Daniele Cortis/Capitolo dodicesimo: differenze tra le versioni
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<div align="center">'''A PASSI DIFFICILI'''</div>
“Signor Boglietti!” gridò
Nessuno rispose
“Cosa
E fece entrare il signor avvocato in una sala dove un altro visitatore ossequioso si confessava al suo deputato. Boglietti diede
“Parli, parli”
“Ecco” incominciò colui, piano. “Io sono proprio dolentissimo, signor deputato, di ciò che Le debbo dire, e, prima di venire al punto, vorrei che Ella si persuadesse...”
Cortis guardò
“Venga pure al punto”
“Che vuole?” rispose
“Ebbene?”
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Colui tacque un momento, come aspettando una parola di Cortis, che non venne.
“E poi” proseguí “so pure che il barone è stretto da parecchi altri impegni urgentissimi, gravissimi. Insomma, se si fosse trattato
“Ella ritira la sua promessa” interruppe Cortis, alzandosi.
Il signor avvocato si alzò pure, protestando di non aver creduto dare una promessa formale, di essere accoratissimo. In quel momento
“Non vieni? Si vota.”
“Vengo” rispose questi. “È forse
“Che, che!” esclamò colui dal corridoio, andandosene.
“Vado subito” riprese
“Ha già fatto anche questo, Lei?” disse Cortis guardandolo fiso, con la sua freddezza sarcastica. “Venga da me domattina alle nove.”
“Domani, sabato, 25” disse
“Allora, a mezzogiorno. In casa mia. Sta bene?”
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“Sí, signore.”
Boglietti se ne andò e Cortis guardò da capo
Erano le tre. Elena e la contessa Tarquinia dovevano essere arrivate alla Minerva da
Qualcuno che lo incontrò allora, affermò poi di non averlo mai veduto cosí pallido. Sentiva Elena vicina e sentiva insieme il confuso impero di altri pensieri, di necessità non ancora ben conosciute ma che lo venivano premendo ogni giorno piú. Il discorso, anzitutto, il discorso che aveva deliberato pronunciare
Gli pareva poi che tante preoccupazioni pesassero sopra una stanchezza nuova del corpo, un torpore strano di che aveva accusato, in addietro,
Entrò
“Arrivate. Il signor senatore Clenezzi è uscito in questo punto e ha lasciato detto che se Lei veniva, dovesse salir subito subito dalla signora contessa.”
Cortis era conosciuto alla Minerva. Aveva scelto egli stesso le camere per la contessa Tarquinia, al secondo piano. Salitovi, la trovò sola, di pessimo umore, accesa in viso, guasta la pertinace bellezza dal viaggio faticoso. Lo accolse male, sulle prime, gli dichiarò che la politica lo aveva guasto nel corpo e
“E poi” soggiunse “Vostra Signoria si fa aspettare, per sua bontà, un secolo anche
“Elena?” chiese Cortis.
“Non dico niente poi delle camere. Si capisce, figlio caro, che non hai donne in casa.”
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“Ne avrò, zia” disse Cortis tranquillamente.
La contessa Tarquinia
“Dunque?” ripigliò il primo. “Elena?”
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“Andiamo” rispose la contessa rabbonita, “qua la mano e facciamo la pace. Elena benissimo, sono contentissima!”
Pronunciando a voce molto alta queste ultime parole, ella accennò
“Non capisco niente” sussurrò poi facendosi intendere piú con il gesto che con la voce, “non capisco niente!”
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Elena stava sulla soglia della sua camera, pallida, sorridente, scomposti i capelli, gli occhi piú grandi, la vita piú fine che mai. Pareva una giovinetta. Strinse la mano a Cortis, con uno sguardo che non sorrideva piú, con un leggero tremito della bocca. Poche parole fredde, quasi di cerimonia, furono scambiate tra loro con voce sommessa, vacillante. Seguí un silenzio di qualche momento. Elena guardò sua madre.
“Benedetta!” disse la contessa Tarquinia. “Perché non parli tu? Bene” soggiunse sospirando dopo aver atteso invano risposta, “parlerò io. Caro Daniele, qui bisogna che facciamo subito consulto. Capisci, già! Povero Daniele, hai fatto tanto a
Elena alzò in viso a Daniele
“Tu sai, non è vero” continuò la contessa, “di certi discorsi da matto, dico io, che mio genero ha fatto a Cefalú. Va bene. Sai anche di una sua lettera, te ne ho scritto io da Roma; ma non sai mica i termini. Ecco, dunque. Premettiamo che a casa Carrè non si scrive mai, che mio cognato e io siamo scomunicati fin
“Per te, zia?”
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La contessa incominciò a declamare con il cipiglio e la cantilena di chi studiatamente ripete boriose parole di persona spiacevole:
“Il barone sapeva benissimo che la sua cara suocera era a Cefalú e comprendeva perfettamente che non avesse osato prendere stanza in casa sua. Questa era la piú sincera confessione
“Capisci?” concluse la contessa. “Per me dico che son tutte chiacchiere, ma quella là si è agitata moltissimo. Allora ho creduto di rispondergli io su questo punto della mia confessione e del suo abbassarsi davanti ai Carrè; e mi pare anche
“Sí, sí, combinato” rispose Cortis in fretta, non volendo turbare inutilmente le signore: perché, se le cose non erano in quel momento composte, certo dovevano comporsi
“E lui” riprese la contessa “lo ha saputo della proroga?”
