Brani di vita/Libro primo/Suum cuique tribuere: differenze tra le versioni
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Don Vencenzì, Cavaliere della Croce
▲Don Vencenzì, Cavaliere della Croce d'Italia e Presidente del Tribunale, sull'imbrunire era solo nel suo scrittoio.
Lo chiamava ''scrittoio'' e non ''studio'' per un vago ricordo del parlare toscano, poichè era stato pretorucolo in non so qual buco di Maremma, ma certo in quello scrittoio Don Vencenzì ci scriveva poco perchè aveva sempre vissuto in mediocre armonia colla grammatica e la penna gli faceva ribrezzo come una serpe. Il fatto è che il preteso scrittoio pareva piuttosto un tempietto sacro ai Lari domestici, perchè sopra un asse, lungo il muro, stavano in fila quattordici statuette di gesso, da
Don Vencenzì aveva acceso quattordici candelotti ai suoi quattordici protettori e tutti con un fiammifero solo; cosa che egli riteneva di buon augurio, sebbene non di rado si scottasse le dita. Si inginocchiò e ad ogni imagine distribuì imparzialmente la debita razione di ''Pater, Ave'' e ''Gloria''; indi corazzatosi con uno sfoggiato segno di croce, contemplò, contento come un bambino, le quattordici statue, dipinte dei colori striduli e violenti dei figurinai ed illuminate da sotto in su dai moccoli fumiganti.
Don Vencenzì, distratto dalle sue meditazioni devote, pensò ai maccheroni col sugo; il suo piatto favorito.
Eppure Don Vencenzì era infelice! non si sarebbe detto badando al ventre cucurbitaceo ed al faccione lucido che pareva unto. Certo le funzioni animali si compivano bene in lui anche su due gambe corte e non perfettamente verticali; ma tuttavia era infelice.
Nè gli davano noia le risate del pubblico quando, presiedendo in Corte
Meno poi lo offendevano i monelli che gli scrocchiavano dietro certi suoni inarticolati e sudici, quando la domenica menava in giro il cane, un bastardo di cento razze, vecchio, gonfio, spelato e che gli somigliava. Lo chiamava ''Gerundio'', in memoria del latino che non aveva potuto mai imparare in Seminario e, quando passava davanti a una chiesa, sospirava perchè la compagnia del cane gli inibiva di entrar nella casa di Dio a dire qualche posta di rosario. La corona
Ma Don Vencenzì era infelice per cagion della moglie.
Sicuro: gli piacevano i maccheroni col sugo che mangiava alzando la forchetta e ricevendoli in bocca, a poco a poco, interi, ungendosi il mento; ma ''Zì Marù'' glieli avvelenava con obiurgazioni insolenti e ingiuriose che aveva
Questo, ahimè, era sempre il condimento dei maccheroni e al povero Don Vencenzì pareva di mangiarli
E il povero martire pensava dolorosamente alla sua triste fortuna. Quanti colleghi gli erano passati avanti! Lo stesso Giudice Avena che gli motivava per ironica compassione le sentenze, sarebbe stato promosso prima di lui! Qualche iettatura (ci credeva) doveva pur esserci. Non aveva certo la pretesa di esser
Ma intanto di promozione non si parlava. Aveva scritto al Comm. Liborio Chiavone, suo antico condiscepolo di Seminario ed ora pezzo grosso al Ministero di Grazia e Giustizia, dove si occupava più degli affari della Madonna di Pompei che di quelli dello Stato. Don Vencenzì aveva intravvisto, dietro le suggestioni velate del Commendatore, che la Madonna di Pompei ha le braccia lunghe e perciò ogni Bollettino della Pia Opera recava il suo nome e una modesta offerta.
Il pranzo, così largamente condito di aceto e di fiele, volgeva tristamente al suo fine, quando un insolente scampanìo
Era
Don Vencenzì, benchè di intelletto non molto agile, indovinò bene che doveva essere accaduto qualche stroppiatura, prese il piego e si ritirò in fretta nello scrittoio per leggere il messaggio al lume della candela di
Ma ''Zì Marù'' aveva capito anche lei. Avrebbe letto tanto volentieri le carte mandate dal Giudice Avena, ma non aveva confidenza collo stampato e tanto meno col manoscritto. Preferì quindi di interrogare
— Come mai, caro Proietti, a
Il ''caro'' era ricco di troppi ''erre'' arrotati per parere carezzevole e lusinghiero e ''Zì Marù'' credette bene di prender pel collo la bottiglia del vino come tacita promessa di premio al ''caro Proietti'' che rispose:
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— Nulla, signora; un caso....
