Il piacere/VII: differenze tra le versioni

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Schifanoja sorgeva su la collina, nel punto in cui la catena dopo aver seguito il litorale ed abbracciato il mare come in un anfiteatro, piegava verso l'interno e declinava alla pianura. Sebbene edificata dal cardinale Alfonso Carafa d'Ateleta, nella seconda metà del <small>XVIII</small> secolo, la villa aveva nella sua architettura una certa purezza di stile. Formava un quadrilatero, alto di due piani, ove i portici si alternavano con gli appartamenti; e le aperture de' portici appunto davano all'edificio agilità ed eleganza, poiché le colonne e i pilastri ionici parevano disegnati e armonizzati dal Vignola. Era veramente un palazzo d'estate, aperto ai venti del mare. Dalla parte dei giardini, sul pendio, un vestibolo metteva su una bella scala a due rami discendente in un ripiano limitato da balaustri di pietra come un vasto terrazzo e ornato di due fontane. Altre scale dalle estremità del terrazzo si prolungavano giù per il pendio arrestandosi ad altri ripiani sinché terminavano quasi sul mare e da questa inferiore area presentavano alla vista una specie di settemplice serpeggiamento tra la verdura superba e tra i foltissimi rosai. Le meraviglie di Schifanoja erano le rose e i cipressi. Le rose, di tutte le qualità, di tutte le stagioni, erano a bastanza pour en tirer neuf ou dix muytz d'eaue rose, come avrebbe detto il poeta del Vergier d'honneur. I cipressi, acuti ed oscuri, più ieratici delle piramidi, più enigmatici degli obelischi, non cedevano né a quelli della Villa d'Este né a quelli della Villa Mondragone né a quanti altri simili giganti grandeggiano nelle gloriate ville di Roma.
 
La marchesa d'Ateleta soleva passare a Schifanoja l'estate e parte dell'autunno; poiché ella, pur essendo tra le dame una delle più mondane, amava la campagna e la libertà campestre ed ospitare amici. Ella aveva usato ad Andrea infinite cure e premure, durante la malattia, come una sorella maggiore, quasi come una madre, senza stancarsi. Una profonda affezione la legava al cugino. Ella era per lui piena d'indulgenze e di perdoni; era un'amica buona e franca, capace di comprendere molte cose, pronta, sempre gaia, sempre arguta, a un tempo spiritosa e spirituale. Pur avendo varcata da circa un anno la trentina, conservava una mirabile vivacità giovenile e una grande piacenza, poiché possedeva il segreto della signora di Pompadour, quella ''beauté sans traits'' che può avvivarsi d'inaspettate grazie. Anche possedeva una virtù rara, quella che comunemente si chiama « il tatto ». Un delicato genio feminile erale di guida infallibile. Nelle sue relazioni con innumerevoli conoscenti d'ambo i sessi, ella sapeva sempre, in ogni circostanza, come contenersi; e non commetteva mai errori, non pesava mai su la vita altrui, non veniva mai inopportuna né diveniva mai importuna, faceva sempre a tempo ogni suo atto e diceva a tempo ogni sua parola. Il suo contegno verso Andrea, in questo periodo di convalescenza un po' strano e ineguale, non poteva essere, in verità, più squisito. Ella cercava in tutti i modi di non disturbarlo e di ottenere che nessuno lo disturbasse; gli lasciava pienissima libertà; mostrava di non accorgersi delle bizzarrie e delle malinconie; non l'infastidiva mai con domande indiscrete; faceva sì che la sua compagnia gli fosse leggera nelle ore obbligatorie; rinunziava perfino ai motti, in presenza di lui, per evitargli la fatica d'un sorriso forzato.
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Due mattine dopo, egli offerì in compenso alla marchesa d'Ateleta un sonetto curiosamente foggiato all'antica e manoscritto in una pergamena ornata con fregi in sul gusto di quelli che ridono nei messali d'Attavante e di Liberale da Verona.
 
 
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