Storia delle scienze agrarie/II/XIII: differenze tra le versioni

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{{Qualità|avz=25%|data=21 maggio 2008|arg=Da definire}}{{Intestazione testi scientifici
| Nome e cognome dell'autore = Antonio Saltini
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| Nome della pagina principale = Storia delle scienze agrarie
| Eventuale titolo della sezione o del capitolo = Volume secondo<br/> La maggiore scuola di scienze agrarie nell’Italia del Settecento'700
| Anno di pubblicazione = 1984
| Eventuale secondo anno di pubblicazione = 1989
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*''' Studi agrari innella stagione italiana etàdellì’ illuminista'''
 
In Italia l'Illuminismo celebra la propria stagione a Milano, Firenze, Napoli, che se pure non eguagliano lo splendore delle capitali europee della cultura settecentesca, di quella cultura rappresentano centri di vivace propagazione. Discipline giuridiche e politiche, scienze naturali e tecnologie manifatturiere conoscono nelle capitali dei maggiori principati italiani un'età di intenso fervore: tra le sfere diverse dello scibile è sul terreno economico e giuridico che l'illuminismo italiano esprime la propria originalità, limitandosi, su quello naturalistico e su quello tecnologico, ad acquisire scoperte e invenzioni straniere per trasporle nelle condizioni locali.
 
Nel moto di rinnovamento della cultura le scienze agrarie assolvono ad un ruolo di primo piano: sulle soglie della rivoluzione industriale al progresso dell’agricoltura viene rimesso l’incremento delle disponibilità alimentari che è condizione dell’aumento della popolazione urbana, quindi dello sviluppo delle manifatture. La consapevolezza di questa funzione determina, in Italia come negli altri paesi d'Europa, l'interesse per l'agricoltura dei cultori di cose economiche e politiche: a Milano, il primo dei centri italiani della cultura illuminista, affrontano, nelle proprie opere, i temi dell'economia agraria Pietro Verri e Cesare Beccaria, i maggiori filosofi sociali del capoluogo lombardo. Nella stessa Milano vede la luce, nella seconda metà del secolo, il grande Dizionario universale economico rustico dell'editore Federico Agnelli, un'opera che si propone, seppure con mezzi sproporzionati agli intenti, di ricalcare la sistematicità dei modelli enciclopedici della cultura francese.
 
L'illuminismo italiano non manca di eguagliare la più scintillante cultura europea nell'economia e nel diritto, rivela la propria inferiorità sul terreno naturalistico e tecnologico: entrambe le caratteristiche risultano palesi nella pubblicistica agraria, la cui analisi rivela, in più di un testo, un’indiscutibile levatura economica e giuridica, unita alla disarmante carenza di vitalità sperimentale. La vitalità economica è la peculiarità che accomuna gli studi che precedono la stesura dei catasti moderni, un'impresa insieme economica, fiscale e legislativa che costituisce vanto dei principati italiani. Alla straordinaria realizzazione amministrativa non corrisponde alcun impegno di sperimentazione agraria comparabile a quelli che negli stessi lustri si registrano in Inghilterra e in Francia. A riprova della constatazione è sufficiente ripercorrere le vicende della più antica, e più rinomata, tra le scuole agrarie nazionali, quella toscana.
 
Nata dalla tradizione di Alamanni, Davanzati, Vettori e Soderini, nella seconda metà del Settecento la scuola toscana si identifica con l'Accademia dei Georgofili, il sodalizio di cui promuove la costituzione, nel 1753, Ubaldo Montelatici, canonico lateranense dall'antica dimestichezza con gli ambienti aristocratici fiorentini. Prepara la fondazione la divulgazione, tra gli amici del dotto religioso, di un manoscritto dal titolo Ragionamento sopra i mezzi per far rifiorire l'agricoltura: seppure riconoscendo la propria inesperienza delle pratiche agrarie, l'autore proclama il convincimento che quelle seguite dai contadini toscani siano rozze e improduttive. Per correggerle proclama la necessità di sostituirle con le procedure caldeggiate da Soderini e da Vettori, nei quali addita i depositari più autorevoli della disciplina. Data l'ignoranza dei contadini, la strada del progresso dovrebbe essere intrapresa dai proprietari, che dovrebbero costituire un cenacolo per approfondire le proprie conoscenze, fino a essere in grado di sottoporre i contadini cui affidare, come mezzadri, le proprie terre, ad un severo esame di idoneità.
 
Gli orizzonti scientifici assunti a paradigma sono, palesemente, inadeguati, il proposito bandito è tanto stravagante da risultare patetico, ma gli amici cui il dotto canonico propone il frutto della propria fatica si accendono di entusiasmo, il cenacolo prende vita col titolo di accademia, il sodalizio prediletto dai patrizi dell'epoca per udire poemetti e conversare delle conquiste della scienza. Seppure gli obiettivi che ha proposto siano modesti, Montelatici ha colto un'esigenza matura nella cultura economica settecentesca, precedendo di sei anni il pamphlet anonimo, che Jean Boulaine attribuisce a Duhamel du Monceau, che sollecita, nel 1761, la costituzione della Société d’agriculture de la Généralité de Paris, di cui Henri Bertin, controllore generale, ottiene da sua maestà Luigi XV il suggello dell’atto istitutivo.
 
Costituito sulle basi di un disegno artificioso e insicuro, il sodalizio vive i primi anni nella confusa ricerca di obiettivi più consistenti e di una struttura più funzionale di quella immaginata dal fondatore: testimonia il travaglio la stesura successiva di cinque statuti, alcuni dei quali vengono invalidati dopo pochi mesi, uno dei quali non risulta essere mai stato approvato.
 
Accendono la contesa due problemi essenziali. Il primo, i rapporti tra i soci, che il fondatore vuole rivestiti di eguale dignità, così da fare dell'accademia una perfetta anarchia, che più di uno tra i primi aderenti desidera inquadrare secondo rigidi rapporti gerarchici. Il secondo, le finalità degli studi accademici, che i primi sottoscrittori vorrebbero si dilatassero nella sfera economica, che Emanuele di Richecourt, capo della reggenza istituita da Francesco II, impone si limitino alla sfera agronomica.
 
