Produrre sapere in rete in modo cooperativo - il caso Wikipedia: differenze tra le versioni

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Oggigiorno si è chiamati a fare un passo ulteriore, compatibile con la situazione attuale, dove l’etica hacker può dominare ancora l’immaginario di chi lavora in Rete, ma ha bisogno di una declinazione che non la faccia apparire eccessivamente utopica e “datata”.<br/>
Ecco allora d’obbligo una ripresa di tutto l’apparato in una nuova ottica.
 
==Rilettura dell’apparato ideologico all’interno della pratica “open-source”==
Nel capitolo precedente, in base ad un discorso che ha voluto da un lato seguire le fila storico-cronologiche, dall’altro lo sviluppo del pensiero ideologico di stampo hacker, si è focalizzata l’attenzione sulla visione più estrema e radicale della prospettiva, attraverso le parole e le idee di Richard Stallman.<br/>
L’errore che spesso viene compiuto è quello di “fermarsi” a questo punto e di intendere la filosofia hacker come pienamente e unicamente coincidente con quella del suo più celebre teorizzatore. In realtà, questo comporta la presenza di una patina di oblio su una delle realizzazioni più concrete della cultura hacker.<br/>
Un gruppo ben nutrito di membri di tale movimento, provenienti da lauree in ingegneria informatica e fisica nelle università californiane e assunti al famoso MIT, ha costituito quella che oggi è conosciuta come la pratica “open-source”.<br/>
L’open-source riprende direttamente gli ideali di Stallman, ma arriva a rielaborarli ampiamente, presentando un diverso punto di vista. Raymond è indicabile come il padre di tale visione dell’etica hacker più “moderata”. In realtà, Raymond non giunge a teorizzare qualcosa di diverso da Stallman: è più corretto affermare che il primo concentri l’attenzione maggiormente sull’aspetto “pragmatico”, il cosiddetto movimento “open-source”. Si è ormai distanti dalle utopie eticamente connotate di Stallman che prevedevano una comunità senza conflitti alla base dell’hacking: secondo Raymond, l’hacker è inserito in una realtà che al contrario presenta una sfumatura di marcato realismo. L’hacker rientra sicuramente a far parte di una comunità, ma tale struttura è regolata da principi che pongono il lavoro e i suoi risultati al primo posto e non l’armonia in sé del gruppo, come postulava Stallman. L’hacker è colui che lotta per guadagnarsi una reputazione e fa di tutto per mantenerla, e con essa anche i vantaggi che derivano dall’averla conquistata.<br/>
Come afferma l’autore del documento The Open Source Definition, Bruce Perens: «Open Source non significa solamente accesso al codice sorgente<sup>[[#Note|44]]</sup>».<br/>
A livello più prettamente economico, come viene affermato dallo stesso Perens: «Il software libero e non libero possono coesistere. Secondo Stallman invece, tutto deve essere software libero. Ecco la differenza tra me e lui<sup>[[#Note|45]]</sup>».<br/>
L’effettiva pratica open-source presenta dei vantaggi tangibili. Dal documento di Bruce Perens, si nota che il software debba essere liberamente distribuibile, con un codice sorgente disponibile e compilato. I prodotti derivati devono essere modificabili, non ci dev’essere discriminazione per individui singoli o gruppi, non vi devono essere limitazioni per il campo di applicazioni del software con licenza open-souce. I diritti devono propagarsi seguendo il software e non limitarsi a una distribuzione particolare del software. Allo stesso tempo però non può andare a influenzare altri programmi che appartengono, ad esempio, alla stessa distribuzione<sup>[[#Note|46]]</sup>. Un programma che fa uso delle licenze definite nel documento può utilizzare il marchio open-source<sup>[[#Note|47]]</sup> ed esser riconosciuto quindi come tale.<br/>
Eric S. Raymond ha contribuito, con Perens, alla stesura di tale “definizione”.<br/>
Il termine “open-source” fu proprio opera sua e di altri collaboratori: Raymond si rese subito conto che la definizione tanto amata da Stallman, “free software”, avrebbe causato dei problemi di accettazione della stessa da parte delle aziende che avrebbero potuto essere interessate ad esso.<br/>
Stallman sostiene che non sia male “fare soldi” attraverso il software libero, ma non ci dice esattamente “come farli”. Sembra che il “guru” del movimento hacker voglia fuggire alla resa dei conti con l’industria.<br/>
