Arabella/Parte seconda/7: differenze tra le versioni
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I Boffa e una confraternita di poveri straccioni avevano combinato di entrare nell’azione comune, pagando la loro piccola parte a rate mensili. Don Giosuè era incaricato di raccogliere le firme, le contribuzioni, e di guidare la mandra. Le monache del Buon Pastore si fecero rappresentare da don Felice Vittuone. La famiglia Borrola e tre o quattro Maccagno ricchi si dichiararono pronti a sostenere l’avvocato. Costui, oltre al puntiglio suo personale e alla voglia di tormentare un intrigante che l’aveva messo pulitamente alla porta, provava un gusto, per dir così, professionale. Un processo, per quanto magro, può sempre diventare un processo lungo, e alle volte il miglior brodo è quello che si spreme dagli ossi.
Il Mornigani, quello stesso che chiamavano el mèzz avvocat, alzò la grossa testa dalla tavola, dove stava scrivendo, e indicando colla cannuccia una cassapanca antica rasente il muro, sotto il ritratto a stampa di {{Ac|Papa Pio IX|Pio IX}}, disse:
Aquilino a sentirsi trattato col voi, come un fattore di campagna, fu per rispondere all’illustrissimo signor scrivano che non gli pareva di aver succiato con lui a balia; ma preferì compatire al farsi compatire. Sedette e cominciò a carezzare col dito il pelo scarso di un cilindro sufficientemente rispettabile.
Aquilino questa volta arrossì e socchiuse gli occhi. Era disposto a comparire, ma chi dava a uno sgangherato scrivano il diritto di chiamarlo galantuomo? Galantuomini dobbiamo essere tutti, ma appunto per questo non c’è bisogno che altri venga a dirtelo. Aquilino non avrebbe mai detto a una persona rispettabile:
Il vice-ricevitore cercò di riprodurre il tono asmatico dell’ottuagenaria.
’Sei buono, Aquilino, di levarmi un dente che mi dà fastidio?’
’Proverò’, dico io. Era un dentone a sinistra già tutto sconnesso, lungo come una lesina, che gli dava pena, poverina. E io con un poco di filo, trac, glielo levai netto come un corno.
Il Mornigani, che nel suo interno godeva più che alle marionette, imitò il gesto con cui il vice-ricevitore accompagnò il suo trac, e fingendo di tener preziosa nota della disposizione, scrisse in fretta, ripetendo sottovoce
Aquilino, che non tollerava d’esser preso a zimbello, alzò un dito all’altezza dell’occhio e osservò:
Aquilino tuffò due dita nelle tasche del panciotto e trasse un scatolino bianco di farmacista, l’aprì e mostrò al Mornigani un bel dente, sano come un corallo, tuffato in mezzo a della bambagia.
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Il mezzo avvocato, soffocando nelle gote la gran voglia di ridere, e simulando un serio interessamento, si alzò un poco, e s’inchinò a osservare attraverso una grossa lente col manico, che tolse dal tavolo, il prezioso documento. E vide anche lui un bel dente sano, bianco, ingrandito dalla lente nella misura di una chicchera da caffè.
Ora toccò ad Aquilino ridere di gusto nel fondo del suo interno.
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Tanta superbia e non saper nemmeno il nome dei fondatori della patria! Ma non credette della sua dignità di perdere il fiato con un frustapenne. Crollò il capo e seguitò:
E sorrise amorosamente, mentre coi due diti stringeva e rotolava il piccolo pizzo di barba che riempiva la fossetta del mento.
Il mezzo avvocato alzò un poco il viso dalla carta e rise coi buchi del naso, che all’Aquilino faceva l’effetto d’una trappola.
Aquilino rimase così colpito da questa notizia, che non dette più peso al titolo di galantuomo, che per la terza volta il frustapenne gli buttava sul viso. Raccolse la mente e, tentennando il capo, parlò con se stesso, osservando che con Tognino non era facile scherzare. I preti fanno tutto facile e credono che il diavolo abbia ancora paura dell’asperges; ma il diavolo è vecchio più dei preti, e l’acqua santa, in giornata, non fa paura nemmeno ai cani idrofobi. Credevano di pigliar Tognino nel trappolino come un topolino; e Tognino cominciava col far legare il Berretta, e, un dopo l’altro, c’era da aspettarsi che facesse legare l’Angiolina per insulti e calunnie, e poi forse anche il Boffa, che gli aveva mostrato un pugno, e, guerra per guerra, non è la corda che manca a Milano: basta! A buon conto egli aveva la coscienza di essere sempre rimasto nei limiti del rispetto: e quando un uomo opera col testimonio della coscienza, non deve aver paura del suo diritto. Con tutto ciò era prudente andar col piede di piombo. Si fa presto a fare un buco nell’acqua.
