Novelle rusticane/Don Licciu papa: differenze tra le versioni

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fischio del treno, che stava entrando in stazione, mi fece sobbalzare l'anima, sperduta nel cuore della tenebra di una mattinata buia e nebbiosa di gennaio e la luce, dagli scompartimenti interni delle carrozze rischiaro' di lampi il marciapiede del secondo binario. Vidi attorno a me altri giovani con lo zaino in spalla, infagottati nei piumini e nei cappotti imbottiti che saltellavano alternativamente da un piede all'altro per scaldarsi, si fumavano forse la loro prima sigaretta della mattinata, cercavano di comporre sulla tastiera dei cellulari l'ultimo messaggio da uomini liberi, diretto alla ragazza o all'amico del cuore.
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Le comari filavano al sole, e le galline razzolavano nel pattume, davanti agli usci, allorché successe un gridìo, un fuggi fuggi per tutta la stradicciuola, che si vide comparire da lontano lo zio Masi, l'acchiappaporci, col laccio in mano; e il pollame scappava schiamazzando, come se lo conoscesse.
 
Qualcuno passeggiava semplicemente, nervosamente, cercando di ripensare a tutto cio' che aveva preso con se o aveva dimenticato di portare, altri perfetti sconosciuti parlottavano fra di loro, come se si conoscessero da anni, qualcun altro stava gia' adocchiando i numerosi posti liberi da occupare.
Lo zio Masi si buscava dal municipio 50 centesimi per le galline, e 3 lire per ogni maiale che sorprendeva in contravvenzione. Egli preferiva i maiali. E come vide la porcellina di comare Santa, stesa tranquillamente col muso nel brago, di contro all'uscio, gli gittò al collo il nodo scorsoio.
 
Alle cinque della mattina, in un inusuale, irritante, perfetto orario, il treno freno' rumorosamente e noi ci accingemmo a salire. Una energica spinta mi fece quasi affondare il viso tra le due belle natiche rotonde del giovane uomo che mi precedeva. Montava sugli scalini del treno divaricando le gambe, arrancando con forza. Non mi dispiacque affatto questo incontro ravvicinato, anche se avrei preferito scontrarmi piu' con il suo davanti che con il suo didietro. Mi sarebbe comunque piaciuto vedere e toccare i muscoli delle sue cosce mentre si tendevano e si contraevano nello sforzo che stava compiendo. Purtroppo i jeans che indossava mi impedirono di dipanare la mia curiosita'. Osservandolo meglio, seduto dall'altra parte del corridoio, sul sedile di fronte al mio, con quei bei capelli a spazzola ingellati e appuntiti, le labbra carnose, in movimento per una gomma da masticare alla menta fra i denti, gli occhialini scuri calcati sulla testa, pensai che fosse troppo giovane per i miei gusti, anche se ad un bel culetto imberbe, ad un pisello tosto, non ho mai detto di no. Un paio di sere prima mi ero fatto fottere da un bel signore sui cinquanta, conosciuto in discoteca e che mi aveva pagato anche bene. Un momento: non prendetemi per una 'di quelle'. Di solito non mi faccio pagare, ma l'uomo, atletico e vigoroso e piuttosto ben fornito anche in mezzo alle gambe, mi disse che ero stato la piu' eccitante puttana che si era trombato negli ultimi mesi e mi sgancio' un bel bigliettone verde da 100. Mi ero impegnato, lo ammetto. Dopo averlo spompinato un po', per farglielo diventare bello duro e lubrificato, mi feci scopare a smorzacandela e mentre i nostri addominali strisciavano gli uni sugli altri, attorcigliandoci i peli a vicenda, gli leccavo i capezzoli che andavo a stanare sul petto corvino e bello sodo. Volle assaggiare la mia sborra ursina spompinandomi per dieci lunghissimi minuti e poi restai a casa sua fino alla mattina dopo, dormendo abbracciato a lui, assaporando il profumo del suo corpo. Ero felice e soddisfatto e l'idea di vivere per un anno a stretto e intimo contatto con tanti altri maschi, mi rendeva impaziente ed euforico. Quella mattina pero' ero preoccupato. Non per le storie che avevo sentito raccontare da entrambe i miei fratelli piu' grandi, cioe' delle sevizie che le giovani reclute erano costrette a subire nei primi mesi di naja: cera di candela lasciata gocciolare sulla cappella e sui capezzoli, penetrazione con il manico della scopa e da tutte gli altri atti comunemente ed erroneamente definiti 'nonnismo'. No, ero preoccupato forse dei pestaggi, di cui temevo essere la vittima prescelta. Sicuramente in un ambiente come quello militare che fa della mascolinita' il valore principale, tanto da dirsi che 'un uomo non puo' definirsi tale se non ha fatto il soldato', un frocio come me, orgoglioso di non nascondersi, anche se non mi sono mai vestito da donna ne' ho mai sbattuto in faccia alla gente la mia natura, puo' essere l'oggetto accentratore di tutte le paure, i sospetti, il disgusto, l'odio che sono alla base della violenza. Forse il mio aspetto ursino che, oltre la stazza, si palesava nell'abbondante peluria rossa che spuntava dalla camicia, avrebbe disatteso l'archetipo del culattone come lo si disegna nelle caserme: effeminato, vocino da evirato, con i mignoli alzati, glabro e con movenze femminili. Quale coraggioso temerario, vedendomi caricare sui campi da rugby o faticare in palestra, avrebbe scommesso un centesimo sulla mia omosessualita'? Forse sarei stato fortunato in quell'anno che stava per cominciare, forse avrei incontrato altri finocchi come me con i quali divertirmi un po' o sui quali si sarebbero concentrate le attenzioni dei piu' violenti. Io dall'alto del mio metro e ottantacinque e dei miei 103 kg di muscoli sarei stato visto come uno di quelli da lasciare stare, forse uno di quelli che non cercavano guai ma che sarebbe stato pronto a portarne per difendere i piu' deboli. Infatti la mia bonta' d'animo unita alla mia ricerca quotidiana del contatto e dello scontro fisico con maschioni come me, mi aveva prima portato a frequentare le palestre di lotta greco-romana fin dai tempi del liceo e poi i campi da gioco, per il solo piacere di misurare il mio corpo con quello di altri uomini. Non fui mai attaccabrighe, ma non mi sottrassi mai a nessuna sfida, specie quelle che avessero comportato scontri tra uomini, armati solo di voglia di divertirsi. Nulla nel mio fisico mi ha mai preoccupato o intimorito, ho sempre portato con orgoglio il mio pelo rosso fin dai diciassette anni e anche se non possiedo una spada da cavallo, il mio amico qua sotto era ed e' ben proporzionato, ben utilizzato e sempre ben coccolato, in mancanza d'altri, da me stesso.
- Ah! Madonna santissima! Cosa fate, zio Masi! - gridava la zia Santa, pallida come una morta. Per carità, zio Masi, non mi acchiappate la multa, che mi rovinate! -
 
