponga al riguardo, si fa carico al datore di lavoro di stabilire e portare a conoscenza dei lavoratori dipendenti le sanzioni disciplinari, le infrazioni relative, nonché le procedure di contestazione di queste ultime. Inoltre, sempre nell’eventualità di carenza di contrattazione collettiva, si è voluto circoscrivere il potere del datore di lavoro in ordine alla determinazione del contenuto delle sanzioni disciplinari, con lo stabilire che non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro (quali la retrocessione o il trasferimento) e che la multa non può essere disposta per un importo superiore a 4 ore della retribuzione base né la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di 10 giorni. In ogni caso, comunque dispongano i contratti collettivi, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non potranno essere applicati prima che siano trascorsi 3 giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
Si è considerata, inoltre, la necessità di predisporre adeguate procedure di tutela dei diritti del lavoratore contro l’applicazione della sanzione da parte del datore di lavoro. Anche questa è materia che può costituire oggetto di contrattazione collettiva, il cui contenuto, ove fornisca analoghe garanzie a quelle previste dal disegno di legge, è espressamente fatto salvo. Quando ciò non avvenga, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare più grave del rimprovero verbale potrà promuovere la costituzione di un apposito collegio di conciliazione ed arbitrato, con il compito di procedere all’accertamento dei fatti e, conseguentemente, alla legittimità della sanzione erogata.
E’ stata disposta, infine, la cancellazione delle sanzioni disciplinari decorsi 3 anni dalla loro applicazione.
Della libertà sindacale
Il Titolo II reca norme per la tutela della libertà sindacale.
A questo proposito bisogna tener presente che l’ordinamento giuridico italiano ha già acquisito in materia principi essenziali. A parte, evidentemente, il primo comma dell’art. 39 della Costituzione che, per la sua ampiezza, per il suo profondo significato sociale e giuridico e per l’interpretazione che dottrina e giurisprudenza ne hanno dato, costituisce la norma di base 6 / Istituto Regionale di Studi sociali e politici “A. De Gasperi” - Bologna attraverso la quale sia il sindacato sia il lavoratore singolo godono di ogni più ampia libertà sindacale e in senso positivo e in senso negativo, non si può non tenere presente che tutti i principi contenuti nelle Convenzioni n. 87 e n. 98 dell’OIL - a seguito della ratifica effettuata dall’Italia con la legge 23 marzo 1958, n. 367 - sono entrati a far parte del nostro ordinamento. Cosicché il legislatore si è preoccupato più che di ripetere norme e principi già acquisiti dall’ordinamento, di evidenziare quelle che più direttamente si ricollegano agli atti discriminatori compiuti dal datore di lavoro nei confronti dei lavoratori, in violazione del principio di libertà sindacale. Sotto questo riguardo, assume un particolare rilievo l’art. 7 con il quale si sancisce, in armonia con l’art. 1 della Convenzione n. 98, la nullità di ogni atto o patto diretto innanzitutto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla sua adesione o non adesione ad un sindacato o alle sue dimissioni dallo stesso, e poi di licenziare un lavoratore o comunque recargli pregiudizio in ragione sia della sua affiliazione sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Aspetto, quell’ultimo, non contemplato nelle Convenzioni anzidette, ma necessario da noi, dove, a differenza di altri ordinamenti, è espressamente riconosciuto il diritto di sciopero. Per evidenti ragioni di connessione, la norma è stata estesa alle discriminazioni dettate da motivi politici e religiosi, che sono parimenti inammissibili sulla base dei principi della Carta costituzionale.
Nel recente passato, si sono dati casi di concessione di particolari trattamenti economici (il più caratteristico dei quali è costituito dal cosiddetto premio antisciopero) intesi ad incentivare comportamenti di astensione nei confronti dell’organizzazione e dell’azione sindacale. Anche questa è una forma di discriminazione, sia pure di segno inverso a quelle precedenti, basata sulla fissazione di benefici. L’art. 8, pertanto, mentre vieta la concessione di trattamenti del genere aventi carattere discriminatorio a mente del precedente art. 7, stabilisce che il giudice su domanda delle associazioni sindacali cui sono iscritti i lavoratori, nei confronti dei quali è stata attuata la discriminazione, condanna il datore di lavoro al pagamento, a favore del Fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all’importo dei trattamenti economici corrisposti illegittimamente nel periodo massimo di un anno.