In un altro momento il reduce delle patrie battaglie avrebbe potuto far osservare che, se Aquilino era il suo nome di battesimo, non credeva per questo d’aver mangiato un sacco di sale col sor avvocato dalle gambe lunghe. Ma ora gli stava a cuore di schiarire le circostanze e rispose che non conosceva affatto la signora Olimpia.
Aquilino osservò che il mezzo avvocato vestito di nero con falde lunghe e penzolanti pareva un prete, mentre il canonico, salvo sempre il dovuto rispetto, pareva un cavallante. La religione cattolica sarebbe forse meno perseguitata, se i ministri di Dio avessero meno paura dell’acqua del pozzo.
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Il Mornigani, ridendo col rumore d’una carrucola, dopo aver abbracciato don Giosuè colla confidenza che chierici, giornalisti e cantanti hanno col loro riverito prossimo, esclamò:
E il gamba lunga tornò a dare una fregatina sulla mano.
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Con lei entrò la Santina, la donzella di casa Ratta. Questa povera cristiana malaticcia, con due occhi che parevan pieni di cenere, venne avanti avviluppata fin sopra ai capelli in uno sciallo scuro, che dava alla sua persona magra e prolissa la figura di una sanguisuga.
L’ortolana si accostò al banco dove il Mornigani prese nota del nome e delle generalità. Intanto don Giosuè moveva incontro a don Felice Vittuone, che entrava in quella e lo fermò sullo stipite. Il buon vecchietto, tirato in quella bega da un sentimento di dovere e di giustizia, avrebbe voluto far trionfare delle idee di conciliazione. Una causa non giova che agli avvocati, mentre, secondo il suo discreto modo di vedere, sarebbe stato più utile cercare di ottenere una transazione amichevole e finirla colla pace di Dio.
Sospinti dal battente dell’uscio, i due preti dovettero cedere il posto e lasciar passare la elegante e venusta Sidonia Borrola, che entrò a braccetto del cavalier Massimiliano Maccagno, capitano d’artiglieria, venuto apposta a Milano dal suo distretto di Alessandria per assistere all’adunanza.
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L’Angiolina, non contenta del suo posto, mosse una sedia e andò a collocarsi nel bel mezzo della prima fila, di fianco alla bella e superba cantante, che si degnò di guardar la sua vicina con occhiate lunghe piene di compatimento.
Madama Sidonia si compiacque di sorridere d’un sorriso che non uscì dalla pelle. Si tirò su, si impettì, e fece capire che non aveva gusto di parlare con persone sconosciute. Venendo in quel momento a capitarle davanti Mauro, si mosse d’un posto e mise tra lei e l’ortolana il ventre del marito.
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Quando il Mornigani tornò colle carte, l’avvocato, data una scossa al campanello, si alzò, si passò la mano sul labbro e con tono sommesso, quasi di confidenza, in mezzo a un religioso silenzio, prese a dire:
—Signori...—
Aquilino socchiuse gli occhi e per sentir meglio aprì la bocca.
Questo esordio, detto con voce solida e chiara, che rispondeva a meraviglia a un pensiero chiaro e solido, fece una buona impressione sull’animo degli uditori, che con una leggera scossa si accomodarono meglio, tesero i colli, aprirono occhi e orecchi.
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L’avvocato, dopo aver contemplato un poco la punta delle unghie, seguitò:
La parola non fece ridere nessuno, perché ognuno era sotto la greve impressione di quel testamento di ferro. L’avvocato chetò la donna con un gesto della manina e seguitò:
E sollevando a un tratto il tono della voce, con un severo aggrottamento dei sopraccigli, soggiunse:
L’avvocato Baruffa batté colle nocche sul tavolo, come se schiacciasse gli ossi a questo povero diritto così spesso conculcato, e alzò la testa con un moto leonino. Un fitto bisbiglio l’applaudì. Ripreso il discorso, alzò le due mani e avviò un’altra argomentazione, dicendo con voce più chiara:
Una grossa ilarità salutò queste parole. L’avvocato, che era rimasto attaccato con un dito al pollice dell’altra mano, portò il dito sull’indice e contò:
Gli altri, come se non potessero resistere al fascino di quei tre diti che l’avvocato teneva alti sulle loro teste, si mossero e ballarono sulle sedie.
L’ambiente si riscaldava. Tutti si guardavano in viso con occhiate piene di calore, che sommate produssero una corrente di simpatia verso il valentuomo, il quale con animata eloquenza e ferrea dialettica sapeva così bene interpretare ciò che ognuno sentiva nel cuore come un gruppo ingarbugliato. La solidarietà dell’impresa faceva scomparire le differenze sociali e nel comune interesse tutti si sentirono alleati e fratelli. Fu per qualche tempo un agitato muoversi di braccia e di gambe; chi lodava l’argomentazione dell’avvocato, chi l’avvedutezza di don Giosuè, chi si fece rosso per il gusto e per la speranza, chi per poco non si sentì il testamento in saccoccia. E l’avvocato, tenendo sempre elevati e diritti i suoi quattro diti, lasciò passare con un sorriso di compiacenza il piccolo subbuglio; poi, aggiungendo ai quattro diti grossi anche il mignolo, gridò in tono di vittoria:
—Quinto!—
Il silenzio divenne di nuovo perfetto. Si sarebbe sentito volare una mosca.