Ero deliziosamente impegnato a pensare agli affari miei (o ai cazzi miei e soprattutto altrui!!!), quando dal fondo del vagone comincio' ad avanzare ondeggiando un ragazzone che poteva avere la mia eta'. Aveva un bel testone rasato, un pizzetto appena accennato che mimetizzava egregiamente il doppio mento. Indossava una giacca a vento che lo faceva somigliare ad una mongolfiera. La cerniera era aperta e il suo maglione di lana rosso vivo distraeva la mia attenzione dal volto morbido ma severo e la concentrava sulla pancia rotonda e prominente. Dall'orlo inferiore del maglione spuntava un lembo della camicia scozzese che indossava. Non era alto, forse 1,70, ma era molto ben fatto. Se fosse stato coperto di peli sarebbe stato il mio tipo ideale. Lo fissai da quando entro' fino a quando mi passo' accanto per accedere al vagone successivo. Guardava a destra e sinistra, come se cercasse qualcuno che non trovo'. Mi passo' accanto. Anche il suo odore mi piaceva. Puzzava di maschio, o piu' precisamente aveva addosso un misto di leggero sudore e amaretto. Il mio uccello stava gia' dando segni di interesse, ma lui passo' troppo in fretta, senza degnarmi di uno sguardo.
Lo zio Masi, il traditore, per pigliarsi il tempo di caricarsi la maialina sulle spalle, le sballava di belle parole: - Sorella mia, che posso farvi? Questo è l'ordine del sindaco. Maiali per le strade non ne vuole più. Se vi lascio la porcellina perdo il pane -.
 
Il treno correva velocemente verso sud. Era ora di dare un'occhiatina in giro. Mi alzai in piedi per togliermi la giacca e intanto osservai cio' che potevo. Nella fila di posti accanto alla mia, verso la coda, erano seduti due ragazzi. Uno leggeva un libro. Ecco, pensai, un noiosissimo finto intellettuale che conosce vita, morte e miracoli dei piu' grandi scrittori della nostra letteratura ma che se dovesse esprimere una opinione personale direbbe solo un sacco di cazzate o sciorinerebbe a memoria le opinioni di qualche critico. L'altro, quello che era rivolto con il viso verso di me, sembrava che di libri non ne avesse mai letti in vita sua. Capelli rasati, una shirt nera e sanguinolenta, con teschio e croci celtiche sotto un giubbotto in pelle e borchie. Jeans neri e catenelle, anfibi ai piedi. Un gran bel pezzo di ragazzo, sui venti-ventidue al massimo. I suoi occhi verdi mi fissarono intensamente, tanto che perfino io non riuscii a sostenerne lo sguardo. Appesi la giacca al gancio e mi rimisi a sedere. Ripensai alla sua corporatura massiccia, a quelle gambe aperte fra le quali affondare il viso e placare la mia sete, il piede sul sedile a sfidare l'autorita' dei controllori, mentre l'altro ginocchio ondeggiava e lui ci tamburellava sopra con le dita. Aveva un walkmen e anche dalla mia distanza si capiva che razza di musica stesse ascoltando. Un bel barbaro cazzuto. Mi sarebbe piaciuto provocarlo un po'. Approssimandoci a Piacenza, ripensai agli anni della mia infanzia, prima che il lavoro di mio padre costringesse l'intera famiglia ad emigrare nella metropoli. Ero molto stanco, forse mi assopii per qualche minuto perche' mi ridestai appena il treno freno'.
La zia Santa gli correva dietro come una pazza, colle mani nei capelli, strillando sempre: - Ah! zio Masi! non lo sapete che mi è costata 14 tarì a San Giovanni, e la tengo come la pupilla degli occhi miei! Lasciatemi la maialina, zio Masi, per l'anima dei vostri morti! Che all'anno nuovo, coll'aiuto di Dio, vale due onze! -
 