'''Una proposta di rifondazione del sapere agrario'''
 
Capeggia il dissenso contro l'ispirazione di Montelatici un altro religioso, Gualberto Franceschi. Nominato, nel 1757, con mandato annuale, principe del sodalizio, affida la stesura di un nuovo statuto a a Giovanni Targioni Tozzetti, esponente illustre della cultura toscana: phisicus di corte, professore di botanica nello Studium cittadino, prefetto della biblioteca Magliabechiana. Naturalista dalle intuizioni geniali, che si sommano, in una combinazione singolare, al gusto dell'elucubrazione erudita, il dotto fiorentino assolve al mandato predisponendo uno statuto che all'anarchia di Montelatici sostituisce una piramide di quarantatre cariche sociali, principe, coadiutori, deputati, segretari, provveditore, archivista. Per propugnare il progetto che ha elaborato, il 1° giugno 1757 legge ai confratelli accademici una relazione che enuclea gli obiettivi verso i quali suggerisce di indirizzare l'attività del sodalizio. Il testo sarà incluso nei Ragionamenti sull'agricoltura toscana, una raccolta di saggi sulle pratiche agrarie e sulla trasformazione dei prodotti che vedrà la luce a Lucca nel 1759.
 
«Troppo universale, e troppo radicata è la presunzione popolare, che i terreni della Toscana, o quelli per lo meno del Contado Fiorentino -proclama il naturalista toscano iniziando la propria prolusione agli accademici riuniti- sieno coltivati a tutta perfezione, e secondo le migliori e più sicure regole dell'Arte; laonde sembrerà forse ad alcuni vano ed inutile lo scopo, dalla nostra Accademia prefisso ai suoi studj, ed alle sue ricerche, cioè di correggere, migliorare, ed ampliare le regole e le pratiche dell'Agricoltura Toscana. Voi però, Accademici, avete ben conosciuto, che fra i tanti errori popolari del nostro Paese, non è il minimo, nè il meno dannoso, quello, di credere per cosa indubitata, che le nostre Campagne non abbiano bisogno di una più metodica, più estesa, e più diligente coltivazione, e quindi vi siete lodevolmente accinti ad esaminare le pratiche usuali di Agricoltura, affine di scoprirne i difetti, e ad applicare le vaste, e solide notizie fisiche da voi possedute per stabilire le vere ragioni naturali ed i veri fondamenti filosofici della metodica e ragionata Agricoltura, donde a suo tempo a pro della Patria se ne possa formare un completo e sicuro sistema, e dedurne le regole generali ed infallibili di essa Arte.»
 
La proposta delle fondamenta sulle quali costruire un completo e sicuro sistema delle conoscenze agrarie è il tema che Targioni Tozzetti sviluppa nel corso della lezione accademica: la ridefinizione del sapere agrario proposta dal dotto fiorentino comprende i criteri per la scelta dei luoghi ove intraprendere un'attività agricola, quindi gli indizi per giudicare le caratteristiche del clima e la natura dei terreni, i principi da seguire nella costruzione degli edifici rurali, quelli per la scelta dei lavoratori, le pratiche di coltura delle fondamentali specie agrarie, cereali, leguminose e ortaggi, quelle per la cura dei boschi e per la coltura dei prati, le tecniche dell'allevamento animale.
È un quadro degli studi agrari che ripete pedissequamente, nonostante le pretese di novità proclamate dall'autore, il disegno della più antica tradizione agronomica, che rivela la propria arretratezza appena lo si confronti col programma di rinnovamento degli studi agronomici delineato, sono trascorsi cento anni, da Richard Weston. L'unico elemento nuovo che il dotto toscano inserisce nel contesto tradizionale dello scibile agrario è la coltivazione dei prati, un'acquisizione riferibile alla cultura agraria d'Oltralpe.
 
Al di là della menzione delle nuove pratiche di foraggicoltura, nessun elemento di novità è dato cogliere nel disegno che Targioni Tozzetti propone ai Georgofili toscani: la sola idea originale che emerge dalla prolusione è una tesi di ecologia agraria, che il dotto fiorentino premette alle proprie considerazioni sulle tecniche agronomiche: siccome ogni pianta coltivata ha avuto origine in uno specifico ambiente naturale, per ottenere la piena espressione delle sue capacità produttive la pratica agraria dovrebbe proporsi di assicurarle un ambiente di crescita quanto più prossimo a quello nel quale l'uomo ne ha iniziato la coltura. La finalità eminente delle pratiche agronomiche consisterebbe nella ricostruzione delle condizioni di crescita originarie di ogni specie coltivata: una tesi che, seppure inficiata dalla mancata considerazione delle trasformazioni indotte dalla coltivazione nelle attitudini delle piante coltivate, manifesta l'interesse per le relazioni tra i viventi e l’ambiente che condurrà, nei decenni successivi, alle indagini sull'evoluzione della vita e sulle origini delle specie viventi.
 
La futilità dei programmi non pregiudicherà la vitalità dell’Accademia, che svolgerà un ruolo più significativo di quello che avrebbe assolto conformandosi ai disegni dei fondatori. Sospinge il sodalizio ad assumere il volto definitivo la lungimiranza del successore di Francesco, Pietro Leopoldo, che nel 1767 accorda all’organismo la propria sovrana protezione, e che nel 1783 incoraggia l'approvazione di uno statuto che iscrive definitivamente gli studi economici tra gli obiettivi del consesso. Immaginandolo, secondo i modelli delle società scientifiche inglesi e francesi, come organo consultivo del governo per le scelte economiche, il grande principe chiude la disputa tra i dotti associati, li induce ad impegnarsi sui terreni la cui esplorazione renderà illustre il sodalizio.
 
 
'''Tra indagine sperimentale e ossequio ai classici'''
 
La lettura dei saggi che, nel volumetto dei Ragionamenti, seguono le Riflessioni esposte ai signori Accademici permette di misurare il disegno del sapere agronomico proposto da Targioni Tozzetti con i caratteri della sua cultura ed i temi oggetto della sua attività di studioso. A conferma dell’impronta tradizionalista del piano degli studi agrari proposto nella prolusione ai Georgofili, gli scritti raccolti nell'opuscolo offrono del dotto fiorentino l'immagine di un erudito legato alla scienza antica piuttosto che di un naturalista partecipe alla scienza nuova. La scienza dell'accademico toscano è la dottrina medico - naturalistica di Ippocrate, di Plinio, di Teofrasto: il procedere del suo ragionare consiste nel ricercare, di fronte al quesito posto dalla realtà biologica, la risposta già definita nel sapere antico, una prassi fondata sulla ripetizione piuttosto che sull'indagine sperimentale.
 
Singolarmente emblematico, a proposito, l'ultimo dei saggi raccolti nei Ragionamenti, il Discorso intorno alla qualità velenosa di certo cacio, una perizia scritta da Targioni Tozzetti per stabilire se la causa dell'intossicazione verificatasi nel 1755 nel Collegio di San Giovannino dei Gesuiti possa essere attribuita ad una forma di cacio consumata dai reverendi padri il giorno in cui ebbero a soffrire del disturbo.
 
