Brani di vita/Libro primo/Il primo amore: differenze tra le versioni

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Dicono che il primo amore non si dimentica mai. Non voglio sapere quel che Ella pensi di questo assioma; no, non lo voglio sapere: ma per me lo accetto e ci credo. Io, per esempio, per la prima volta ho amato un ritrattino in fotografia, ed ora che tanto tempo è passato, solo a chiudere gli occhi, lo rivedo preciso come se lo avessi davanti: proprio come dopo aver fissato il sole per un momento, a chiuder gli occhi ne riveggo il disco che persiste nella retina. Che strano effetto, non è vero? che strano effetto fanno questi ricordi quando ci tornano avanti colla vivacità di una cosa vera, col colorito e la temperatura della realtà! Ha mai girato in montagna? Si sale lentamente, ammirando una scena magnifica. Il cielo è del più bell’azzurro di cobalto, i monti del più bel verde di smeraldo, e così, procedendo tra queste vive sensazioni di colore, si oltrepassa il punto centrale della scena. Allora bisogna voltarsi indietro per veder tutto cambiato. I monti sotto i quali si passò non hanno più lo stesso aspetto e lo stesso colore, la pianura sfuma giù tra l’azzurro e il violetto, il cielo all’orizzonte è color di rosa, insomma quel che era verde diventa turchino, quel ch’era grigio diventa roseo, quel ch’era luce diventa ombra. Così si cambia la sensazione visiva degli oggetti secondo l’ora e il punto di vista; e così, guardando con la memoria, le cose passate prendono colori e forme diverse da quelle che vedemmo una volta. È per questo che ricordando qualche avvenimento della vita, ci picchiamo la fronte brontolando: — Bestia ch’io fui! — È per questo che, pensando ora a quel ritrattino, mi ricordo che ne ero innamorato. Allora non lo sapevo.
Ero in collegio, tra i dieci e gli undici anni, e lasciavo vegetare tranquillamente la mia animalità, soffrendo il freddo nell’inverno e il caldo nell’estate come ogni fedel cristiano. Mangiavo con appetito formidabile i brodetti spartani e le polpette ripiene di mistero; saltavo come un capriolo, ridevo come un matto e studiavo poco. Credo anzi che non studiassi affatto, poichè la dottrinella del {{AutoreCitato|Roberto Bellarmino|Bellarmino}}, che era la nostra fatica quotidiana, non me la ricordo più. Dico tutto questo perchè Ella si persuada ch’io non ero un fanciullo portento, ma un povero bimbo come gli altri, amico de’ trastulli, nemico del {{AutoreCitato|Roberto Bellarmino|Bellarmino}} e martire dei geloni. Vivevo solo fisicamente ed ignoravo il resto. Ignoravo il male, quindi ero innocente, poichè la innocenza, tanto vantata, non è altro che la santa ignoranza.
Il mio collegio era un antico convento di camaldolesi, un labirinto di corridoi oscuri, di cellette basse, di scale inesplorate, di anditi misteriosi che conducevano a porte murate. Pareva una fabbrica architettata da Anna Radcliffe per qualche personaggio dell’Hoffmann. Il chiostro maggiore, di un disegno pomposo e vicino al barocco, circondava un giardino incolto, pieno di umidità, di muschi cresciuti sui viali, di solanacee pelose, di lauri lucidi, quasi metallici, sotto cui prolificavano le botte, i millepiedi e gli scorpioni. Le pareti erano tigrate da grandi macchie scure, vellutate dalla peluria del salnitro e un odore di chiuso, di muffa, di terra bagnata, vaporava da ogni angolo, tra le commessure verdastre dei mattoni. In questo carcere malinconico, tra i lunghi silenzi, la semi oscurità, le funzioni religiose, sotto il cipiglio freddo de’ superiori e la ferula degli abatacci mal creati, tutto ci si poteva chiedere fuorchè uno sbocciare anticipato del cuore, un germinare precoce degli affetti e dei sentimenti. In Siberia non fioriscono le rose: si figuri le palme!