A Piacenza salirono altri ragazzi. Quello doveva essere il mio scaglione, il dodicesimo '94. I piacentini erano piu' chiacchieroni, fra di loro probabilmente si conoscevano e il vagone comincio' a ravvivarsi. Scherzavano, ridevano, canticchiavano canzoni da caserma, forse imparate dagli amici congedati.
Lo zio Masi, zitto, a capo chino, col cuore più duro di un sasso, badava solo dove metteva i piedi, per non isdrucciolare nella mota, colla maialina di traverso sulle spalle, che grugniva rivolta al cielo. Allora la zia Santa, disperata, per salvare la porcellina, gli assestò un solenne calcio nella schiena, e lo fece andare ruzzoloni.
 
Ad un certo momento, mentre ascoltavo le chiacchiere di due ragazzi, mi corse l'occhio lungo il corridoio fino ad una spalla ed un braccio nerboruti, coperti da un maglione di lana verde. Il braccio apparteneva ad un maschione dal petto molto ampio, dall'addome piatto e con due gambe massicce, ben aperte, vestite di calzoni in velluto chiaro. Fra le gambe aveva un bozzo che definire enorme e' limitativo. O ce l'aveva in tiro ed era una erezione incontenibile o doveva avere sotto un manico e due palle sproporzionati. Sollevai lo sguardo al suo viso e sotto quei capelli a spazzola riconobbi Gianni, il mio vecchio compagno, l'ultimo cioe' l'unico amico che abbracciai prima di lasciare la scuola e sulla cui spalla, all'epoca molto differente da oggi, riversai calde lacrime di dolore.
Le comari, appena videro l'acchiappaporci in mezzo al fango, gli furono addosso colle rocche e colle ciabatte, e volevano fargli la festa per tutti i porci e le galline che aveva sulla coscienza. Ma in questa accorse don Licciu Papa, colla tracolla dello sciabolotto attraverso la pancia, gridando da lontano come un ossesso, fuori tiro delle rocche: - largo alla Giustizia! largo alla Giustizia! -
 
Ero emozionato e indeciso. Si ricordera' ancora di me? Ero fortemente tentato di alzarmi e andare da lui, salutarlo, abbracciarlo, ammirare il fisico che si era costruito in tutti questi anni. Non sapevo dove guardare. Mi attirava il suo pacco. Mi sembrava di percepire l'odore di quel cespuglio riccio, l'aroma del suo attrezzo. Cominciavo a detestare le ragazze che lo avevano avuto, ad invidiare il piacere che avevano provato a succhiarlo, a prenderlo fra le gambe, a farsi toccare da quelle mani forti e ossute, a lisciare i loro polpacci su quella schiena e quelle natiche muscolose mentre guaivano di piacere. Lo guardavo e non vedevo piu' il timido e remissivo ragazzino con cui giocavo, con il quale sfogliavo i giornaletti e ci si toccava insieme davanti a quelle fotografie. Che buffo. Pensando al passato mi ricordai del fatto che i giornaletti li sfogliavo per vedere i maschioni in divisa da poliziotto o vestiti da pompiere o da manovale, non per quelle sgualdrinelle con le tette al vento che si facevano sbattere da quei cazzi enormi e sempre pronti all'uso. Che cosa avrei potuto dirgli? Magari non mi avrebbe nemmeno riconosciuto. Mentre ero assorto in questi pensieri, lui mi guardo', mi riconobbe immediatamente e sollevo' la sua forma massiccia raggiungendomi sorridente.
La Giustizia condannò comare Santa alla multa ed alle spese, e per ischivare la prigione dovettero anche ricorrere alla protezione del barone, il quale aveva la finestra di cucina lì di faccia nella stradicciuola, e la salvò per miracolo, facendo vedere alla Giustizia che non era il caso di ribellione, perché l'acchiappaporci quel giorno non aveva il berretto col gallone del municipio.
 
