Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/XII: differenze tra le versioni

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Gittando un'occhiata sull'insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire senz'altro lingua italiana. Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e nativi, e si avvicina al latino, producendo così quella forma comune di linguaggio che Dante chiamava aulica e illustre. I letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino la perfezione e il modello, secondo l'esempio già dato dal Boccaccio e da {{AutoreCitato|Leon Battista Alberti|Battista Alberti}}, atteggiarono la lingua alla latina. E non pur la lingua, ma lo stile, mirando alla gravità, al decoro, all'eleganza, con grave scapito della vivacità e della naturalezza. Questo concetto della lingua e dello stile, creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana, come si vede ne' mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne' sommi, come nel {{AutoreCitato|Francesco Guicciardini|Guicciardini}} e fino talora nel Machiavelli. {{§|Bembo|La quale forma latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e al brio del dialetto, così nuda e astratta ha la sua espressione pedantesca negli ''{{TestoCitato|Asolani}}'' del {{AutoreCitato|Pietro Bembo|Bembo}}, e giunge a tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel ''{{TestoCitato|Galateo overo de' costumi|Galateo}}'' del {{AutoreCitato|Giovanni Della Casa|Casa}} e nel ''{{TestoCitato|Il libro del Cortegiano|Cortigiano}}'' del {{AutoreCitato|Baldassarre Castiglione|Castiglione}}}}. Ma in Toscana quella forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza, e senti negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so quale atticità, che nasce dall'uso vivo, e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella maniera, come si vede nelle ''Novelle'' del Lasca, ne' ''Capricci del bottaio'' e nella ''Circe'' del Gelli, nell' ''Asino d'oro'' e ne' ''Discorsi degli animali'' di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini d'ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana, quale si mostra {{AutoreCitato|Annibal Caro}} negli ''Straccioni'', nelle ''Lettere'', nel ''{{TestoCitato|Gli amori pastorali di Dafni e Cloe|Dafni e Cloe}}''. La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e letteraria. Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e {{AutoreCitato|Benvenuto Cellini}}, ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo.<br />
Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d'Italia spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate, i rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini e donne. La posterità ha dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, {{AutoreCitato|Vittoria Colonna}}, {{AutoreCitato|Gaspara Stampa}}, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da {{AutoreCitato|Pietro Bembo}}, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.<br />
Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura, e l'ultimo prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrittori de' secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene e tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante, moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt'i generi. Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire, orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi. Il Trissino scrivea l' ''Italia liberata'' e la ''Sofonisba'', Luigi Alamanni faceva il Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A' misteri successero commedie e tragedie, con magnifica rappresentazione. E non solo le forme del dire latine, ma anche la mitologia s'incorporava nella lingua: e si giurò per gl'«iddii immortali», e Apollo, le muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno, Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso. Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano, come oggi il francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo o per maggiore efficacia. Ci erano gl'improvvisatori, che nelle corti lì su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie, come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo dava annacquato al suo «archipoeta», un improvvisatore di distici, quando il distico mal riusciva. E c'erano anche non pochi, che conoscevano ottimamente il latino e lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazzaro, il {{AutoreCitato|Girolamo Fracastoro|Fracastoro}} e il {{AutoreCitato|Marco Girolamo Vida|Vida}}, i cui poemi latini sono ciò che di più elegante siesi scritto in quella lingua ne' tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.<br />
Latinisti e rimatori erano le due più grosse schiere de' letterati. Nelle loro opere l'importante è la frase, un certo artificio di espressione, che riveli nell'autore coltura e conoscenza de' classici. I lettori non meno colti ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone. Pareva questa imitazione il capolavoro dell'ingegno. E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti tenere in così gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili, noiosissimi. Ma la frase, in tanta insipidezza del fondo, non poteva essere sufficiente alimento all'attività di una borghesia così svegliata ed eccitata, che decorava la sua sensualità e il suo ozio co' piaceri dello spirito. Salse piccanti si richiedevano, fatti maravigliosi e straordinari, intrecciati in modo che stimolassero la curiosità e tenessero viva l'attenzione. L'intrigo diviene la base delle novelle, de' romanzi, delle commedie e delle tragedie, un intrigo così avviluppato che è assai vicino al garbuglio. Si cerca ne' fatti il nuovo e lo strano, che stuzzichi l'immaginazione, il buffonesco e l'osceno nella commedia, il mostruoso e l'orribile nella tragedia. Dall'una parte ci è la frase, vacua sonorità, dall'altra il fatto, il vacuo fatto uscito dal caso; e come la frase oltrepassa l'eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e civettuola, come nel Firenzuola o nel Caro, così il fatto, per voler troppo stuzzicare, diviene osceno o mostruoso, e sempre assurdo. Il realismo abbozzato dal Boccaccio, sviluppato nel Quattrocento, corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione del gusto. Ci è nella società italiana una forza ancora intatta, che in tanta corruzione la mantiene viva, ed è nel pubblico l'amore e la stima della coltura, e negli artisti e letterati il culto della bella forma, il sentimento dell'arte. In quella forma letteraria e accademica vedevano gl'italiani una traduzione della lingua viva, il parlare quotidiano idealizzato, secondo quel modello dove ponevano la perfezione, ed eran larghi non pur di lodi, ma di quattrini e di onori a questi artefici della forma. I centri letterari moltiplicarono; comparvero nuove accademie; e le più piccole corti divennero convegni di letterati, i più oscuri principi volevano il segretario che ponesse in bello stile le loro lettere, e letterati e artisti che li divertissero. Il centro principale fu a Roma, nella corte di Leone decimo, dove convenivano d'ogni parte novellatori, improvvisatori, buffoni, latinisti, artisti e letterati, come già presso Federico secondo. Anche i cardinali avevano segretari e parassiti di questa risma; anche i ricchi borghesi, come il conte Gambara di Brescia, il Chigi, i Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano. Intorno a Domenico Veniero in Venezia si aggruppavano Bernardo Tasso, Trifon Gabriele, il Trissino, il Bembo, il Navagero, Speron Speroni; a Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il vecchio Sannazzaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia. Da questi noti s'indovini la caterva de' minori. Pensioni, donativi impieghi, abbazie, canonicati, era la manna che piovea sul loro capo. E c'era anche la gloria: onorati, festeggiati, divinizzati, e senza discernimento confusi i sommi e i mediocri. Furono chiamati «divini», con Michelangelo e l'{{AutoreCitato|Ludovico Ariosto|Ariosto}}, {{AutoreCitato|Pietro Aretino}} e il Bembo, e {{AutoreCitato|Bernardo Accolti}}, detto anche l'«unico». Costui, fatto duca, usciva con un corteggio di prelati e guardie svizzere; dove giungeva, s'illuminavano le città, si chiudevano le botteghe, si traeva ad udire i suoi versi dimenticati: tanti onori non furono fatti al Petrarca. I letterati acquistarono coscienza della loro importanza: pitocchi e adulatori, divennero insolenti, e si posero in vendita, e la loro storia si può riassumere in quel motto di Benvenuto Cellini: «Io servo a chi mi paga». Come si facevano statue, quadri, tempi per commissioni, così si facevano storie, epigrammi, satire, sonetti a richiesta, e spesso l'ingiuria era via a vendere a più caro prezzo la lode. In quest'aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano servili e ciarlatani per far valere la merce. Non ci è immagine più straziante che vedere l'ingegno appiè della ricchezza, e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente settimo, e l'Ariosto gridare al suo signore che non aveva di che rappezzarsi il manto, e veder {{AutoreCitato|Michelangelo Buonarroti|Michelangelo}}, quando,
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