Ecco che Raymond presenta invece un punto di vista assai più “coi piedi per terra”, o se si preferisce, moderato. Più di una volta egli ha ricordato come emblematica l’unione tra pratica open-source e la Netscape Communication<sup>[[#Note|48]]</sup>. Sicuramente dettata dal desiderio di costituire un “muro” nei confronti della monopolizzatrice Microsoft<sup>[[#Note|49]]</sup>, la Netscape ha abbracciato l’ideologia hacker a seguito della lettura di una delle pietre miliari nella definizione dell’open-source, lo scritto di Raymond La cattedrale e il bazar. Ma ciò che interessa ancor di più ora, è che il successo con gli investitori della Netscape non arrivò con la “spinta” delle forze dal basso, ma dalle alte sfere di gestione dell’azienda: fu Barksdale, uno dei dirigenti della casa di software, a stabilire la consacrazione dell’azienda all’open-source.<br/>
Il fatto di “scendere a compromessi” con il settore dell’industria ha condotto così alla ridefinizione da free software a open-source, ma soprattutto all’abbandono della visione estremistica incarnata da Stallman, per il quale la vita e la libertà di un hacker e della comunità sono elementi fondamentalmente più importanti di un software stabile e sicuro. Chi decise di aderire al mercato del software libero, dovette essere liberato dal timore di cadere in questo vortice ideologico eccessivamente estremizzato. Ecco dunque l’opera di Raymond e in generale di tutto il movimento open-source: una visione non antagonista alle teorie di Stallman, ma certamente meno restia a confrontarsi con l’aspetto pragmatico ed economico rispetto alla filosofia stallmaniana.
 
===La struttura “a bazar” dell’open-source==
Nel 1651, Thomas Hobbes sosteneva che si può cooperare solo se c’è un concorrente più forte in grado di imporre a tutti una tregua. Hobbes teorizzava così la presenza di una figura potente, forte e coercitiva, il Leviatano<sup>[[#Note|50]]</sup>. Rousseau, all’interno del suo testo più noto<sup>[[#Note|51]]</sup>, sostiene che gli uomini possono esser governati nel momento in cui, in nome del contratto sociale, sacrificano la volontà individuale in favore di quella collettiva.<br/>
Nel corso dei secoli, si è sempre creduta indispensabile una forma di potere, un’autorità centrale, che esercitasse una forza coercitiva sugli altri. Questa visione ha condotto a trascurare un aspetto particolare della vita sociale umana: la cooperazione. O meglio, si è sempre pensato che per cooperare fosse necessaria un’intelligenza sovraordinata che regolasse l’interazione.<br/>
Tuttavia, laddove non c’è più un controllo centrale a sancire il dovere di ognuno nei confronti della comunità, si ha quell’elemento già considerato, la reputazione. È un aspetto fondamentale, che si è riscontrato ampiamente nella comunità hacker, e che indica il punto di passaggio tra interesse privato (quello di essere ben considerato) e il bene pubblico (il collaborare con altri in vista di un obiettivo).<br/>
A proposito di questo discorso, è d’obbligo soffermarsi sul testo già citato di Raymond, La cattedrale e il bazar, in quanto propone un’analisi accurata nei dettagli sulle diverse strutture e sui pregi e i difetti di ognuna.<br/>
Lo stile di sviluppo che Raymond indica con la definizione “a cattedrale” riprende il modello più diffuso nel mondo commerciale. Ci si trova davanti a un’impostazione verticale, con un’autorità superiore e centrale alla quale è destinato il controllo. L’obiettivo, solitamente uno soltanto, è sempre definito chiaramente e ricordato ogni volta in modo che non venga perso di vista.<br/>
Al contrario, il modello “a bazar” è quello che Raymond associa allo sviluppo hacker. In una situazione di parità basata su una modalità comunicativa orizzontale, il progetto centrale è composto da più sottoprogetti, che ognuno assume come scopo. È più efficace perché solitamente le varie competenze vengono indirizzate laddove risultano più utili ed efficienti.<br/>
Lo stesso Raymond però ammette: «[…] Ma ero anche convinto che esistesse un punto critico di complessità al di sopra del quale si rendesse necessario un approccio centralizzato e a priori. […] Credevo che il software più importante andasse realizzato come le cattedrali, attentamente lavorato a mano da singoli geni o piccole bande di maghi che lavoravano in splendido isolamento, senza che alcuna versione beta vedesse la luce prima del momento giusto<sup>[[#Note|52]]</sup>». Ma lo sviluppo formidabile e la crescita rapidissima di Linux condotta dal suo ideatore, Linus Torvalds, fecero ricredere Raymond.<br/>