Io non ebbi la forza di dire nulla mentre quel pacco sporgente si avvicinava a me. Il suo bacino ondeggiava deliziosamente, si metteva di profilo per riuscire a passare nel corridoio e cosi' facendo mi dava l'occasione di ammirarlo da ogni angolatura. Credetti di morire. Mi alzai in piedi allargando le braccia. Lui fece la stessa cosa e un istante dopo le nostre braccia cinsero due orsi massicci e muscolosi, le nostre mani picchiarono violentemente su schiene che avrebbero trainato il treno stesso. Il suo volto velato di uno strato di barbaccia dura sfioro' ripetutamente il mio collo, mentre gli occhi gli si inumidirono.
Vedete! - esclamarono in coro le donne. - Ci vogliono i santi per entrare in Paradiso! Questa del berretto nessuno la sapeva! -
 
-Non posso crederci!!!! Ste. Sei tu!!!! come stai?-
Però il barone aggiunse il predicozzo: - Quei porci e quelle galline bisognava spazzarli via dal vicinato; il sindaco aveva ragione, ché sembrava un porcile -. D'allora in poi, ogni volta che il servo del barone buttava la spazzatura sul capo alle vicine, nessuna mormorava. Soltanto si dolevano che le galline chiuse in casa, per scansare la multa, non fossero più buone chiocce, e i maiali, legati per un piede accanto al letto, parevano tante anime del purgatorio. - Almeno prima la spazzavano loro la stradicciuola.
 
-Gianni!!! Quanto tempo!!!! Io sto bene e tu?-
- Tutto quel concime sarebbe tant'oro per la chiusa dei Grilli! - sospirava massaro Vito. - Se avessi ancora la mula baia, spazzerei la strada colle mie mani -.
 
-Vieni anche tu a C.?-
Anche qui c'entrava don Licciu Papa. Egli era venuto a pignorare la mula coll'usciere, che dall'usciere solo massaro Vito non se la sarebbe lasciata portar via dalla stalla, nemmen se l'ammazzavano, e gli avrebbe piuttosto mangiato il naso come il pane. Lì, davanti al giudice, seduto al tavolino, che pareva Ponzio Pilato, quando massaro Venerando l'aveva citato per riscuotere il credito della mezzeria, non seppe che rispondere. La chiusa dei Grilli era buona soltanto per far grilli; il minchione era lui, se era tornato dalla mèsse a mani vuote, e massaro Venerando aveva ragione di voler esser pagato, senza tante chiacchiere e tante dilazioni, perciò aveva portato l'avvocato, che parlava per lui. Ma com'ebbe finito, e massaro Venerando se ne andava lieto, dondolandosi dentro gli stivaloni come un'anitra ingrassata, non poté stare di domandare al cancelliere se era vero che gli vendevano la mula.
 
-Eeehhh!!!! Mi tocca!!!-
- Silenzio! - interruppe il giudice che si soffiava il naso, prima di passare a un altro affare.
 
Ci sedemmo di fronte. E fu come se ci fossimo lasciati il giorno prima. Parlammo delle nostre occupazioni, dell'impresa di costruzioni del padre che si era spaccato la schiena tutta la vita, lo aveva fatto diventare geometra e impiegato presso di se e desiderava per lui un futuro da ingegnere. Purtroppo la voglia di studiare non l'ebbe mai e lascio' dopo quattro anni, dopo avere dato quattro o cinque esami con il minimo dei voti. Io gli parlai di me, della mia laurea in Economia fresca fresca, del lavoro in banca che ero stato costretto a rifiutare per partire a fare il soldato, della mia passione per il rugby.
Don Licciu Papa si svegliò di soprassalto sulla panchetta, e gridò: - Silenzio!
 
-E la figa?- Mi chiese.
- Se foste venuto coll'avvocato, vi lasciavano parlare ancora, - gli disse compare Orazio per confortarlo.
 
-Sono rimasto a quelle che guardavamo sui giornaletti da bambini.- In realta' avevo anche scopato con qualche ragazza, ma il tutto si era limitato ad una sporadica novita', per quanto piacevole.
Sulla piazza, dinanzi agli scalini del municipio, il banditore gli vendeva la mula. - Quindici onze la mula di compare Vito Gnirri! Quindici onze una bella mula baia! Quindici onze! -
 
-Cosa??!!! Non dirmi che sei vergine a 25 anni!!!-
Compare Vito, seduto sugli scalini, col mento fra le mani, non voleva dir nulla che la mula era vecchia, ed era più di 16 anni che gli lavorava. Essa stava lì contenta come una sposa, colla cavezza nuova. Ma appena gliela portaron via davvero, ei perse la testa, pensando che quell'usuraio di massaro Venerando gli acchiappava 15 onze per una sola annata di mezzeria, che tanto non ci valeva la chiusa dei Grilli, e senza la mula ormai non poteva più lavorare la chiusa, e all'anno nuovo si sarebbe trovato di nuovo col debito sulle spalle. Ei si mise a gridare come un disperato sul naso a massaro Venerando. - Cosa mi farete pignorare, quando non avrò più nulla? anticristo che siete! - E voleva levargli il battesimo dalla testa, se non fosse stato per don Licciu Papa lì presente, collo sciabolotto e il berretto gallonato, il quale si mise a gridare tirandosi indietro: - Fermo alla Giustizia! - Fermo alla Giustizia!
 