L’art. 9 intende combattere quel fenomeno che va sotto il nome di “sindacalismo giallo”. Nel
momento in cui, attraverso una legislazione promozionale quale quella individuata nel Tiolo III, si vogliono riconoscere al sindacato taluni diritti fondamentali, non si poteva non tener presente questo fenomeno, anche al fine diretto di prevenire una sua espansione, che evidentemente porrebbe nel nulla gli sforzi fatti dal legislatore per dilatare la forza di penetrazione dei sindacati “genuini” nell’ambito dell’azienda. L’art. 9 colpisce indirettamente il descritto fenomeno, quando sancisce espressamente che le norme dirette ad agevolare l’attività del sindacato nell’azienda (contenute nel Titolo III) non sono applicabili alle associazioni dei lavoratori costituite od operanti sotto il controllo di un imprenditore o di una associazione di imprenditori.
A parte tale esplicita sanzione, è evidente il valore di principio della norma che potrà trovare anche una più larga applicazione nella giurisprudenza del lavoro.
L’art. 10 ha lo scopo di perfezionare la tutela del lavoratore licenziato per motivi politici, religiosi o sindacali, che venne introdotta dall’art. 4 della legge 15 luglio 1966, n.604.
Come è noto la legge, nell’assoggettare a nuova disciplina il potere di recesso del datore di lavoro, identificò due ben distinte ipotesi: la prima, che venga accertata l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo, la dimostrazione dei quali costituisce il contenuto dell’onere probatorio che incombe al datore di lavoro; la seconda, che venga dal lavoratore fornita la prova che il licenziamento sia stato determinato da motivi politici, religiosi o sindacali. Nella prima ipotesi, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il lavoratore, o, in mancanza, a risarcirgli il danno versando un’indennità da un minimo di cinque ad un massimo di dodici mensilità della retribuzione. Nella seconda, il licenziamento è nullo. Peraltro, l’art. 4 della legge 604/1966, che sanziona tale nullità, non dispone ai fini di favorire l’effettiva reintegrazione del lavoratore licenziato nel posto di lavoro. Sicché,. molto frequentemente, il datore di lavoro preferisce non riammettere il lavoratore, con il solo onere rappresentato dall’obbligazione di corrispondergli a 7 / Istituto Regionale di Studi sociali e politici “A. De Gasperi” - Bologna titolo risarcitorio quanto dovutogli in virtù del rapporto di lavoro, che il licenziamento nullo non è stato, ovviamente, idoneo a risolvere.
A ciò si aggiunga che l’operatività concreta della norma risulta ulteriormente indebolita dalla eccessiva lunghezza del processo civile, per cui, nella maggior parte dei casi, la sentenza che accerta la nullità del licenziamento e definisce il relativo giudizio passa in giudicato quando il lavoratore si è già procurato un’altra occupazione.
In considerazione di ciò, si e ritenuto di dover perfezionare la regolamentazione legislativa dei licenziamenti determinati da motivi politici, religiosi o sindacali nella seguente direzione. In primo luogo, è stato disposto che, ferma in ogni caso restando la corresponsione al lavoratore di quanto dovutogli in virtù del rapporto di lavoro, fino alla data della reintegrazione, il datore di lavoro che non ottemperi alla sentenza, provvisoriamente esecutiva, sia tenuto, per ogni giorno di ritardo, al pagamento, a favore del Fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore. Tale previsione, oltre ad anticipare la realizzazione del diritto del lavoratore licenziato al momento della sentenza di primo grado, appare idonea ad esercitare una forte pressione sul datore di lavoro per indurlo a reintegrare il lavoratore nel posto da cui è stato illegittimamente allontanato.
Trattasi di un’innovazione di grande importanza, perché con essa il diritto del lavoro italiano supera le strozzature costituite da un’applicazione rigida ed ortodossa del principio dell’incoercibilità delle prestazioni da fare in forma specifica: principio che, ad onor del vero, sia il diritto processuale tedesco sia quello francese hanno superato, quest’ultimo nei rapporti privatistici, con il ricorso all’astreinte, e cioè ad una pena giudiziaria affine a quella qui proposta. E si rammenti, infine, come negli Stati Uniti il licenziamento privo di giustificato motivo possa essere seguito, in caso di mancata riassunzione, da una condanna penale per “disprezzo della corte”. Si è valutata, inoltre, la necessità di assicurare una più energica tutela dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, nel convincimento che la più sollecita loro reintegrazione nel posto di lavoro, quando sia stata, sia pure sommariamente, provata la presenza del motivo politico, religioso o sindacale, come fattore determinante del licenziamento, corrisponda ad un’ovvia esigenza di tutela non solo del lavoratore singolo, ma della rappresentanza sindacale aziendale la cui azione può essere stroncata per il solo allontanamento di un sindacalista particolarmente capace nella tutela degli interessi dei lavoratori.