Il procedimento logico scelto dall'autore toscano per condurre la propria indagine è quello dell’esclusione: esamina, cioè, tutte le caratteristiche del cacio che reputa estranee all'insorgere del fenomeno, per giungere, al termine di una serie di sillogismi negativi, a considerare quella che ritiene essere stata la causa malefica. Piuttosto che indagine scientifica, la perizia sull'intossicazione dei padri gesuiti riveste le forme della dissertazione erudita, che l’estensore conduce secondo il gusto caratteristico della retorica scolastica, in un dotto contrappunto di citazioni dei naturalisti classici, Varrone, Dioscoride, Galeno, e dai cultori di "magia naturale" cinquecenteschi, che della tradizione naturalistica classica sono stati i continuatori.
 
A conclusione della dotta disquisizione, a spiegazione della nocività del cacio Targioni Tozzetti propone l'ipotesi che le pecore dal cui latte è stato ricavato avessero brucato ellebori o titimali, erbe nocive i cui caratteri verrebbero trasmessi, asserisce, al latte, e dal latte al formaggio. Di una verifica sperimentale della supposizione non emerge, nelle pagine del saggio, né l'esigenza né il proposito. Targioni Tozzetti ignora ogni possibilità di un sopraluogo sui pascoli della Valdelsa dai quali è stato ottenuto il formaggio incriminato, o di un saggio di caseificazione di latte prodotto da pecore alimentate su pascoli infestati di elleboro: identificando la fonte di ogni conoscenza medica nei propri onerosi tomi latini, confida che per risolvere l’interrogativo che gli è stato posto sia sufficiente reperire il paragrafo opportuno di Plinio, di Teofrasto o di Varrone. La passione sperimentale che ha alimentato, nella stessa Firenze, le indagini di Redi pare dissolta, a un secolo di distanza, dal riemergere delle certezze peripatetiche. Non potrà non costituire ragione di sorpresa constatare come sia dalle osservazioni dello stesso dotto fiorentino che prenderà vita una branca originale della biologia moderna, la patologia vegetale. All'evento dovremo dedicare una tappa specifica del nostro itinerario.
 
'''I precetti di un pratico per le colture di collina'''
 
L’ anno medesimo in cui sono stampati i Ragionamenti di Targioni Tozzetti vede la luce a Lucca la terza ristampa dell’opera di un altro accademico georgofilo, L'Agricoltore sperimentato di Cosimo Trinci, pubblicata nella stessa città, per la prima volta, nel 1726, la più nota tra le non numerose opere agronomiche toscane del Settecento: dall'anno della terza edizione lucchese alla fine del secolo se ne conteranno otto riedizioni, la maggior parte, è superfluo menzionarlo, stampate a Venezia.
 
Dalle poche notizie di cui disponiamo sulla vita, sappiamo che Trinci è nato a Pistoia, il cui ambiente agrario, quello caratteristico della collina toscana, ne esaurisce gli orizzonti agronomici. Tra i colli pistoiesi esercita attività di pubblico estimatore, tra quei colli presta i propri consigli ad Alessandro Bonvisi, grande proprietario patrizio.
Nata dall’esperienza tra colli e convalli, dall'operetta prende corpo un'agricoltura dai connotati inconfondibili dei primi rilievi toscani: come le terre dei Bonvisi sono «sopra d'ogni altra cosa molto abbondanti d'annue rendite di Gelso, di Grani perfettissimi, Vini generosi e stimabili,e Olj sopraffini, e squisiti», le colture al centro dell'attenzione dell'Agricoltore sperimentato sono le coltivazioni collinari, innanzitutto la vite e l'olivo, che occupano la superficie maggiore dei poderi e le maggiori cure del coltivatore pistoiese, lucchese o fiorentino. In secondo piano Trinci rivolge la propria attenzione al gelso, al grano, alla frutta, agli ortaggi.
 
Per lo svolgimento delle colture fondamentali dell'ambiente toscano Trinci compone una precettistica di spiccato carattere pratico, raccolta senza alcuna pretesa sistematica nelle 556 pagine del trattatello, che si apre con un lungo capitolo dedicato alla vite e al vino, seguito da lunghe pagine sulla coltura dei gelsi, da una serie di capitoli dedicati, rispettivamente, agli olivi, ai fichi, alle pere, ai castagni, agli agrumi, agli innesti, al frumento e ai cocomeri. Tra i prontuari di agronomia concepiti dall'alba della letteratura rustica solo quello di Catone ha riservato uno spazio tanto angusto alla coltura dei cereali. Conclude il volumetto un calendario dei lavori rurali dei diversi mesi, l’ennesima riproposizione del modello di Varrone e Palladio. Segue il calendario delle opere rurali, nell'edizione del 1759, la traduzione del Trattato sopra la coltivazione della vite del francese Nicholas Bidet, un trattatello sulle pratiche enologiche della Champagne di valore modesto, che è comunque significativo reperire accluso ad un'opera scritta per il pubblico di una regione eminentemente viticola, espressione dell’interesse per le tecniche vinicole della nazione detentrice del primato enologico, rivelatore della consapevolezza della necessità di evolvere le pratiche di cantina.
 
Attesta il frontespizio dell’edizione del che l'operetta è stata «raccolta da varj eccellenti autori»: non risulta impresa facile, tuttavia, identificare, dalla lettura, le fonti cui ha attinto l'agronomo pistoiese: Trinci ha probabilmente letto e ricomposto gli insegnamenti di significato più spiccatamente pratico di agronomi antichi e moderni, di autenticamente originale le sue pagine non propongono molto, salvo forse qualche precetto sulla coltivazione di piante solitamente trascurate dalla trattatistica agricola: peri, ciliegi, castagni.
 
'''Un apostolo della rinascita della collina toscana'''
 
Il terzo autore di cui è obbligata la menzione rievocando la letteratura agronomica toscana della seconda metà del Settecento è Giovan Batista Landeschi, autore dei Saggi di agricoltura che vedono la luce nel 1770.
 