-No, vergine non lo sono piu' da parecchio.-
- Che Giustizia! - strillava compare Vito tornando a casa colla cavezza in mano. - La Giustizia è fatta per quelli che hanno da spendere -.
 
-Scusa non ho capito. Non sarai mica...- E lascio' la frase a meta' solleticandosi il lobo dell'orecchio.
Questo lo sapeva anche curatolo Arcangelo, che quando era stato in causa col Reverendo per via della casuccia, perché il Reverendo voleva comprargliela per forza, tutti gli dicevano: - Che siete matto a pigliarvela col Reverendo? È la storia della brocca contro il sasso! Il Reverendo coi suoi denari si affitta la meglio lingua d'avvocato, e vi riduce povero e pazzo -.
 
-Frocio?- chiesi sorridendo.
Il Reverendo, dacché s'era fatto ricco, aveva ingrandito la casuccia paterna, di qua e di là, come fa il porcospino che si gonfia per scacciare i vicini dalla tana. Ora aveva slargata la finestra che dava sul tetto di curatolo Arcangelo, e diceva che gli bisognava la casa di lui per fabbricarvi sopra la cucina e mutare la finestra in uscio. - Vedete, compare Arcangelo mio, senza cucina non ci posso stare! Bisogna che siate ragionevole -.
 
Il giovane di fianco a noi smise di masticare la gomma e si volto' dalla nostra parte, cercando di dissimulare la sua attenzione alla mia risposta.
Compare Arcangelo non lo era punto, e si ostinava a pretendere di voler morire nella casa dove era nato. Tanto, non ci veniva che una volta al sabato; ma quei sassi lo conoscevano, e se pensava al paese, nei pascoli del Carramone, non lo vedeva altrimenti che sotto forma di quell'usciolo rattoppato, e di quella finestra senza vetri. - Va bene, va bene, - rispondeva fra di sé il Reverendo. - Teste di villani! Bisogna farci entrare la ragione per forza -.
 
Gianni resto' muto e con la bocca aperta, in attesa che io mi spiegassi.
E dalla finestra del Reverendo piovevano sul tetto di curatolo Arcangelo cocci di stoviglie, sassi, acqua sporca; e riducevano il cantuccio dov'era il letto peggio di un porcile. Se curatolo Arcangelo gridava, il Reverendo si metteva a gridare sul tetto, più forte di lui. - Che non poteva più tenerci un vaso di basilico sul davanzale? Non era padrone d'inaffiare i suoi fiori?
 
-Si, lo sono, mi piacciono gli uomini, ci vado a letto e mi piace un sacco.-
Curatolo Arcangelo aveva la testa dura peggio dei suoi montoni, e ricorse alla Giustizia. Vennero il giudice, il cancelliere, e don Licciu Papa, a vedere se il Reverendo era padrone d'inaffiare i suoi fiori, che quel giorno non ci erano più alla finestra, e il Reverendo aveva il solo disturbo di levarli ogni volta che doveva venire la Giustizia, e rimetterli al loro posto appena voltava le spalle. Il giudice stesso non poteva passare il tempo a far la guardia al tetto di curatolo Arcangelo, o ad andare e venire dalla straduccia; ogni sua visita costava cara.
 
Gianni era rimasto a bocca aperta, il giovane sorrise e si volto' dall'altra parte fingendo interesse alla campagna parmense che emergeva sonnacchiosa nella luce dell'alba.
Restava la quistione di sapere se la finestra del Reverendo doveva essere coll'inferriata o senza inferriata, e il giudice, e il cancelliere, e tutti, guardavano cogli occhiali sul naso, e pigliavano misure che pareva un tetto di barone, quel tettuccio piatto e ammuffato.
 
-Ma vai a cagare!!!! Mi stai pigliando per il culo!!!!- Ma lo disse con poca convinzione.
E il Reverendo tirò pure fuori certi diritti vecchi per la finestra senza inferriata, e per alcune tegole che sporgevano sul tetto, che non ci si capiva più nulla, e il povero curatolo Arcangelo guardava in aria anche lui, per capacitarsi che colpa avesse il suo tetto. Ei ci perse il sonno della notte e il riso della bocca; si dissanguava a spese, e doveva lasciare la mandra in custodia del ragazzo per correre dietro al giudice e all'usciere. Per giunta le pecore gli morivano come le mosche, ai primi freddi dell'inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava colla Chiesa, dicevano.
 
-Mi dispiace Gianni, non volevo imbarazzarti, ma e' la verita'.-
- E voi pigliatevi la casa, - disse infine al Reverendo, che dopo tante liti e tante spese non gliene avanzava il danaro da comprarsi la corda per impiccarsi a un travicello. Voleva mettersi in collo la sua bisaccia e andarsene colla figliola a stare colle pecore, ché quella maledetta casa non voleva vederla più, finché era al mondo.
 