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L’Angiolina, che non poteva più stare nei vestiti, si alzò, si voltò verso la platea e sollevata anche lei la sua mano grossa e aperta come un ventaglio, gridò anche lei:
—Quinto!—
E mentre l’avvocato lasciava cadere queste gravi parole, come altrettante gocce d’oro colato, era a vedersi la diversa espressione delle faccie, certi occhi imbambolati, certi cordoni del collo tesi, certe bocche semiaperte a gustare tutto il sapore di quelle grandi cose. I cuori s’eran fatti duri e stretti, non respiravasi più per non disturbare. L’oratore, continuando in un tono domestico, come tra parentesi, conchiuse:
E molti le furono intorno a compassionarla, a compatirla, mentre l’avvocato, che sentiva d’avere il suo uditorio in pugno, incalzava più forte:
Aquilino, non resistendo alla seduzione di quella voce armoniosa e calda, che carezzava così bene il suo amor proprio, mentre arrossiva colla timidezza di una fanciulla, tuffò la mano nel taschino del panciotto, ne tirò fuori lo scatolino, lo scoperchiò e mostrò ai vicini il bellissimo dente, che prese a girare di mano in mano come una reliquia.
Pigliando la parola per sé e per gli altri, recitò anche lui un discorso, in cui si fece interprete dei sentimenti conculcati, dei diritti vilipesi, dei...
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L’Angiolina, che il diavolo non poteva più tenere, s’era messa a sedere davanti al tavolo dell’avvocato e predicando, coi pomelli rossi, andava mettendo sottosopra le carte. Il brav’uomo non arrivava a tempo a togliergliele di mano. Finalmente un’altra scampanellata rinforzata dai colpi sonori di due mani larghe come pantofole, rimise l’ordine.
Tutti si voltarono verso il prete, che rosso e caldo in viso quanto si poteva vedere al disotto del suo colorito di vecchia pipa, agitando le mani legnose e parlando coi soliti gusci in bocca, raccontò a chi ne aveva bisogno come veramente la signora Carolina avesse scritta, firmata e poi trattenuta la carta; come, prima di morire, avesse fatto segno di aver firmato, ma in quel momento entrò il sor Tognino, reduce da Lodi, dov’era stato chiamato tra i giurati, s’impadronì delle chiavi, e addio. Firmata o non firmata, una carta ci doveva essere, laddove invece...
L’avvocato la fece sedere per forza e, agitando il campanello sul naso dell’ortolana, gridò:
Il rumore, l’acciottolìo, le ciarle non cessarono se non quando la gente incominciò a infilar la porta. Tutti sapevano ormai chi fosse Tognino Maccagno e di quanto fossero suoi creditori. Tutti imprecavano contro di lui, ladro, usurpatore, ciascuno in misura del danno che credeva d’aver sofferto. Sulla scala continuarono le discussioni: si trascinarono fin sulla piazza. Don Giosuè che era l’anima nera di quella congiura prese note, indirizzi, e col suo scartafaccio sotto l’ascella traversò di corsa la piazza per non arrivare tardi al vespero in Duomo.
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Aquilino Ratta rimase un pezzo sotto le piante a spiegare il meccanismo della causa a Michele Ratta e al Boffa, che parevano inebetiti dalla speranza. Aquilino, uomo sereno e non avido, poteva dire di dominare la questione meglio di ogni altro. Tra chi vedeva tutto azzurro e già si sentiva i denari in tasca, e chi parlava di un buco nell’acqua, Aquilino stava in una via di mezzo, né troppo azzurro, né troppo buco. Probabilità buone c’erano e non c’erano: l’avvocato era bravo, ma neanche Tognino era grullo. Aquilino era di questo parere, che non bisogna insegnare ai gatti la maniera d’arrampicar sulle piante. I gatti furono sempre gatti e lo saranno sempre. Una cosa sola per parte sua capiva poco, ovvero aveva penetrato poco bene; là dove l’avvocato tirò in scena il letto di Procuste. Capiva che era un’allusione alla storia romana, ma anche supponendo che Procuste fosse stato, per modo di dire, un filosofo famoso dei tempi antichi, non vedeva come c’entrasse il letto; a meno che il filosofo usasse dormire sulla nuda terra.
E Aquilino allungò la parola, accompagnandola con un giro della mano, che spiegò come un ventaglio e chiuse in fretta come se pigliasse una mosca a volo.
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