Parroco di San Miniato, Landeschi è figura emblematica di quel clero colto e dinamico che svolge un ruolo non secondario nel rinnovamento delle scienze e delle arti nel Secolo dei lumi: animato dalla dolorosa consapevolezza della gravità delle condizioni fisiche ed economiche della collina toscana, che proprietari e contadini accettano come fatali, dedica passione e competenza a ricondurre alla floridezza i poderi del beneficio parrocchiale, che al proprio arrivo ha trovato in disperate condizioni agronomiche ed economiche. L'esito dell’impegno per il beneficio parrocchiale si traduce nell’enucleazione di una diagnosi sulle tare dell’economia di tutta la collina toscana, e nell’enunciazione di proposte che si dispiegano sul terreno economico e su quello idrogeologico, che Landeschi traduce nel manoscritto che sono gli amici, leggiamo nella prefazione dei Saggi, a convincerlo a pubblicare.
Sono due, secondo il curato di San Miniato, le piaghe di cui soffre l'economia della collina toscana, una di carattere economico, una di carattere idraulico e agronomico: le condizioni dei rapporti di mezzadria e l'erosione dei terreni causata dalle acque. Sulle condizioni delle famiglie mezzadrili che coltivano la collina toscana, Landeschi è testimone di una miseria crudele e generale, giudice severo delle cause che la producono e delle conseguenze che ne derivano:
 
«Nel secolo presente -scrive nella prima parte dei Saggi- si sono ridotte infinite famiglie di Contadini in tanta deplorabile povertà, che non possono in verun modo esercitare la loro arte...
Occorre per esempio ad un Contadino il bisogno di un moggio di biade grosse, non potendole ottener dal Padrone, dopo replicati viaggi (primo scapito) le trova e prende a credenza; colui che gliene dà, usa misure scarsissime (secondo scapito), gli da roba inferiore, ed in parte corrotta (terzo scapito) fa il patto del prezzo esigendone il maggiore (quarto scapito) ed il sommo di qualunque mese dell'anno, non si vuol denaro, ma vena o vino, tutto a misure abbondanti (quinto scapito), al minor prezzo (sesto scapito), si vuole 10. soldi di credenza per ciascun sacco di roba (settimo scapito) ...
Altri Padroni pensano, che siano sollevati i loro Contadini a bastanza, mentre i loro fattori danno loro le grasce a credenza; ma se i fattori vorranno tutti quei sopraddetti vantaggi, (come già fanno) che si pretendono da chi da a credenza, soffriranno i medesimi scapiti, ed uguale, e forse maggiore, sarà la loro rovina.»
 
Alla rovina dei contadini segue inevitabilmente quella dei poderi, quindi il danno dei proprietari e il declino dell'agricoltura. Del legame diretto tra miseria dei lavoratori e decadenza dell'economia rurale Landeschi è osservatore penetrante e impietoso.
«Se un Padrone sia ostinato in negare i provvedimenti al suo Contadino bisognoso -leggiamo nel terzo capitolo-, certo si è, che le sue terre non saranno lavorate, e non lavorandosi, quantunque il Padrone incolpi il Contadino della mancanza del frutto e de' prodotti, esso e non il Contadino ne soffrirà il maggior scapito... poiché dal terreno insalvatichito e reso sterile e rovinato dall'acque male indirizzate, dal bestiame mal condotto, e dalle piante guastate colle cattive potature, non trarrà se non che scarso frutto...»
 
'''L’economia dell’acqua'''
 
Miseria delle famiglie coloniche equivale, cioè, a cattiva coltivazione, e cattiva coltivazione equivale ad incuria del regime delle acque: il sillogismo di Landeschi conduce al secondo dei temi di riflessione dell'agronomo toscano, per il quale la mancata cura delle acque costituisce la ragione del progressivo, inarrestabile impoverimento delle terre di collina. É la tamatica alla quale, fondando la tradizione agronomica toscana, ha dedicato versi di singolare efficacia Luigi Alamanni.
 
«Quanto grandi sono i vantaggi che traggonsi dall'acque ben guidate e indirizzate...-leggiamo nel XIV capitolo della seconda parte dei Saggi- tanto maggiori sono i danni che alla terra e all'agricoltura arrecano, se abbiano tutta la libertà di scorrere come la natura di esse le inclina e le porta particolarmente ne' poggi e nelle colline.
Questi danni sono per così dire incredibili, incomprensibili e grandissimi. Dico incredibili, perché chi non gli vede, come sono coloro che non praticano la campagna, non posson mai crederli. Sono incomprensibili dalla maggior parte degli Uomini, perché appunto la maggior parte non pensa, non osserva e non sa raziocinare ... Sono grandissimi come molto ben vede e crede ciascuno che... pensa... da che son derivate le tante miserie e le orribili devastazioni, e sbrotature e sterilità delle colline e luoghi montuosi.»
 
Enunciata la diagnosi delle cause della povertà dell'agricoltura collinare, Landeschi propone un sistema di tecniche per il controllo del deflusso dell'acqua piovana, consistenti nel tracciamento di reti di fossi, nell'interruzione del loro percorso mediante pescaioli che riducano la violenza del deflusso, nell'esecuzione di colmate, nella costruzione di ciglioni:
«Questi ciglioni per costruirli utilmente -leggiamo nel capitolo II della seconda parte-, si prende ordinariamente tutta la terra dalla parte di sotto alla base di essi, estendendosi in prenderla in distanza anche di due braccia incirca dalla base del ciglione, il quale si procuri, (se a sorta occorresse levarli terra ben rasente) che non resti mai scarnito, nè quasi a piombo; anzi per maggiore sicurezza acciò non frani, sarà bene procurare, che abbia qualche poca di scarpa maggiore nella base o sia in fondo, che nella parte superiore, particolarmente se tal base non rimanga erbosa, come può accadere in alcuni luoghi dove la parte inferiore del ciglione non vien fatta per costruzione, ma per motivo dello sterro, o abbassamento del suolo della parte di sotto...
 
Sotto tali ciglioni si potrà fare dopo qualche tempo, o ancor subito la fossetta d'acqua se vi abbisogni, grande a proporzione dell'acque che vi possono scorrere nelle piogge maggiori; tal fossa si affondi dove più e dove meno, ma sempre in ogni luogo in tal guisa che l'acque possano scolare sì, ma non levare la terra, e meglio sarà adattare sempre le fosse talmente, che da esse l'acque non possano uscire, se prima non hanno depositata la terra, che hanno lambita da' campi.»
 
«Si trovano frequentemente altri pezzi di terra in collina -dopo l'esame delle modalità di realizzazione del ciglione il prevosto di San Miniato spiega, nell'ottavo capitolo, come disporre i ciglioni in serie su un pendio-, i quali hanno maggior declive ... Per ridur questi fruttiferi, si devono praticare tutte le sopraddette regole, con questo dipiù, che i ciglioni si facciano più spessi e con minor distanza da uno all'altro, per esempio di sole 10. braccia... ed anche meno, se fosse maggiore il pendio... se il declive non lo ha da pertutto uguale, in tal caso, dove evvi maggior declive, i ciglioni si fanno più spessi, e dove sia minore, si fanno più radi e distanti...
 