-Ah! Mi dispiace.- Disse quasi sottovoce, visibilmente imbarazzato.
Ma allora uscì in campo il barone, l'altro vicino, il quale ci aveva anche lui delle finestre e delle tegole sul tetto di curatolo Arcangelo, e giacché il Reverendo voleva fabbricarsi la cucina, egli aveva pure bisogno di allargare la dispensa, sicché il povero capraio non sapeva più di chi fosse la sua casa. Ma il Reverendo trovò il modo di aggiustare la lite col barone, dividendosi da buoni amici fra di loro la casa di curatolo Arcangelo, e poiché costui ci aveva anche quest'altra servitù, gli ridusse il prezzo di un buon quarto.
 
-E perche'? A me non dispiace, io sono felice cosi'.-
Nina, la figlia di curatolo Arcangelo, come dovevano lasciare la casa e andarsene via dal paese, non finiva di piangere, quasi ci avesse avuto il cuore attaccato a quei muri e a quei chiodi delle pareti. Suo padre, poveraccio, tentava di consolarla come meglio poteva, dicendole che laggiù, nelle grotte del Carramone, ci si stava da principi, senza vicini e senza acchiappaporci. Ma le comari, che sapevano tutta la storia, si strizzavano l'occhio fra di loro borbottando:
 
-E da quando lo sei diventato?-
- Al Carramone il signorino non potrà più andarla a trovare, di sera, quando compare Arcangelo è colle sue pecore. Per questo la Nina piange come una fontana -.
 
-Credo di esserci nato, poi ne ho preso coscienza.-
Come lo seppe compare Arcangelo cominciò a bestemmiare e a gridare: - Scellerata! adesso con chi vuoi che ti mariti? -
 
-Non mi sei mai sembrato frocio. E anche adesso non lo sembri.-
Ma la Nina non pensava a maritarsi. Voleva soltanto continuare a stare dov'era il signorino, che lo vedeva tutti i giorni alla finestra, appena si alzava, e gli faceva segno se poteva andare a trovarla la sera. In tal modo la Nina c'era cascata, col veder tutti i giorni alla finestra il signorino, che dapprincipio le rideva, e le mandava i baci e il fumo della pipa, e le vicine schiattavano d'invidia. Poscia a poco a poco era venuto l'amore, talché adesso la ragazza non ci vedeva più dagli occhi, e aveva detto chiaro e tondo a suo padre:
 
-Forse perche' la giarrettiera l'ho lasciata a casa insieme alla parrucca platinata e i tacchi a spillo.-
- Voi andatevene dove volete, che io me ne sto qui dove sono -. E il signorino le aveva promesso che la campava lui.
 
Gianni si chiuse in un silenzio imbarazzato e imbarazzante, guardo' fuori dalla finestra per qualche secondo.
Curatolo Arcangelo di quel pane non ne mangiava, e voleva chiamare don Licciu Papa per condur via a forza la figliuola. - Almeno quando saremo via di qui, nessuno saprà le nostre disgrazie, - diceva. Ma il giudice gli rispose che la Nina aveva già gli anni del giudizio, ed era padrona di fare quel che gli pareva e piaceva.
 
-Beh, io adesso torno a sedermi con gli amici laggiu'. Ci ribecchiamo dopo magari.-
- Ah! È padrona? - borbottava curatolo Arcangelo. - Anch'io son padrone! - E appena incontrò il signorino, che gli fumava sul naso, gli spaccò la testa come una noce con una legnata.
 
Annuii senza proferire parola e senza guardarlo tornare al suo posto.
Dopo che l'ebbero legato ben bene, accorse don Licciu Papa, gridando: - Largo alla Giustizia! largo alla Giustizia! -
 
Per tutto il viaggio non lo rividi seduto al suo posto, si era spostato lontano dal mio sguardo. Lo capii. Avevo gia' visto un comportamento simile, capii l'imbarazzo che provava. Forse si sara' sentito oggetto della mia libidine. Si sara' vergognato di essersi masturbato insieme a me, di avere fatto la doccia con un frocio ai tempi della scuola.
Davanti alla Giustizia gli diedero anche un avvocato, per difendersi. - Almeno stavolta la Giustizia non mi costa nulla; - diceva compare Arcangelo. E fu meglio per lui. L'avvocato riuscì a provare come quattro e quattro fanno otto, che curatolo Arcangelo non l'aveva fatto apposta, di cercare d'ammazzare il signorino, con un randello di pero selvatico, ch'era del suo mestiere, e se ne serviva per darlo sulle corna ai montoni quando non volevano intender ragione.
 