Pertanto, si è stabilito che nell’ipotesi di licenziamento dei responsabili designati a norma del successivo art. 14, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato, cui questo aderisce o conferisce mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, possa disporre con ordinanza, quando la domanda è sufficientemente provata, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Anche in tal caso, la mancata ottemperanza del datore di lavoro all’ordine di reintegrazione costituisce a suo carico l’obbligo di pagare la penale di cui si è detto in precedenza. Dell’attività sindacale
Come si è già avuto modo di affermare, a più riprese, il punto focale per la instaurazione nei
posti di lavoro di relazioni normali fra il datore di lavoro e i lavoratori risiede in una maggiore valorizzazione del sindacato nell’ambito aziendale.
Un complesso di norme inteso a tale scopo deve, evidentemente, salvaguardare l’autonomia
dell’associazione sindacale: ed è sulla base di questo principio che deve essere riguardato il Titolo III. Lo stesso art. 11 muove da tale principio, senza ombra di dubbio, nel momento in cui, prevedendo la possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali, afferma che esse trovano la loro fonte giuridica nelle norme interne di ciascuna associazione sindacale, e assume pertanto le forme (sezioni sindacali, delegati di fabbrica ecc.) da queste previste. Soggiunge, poi, la stessa norma, che l’iniziativa della costituzione può essere assunta: a) dalle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; ciò in corrispondenza di una 8 / Istituto Regionale di Studi sociali e politici “A. De Gasperi” - Bologna situazione di fatto, che ha posto le grandi Confederazioni, in relazione al numero degli aderenti e all’attività sindacale svolta, specie in materia di contrattazione collettiva, su di un piano tale da farne le vere protagoniste del movimento sindacale italiano; b) dalle associazioni non affiliate a Confederazioni nazionali, a condizione che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva; ciò perché è sembrato del tutto opportuno conferire pure ai sindacati autonomi, che rispon, che rispondono alla detta condizione, la possibilità di avvalersi della presente legge tenuto conto anche del fatto che, in taluni settori e per certe categorie, è indiscussa la loro rappresentatività. L’uno e l’altro criterio tendono, in altre parole, a “fotografare” la realtà dei rapporti sindacali, recependo nell’ordinamento quella valutazione di rappresentatività che già opera sul piano della effettività.
L’art. 12 sancisce il diritto d’assemblea fuori dell’orario di lavoro, per tutti i lavoratori iscritti e non iscritti, in locali messi a disposizione dal datore di lavoro: l’iniziativa spetta alle rappresentanze sindacali aziendali, singolarmente o congiuntamente, con ordine del giorno su materia di interesse sindacale e del lavoro e con la possibilità di partecipazione di almeno due sindacalisti esterni per ogni rappresentanza sindacale. La norma contiene gli elementi essenziali per la disciplina della materia, e pertanto è di immediata applicazione. Ulteriori modalità (frequenza dell’assemblea, svolgimento eventuale durante l’orario di lavoro ecc.) potranno essere affidate alla contrattazione collettiva, anche aziendale.
Lo svolgimento di referendum su problemi inerenti all’attività sindacale trova la sua norma di base nell’art. 13 del presente disegno di legge. La norma va intesa nel senso che le rappresentanze sindacali aziendali hanno il diritto di indire il referendum tra tutti i lavoratori delle categorie per le quali sono organizzate, svolgendolo, naturalmente, nei locali dell’azienda. Data la delicatezza di questo meccanismo di consultazione che, a differenza dell’assemblea, si rivolge normalmente a tutti i lavoratori ed il cui uso in particolari momenti può costituire di per sé oggetto di scelte delicate, si è posto come requisito la richiesta unanime di tutte le rappresentanze. Ciò non vuol dire che non possono essere indetti referendum in altre forme; ma solo che per il caso contemplato dalla legge, non per altri, sussiste il dovere dell’imprenditore di consentire lo svolgimento della consultazione. Si può auspicare che la previsione legislativa di questo metodo di consultazione, che è poi il più democratico, varrà a promuovere un più ampio ricorso allo stesso.
