Vita di Dante/Libro II/Capitolo IX: differenze tra le versioni

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Morto Alberto austriaco, pretendeva succedergli quel Carlo di Valois, troppo già da noi conosciuto. Ed era naturalmente favorito dal fratello re, ma combattuto da papa Clemente, già discostatosi da' reali di Francia; il quale fece eleggere Arrigo di Lucimburga, e quindi innanzi più che mai barcheggiò tra le due parti francese ed imperiale, guelfa e ghibellina. L'elezione fu fatta in novembre 1308, e così verso il tempo del viaggio o dell'arrivo di Dante in Parigi. Ed è osservabile quel dir, coem vedemmo, il Boccaccio, che Dante fu contro quest'elezione fatta in competenza del suo maggior nemico; se non che, per essere Arrigo piccolo principe germanico ancor esso, come già i suoi due predecessori, Dante ne sperò poco la discesa desiderata in Italia. E si vuol dire che tali desiderii fossero comuni non solo a tutti i Ghibellini, ma ancora ad altri Italiani e stranieri; e che una discesa d'imperadore non più fatta da sessanta anni, e così non veduta dalla generazione attiva, fosse oramai nei voti e secondo l'opinione dei più. Imperciocchè, appena eletto, vedesi Arrigo VII apparecchiarvisi nella state del 1310. E già era stato di pochi mesi preceduto in Italia da Roberto, nuovo re di Napoli, figliuolo e successore di Carlo II. E così in un anno scendevano i due principi più potenti della penisola, i due capi delle parti che la dividevano; e il papa barcheggiava.
 
E Dante, poc'anzi, tra i desiderii della discesa e il timore che non s'effettuasse, aveva scritte le sue imprecazioni poetiche ai predecessori quasi ammonizioni ad Arrigo, ora poi esprimeva la gioja sua e dei compagni d'esilio in una lettera che abbiamo senza data, ma che si vede dover essere del tempo che Arrigo era sulle mosse, e perciò d'intorno alla metà di quest'anno 1310. Scritta, come le altre in latino, ma anticamente volgarizzata, ella è diretta "a tucti, et ad ciascuno re d'Ytalia, et a' sanatori di Roma, et duchi, marchesi, conti, et a tucti i popoli, lo humile Ytaliano Dante Allighieri di Firenze, et confinato non meritevolmente, priega pace". Ambiziosa direzione, per vero dire, e che fa credere fose questa epistola, come quella che vedemmo ''ai principi della terra'' dopo la morte di Beatrice, non più che uno sfogo, forse non pubblicato allora, de' suoi pensieri; non più che una finzione letteraria e quasi poetica della propria fantasia. Certo, ella è piena di tali erudizioni e dotti argomenti, ch'erano bensì nel gusto dell'età, ma certo mal atte a muovere o il buono e rozzo imperadore, o i suoi non dissimili Tedeschi. Incomincia con espressioni bibliche della gioja dello scrittore; poi segue alquanto più precisamente:"Rallegrati oggimai, Italia,
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