Sarei falso a negare di averlo desiderato poco prima, a negare di desiderarlo ancora nonostante il suo disprezzo muto ma assordante.
Così fu condannato soltanto a 5 anni, la Nina rimase col signorino, il barone allargò la sua dispensa, e il Reverendo fabbricò una bella casa nuova su quella vecchia di curatolo Arcangelo, con un balcone e due finestre verdi.
 
{{capitolo
Durante il percorso all'ora di pranzo sgranocchiai svogliatamente un panino. Gianni era l'unico amico che avevo incontrato e adesso cominciavo a temere che sarebbe diventato il mio peggior nemico. Si sarebbe sentito tradito, ingannato, usato. Forse la sua delusione ed il suo sconcerto si sarebbero arrestati allo stadio di freddo distacco, di impietoso disinteresse. Forse non sarebbero diventati odio e rancore.
|CapitoloPrecedente=Cos'è il re
 
|NomePaginaCapitoloPrecedente=Novelle rusticane/Cos'è il re
Anche Bologna e Firenze diedero il loro contributo di maschioni alla causa. Ci fu un toscano in particolare che attiro' la mia morbosa attenzione. Si sedette accanto a me, insieme al suo amico.
|CapitoloSuccessivo=Il mistero
 
|NomePaginaCapitoloSuccessivo=Novelle rusticane/Il mistero
I toscani hanno la prerogativa di farmi eccitare solo a sentirli parlare. Una sabato ci scontrammo con la squadra della citta' di P., molto forti a rugby. Fra di loro c,era un attaccante di cui non ricordo il nome, forse perche' mai ce lo scambiammo, ma di cui ricordo ogni espressione, ogni parola, il colore intenso dei suoi occhi turchini ed il profumo altrettanto intenso del suo corpo sudato. I suoi ricci castani che parevano scolpiti da Michelangelo erano bagnati, schiacciati sulla bellissima testa dall'elmetto di cuoio, gocciolanti sulle spalle. Durante uno scontro, una mia violenta ginocchiata al ventre lo fece piegare in due. Lui fini' in infermeria, io in panchina fra le maledizioni e gli insulti meritatissimi, lo ammetto, del pubblico. Il Mister mi garanti' una severa punizione e mi spedi' negli spogliatoi. Io volevo vederlo, volevo essere con lui, volevo lui e questa insperata coincidenza me ne diede l'opportunita'. Mi recai in infermeria. Lui si stava sistemando il sospensorio, il suo unico indumento e io vedevo le sue bellissime natiche umidicce e muscolose, incorniciate dai tiranti della conchiglia che aveva sul davanti.
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-Sono venuto a vedere come stai.- Lui si volto' di scatto e aggrotto' le sopraciglia.
 
Dio, che bello che era!!! Aveva un torace enorme, muscoli definiti e due bei capezzolini turgidi. Un tatuaggio selvaggio gli decorava il bicipite e la sua pelle imperlata di sudore aveva il colore del bronzo lucido. La sua schiena era un fascio di muscoli, gambe bellissime e due cosce degne di un wrestler.
 
-Ma che cazzo ti e' saltato in mente, coglione!!- Mi aggredi' improvvisamente avvicinandosi a me a piedi nudi.
 
-Hai ragione, scusami, non l'ho fatto apposta, mi dispiace.- Cercai di scusarmi mentre tenevo gli occhi bassi. In realta' tenevo gli occhi bassi per guardarlo meglio da vicino, per spiare con attenzione quel petto muscoloso che si gonfiava con il respiro. Quanto avrei voluto baciarlo. Le sue labbra carnose erano a pochi centimetri dal mio viso e mentre mi soffiava addosso gocce di saliva e di sudore, io restavo a guardarlo negli occhi.
 
-Che cazzo sei venuto a fare qui?- Mi chiese ritornando a sedersi sul lettino.
 
-Te l'ho detto. Volevo sapere come stavi e volevo scusarmi.-
 
-Mi hai fatto male. E delle tue scuse non so che farmene!!-
 
-Credimi, non sono un violento.- Non sopportavo la sua durezza. Avevo sbagliato. Mi stavo scusando con lui. Nessuno si scuso' mai con me le numerose volte che mi fecero finire in infermeria. Volevo che avesse una buona impressione di me, volevo essergli amico.
 
Fece schioccare la lingua, scrollo' la testa tenendola bassa e prese l'asciugamano steso sulla seggiola davanti a lui. Comincio' ad asciugarsi il sudore. La forza che imprimeva al movimento gli faceva arrossire la pelle del petto e delle braccia.
 
-Non torni in campo?-
 
-Mi hanno buttato fuori. Posso restare qui finche' non ti senti meglio?-
 
-Perche' ti interessa tanto come mi sento?-
 
-Perche' sto male all'idea di essermi comportato cosi'.-
 
Mi avvicinai a lui.
 
-Dammi una mano, dai!!- E allungo' il suo braccio verso la seggiola dove erano appoggiate le scarpe e i calzettoni.
 
