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ni del cielo. Allora Evsevaste con autorevole benignità «se fossero, disse, due sentenze eguali nella probabilità, l’una che attribuisce l’imperio dell’universo a mente provvida e sapientissima, e l’altra che lo abbandona al caso, certo la prima sarebbe consolante, e luttuosa la seconda, e però in pari valore da evitarsi l’una e l’altra da seguirsi. Ma che il sublime canto di Omero, la commovente lira di Terpandro, e quella mirabile eloquenza ch’or suona in Atene nelle labbra di Eschine, di Lisia, e di Demostene; e il divino ingegno di Platone, e l’animo composto di cento anime di Alcibiade, e Sofocle lagrimoso, e i portenti di Fidia, e di Apelle sieno effetti di atomi adunati alla ventura, è sentenza vergognosa. E però se delle illustri opere di nostra mente niun’altra che sublime ed incorporea cagione ascrivere se ne può, come ardiremo assegnare a tanto ordine dell’u-