Essendo poi un fondo di collina tanto a pendio che appianare non si potesse secondo le descritte regole, o fosse troppo disposto a franare, in tal caso si serbi solo a pastura...»
«Accade frequentemente -leggiamo al capitolo successivo- trovarsi un fondo che abbia il declive o pendio da due o più parti; volendo render questo fruttifero, si deve quasi dividere in due o più pezzi per tirarvi poi in ciaschedun pezzo le linee de' ciglioni e coltivazioni; regolandosi sempre in tali divisioni a tenore della mira, che deve aversi di togliere ogni libertà all'acque di levar terra dal suolo, e a porre a quest'effetto in necessità i bifolchi di solcare per piano, e dipoi proibir loro ogni solco a traverso delle porche ...»
I lavori di sagomatura dei ciglioni dovranno essere condotti, cioè, in modo da ottenere la massima ampiezza di superfici piane con il minor spostamento di terra: due condizioni cui si dovrà adempiere mediante la scelta di un tracciato dei ciglioni adeguato all'orientamento cardinale, alle inclinazioni zenitali e alle irregolarità del suolo.
Non tutti i terreni collinari impongono tuttavia la sagomatura in ciglioni: in quelli dalle pendenze meno scoscese è possibile la realizzazione delle normali colture con la semplice attuazione degli accorgimenti atti a evitare l'asportazione del suolo da parte delle acque:
«Sonovi ancora in collina ed in poggio -leggiamo nello stesso capitolo IX- alcuni pezzi di terra, che chiamansi Pianali. Questi per ordinario hanno buona profondità di terra sciolta, e buona per ogni pianta, che vi si voglia porre... il compenso per render tali terre fruttifere si è, scassarle ben a fondo, almeno un braccio da pertutto, e se non occorre farvi i ciglioni, non si deve però tralasciare di farvi alcune fossette con distanza di circa 60. braccia da una all'altra, non pel verso che pende il suolo, ma per piano, ad effetto di dare lo scolo dell'acque...»
 
I ciglioni nei poggi dalle pendenze maggiori, le reti di emungimento nei declivi meno ripidi rappresentano, quindi, i mezzi per plasmare le terre di collina in appezzamenti di cui sia possibile la coltivazione senza esporli ai danni dell'erosione, conseguenza immancabile dei lavori colturali che aprendo alle acque percorsi verticali, determinano la loro violenza e l'asportazione della parte più fertile del suolo.
 
Non è solo, tuttavia, alla tutela dall'erosione dei campi e dei declivi in attualità di coltura che il parroco toscano dedica la propria attenzione: prescrizioni altrettanto penetranti rivolge al recupero dei terreni che l’incuria prolungata abbia abbandonato alle distruzioni delle acque, trasformando campi coltivabili in pendici crepacciate e franose, le pendici perdute alla produzione agricola costituite dai calanchi appenninici:
«I pescaioli a traverso a' botri -leggiamo al capitolo XI della medesima parte dei Saggi- di leggier corso di acqua, (i quali botri per ordinario sono la rovina de’ poggi) si posson fare in questa maniera. In più luoghi, e particolarmente vicino alla parte del bosco dove incomincia a scorrervi l'acqua per spazio piano, si fanno alcuni piccoli pescaioli di legna, salci, vetrici, erbe, giunchi ec... procurando la stabilità con qualche uncino, e con allargare il letto dell’acque in modo che possa scorrervi leggieri e poco alta anche in tempo di piogge rovinose... dal che ne seguirà, che per motivo, che l'acqua scorrerà larga non solo non più sbroterà, ma farà sempre maggiori deposizioni, o per motivo che le suddette piante viepiù cresceranno... la terra si alzerà nel fondo del botro sempre più con vantaggio delle medesime piante...
 
E nel corso di pochi anni quelle grotte orribili, che erano forse a guisa di alte muraglie ed orridi precipizi divengono declivi non molto scoscesi. In questi declivi a poco a poco si alligna l'erba e ogni pianta, e diventano luoghi di pascoli molto salubri.»
Il quadro delle procedure per imprimere ai terreni declivi un assetto che assicuri la continuità della coltivazione, le procedure che con termine espressivo Landeschi definisce l'economia dell'acqua, rappresenta lo sviluppo coerente di una problematica cui hanno dedicato la propria attenzione i grandi agronomi del mondo mediterraneo, Columella, Alamanni, Davanzati. L'ampiezza e l'organicità con cui il prevosto di San Miniato sviluppa il complesso argomento impone di identificare nei Saggi l'atto di nascita di branca nuova dell'agronomia, quella metodologia delle “sistemazioni di poggio” destinata a costituire, sulle orma di Alamanni, terreno emblematico di impegno degli agronomi toscani.
 
L'applicazione, nelle aree dove la coltivazione rischia di distruggere le proprie stesse condizioni, delle regole dell'economia dell'acqua non costituisce, per Giovan Batista Landeschi, semplice adempimento delle finalità della produzione agraria: con la penetrazione dei grandi agronomi, protesi all’individuazione dei legami tra le tecniche agricole e le esigenze sociali, il curato di San Miniato sottolinea il rilievo economico e sociale dell’emancipazione della collina toscana da un'agricoltura di rapina, della diffusione di una coltura più razionale, capace di offrire mezzi di sostentamento più abbondanti a una popolazione che necessita di alimenti, di fibre tessili, di legno da costruzione e da combustione. Al di là dell'orizzonte agronomico, la rinascita agricola della collina assume, per il religioso toscano, il significato dei grandi impegni politici e morali, l’impegno che ha perorato, a vantaggio dell’agricoltura e a beneficio degli uomini che la praticano, un altro grande spirito religioso, Ludovico Muratori:
 
«Nelle altre arti -scrive Landeschi nel capitolo XXVIII della prima parte dei Saggi- il popolo più basso riceve soccorso colla mercede giornaliera, ma nell'esercizio dell'agricoltura dopo aver ricevuta la mercede di sue fatiche, gli si apre, per così dire una fonte perenne dai frutti che ottengonsi dalla terra, da'quali i padroni traggon sempre maggiori facoltà per soccorso ed ajuto de' poveri, impiegandoli in nuovi lavori, e viepiù co' frutti ancor di questi, tanto si accrescono l'entrate da impiegarsi in prò de'medesimi poveri e lavoranti, che si toglie l'ozio, si toglie la carestia, e ne segue l’abbondanza de' viveri, e tante altre comodità che lungo sarebbe il numerare.»
 