Si vedeva che
— Ecco! proseguì
Rispose
Il riso compresso gli dava delle contrazioni sussultorie
Ma ''Zì Marù'' insisteva cogli "Ebbene?"
— Ebbene, ecco — seguitò
— Ebbene? tornò ad insistere la befana.
— Ma — aggiunse
"La donna che con qualunque mezzo adoperato da lei, o da altri col suo consenso, si procura
Ebbe uno scoppio di riso convulso e singhiozzò: — Capisce, 481.... 381.... il Barlacchia si è beccato quattro anni.... per essersi procurato
Ma Don Vencenzì, spalancando
Don Vencenzì cadde allora a sedere sulla seggiola e ''Zi Marù'' lo morse con una occhiata di sprezzo più velenosa di un sacco di vipere.
Il povero imbecille, colla testa tra le mani, tartagliava alcune scuse puerili. Era stato un equivoco, uno scambio di numeri; si sa.... il caldo e poi si trattava di Monsignor Vescovo! Il Pubblico Ministero, quando il Cancelliere lesse il dispositivo, era distratto. Giuoca al lotto e forse combinava un terno.
''Zì Marù'' alzò le spalle aguzze e ripetè colla voce rauca, tra i denti, come se parlasse a sè stessa — "Asino! Asino! Asino!!"
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Seguì un silenzio increscioso e pesante. Le farfalle volavano intorno al lume e, colle ali bruciate, cadevano nei bicchieri ancora pieni. Dalle finestre aperte entrò un pipistrello e ''Zì Marù'' che ne aveva orrore, quella sera non si mosse nemmeno, tanto che la bestiaccia, quasi seccata, finì per volar fuori. Si sentiva la gente che passava ridendo, giù, per la strada e a Don Vencenzì pareva che ridessero di lui come sghignazzava il pubblico quando gli avvocati gli dicevano in faccia che non capiva niente. Oh, come riderebbero domani in Cancelleria! E si sentiva umiliato, avvilito dalla confermazione brutale e pubblica della propria asinità. Nello stesso silenzio penoso, sentiva la presenza formidabile dello sprezzo, incarnato nelle laide forme della sua donna iraconda.
Ed ora travedeva, così in barlume, nella nebbia della coscienza semispenta, la miseria propria e la stoltezza di chi aveva affidato alla sua ignoranza supina ed alla sua intransigenza di gesuita, gli averi, la libertà,
Ma ad un tratto il campanello squillò e si udirono di nuovo i latrati di ''Gerundio'' e le ciabatte della serva. Era un telegramma e Don Vencenzì, unico in casa che sapesse scrivere il suo nome, firmò frettolosamente la ricevuta ed aprì la carta gialla con le mani tremanti. Nella sua anima superstiziosa, dopo lo sproposito
''"Godo essere primo annunziarle sua promozione Consigliere Corte Appello Lampedusa – Chiavone".''
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''Zì Marù'' rimase fredda. Certo la promozione non le spiaceva, ma era una diminuzione per lei ed una esaltazione pel marito: perciò tacque.
Ma non tacque Don Vencenzì cui la notizia era andata alla testa così che pareva trasfigurato.
''Zì Marù'' scoprì i canini fino alle gengive con una risata più amara del chinino; poi con una voce secca ed insolente, rispose — "Questo vuol dire che
Il nuovo Consigliere
Quella sera, in via di ringraziamento, la Madonna di Pompei e
Le accarezzava cogli occhi snocciolando la corona e pensando al dispetto che proverebbe domani il Giudice Avena, quello che gli faceva il piacere di motivargli le sentenze. Che mortificazione, che bile pei colleghi, per gli avvocati, pel pubblico, per tutti! E ringraziava le imagini nella sincerità del suo cuore per aver fatto del bene a lui e del male agli altri!
Finita la corona, spense ad uno ad uno i moccoli, quasi chiedendo scusa ai santi di gesso e andò in punta di piedi nella camera da letto. ''Zì Marù'' russava stertorosamente come per dispetto e Don Vencenzì si spogliò con precauzione per non destare il drago addormentato. Ma rimasto in camicia, non potè resistere ad un ultimo impeto di tripudio. Col candeliere nella sinistra, si piantò sulle gambuccie torte davanti allo specchio
E spense il lume.
Don Vencenzì, a quando in Cassazione?
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