Imbattendosi poi in un lavoro su un client di posta elettronica, che sviluppò secondo il modello open-source, Raymond trasse alcune importanti “lezioni”, come le definisce lui stesso, su come funziona la dinamica open-source.<br/>
Notò anzitutto che l’hacker deve avere interesse in ciò che sta facendo, per questo forse i migliori lavori sui software nascono proprio da dei problemi degli sviluppatori intenzionati a risolverli. Inoltre trovare dei colleghi è il modo migliore per risolvere velocemente i bug e per utilizzare al meglio le potenzialità del codice.<br/>
A questo proposito, è possibile riprendere la Legge di Reed, un concetto trattato da Rheingold nel suo ultimo lavoro, Smart mobs. Howard Rheingold si concentra sulla dinamica di scambio delle conoscenze: accade che, fornendo suggerimenti di alto livello, sia possibile guadagnarsi la reputazione e accrescere il proprio status sociale. In tal modo il “costo” dello scambio diminuirebbe, bilanciandosi con un effettivo guadagno. Da questo può sorgere una situazione di gratificazione dell’ego, detta “ego boost”<sup>[[#Note|53]]</sup>. La legge di Reed in sostanza disegna una rete che forma un gruppo che si auto-organizza intorno a interessi condivisi.<br/>
Il mutuo controllo disponibile nella situazione di cooperazione in rete e la possibilità di avere comunicazioni veloci permette allo stesso tempo di far procedere il progetto molto rapidamente.<br/>
Il processo di collaborazione di tipo open-source, come indica Raymond, si autoalimenta: più si lavora, più si è osannati dagli altri e stimolati dalla soddisfazione di se stessi per i risultati raggiunti. In sostanza, ciò che differenzia il modello a cattedrale e quello a bazar è l’ottimizzazione dei tempi. Anche qui però è opportuno specificare cosa si intenda per ottimizzazione: mentre nel primo per scoprire un problema occorrono mesi e mesi, con dubbi, opinioni divergenti e quant’altro che comportano release<sup>[[#Note|54]]</sup> lente e un’eccessiva patemizzazione del momento di scoperta del bug, che risulta essere un’operazione lenta e difficoltosa, nel secondo invece si va incontro al fenomeno dell’errore come a qualcosa di marginale, che può essere risolto rapidamente e senza troppi problemi. Da questo deriva la diffusione veloce di release aggiornate<sup>[[#Note|55]]</sup>.<br/>
Come fa notare Raymond, la struttura a bazar non si applica solitamente a un codice che parta da zero: è più semplice e stimolante per l’hacker partire da qualcosa, “giocare” su un programma anche di basso livello. Non è importante la materia prima, ma il sentimento di collaborazione e di divertimento che sorge tra i co-sviluppatori.<br/>
È chiaro dunque, e così conclude il suo lavoro Raymond, che l’open-source non ha la meglio sul modello “closed-source” per un fattore intrinseco, ma perché, grazie alla sua struttura e alle sue dinamiche di funzionamento, è più adatto al processo di innovazione tecnologica e di creazione: «[…] Il modello “closed-source” non è in grado di vincere la corsa agli armamenti dell’evoluzione contro quelle comunità open-source capaci di affrontare un problema con tempi e capacità superiori di diversi ordini di grandezza<sup>[[#Note|56]]</sup>».<br/>
===Il superamento della cultura del dono ne Il Calderone Magico===
Un contributo importante di Eric S. Raymond è stato quello di rielaborare, nell’ultimo dei suoi tre lavori sull’etica hacker<sup>[[#Note|57]]</sup>, il discorso circa l’economia del dono, al quale si fa spesso direttamente riferimento, come si è visto, nel trattare l’hacking. Raymond si propone invece nel tentativo di conciliare la dimensione dell’hacker e quella economica e commerciale. Si possono così osservare riflessioni utili per affrontare l’analisi del processo di produzione in Rete, soprattutto nel caso specifico della ricerca empirica svolta all’interno dell’enciclopedia libera online quale emblema della pratica open-source.<br/>
Anzitutto Raymond confuta la visione, assunta in Colonizzare la noosfera, per cui la cultura del dono possa sussistere solo in un’economia dell’abbondanza, dove non vi siano problemi per la sussistenza.<br/>
Lo sviluppo open-source, nota Raymond, non è presente però solo nell’economia dell’abbondanza, anzi, spesso i più fervidi creatori di software libero provengono da contesti e situazioni disagiate<sup>[[#Note|58]]</sup>.<br/>
