Archimede (Favaro)/VI: differenze tra le versioni

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Ma alla difesa della sua Siracusa aveva pensato Archimede, il quale, mantenutosi sempre estraneo alle lotte dei partiti che l'avevano tratta a quegli estremi, nel momento del supremo pericolo venne in soccorso dei suoi concittadini con tutte le industrie del suo genio inesauribile.
 
I particolari di questa memorabile difesa sono narrati da {{AutoreCitato|Polibio}}, da {{AutoreCitato|Plutarco}} e da {{AutoreCitato|Tito Livio}}: da essi apprendiamo che per poter offendere il nemico che investiva la città per via di terra, senza pericolo per parte dei difensori, Archimede aveva fatto praticare nelle mura frequenti feritoie, delle quali pare che nessuno prima di lui avesse pensato ad usare, e di là e di sopra le mura con baliste e catapulte mascherate faceva rovinare così gran numero di pietre di saette e con così forte e spaventoso rombo che chi non rimaneva ucciso e gravemente ferito abbandonava l'assalto in preda alla massima paura. Contro le navi lontane faceva pure lanciare massi e giavellotti ben pesanti, e quando giungevano ad accostarsi, stendevansi tutto ad un tratto contro di esse fuor dalle mura lunghe travi, le quali parte ne facevano andare a fondo per la violenza con cui le percuotevano dall'alto, e parte afferravano con rostri ed uncini di ferro dalla prora, levavano in aria e fracassavano contro gli scogli. Contro la sambuca poi, mentre era ancora distante dalle mura, lanciavansi così gran sassi e perfino, come vien riferito, macine da mulini che completamente la schiacciavano insieme coi soldati che dovevano da essa muovere alla scalata ed all'assalto.
 
Altre invenzioni di macchine belliche dovute ad Archimede, quale l'architronito, cioè una specie di cannone a vapore, ed un apparecchio specialmente adatto ai combattimenti navali descrive Leonardo da Vinci, ma ignoriamo affatto le fonti alle quali egli attinse, mentre nè egli stesso nè altri dissero che tali strumenti di guerra siano stati usati nella difesa di Siracusa.
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Gli specchi ustorii di Archimede, e quelli altrettanto celebri di Proclo e di Antemio attirarono siffattamente l'attenzione degli studiosi al tempo del Rinascimento, da indurli ad applicarsi con grande fervore agli studii di catottrica e ad immergersi in tutto ciò che intorno a questo argomento avevano tramandato i greci e gli arabi. Sul finire del secolo decimosesto questi studii vanno assumendo un carattere più positivo, e nel decimosettimo se ne occuparono Galileo ed i più cospicui fra i suoi discepoli e la stessa Accademia del Cimento, senza però pervenire a risultati i quali permettano di asserire con qualche verisimiglianza che Archimede abbia potuto costruirne di tale potenza da raggiungere quell'effetto che Cartesio negò in modo assoluto e che nemmeno la famosa esperienza del Buffon vale a rendere credibile. Verisimile è invece che, riferendosi da un lato avere Archimede scritto fra altro anche sugli specchi ustorii od almeno di catottrica, e dall'altro che, come narra Silio Italico, alcune navi dei romani assedianti Siracusa erano state incendiate, siansi abbinati i due fatti, concorrendo a formare una tradizione la quale non ha storico fondamento.
 
 
Ma ritorniamo alla nostra narrazione.
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Tra gli orrori della strage perì anche Archimede, ed il modo della morte viene diversamente narrato. Vuolsi da Plutarco che il console romano, ammirato della lunga ed ostinata difesa, opera più che d'altri del genio di Archimede, entrando trionfante in Siracusa, avesse ordinato ch'egli avesse salva la vita, ed anzi fosse a lui condotto, ma il legionario che l'invitava a seguirlo, non essendo stato da lui istantaneamente obbedito, perchè Archimede non voleva muoversi finchè non avesse compiuta certa dimostrazione alla quale, non curante dei Romani e dell'eccidio, stava attendendo, infuriato l'uccise. Narra Cicerone che allorquando Siracusa fu presa, fosse Archimede tanto intento a disegnare nella polvere, che neppur s'avvedesse che i nemici vi fosser dentro, onde, secondo Livio, da un soldato il quale non sapeva chi egli fosse, fu trapassato con la spada. E così Silio Italico:
 
<div align=center> {{AutoreCitato|«Meditantem in pulvere formas,<br />
«Nec turbatum animi, tanta feriente ruina,<br />
 
«Ignarus miles vulgi tum forte peremit».}}
«Nec turbatum animi, tanta feriente ruina,
 
«Ignarus miles vulgi tum forte peremit».
 
</div>
 
A ciò Valerio Massimo aggiunge che, mentre Archimede delineava sul terreno una sua figura geometrica, venisse dal soldato con la spada alla mano interrogato chi fosse, ma che egli all'incontro lo pregasse a trattenersi, e a non voler guastar quelle linee che stava tracciando, e perciò il soldato acceso d'ira, lo uccidesse; anzi Giorgio Valla, sulla relazione di qualche antico scrittore, riferisce che Archimede rispondesse al soldato che lo minacciava: «il capo e non il disegno». Altri finalmente, sempre secondo Plutarco, vogliono che, informato della presa della città, Archimede si fosse avviato per portare a Marcello alcuni suoi ordigni e strumenti matematici, fors'anco per fargliene dono e placarlo, quando, incontrato da alcuni soldati, questi, per impadronirsi degli oggetti che credevano d'oro, lo trucidarono.