'''Scienza agraria in ordine di alfabeto'''
 
Per completare il quadro della scuola agronomica toscana nel Settecento, rievocarne la vivacità pubblicistica, l’impegno a trasporre nelle condizioni italiane le conquiste della scienza inglese e francese, verificarne, insieme, l’esiguità di acquisizioni originali, offre una tessera significativa un piccolo digesto agricolo in ordine alfabetico, La coltivazione italiana, o sia Dizionario d'agricoltura, Nel quale si contiene la coltura, e conservazione de' diversi prodotti riguardanti le terre seminative, i prati, i boschi, le vigne, ed i giardini, di Ignazio Ronconi, che l'editore fiorentino Sansoni pubblica in due volumi a Venezia nel 1771, ristampandone una seconda edizione nel 1776.
 
Associato dei Georgofili, come la maggior parte dei confratelli accademici Ronconi è nobile possidente, uno dei protagonisti del fervore di rinnovamento che ha pervaso il manipolo più illuminato della nobiltà inducendola rigettare l'atavico disprezzo per la prima fonte della propria ricchezza, dedicando energie intellettuali e mezzi finanziarial migliore sfruttamento dei possedimenti agrari.
 
L'idea di raccogliere le cognizioni fondamentali dello scibile agronomico in forma di dizionario non è idea nuova: dal Ricordo di Tarello essa ha ispirato più di una compilazione di scienza agraria. Al conte Ronconi è stata suggerita, leggiamo nella prefazione, dalla lettura di un testo francese, L'agronome, che il patrizio fiorentino ha fatto oggetto di lettura durante il lungo arco di tempo in cui «le mie fastidiose occupazioni», riferisce nell’introduzione, lo hanno «trattenuto... lontano da codesta amatissima mia Patria». Quale sia stata la sede della permanenza all'estero l'autore toscano non precisa: insieme all'opera che gli ha suggerito l'architettura del suo lavoro, la ricorrenza delle tesi di Duhamel du Monceau, che si dispiegano nell’intero corpo del trattatello, induce a supporre che il soggiorno non gradito si sia compiuto in Francia.
 
Assumere l'opera di Duhamel a paradigma di un lavoro pubblicato nel 1771 può apparire espressione di penetrante sensibilità scientifica, prova dell’aggiornamento più tempestivo: dalle pagine del maggiore agronomo del secolo Ignazio Ronconi non trae, tuttavia, gli elementi per elevare la propria scienza al di sopra dell'eclettismo degli autori toscani: la sua lettura delle opere di Duhamel si è arrestata al Traité de la Culture des Terres, la raccolta di esperienze realizzate sulle coordinate della teoria di Tull, che Duhamel è stato indotto ad abbandonare dai risultati degli esperimenti attraverso i quali ne ha operato la verifica.
 
Curioso di novità scientifiche piuttosto che scienziato autentico, il patrizio fiorentino si compiace di riproporre tesi al momento della pubblicazione della Nuova Agricoltura di Tull costituivano proposta rivoluzionaria, a quello della stampa del Traité de la Culture des Terres rappresentavano tema attuale: dal primo evento sono trascorsi quattro decenni, dal secondo due, all'inizio del settimo decennio del secolo i due testi non hanno altro valore che quello di cimeli di storia dell’agronomia. Superate dal procedere del dibattito scientifico, le tesi di Tull sulla nutrizione vegetale, e le conseguenti proposte sui lavori del suolo, costituiscono l'elemento più aggiornato dello scibile agrario raccolto nel Dizionario, la parte più cospicua delle cui cognizioni, in modo più evidente quelle di botanica e veterinaria, riconducono all'erboristeria e alla farmacopea di Crescenzi.
 
'''Lavori del suolo e concia del seme'''
 
Riconosciamo l'impronta inconfondibile di Tull e Duhamel nelle voci dedicate ai lavori del suolo, alla semina, alla coltura dei cereali:
«L'oggetto del lavorare le terre -leggiamo nel secondo volume alla voce Lavori- è di facilitare la moltiplicazione delle piccole barbe che portano alla pianta il sugo nutritivo, poichè le radiche si allungano a distanze maggiori di quello si crederebbe... L'acqua è il veicolo necessario perchè i sughi nutritivi passino nelle piante, ma senza un convenevol calore, quest'acqua sarebbe loro altresì nociva. Conviene dunque facilitare più che si può l'introduzione dell'acqua e delle rugiade nella terra, come pure quella de' raggi solari; or nulla può meglio produrre questi effetti, quanto il ridurre la terra in particelle più piccole che sia possibile, e più che si divide, più si rende il terreno capace di somministrare nutrimento alle piante... Sono i lavori meno dispendiosi, e rendono le terre più fertili di quello che facciano i conci, poichè l'aratro non divide solamente le particelle della terra, ma le solleva, le cangia di posto, e le rivolta, di modo che facilitandosi la penetrazione alle rugiade, alle pioggie, a' raggi solari nel terreno, si rende più fecondo; e s'è provato che raddoppiando i tre o quattro lavori, che sogliono comunemente farsi alle terre destinate per il grano, divengono più fertili di quello che se fossero state ben concimate.»
 
É altrettanto palese la matrice della lunga serie di ricette che Ronconi propone, alla voce Seme, per la disinfestazione e la disinfezione dei grani destinati alla semina, uno dei temi ai quali Duhamel ha dedicato, lo abbiamo constatato commentando la relazione della missione nell'Angoumois, tutta la propria attenzione:
 
«Altra ricetta per difendere le biade dal guastarsi, e da ogni sorta di malattie. Prendete venticinque libbre di calcina viva, e altrettanto sterco di piccioni, quaranta libbre di cenere del focolare, venticinque libbre di sal marino, o mancando questo altrettanto nitro, mettete tutte queste robe in una bigoncia assai grande, con un mezzo barile d'acqua comune, e dimenate tutto con un bastone finchè la calcina sia totalmente spenta. Questa lisciva si conserva quanto si vuole senza guastarsi. Osservate di smoverla quando v'infondete il seme, il quale lo porrete in un paniere, e lo tufferete nella bigoncia sino a che sia intieramente inzuppato, poi mettetelo in un sacco a scolare: oppure prendete una bigoncia col fondo forato, mettetevi quanto grano v'entra fino a quattro dita sotto l'orlo, finite d'empirla con questa lisciva dopo d'averla bene smossa, e poi sturate il buco di fondo, e lasciate scolare la lisciva in qualche vaso per non perderla, e continuate così fino a che tutta la vostra biada sia stata in infusione, potendola seminare dopo ventiquattr'ore, ma non però serbarla così preparata più di cinque o sei giorni, perchè rischierebbe di bruciarsi.»
 