Un punto particolarmente delicato è quello disciplinato dall’art. 14, che si riconnette alla necessità di tutelare, in modo adeguato, i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali maggiormente esposti, proprio per l’espletamento dei compiti loro affidati, ad azioni di rappresaglia da parte del datore di lavoro. Sono note le difficoltà incontrate dal lavoratore, il cui licenziamento è connesso con l’esercizio dell’attività sindacale, a dimostrare in giudizio l’esistenza di questo motivo: cosicché la presunzione che il licenziamento dei suddetti dirigenti sindacali aziendali violi l’art. 4 della legge 604 ove il datore di lavoro non abbia fornito la prova dell’esistenza della giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento, dovrebbe ovviare a questo tipo di inconvenienti verificatisi finora nell’applicazione del citato art. 4. Questi i motivi ispiratori dell’art. 14 del presente disegno di legge, nel cui contesto non poteva non essere disciplinato anche il problema del trasferimento dei dirigenti sindacali aziendali da una unità produttiva all’altra, anche perché più spesso è a questo tipo di provvedimento che si fa ricorso nelle aziende con diversa distribuzione territoriale, alfine di colpire il sindacato.
Vi è da tener presente che per la particolare tutela dell’art. 14 si è ritenuto opportuno porre dei limiti al numero dei dirigenti che di essa possono usufruire in relazione alle dimensioni dell’unità produttiva; un riferimento particolare (come già nell’art. 13) viene, d’altro canto, introdotto alla categoria professionale, intendendosi come tale quelle che autonomamente hanno determinato le associazioni sindacali attraverso la definizione statutaria del proprio ambito organizzativo. Ciò significa in altre parole che ove un sindacato sia costituito per gruppi professionali anziché per la totalità dei dipendenti, i limiti quantitativi varranno con riferimento a tali gruppi. 9 / Istituto Regionale di Studi sociali e politici “A. De Gasperi” - Bologna
Gli artt. 15 e 16 disciplinano i permessi retribuiti e non retribuiti dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, onde consentire loro l’espletamento dei compiti che sono collegati alla carica che ricoprono. L’entità dei permessi, fissata in norma minima, è ponderata negli indici della contrattazione collettiva.
L’art. 17 regola il diritto di affissione di pubblicazioni, testi o comunicati inerenti all’attività sindacale.
Per quanto attiene ai contributi sindacali, l’art. 18, pur lasciando un ampio margine di regolamentazione alla contrattazione collettiva, che, del resto, nei settori economici più importanti gioca già un ruolo determinante, si limita a fissare due principi di base: da un lato, che sia assicurata la segretezza del versamento da parte del lavoratore, che intenda effettuarlo, in modo che non si possa individuare l’associazione cui il contributo è destinato; dall’altro il diritto per le associazioni che abbiano costituito le rappresentanze sindacali aziendali di percepire i contributi tramite ritenuta sul salario. La norma richiederà implicitamente un adeguamento dei testi contrattuali che prevedono sistemi ispirati a criteri diversi, come quello, oggi alquanto frequente, della delega con indicazione espressa del sindacato cui il lavoratore intende versare il contributo. In mancanza di contratti collettivi, anche aziendali, naturalmente, quest’ultimo sistema è il solo possibile, ed in tal senso dispone il secondo comma.
Infine, l’art. 19 fa carico ai datori di lavoro, con almeno 300 dipendenti, di porre a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali un locale comune, all’interno dell’unità produttiva e nelle sue immediate vicinanze, onde consentire loro l’esercizio delle funzioni di tutela dei lavoratori rappresentati.
Disposizioni generali
La normativa del Titolo IV contiene disposizioni di carattere generale, in quanto riferite a materie che non costituiscono oggetto della regolamentazione di cui ai Titoli precedenti, ovvero disposizioni riferite a queste medesime materie, preordinate ad una funzione di garanzia o d’estensione della disciplina legislativa.
Tipicamente garantistica dell’azione sindacale è la funzione della procedura giurisdizionale d’urgenza prevista dall’art. 120. Si è considerato che l’attività sindacale forma oggetto di tutela costituzionale a norma dell’art. 39, primo comma, della Costituzione, la cui sfera di operatività, per unanime consenso, non deve ritenersi circoscritta ad una preclusione disposta nei confronti di eventuali pratiche limitative dei pubblici poteri, bensì essere estesa a quelle pratiche limitative, tanto più insidiose in quanto difficilmente definibili, che possono essere attuate dal datore di lavoro, titolare di interessi antagonisti a quelli di cui le associazioni professionali dei lavoratori sono i naturali portatori.
Si è disposto, pertanto, che la rappresentanza sindacale aziendale o gli organi locali delle associazioni sindacali nazionali possano chiedere al Pretore di ordinare al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione di qualsiasi comportamento diretto ad impedire l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero. La rilevanza costituzionale dell’interesse di cui, tramite l’anzidetto decreto pretorile, si vuole assicurare la realizzazione, giustifica pienamente la previsione, a carico del datore di lavoro che si rende inottemperante all’anzidetto decreto, della sanzione penale di cui al successivo art. 25.