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Lo rubai. È una brutta parola ma è la verità, e sono persuaso che se il Rettore m’avesse guardato in faccia con attenzione, se ne sarebbe accorto. Certo mi pareva di avere il delitto scritto in fronte, e quel maledetto batticuore non voleva cessare: anzi mi assordava e mi pareva che tutti lo dovessero sentire. Stentai a finire il gelato, e solo quando uscimmo di camera mi parve di respirar libero. Tenevo la mano ostinatamente in tasca e, di quando in quando, accarezzavo il cartoncino colle dita come si accarezza una persona viva. Nel tempo dello studio, con mille precauzioni, riuscii a rinvolgere il caro oggetto in un bel foglio di carta, e me lo misi sul petto, sulla carne nuda. La notte, con la testa sotto le lenzuola, lo baciai come un santo e mi addormentai tenendolo colle mani sul cuore. Chi potesse sapere i bei sogni di quella notte! Ma non me li ricordo più.
Sì, Signora, sono fanciullaggini, lo so. Ma è appunto tra le fanciullaggini che si desta il cuore, e vorrei sapere se il suo, quando si destò, abbia fatto meglio del mio. Tutti a questo mondo cominciamo così, o press’a poco. Non c’è che l’agave che fiorisca in un minuto secondo, e tutti gli altri fiori sbocciano adagio adagio, mentre l’agave fiorisce ogni cento anni pur troppo. Così, con queste fanciullaggini ho cominciato ed ho seguitato per molto tempo, e, veda, mi dolgo di non essere più fanciullone a quel modo. Con che intensità d’affetto amavo quel mio ritrattino! Che baci gli davo quando non mi vedeva nessuno! Per le vie guardavo le donne in faccia per vedere se somigliavano alla mia innamorata, ed a scuola, con la testa tra le mani e le dita nei capelli, mi immergevo in contemplazioni paradisiache, la cui dolcezza ineffabile mi mancò quando il senso pretese la sua parte dall’amore. Quelle meditazioni serafiche, pure da ogni contatto di realtà, erano veramente l’ideale dell’ideale e mi procuravano gioie vive, fantasie inebrianti e castighi durissimi, perchè naturalmente chi ci soffriva più di tutti era il povero cardinal {{AutoreCitato|Roberto Bellarmino|Bellarmino}}. Imaginavo cavalcate, colloqui, viaggi, avventure, e mettevo la mia innamorata in tutte queste fantasmagorie e quasi la vedevo con gli occhi allucinati, come si vede in sogno. A casa mia avevo compitato il ''Nicolò de’ Lapi'' e mi ricordavo il bacio di Lamberto a Laudomia sull’inginocchiatoio, e me lo figuravo dato da me alla mia innamorata che mi sorrideva come nel ritratto. Quel bacio era allora per me il limite estremo dell’amore! Oh, beate fanciullaggini! Mi contentavo di un bacio imaginario e non facevo versi! Come si cambia, Signora mia!
Intanto io viveva contento in questo amore rudimentale per un ritratto cui la fantasia dava corpo. Diventai rustico, solitario, stravagante. Il mio cambiamento di carattere fu notato, e mi accorsi che l’abataccio villanzone cui la mia educazione era affidata, mi sorvegliava e mi spiava. S’accrebbe quindi la mia salvatichezza, e questo stato di ostilità contro tutti mi piaceva, perchè sostenuto come una prova d’amore. I castighi mi piovvero addosso ed io li accettai come martirio invidiabile, come sacrifici meritorii. Mi irrigidii contro la persecuzione, vissi in uno stato di ribellione muta, passiva, ostinata. L’abataccio disperava già di domare questa cocciuta perversità, quando un giorno, povero me! perdetti il ritratto!