Non è che una delle innumerabili ricette che il patrizio fiorentino propone per la concia delle sementi: pure moltiplicando il numero dei procedimenti, che trascrive da testi francesi, Ronconi mostra di non avere compreso il significato biologico delle esperienze di Duhamel e Tillet, che hanno ricercato rimedi specifici per combattere insetti e crittogame specificamente individuati. Nelle misture che suggerisce, Ronconi mescola e confonde sostanze dotate di proprietà insetticide, sostanze capaci di devitalizzare spore fungine e semplici fertilizzanti. Senza distinguere le proprietà degli ingredienti, senza combinarli in relazione al mutare delle infestazioni nelle diverse annate, secondo l'autore toscano è la qualità del terreno sul quale il grano verrà seminato, un elemento privo di ogni relazione con i parassiti che potranno infestare i seminati, a imporre di scegliere una o l’altra ricetta.
Propone, nel corpo della medesima voce, un’espressione trasparente della cultura del possidente toscano la menzione di un fenomeno di trasmutazione di semi di loglio di cui Ronconi attribuisce l'osservazione a un agricoltore tedesco:
 
«Lo stesso agricoltore ha osservato... che il loglio, il quale cresce in quantità in molti luoghi, e principalmente ne'campi umidi, si converte in biada ne'buoni terreni montuosi, il che ha provato in un stajo di segale, nel quale la biada schietta non era che l'ottava parte, e fattolo seminare tutto in un luogo montuoso, in terreno ben preparato, e ben concimato, ma un poco umido con la diligenza di spargerlo molto rado, egli assicura che al tempo della raccolta ebbe dugento quaranta fastelli di buona biada, e che non vi trovò più di tre o quattro fusti di loglio, con la sola differenza che i fastelli battuti non resero quanto l'altre biade. Questo veramente merita d'esser confermato da nuove sperienze.»
 
È la credenza della biologia antica della trasmutazione delle sementi, che Columella e Crescenzi hanno professato asserendo la possibilità di degenerazione dei cereali domestici in cereali selvatici. Ronconi ne sovverte i termini sostenendo la possibilità di ottenere buona biada da seme di loglio: un'ipotesi alquanto più felice di quella deprecata dagli autori classici. La soddisfazione della scoperta è appena temperato dall'auspicio che su un oggetto di tanto rilievo vengano condotte nuove sperienze: un auspicio dalla cui formulazione si sarebbe probabilmente esonerato più di uno dei confratelli georgofili del patrizio fiorentino, irremovibilmente saldo nelle certezze propugnate dai dotti dell'antichità. Ma l'attendibilità dell’ignoto agricoltore tedesco non è forse paragonabile a quella di Aristotele e Galeno, e la felice scoperta impone una verifica che sarebbe irriguardoso pretendere per il verbo dei maestri della conoscenza umana.
 
L’ossequio per i biologi dell'antichità che Targioni Tozzetti ha espresso in tema di caci venefici e di disturbi gastrici, Ronconi manifesta per le elucubrazioni patologiche e le misture farmaceutiche suggerite dalla tradizione medievale contro le epidemie del bestiame. La lunga storia delle epidemie del bestiame registra alla metà del Settecento l’infierire di grandi epizoozie che annientano mandrie e greggi in tutti i paesi d’Europa: particolarmente nefasta quella che dilaga tra il 1769 e il 1771, che solo in Frisia, ricorda Slicher van Bath, uccide 127.000 bovini. È rievocando le devastazioni del «male contagioso sparsosi tra le bestie grosse nella Fiandra, Catalogna, e Delfinato», di cui indica il sintomo caratteristico in una «vescica nera o morella nella lingua», l'esito inconfondibile dell'afta, che alla voce Bestiame il patrizio toscano suggerisce un prontuario di Preservativi per le differenti malattie contagiose del bestiame:
 
«I preservativi sono principalmente necessari in alcuni anni, ne' quali, o per corruzione dell'aria, o per la mala qualità del nudrimento, regnano alcune malattie contagiose, che fanno perire un gran numero di bestie. Per prevenire questi mali conviene tener le stalle ben nette, lavar le mangiatoje, greppie, e colonne con acqua dentro la quale siano state dell'erbe aromatiche, come timo, salvia, alloro, origano, maggiorana ecc. profumarle con erbe odorose, con droghe, come incenso, coccole, o legno di ginepro, polvere da schioppo, zolfo, pece, ponendole in un caldano di fuoco a poco a poco, e questo due volte il giorno, la mattina quando le bestie sono alla pastura, e la sera due ore prima che rientrino nelle stalle lavarle, e profumarle come sopra, tenendo nel tempo del profumo le porte, e finestre ben chiuse, con aprirle poco prima che vi entrino le bestie affine di lasciare un po' sminuire l'odore, che potrebbe danneggiarle nel capo, o renderle feroci. Ne' sarebbe male il purgar l'aria anche di fuori con accendervi de' fuochi...
 
Non si lasciano sortire le bestie se non dopo la levata del Sole, e tornate che saranno dalla campagna conviene lavarle, e nettarle con una spugna, o grossa pezza di lino bagnata in vino e aceto, in cui sieno bollite dell'erbe aromatiche...»
 
È un elenco di rimedi che non propone nulla di nuovo rispetto alle panacee degli speziali del Medioevo: ancor più, tuttavia, dell'inefficacia dei medicamenti suggeriti suscita lo stupore del lettore l'assenza, nelle pagine del Dizionario, di qualunque impegno di comprensione delle cause dei fenomeni che rievoca. Cento anni sono trascorsi dalla caustica irrisione di Francesco Redi per i medicamenti degli speziali e le beffe per quella triaca che Ronconi esalta ancora come rimedio prodigioso: nel secolo del cimento della biologia per conoscere i meccanismi degli organismi viventi e i processi che ne alterano la funzionalità, il patrizio toscano disserta di aspersioni di salvia, di fumigazioni di ginepro, di frizioni di aceto. Germogliato in Italia, il seme della nuova patologia animale non ha trovato, in un paese confinato ai margini del moto di rinnovamento economico e civile, il terreno sul quale produrre i propri frutti: nella terra del medico aretino le dissertazioni sui poteri della triaca si sviluppano con il fervore di secoli remoti. Quando, riunita la molteplicità dei principati italiani in unità politica, responsabili politici e studiosi di discipline agronomiche dovranno confrontarsi con l'imperativo di aumentare le disponibilità di prodotti dell'allevamento, il contesto delle pratiche di cura degli animali diffuse nelle regioni italiane rivelerà, rispetto agli altri paesi del Continente, un ritardo secolare: l’entità del divario da colmare susciterà, avremo occasione di constatarlo, disorientamento, polemiche, incertezze.
 