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“Bene, e ora dimmi, caro te: cosa abbiamo da fare? Lui si capisce che non intende lasciarsi vedere. Dobbiamo scrivergli? Dobbiamo andarlo a cercare?”
La contessa Tarquinia si pose ad alitare affannosamente, mordendosi il labbro inferiore e battendo le palpebre, come se
Elena non aveva mai aperto bocca. Seduta in faccia a sua madre, non pareva nemmeno aver fatto attenzione al lungo discorso di lei, guardava nel vuoto con gli occhi spenti, immobili.
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“Quale?”
“Quella di tuo genero,
La contessa non se ne ricordava; guardò sua figlia.
“Elena”
“Non mi pare” rispose la contessa, alzandosi, “ma guarderò.”
Appena colei fu entrata nella sua camera, Elena stese la mano a Cortis, che
“Perdonami.”
“Oh!”
Elena gli lesse in viso le parole imminenti; era il perché delle sue freddezze, del suo lungo silenzio che egli voleva sapere. Lo interruppe subito:
“No, no, non è questo che devi perdonarmi. È
Parve che
“Ti senti male?”
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Cosí dicendo Cortis si voltò a sua cugina, che rispose sottovoce senza scomporsi:
“Vado al Senato fra
“Benedetta!” esclamò la contessa. “Tu te la intendi con la gente cosí alla sorda e alla muta, e non parli neanche dopo! E noi si sta qui a consultare!”
“Hai ragione, mamma. Ho creduto che
Cortis partí pochi minuti dopo, malgrado sua zia volesse trattenerlo sino al ritorno di Clenezzi, per altre intelligenze da pigliare insieme. Ella finí con dirgli che per questa volta lo lasciava andare, ma che, se voleva il perdono
Cortis, pieno il cuore di quella mano toltagli bruscamente, di quello sguardo scambiato poi, scese ad attendere il senatore Clenezzi in piazza della Minerva. Voleva prevenirlo, impedire che accompagnasse Elena al Senato. Non conveniva
Cortis lo acquietò. Bastava dire a Elena che suo marito non era piú al palazzo Madama e che oramai per quel giorno sarebbe inutile andarne in traccia. Quanto
“Caro il mio signor Cortis!” esclamò il senatore a mani giunte. “Se Le sono mai obbligato! E adesso” soggiunse “bisognerà salire da queste signore.”
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“Ah! ah!” rispose il senatore, sfogandosi amaramente prima nel suo dialetto e traducendosi poi: “I è andàc in malúra à quèi, sono andati alla malora anche quelli!”
Cortis, rimasto solo, riafferrò
Rassicurarlo, dirgli che al pagamento del 31 marzo sarebbe provveduto, fargli credere che il benefizio venisse dal Governo, apponendovi la condizione di uscire volontariamente dal Senato; non vi era altra via da tentare. Di Santa Giulia vantava grandi benemerenze presso la Sinistra; forse crederebbe. Non
Il senatore era fuori. Cortis gli scrisse sopra un biglietto di visita, invitandolo a recarsi da lui
▲Rassicurarlo, dirgli che al pagamento del 31 marzo sarebbe provveduto, fargli credere che il benefizio venisse dal Governo, apponendovi la condizione di uscire volontariamente dal Senato; non vi era altra via da tentare. Di Santa Giulia vantava grandi benemerenze presso la Sinistra; forse crederebbe. Non v'era altra via.
▲Il senatore era fuori. Cortis gli scrisse sopra un biglietto di visita, invitandolo a recarsi da lui l'indomani, sabato, a mezzogiorno “per affari urgentissimi.” Chiese poi alla fantesca che gli aveva aperto se il senatore avrebbe sicuramente rincasato prima dell'indomani. Colei credeva che sí; ma il signor senatore era diventato tanto strano! Faceva con lei tali discorsi che proprio non ci sarebbe da stupire se un giorno o l'altro succedesse una disgrazia. Doveva avere di gran fastidi, povero signore! La donna, una chiacchierina toscana, avrebbe continuato Dio sa quanto su questo tono, se Cortis le avesse dato retta. Ma a Cortis premeva ora tornare a casa. Passando da una farmacia, entrò a farsi dar qualche cosa per dormire, buttò sul banco la ricetta d'un suo collega, dicendo di desiderare una dose piú forte. Soffriva da alcun tempo insonnie penose. Sprezzatore, nella sua robustezza fisica, d'ogni bisogno del corpo, sprezzatore e ignaro insieme d'ogni arte medica, non pigliava medicine mai se non per qualche sofferenza che gl'impedisse lo studio o l'azione; e allora si curava brutalmente, combattendo il solo fenomeno con gli specifici piú violenti. A casa si ordinò un caffè fortissimo, salvo a prendere il cloralio la notte prima di andare a letto; poi si chiuse a lavorare nel suo studio, dove dieci o dodici sedie erano già preparate agli amici attesi per le nove di sera.
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