L’errore più frequente, a detta di Raymond, è quello di associare la produzione di software al modello a fabbrica. Purtroppo però, il software, pur presentando un valore d’uso, ovvero un valore di bene intermedio, e un valore di vendita, cioè un valore di bene finito, come i prodotti che vengono distribuiti solitamente nel mercato economico tradizionale, non segue il meccanismo manifatturiero per cui il valore di vendita è normalmente maggiore rispetto al valore d’uso. Nel campo del software, ciò che è pensato per la vendita è la minima parte. La gran parte del lavoro dei programmatori è quello di manutenzione. L’industria del software è associabile per lo più a un’industria dei servizi, piuttosto che alla fabbrica. Il costo al consumatore del software è dato, come continua Raymond, dalla previsione sul valore futuro dei servizi del produttore, da intendersi come l’insieme di manutenzione, aggiornamenti, ecc. Dunque, più che un commercio sul valore di vendita, quello del software libero è da intendersi come uno scambio di pagamenti sui servizi.<br/>
Ma allora come fa il modello open-source, non solo a sopravvivere, ma anche a diventare sempre più forte e capace di diffondersi e potenziarsi? Raymond giustifica il fenomeno con il numero di persone che lavorano seguendo tale pratica. L’enorme quantità di programmatori open-source permette di rendere il sistema molto efficace e, inoltre, di tenere a bada i “free riders”, coloro che tendono a sfruttare il software libero senza apportare alcun contributo.<br/>
Ma come si giustifica la problematicità dell’applicazione del valore di vendita al mercato del software? Raymond risponde concentrando l’attenzione sul contratto sociale alla base dell’open-source. Anzitutto, mentre gli sviluppatori open-source non si oppongono al fatto che altri traggano profitto dai loro prodotti, la maggior parte degli hacker non vogliono che ci sia qualcuno in grado fare profitto, o meglio in posizione avvantaggiata per farlo. Ecco uno dei problemi fondamentali nell’applicazione del valore di vendita al software.<br/>
Una questione ancor più spinosa è data però dalla proprietà intellettuale: è un impegno assai gravoso renderla compatibile alle dinamiche di un’epoca dove lo scambio maggiore avviene proprio sulle conoscenze.<br/>
Come si legge nel testo di Berra e Meo<sup>[[#Note|59]]</sup>, la proprietà intellettuale oggi presuppone una forte monopolizzazione e sostanzialmente un blocco inadatto nella libera circolazione di idee. La diffusione del pensiero e la cooperazione della creatività conduce a diversi aspetti positivi, che la proprietà intellettuale minaccia di distruggere. Anzitutto annienta le possibilità fornite a zone del mondo con minori risorse di mettersi in contatto e di poter proporre le proprie innovazioni a coloro che siano in grado, in termini più che altro economici, di realizzarle. Gli autori evidenziano come, fermando il flusso di informazioni, si blocchi fondamentalmente la possibilità di innovazione e di crescita di quella che Karl Polanyi definisce la “Repubblica della Scienza” e alla quale appartengono anche i Paesi con minori risorse, che vedono in essa una possibilità unica di sviluppo ed emancipazione.<br/>
In conclusione sembra che la Rete sia ritornata a caricarsi di quelle valenze utopiche di cui si è parlato all’inizio: oltre all’opportunità di comunicare a livelli mai visti, si intravede la possibilità di uno sviluppo più eguale e infine di un’opera di “democratizzazione” che ponga sullo stesso piano gli sviluppatori di software usciti dai più famosi laboratori europei e quelli di cui così poco si sente parlare, che risiedono nelle sconfinate pianure del Sudamerica.<br/>
 
===La produzione auto-organizzata===
Si è parlato di un nuovo modello di produzione, del sistema economico, del movimento hacker. L’osservazione principale è stata fornita dal cambiamento di prospettiva che ha reso tutto questo “innovativo”: si è introdotto il protocollo comunicativo orizzontale, ci si è imbattuti in una misteriosa “spinta dal basso” e non raramente si è usato il termine “auto-organizzazione”.<br/>
Raymond<sup>[[#Note|60]]</sup> afferma: «Gli hacker hanno sviluppato siffatte consuetudini senz’alcuna analisi cosciente e ugualmente senz’alcuna analisi cosciente le hanno seguite».<br/>
C’è da chiedersi dunque: ma tutto questo come è possibile? Come si può spiegare la nascita di un macro-ordine da un apparente moltitudine caotica?<br/>
Si tenterà di dare una panoramica, per quanto superficiale, del processo che porta alla creazione dei cosiddetti sistemi emergenti.
