Canti (Leopardi - Donati)/XIX. Al conte Carlo Pepoli: differenze tra le versioni

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{{Qualità|avz=100%|data=10 ottobre 2006|arg=poesie}}{{IncludiIntestazione|sottotitolo=XIX<br />Al Conte Carlo Pepoli|prec=../Alla sua donna|succ=../Il risorgimento}}
 
{{capitolo
|CapitoloPrecedente=XVIII - Alla sua donna
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<poem>
Questo affannoso e travagliato sonno
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Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
{{R|5}}O gioconde o moleste opre dispensi
L'ozioL’ozio che ti lasciàr gli avi remoti,
Grave retaggio e faticoso? È tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell'oprarquell’oprar, quel procurar che a degno
{{R|10}}Obbietto non intende, o che all'intentoall’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi
Vede l'albal’alba tranquilla e vede il vespro,
{{R|15}}Se oziosa dirai, da che sua vita
È per campar la vita, e per sé sola
La vita all'uomall’uom non ha pregio nessuno,
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni
Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
{{R|20}}Sudar nelle officine, ozio le vegghie
Son de'de’ guerrieri e il perigliar nell'arminell’armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:
Che non a sé, non ad altrui, la bella
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{{R|25}}La natura mortal, veruno acquista
Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pure all'asproall’aspro desire onde i mortali
Già sempre infin dal dì che il mondo nacque
D'esserD’esser beati sospiraro indarno,
{{R|30}}Di medicina in loco apparecchiate
Nella vita infelice avea natura
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Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto non può, corresse il giorno
{{R|35}}All'umanaAll’umana famiglia; onde agitato
E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de'de’ bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Né men vano che a noi, vive nel petto
{{R|40}}Desio d'esserd’esser beati; a quello intenta
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
Né la lentezza accagionar dell'oredell’ore.
Ma noi, che il viver nostro all'altruiall’altrui mano
{{R|45}}Provveder commettiamo, una più grave
Necessità, cui provveder non puote
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Non di greggi dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l'umanal’umana prole. Or s'altris’altri, a sdegno
I vòti anni prendendo, e la superna
{{R|55}}Luce odiando, l'omicidal’omicida mano,
I tardi fati a prevenir condotto,
In se stesso non torce; al duro morso
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Felicità richiede, esso da tutti
{{R|60}}Lati cercando, mille inefficaci
Medicine procaccia, onde quell'unaquell’una
Cui natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto
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Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
{{R|70}}Nell'imoNell’imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote
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Altri, quasi a fuggir volto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
{{R|80}}L'etàL’età spendendo, e mari e poggi errando
Tutto l'orbel’orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all'uomall’uom negl'infinitinegl’infiniti
Campi del tutto la natura aperse,
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'assides’asside
{{R|85}}Su l'altel’alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.
 
Havvi chi le crudeli opre di marte
Si elegge a passar l'orel’ore, e nel fraterno
{{R|85}}Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
Chi d'altruid’altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far sé men tristo,
Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o sapienza ed arti
{{R|90}}Perseguitando; e chi la propria gente
Conculcando e l'estranel’estrane, o di remoti
Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l'armil’armi, e con le frodi,
La destinata sua vita consuma.
 
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Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
A chi patria non ha. Te punge e move
{{R|100}}Studio de'de’ carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che più benigna
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Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d'annid’anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
{{R|110}}Che nella ferma e nella stanca etade,
Così come solea nell'etànell’età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
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Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
{{R|120}}Amai, che sempre infino all'oraall’ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
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Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d'arted’arte,
{{R|130}}Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch'ioch’io riponga
L'ingratoL’ingrato avanzo della ferrea vita,
{{R|135}}Eleggerò. L'acerboL’acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell'eternedell’eterne cose; a che prodotta,
A che d'affannid’affanni e di miserie carca
L'umanaL’umana stirpe; a quale ultimo intento
{{R|140}}Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d'ammirard’ammirar son pago.
 
{{R|145}}In questo specolar gli ozi traendo
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Desio di gloria antico in me fia spento:
Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d'amord’amor, Diva più cieca.
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