Dal punto di vista procedurale, il giudizio previsto dall’articolo in parola è stato modellato su linee parzialmente analoghe a quelle dei procedimenti di carattere monitorio previsti dal codice di rito, in modo da assicurare la garanzia del contraddittorio, in termini tali, peraltro, da non determinare ritardi dell’iter giurisdizionale. E’ posto a carico del datore di lavoro rimasto soccombente nel giudizio innanzi al pretore l’onere di promuovere opposizione avanti al tribunale, senza peraltro effetto sospensivo del provvedimento di d’urgenza.
Le successive disposizioni del Titolo in esame, contenute negli artt. 21, 22 e 23 riguardano 10 / Istituto Regionale di Studi sociali e politici “A. De Gasperi” - Bologna aspetti non regolati o non chiariti nei Titoli precedenti.
L’art. 21 estende la normativa concernente i permessi, retribuiti e non retribuiti, ai componenti degli organi direttivi provinciali e nazionali, delle associazioni facoltizzate alla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali allo scopo di rendere possibile la partecipazione di tali dirigenti alle riunioni degli organi sopra menzionati.
Anche questa è una prescrizione di base, che la disciplina collettiva potrà ulteriormente precisare ed eventualmente estendere.
L’art. 22 stabilisce che i lavoratori eletti membri del Parlamento nazionale, delle assemblee regionali ovvero chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, su loro richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita per tutta la durata del loro mandato. Identiche disposizioni si applicano ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali. La materia, che per il pubblico impiego ha un precedente nella legge 31 ottobre 1965, n. 1261, ripete la sua ragion d’essere dall’art. 51 della Costituzione.
Infine, l’art. 23 dispone, con norma dichiarativa, che il datore di lavoro può farsi rappresentare dall’associazione sindacale alla quale è iscritto o conferisca mandato nella stipulazione degli accordi aziendali previsti dalla presente legge, chiarificando quanto è già d’altronde implicito nei principi.
Campo di applicazione della legge
Il Titolo V definisce il campo di applicazione della legge, limitatamente al Titolo III riguardante la costituzione e l’attività delle rappresentanze sindacali aziendali.
Infatti il Titolo i riguarda forme di tutela della personalità umana dei lavoratori che non una possono tollerare limitazioni collegate alle dimensioni dell’apparato organizzativo all’inter~oteri, no del quale questi prestano la propria opera.
Identico principio deve ritenersi valido per le disposizioni riguardanti la garanzia della libertà
sindacale nelle sue più generiche manifestazioni, quali il divieto di discriminazione, la repressione dei sindacati di comodo e la reintegrazione nel posto di lavoro dei lavoratori licenziati in violazione dell’art. 4 della legge 604/1966. Non altrettanto, invece, può affermarsi per il Titolo III, poiché e sembrato, avuto riguardo soprattutto agli oneri che il funzionamento della rappresentanza sindacale aziendale e la tutela dei relativi dirigenti implicano per il datore di lavoro, che le particolari facilitazioni disposte dalla presente legge per l’attività sindacale dovessero essere limitate alle aziende aventi una dimensione superiore a un determinato minimo. Identiche considerazioni valgono per l’assemblea, il referendum e le affissioni. Pertanto, si è stabilito che la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali possa aver luogo, per le imprese industriali e commerciali, soltanto nelle unità produttive che occupano più di 30 dipendenti, nonché in quelle imprese che nell’ambito dello stesso comune occupano un identico numero di lavoratori, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tale limite minimo: questa ultima previsione è dettata dalla opportunità di non privare della speciale tutela di cui alle norme in oggetto i lavoratori di aziende di rilevanti dimensioni, ma frazionate in varie unità produttive nella stessa circoscrizione geografica. Per contro, un limite più elevato - 40 dipendenti - condiziona l’applicabilità delle disposizioni riguardanti la tutela dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali nonché il diritto degli stessi a fruire di permessi per lo svolgimento della loro attività. Si rilevi infine che, secondo l’art. 15, la misura dei permessi retribuiti accordati ai dirigenti sindacali aziendali è dimezzata per le aziende fino a 100 dipendenti. Limiti inferiori sono disposti per le imprese agricole, Infine, una normativa partico1are definisce le modalità di applicazione della legge al personale navigante delle imprese di navigazione. Da ultimo, l’art. 25 garantisce, mediante l’applicazione di un’adeguata sanzione penale, l’osservanza delle disposizioni degli artt. 1 (libertà di opinioni), 2 (guardie giurate), 3 (apparecchiature di controllo) e 5 (visite personali) della legge.