 
==Auto-organizzazione nelle reti: il fenomeno dei “sistemi emergenti”==
La creazione di un ordine da una serie di pratiche apparentemente disordinate e sconnesse è interesse di quella disciplina chiamata scienza dei sistemi emergenti. Come si è detto<sup>[[#Note|61]]</sup>, la stessa comunità hacker risponde, strutturalmente, a regole che non seguono una logica “dall’alto”, un ordinamento di tipo verticale, ma si articola secondo un modello auto-organizzato che si sviluppa orizzontalmente, secondo le pratiche di comunicazione tra pari.<br />
Il discorso che si può fare a riguardo, incentrando l’attenzione sui sistemi emergenti cui si è accennato, è molto interessante, pur nella limitatezza delle competenze fisiche, matematiche e biologiche di chi scrive, indispensabili per comprendere appieno la questione nei suoi termini più dettagliati.<br />
Si tenterà comunque un doppio livello d’indagine: da un lato la struttura della rete come substrato concreto “ideale” per la creazione dei cosiddetti sistemi emergenti. Dall’altro le vere e proprie dinamiche peculiari dell’“emergenza” e il loro funzionamento.<br />
Ma anzitutto cerchiamo di chiarire più precisamente il concetto di “sistema emergente”: è una struttura definibile “bottom-up”, dove si risolvono i problemi utilizzando masse di elementi relativamente stupidi anziché un singolo centro direzionale.<br />
In sostanza, i sistemi emergenti sono di tipo adattivo. L’emergenza in tal senso può essere ricondotta a un meccanismo che fonde le regole di basso livello in un’applicazione di alto livello. Tutto questo rientra in una più ampia disciplina che risponde al nome di teoria della complessità<sup>[[#Note|62]]</sup>.
 
===Cenni sulla struttura delle reti===
Le cause che conducono alla manifestazione di un comportamento di tipo complesso<sup>[[#Note|63]]</sup> sono ancora un mistero per gli studiosi che ci dedicano studi e attenzione.<br />
Uno dei percorsi più intrapresi in questo genere di discipline è quello della ricerca sul comportamento delle formiche all’interno dei formicai<sup>[[#Note|64]]</sup>. È apparso evidente infatti come tali piccoli organismi si coordinano e si organizzano secondo logiche ben definite. Pur essendo esseri “stupidi”, considerati privi di forme di intelligenza superiore capace di ragionamento, come nel caso umano, le formiche sono dal principio un fondamentale elemento di studio proprio per la capacità di costituire un ordine organico collettivo, rispondendo semplicemente a bisogni e stimoli locali.<br />
Nel tentativo di affrontare più approfonditamente l’argomento, si è spesso ricondotta a motivazione principale dei sistemi emergenti la struttura delle reti.<br />
Albert-László Barabási, docente di fisica teorica all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, ha svolto diverse ricerche sulle reti complesse<sup>[[#Note|65]]</sup>. In un difficile e dettagliato excursus, egli ha ripercorso le tappe degli studi sulle reti.<br />