*'''La politicaUna agrariaproposta di unrifondazione principedel illuminatosapere agrario'''
 
*''' I precetti di un empirico per le coltivazioni di collina'''
Volendo enucleare, al termine dell'esame delle opere più significative della pubblicistica agraria toscana del Settecento, un giudizio complessivo sulla scuola agronomica più vivace dell'illuminismo italiano, non si può non ribadire, seppure riconoscendo il valore di alcune delle opere, la distanza che le separa dai testi degli agronomi inglesi e francesi che negli stessi decenni stabiliscono le fondamenta della moderna scienza della coltivazione. Per spiegare il rilievo storico della scuola toscana è necessario ricordare la cornice politica entro la quale essa si esprime, la cornice del principato di Pietro Leopoldo di Lorena, uno dei più lungimiranti principi riformatori dell'Età illuminista.
Granduca di Toscana dal 1765 al 1790, poi, dal 1790 al 1792, imperatore d'Asburgo, la sua lunga signoria rappresenta per la regione italiana un'età di intensa rinascita civile, economica, culturale. Impegnato in prima persona, durante gli anni di residenza a Firenze, in un ambizioso programma di riforme, quindi regista attento, dalla capitale imperiale, dell'opera dei funzionari cui ha affidato la guida del Granducato, il principe austriaco dilata la propria azione riformatrice all’intero contesto della vita sociale: siccome il retaggio feudale esprime il proprio potere paralizzante con gravità speciale nella sfera agricola, è all'agricoltura che il Granduca dedica la parte più cospicua del proprio impegno.
 
*''' Un apostolo della rinascita della collina toscana'''
Le tessere del disegno rinnovatore di Pietro Leopoldo comprendono la limitazione dei diritti feudali, l'abolizione delle corvées, la soppressione della manomorta laica, il contenimento di quella ecclesiastica, la liquidazione dei feudi granducali, la liberazione del commercio interno dai vincoli daziari, la liberalizzazione del commercio estero, la riforma fiscale, l'ammissione dei contadini nei collegi amministrativi dei centri rurali.
 
*''' L’economia dell’acqua'''
Alle riforme il Granduca aggiunge le opere di bonifica: in una regione nella quale si dispiegano le più estese aree acquitrinose di tutta la Penisola, con l'ausilio di ingegneri famosi il Principe di Lorena inizia opere idrauliche destinate a recuperare alla coltura estensioni vastissime di terre, in primo luogo la Val di Chiana, quindi lembi della Maremma.
Abbiamo notato l’intervento di Francesco Leopoldo, due anni dopo l’insediamento, per ampliare la sfera di interesse dei Georgofili fiorentini: coerente ai principi ispiratori della monarchia settecentesca, l'opera del principe asburgico si fonda sulla sistematica collaborazione tra il potere politico e con la ricerca scientifica. A Firenze, come a Vienna, a Londra, a Stoccolma, i detentori del potere hanno identificato nella scienza il primo alleato nello sforzo per rendere più razionale la convivenza civile, più efficiente l'organizzazione economica, più potente l’apparato militare della nazione. Come in tutte le capitali d'Europa la scienza trae dall'alleanza autorevolezza e stimoli al proprio progredire, l'accademia che annovera tra gli associati il Principe di Lorena è sospinta dal legame con il Granduca ad assumere un ruolo che ne fa, nel quadro italiano, organismo di prestigio privo di equivalenti.
 
*''' Scienza agraria in ordine di alfabeto'''
'''La risonanza del modello fiorentino'''
 
*''' Lavori del suolo e concia del seme'''
Enucleando il significato della pagina luminosa scritta, a Firenze, dall'alleanza tra il potere sovrano ed il consesso della scienza, Francesco Coletti afferma che l'azione politica di Pietro Leopoldo e l'impegno scientifico dell'Accademia sono tanto intrinsecamente coerenti «che sarebbe difficile determinare i limiti dell'influenza dell'una sull'altra e viceversa».
Seconda, nell’ordine di nascita delle società agrarie, alla Society of Improvers in the Knowledge of Agriculture in Scotland, legata all'esperienza riformatrice di uno dei più insigni tra i monarchi illuminati del Settecento, l'Accademia dei Georgofili è il modello sul quale si plasmano le istituzioni analoghe che vedono la luce nei principati italiani negli ultimi decenni del secolo, il termine di paragone con cui si confrontano le istituzioni per il progresso agricolo che sorgono, negli anni successivi, nelle nazioni europee.
 
*''' La politica agraria di un principe riformatore'''
Tra le consorelle italiane meritano una menzione la Società d'Agricoltura pratica, fondata nel 1762 come filiazione dell'Accademia di Udine, al cui statuto si conformano le istituzioni create, negli anni successivi, nei domini della Serenissima, e la Società Patriotica di Milano, che, nata nel 1772, pubblicherà, seppure senza continuità, un periodico che proporrà studi e rapporti di considerevole valore. Si possono ricordare, ancora, le accademie create negli stati pontifici, tra le quali si distinguerà quella di Macerata, e la Società agraria del Dipartimento del Reno, la cui fondazione sarà frutto della solerzia del prefetto Mosca e dell’impegno per gli studi agrari del conte Filippo Re.
Alcune centri ferventi di esperienze, confronti, concorsi, altre sedi di infrequenti riunioni in cui l'impegno agronomico non eguaglia quello mondano, le accademie rappresentano la prima risposta all'esigenza di affidare la promozione del progresso agricolo ad istituzioni demandate di alimentare il dibattito scientifico ed il confronto sperimentale. Fondamento dei fasti delle più attive, il carattere volontario sarà la remora che assopirà quante non conteranno tra i fondatori spiriti capaci di stimolare l'impegno e l'emulazione degli associati. Sarà per ovviare alla remora congenita che nelle nazioni riunite nell'Impero napoleonico un decreto del 25 dicembre 1810 le trasformerà in organismi dell'amministrazione pubblica, che lo stesso provvedimento definirà atenei.
 
*''' L’emulazione del modello fiorentino'''
Nate e sviluppatesi con caratteri spontanei, la maggior parte non sosterrà il trauma della conversione in enti pubblici dirigendosi alla china di una rapida decadenza. Anticipando, con una prova del proprio intuito storico, un’esigenza che si imporrà nei decenni successivi, Bonaparte ha compreso che sperimentazione agronomica e divulgazione agraria sono funzioni di tale rilievo per la prosperità nazionale che lo stato deve assumerne gli oneri e la direzione: pretendendo di piegare ai compiti nuovi organismi che affondano le radici nella tradizione dei circoli letterari del Settecento dissolve un'istituzione antica senza creare l'organismo che ha concepito, la cui nascita si compirà, dopo una lunga serie di conati, quattro decenni dopo il decreto di riforma degli istituti di cultura agraria dell'Impero.