-Aspetta, faccio io.- Afferrai la sua caviglia ed appoggiai la pianta del suo piede sul mio petto. Lui resto' a guardarmi mentre srotolavo e rivoltavo i suoi calzettoni per infilarglieli ai piedi. Le calze erano ancora molto umide, avvertivo la lieve fragranza della sua pelle accaldata e quando sfiorai il suo polpaccio ne apprezzai la soda muscolatura.
 
-Aspetta, cazzo!! Cosi' mi fai venire un crampo, e' meglio se ti inginocchi e le calze me le infili da sotto.-
 
-Si, va bene, come vuoi.- Mi inginocchiai ai piedi del lettino, davanti a lui, mentre lui scese dal lettino e rimase in piedi a gambe leggermente divaricate, come un colosso di Rodi.
 
-No, dai, stavo scherzando, lascia stare, faccio da solo!!!- E lo vidi sorridere per la prima volta, mentre prendeva in giro la mia assurda sottomissione.
 
-Allora non ce l'hai con me?- E mi rialzai in piedi di fronte a lui.
 
-Siamo avversari, ma giochiamo allo stesso gioco. Queste cose succedono, volevo capire se mi pigliavi per il culo o se eri sincero e lo sei stato. Non capita spesso. Anzi non capita mai!!- Continuo' a guardarmi sorridente, con le mani ai fianchi e due occhi dolcissimi.
 
Fu allora che afferrai le sue guance e lo baciai in bocca, incurante delle sue possibili violente reazioni. Resto' con i denti serrati per quei pochi secondi e con le mani ai fianchi.
 
-Era ora che ti decidevi.-
 
Il mio desiderio era fortissimo. Ripresi a baciarlo mentre le sue mani esploravano le mie natiche sotto i calzoncini. Mi sfilo' la maglietta palpeggiandomi il petto e si libero' del sospensorio in un attimo.
 
-Avanti, fammi vedere come chiedi scusa.- E appoggiandomi le mani sulle spalle mi fece inginocchiare davanti al suo randello puntato verso di me.
 
Alzai gli occhi verso i suoi. Sorrisi, gli afferrai le palle con la sinistra e la verga con la destra. Lo scappellai e cominciai a lavorarlo con la lingua. Gli solleticai il frenulo in tensione e cercai di penetragli l'uretra con la punta della lingua. Teneva le mani dietro la schiena ed il bacino in avanti, alzava il viso al cielo sospirando e chiudendo gli occhi.
 
-Mmmmm, non l'avrei mai detto che fossi stato cosi' bravo.- Miagolo'.
 
-Ti prego non fermarti.-
 
Senza parlare cominciai ad ospitarlo dentro la mia bocca. Il calore intenso del mio cavo orale lo avvolgeva interamente. Era piuttosto grosso, faticavo a riceverlo per piu' di qualche centimetro e fuori ne rimanevano almeno una decina a dividere il mio naso dalla foresta del suo pube, tuttavia riuscivo ad assaporarne l'aroma di sudore. Cominciai a succhiare delicatamente ed a infilare le mie dita nel solco delle natiche che si contraevano e rilassavano ritmicamente schiacciandomi con forza le dita. Palpavo i suoi addominali e le sue gambe robuste.
 
-Adesso mi piacerebbe fotterti.-
 
Non mi feci ripetere la proposta, mi alzai in piedi e mi tolsi i pantaloncini ed il sospensorio.
 
-Dai scopami!!- Lo pregai. E sollevai la gamba sinistra sul lettino, offrendo al mio uomo tutto il mio corpo.
 
Mi penetro' con molta delicatezza. Il suo membro scivolo' in me facendomi gemere di piacere. Sentivo il suo pube contro di me. Era entrato per tutta la sua lunghezza e comincio' a muoversi avanti e indietro facendo di me la sua sgualdrina.
 
Avvertii la forza della sua eiaculazione che cominciava a sgocciolarmi sulla gamba mentre lui sembrava voler ripetere la sborrata. Si fermo' solo quando, afferratomi il cazzo in tiro, comincio' a masturbarmi fino a quando schizzai tutto sul pavimento.
 
-Allora devo pensare che mi hai perdonato per la ginocchiata che ti ho dato?- Gli chiesi scioccamente, con il respiro che mi mancava.
 
Lui rise ansimando lungamente e senza rispondermi usci' dal mio corpo, si infilo' nuovamente il sospensorio, i pantaloncini e la maglietta sudati e sporchi.
 
-Aiutami ad allacciarmi le scarpe.- Io lo feci e restai nudo nello stanzino mentre lui usciva per ritornare in campo e segnare tre punti.
 
Bei ricordi. Cominciai a pensare che se la caserma avesse avuto una squadra, io ne avrei fatto parte. Non mi sarei potuto sottrarre a questo impegno ed inoltre sarei rimasto in allenamento per tutto l'anno.
 
Avevamo ormai lasciato Roma. Il sole a quell'ora era alla sua massima altezza sull'orizzonte e il treno che sfrecciava verso Napoli sembrava andargli incontro.