Ha evidenziato con interesse come agli inizi, riconducibili alla fine degli anni ’50, due matematici di nome Erdős e Rényi, non sapendo come spiegare la complessità, parlassero di reti casuali. Ma, ancora più interessante fu un’intuizione di Karinthy, del 1929, che segnalava la presenza in media di 6 gradi di separazione tra due persone. Da questa osservazione si giunge alla conclusione che la vita avvenga su un mondo piccolo perché la società è una ragnatela assai ridotta nelle sue dimensioni “di collegamento”: se tra due individui sussistono soltanto sei legami costituiti da altrettanti “nodi”, di fatto incarnati da persone, è chiaro che si possa pensare al mondo come ad una struttura di dimensioni assai ridotte.<br />
Come si legge nella dissertazione di Barabási, nel web si replica il concetto di “mondo piccolo”: tra un link e l’altro infatti non sembrano esserci più di 19 “click”. La separazione varia a seconda di ciò che viene fatto e poiché seguire tutti i link sarebbe un’impresa impossibile accade che vengano utilizzate delle “chiavi”. Viene addirittura ripreso un concetto di Granovetter, quello dei “legami deboli”, che si è incontrato in precedenza. In sostanza, si afferma che i legami deboli spesso risultino più efficienti di quelli forti, nel caso si stia ricercando qualcosa, ad esempio delle informazioni<sup>[[#Note|66]]</sup>.<br />
La ricerca di Barabási porta alla scoperta di una particolarità nella rete: una serie di hub, dei nodi con un elevatissimo numero di link. A livello sociologico, si potrebbero associare alla figura degli opinion leaders, ovvero di quegli individui che hanno più accesso al contenuto dei media e che finiscono per influenzare gli altri che hanno intorno a sé.<br />
Barabási si rese conto che una rete non può essere casuale: dovrebbe essere libera da qualunque tipo di regole e, se lo fosse, dovrebbe sussistere la più alta forma di democrazia, incarnata in una specie di anarchia. Ecco che crolla la visione utopica del cyberspazio egualitario.<br />
Questo tipo di struttura è risultata dominata da una cosiddetta legge di potenza. Si tratta di una curva decrescente in modo continuo, che sta a rappresentare fondamentalmente il fatto che a molti piccoli eventi coincidano pochi grandi eventi. Le reti casuali presentavano una curva a campana, mentre la legge di potenza ci spiega il fatto che vi siano pochi nodi con moltissimi link e molti nodi con un numero di collegamenti ridotti. Le reti di questo tipo sono definite nel testo di Barabási a invarianza di scala.<br />
Da qui si ha una prima visione del passaggio da disordine a ordine: in un’apparente moltitudine sregolata di link si ritrovano nodi altamente funzionali allo scopo e strutturati in modo ordinato per questo motivo.<br />
Inoltre, il fatto che questi hub presentino un maggior numero di link testimonia il fatto che ci sia una situazione di collegamento preferenziale: la rete è tutt’altro che democratica. Ma cosa guida un link verso un nodo piuttosto che un altro? Barabási parla della fitness del nodo, ovvero della sua capacità di attrazione.<br />
Una delle caratteristiche più interessanti, anche in riferimento al discorso sull’auto-organizzazione è che i sistemi di tipo “naturale”, ecologici, sono caratterizzati dalla resilienza, ovvero dall’autoaggiustamento, dalla capacità di ricondursi ad un equilibrio interno.
 
===Funzionamento e caratteristiche di base dei sistemi emergenti===
La rete è il substrato di ogni struttura emergente. Come si è spiegato in precedenza, stiamo riferendoci sia a una rete di tipo ecologico-naturale, sia a una rete informatica.<br />
Ci si concentri ora su una panoramica generale sul funzionamento dei sistemi emergenti. Essi sono, si è stabilito in precedenza, forme intelligenti e collettive che derivano da una moltitudine per lo più “stupida” e senza coerenza e legame interno. Ciò che dà vita a questo macro-comportamento è il crearsi di uno scopo che guidi i singoli membri verso l’effettiva pratica. Una delle caratteristiche fondamentali di queste strutture è che nel comportamento emergente, come evidenzia Johnson nel suo lavoro divulgativo sull’argomento<sup>[[#Note|67]]</sup>, i singoli individui rivolgono l’attenzione all’immediato vicino anziché attendere ordini dall’alto: questo modello di “acculturamento imitativo” è lo stesso tipo di processo che si è osservato nella trattazione sulla cultura hacker. In tale situazione, l’errore è insignificante.<br />
Johnson ha indicato cinque principi alla base della formazione della macrointelligenza: la quantità, nella quale si disperde l’errore e avviene il massimo della cooperazione; l’ignoranza individuale, che mantiene in equilibrio il sistema; gli incontri casuali, che rendono il sistema dinamico quanto basta; le configurazioni dei segnali e infine, l’osservazione dei vicini.<br />
Il vantaggio dell’“intero” che va a costituirsi è che può persistere nel tempo: Johnson sostiene in più punti della sua dissertazione che il comportamento globale dura più a lungo delle parti che lo compongono.<br />
I sistemi nascono comunque da una situazione relazionale, che però si ferma al feedback interazionale che si crea in doppia direzione. Non si tratta di una situazione anarchica: da una configurazione del genere, non potrebbe mai uscire un sistema che funzioni.<br />
Kevin Kelly parla di un nuovo filone olistico, dove si viene a creare una situazione di equilibrio spontaneo con una mano invisibile che governa<sup>[[#Note|68]]</sup>. Stanchi della libertà romantica che vede la piena realizzazione della volontà dell’individuo, i nuovi soggetti vanno incontro alla costituzione di un superorganismo. L’emersione, sostiene Kelly, è un fenomeno del tutto naturale e, come ogni processo di questo tipo, è difficile capire da dove giunge: per ora non si ha ancora chiaro in mente da dove arrivi il superorganismo.<br />
L’autore di Out of control però presenta anche un grave limite nella sua dissertazione, che è insito nel titolo stesso dell’opera: com’è possibile che, come sostiene l’autore, tutto debba seguire il proprio corso? Il fatto che non vi sia un “io centrale” non presuppone che tutto debba seguire la propria logica interna. È necessario una certa qual forma di ordine e di controllo.<br />
D’altro canto, in tutta la disciplina, o per lo meno nella sezione affrontata in questa sede, sembra vi sia un “buco nero”. Studiando sistemi come i formicai, o gli alveari, si ignora un aspetto fondamentale che viene solo accennato da Johnson, quello della “volizione”.<br />
Com’è possibile far collassare strutture osservate in configurazioni che vedono all’origine membri o elementi fondamentalmente “stupidi” su un processo di auto-organizzazione umana? Sembra si voglia scartare del tutto l’aspetto che ci rende non semplici “oggetti senzienti”<sup>[[#Note|69]]</sup>, ma esseri umani capaci di pensiero e soprattutto di relazioni storicamente situate. L’aspetto della relazione e delle aspettative di appartenenza ad una comunità vengono sostanzialmente ignorate dall’approccio emergente, pur nell’interessante lettura che dà dei fenomeni di auto-organizzazione.<br />
Ciononostante è sicuramente indispensabile dare spazio all’evoluzione e all’ampliamento di tale campo di studi, che si trova senza dubbio in una fase di sviluppo ancora originaria, per lo meno all’interno della branca delle scienze umanistiche.
 
==Note==
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42: Così come citato in Berra-Meo 2001, p.171<br/>
43: Cfr. ibidem, pp.168-174<br/>
44: Cfr. Perens 1997
45: Cfr. Revolution OS, ibidem
46: Il termine è usato in senso tecnico, inteso come “casa distributrice”: ad esempio, la RedHat per Linux.
47: Cfr. Perens, ibidem
48: Famosa industria di software e in particolare di browser per la navigazione in Internet
49: Discorso di Raymond, rintracciabile in Revolution OS
50: Cfr. Hobbes 2001
51: Cfr. Rousseau 1996
52: Cfr. Raymond, ibidem
53: Cfr. Rheingold, ibidem
54: Si tratta di una versione aggiornata del software.
55: Cfr. Raymond, ibidem
56: Cfr. ibidem
57: Ci si riferisce a: Colonizzare la noosfera, La Cattedrale e il Bazar e Il calderone Magico, disponibili all’indirizzo web: www.apogeonline.com/openpress
58: I riferimenti sono, in questo paragrafo, direttamente ripresi da Il calderone magico di E. S. Raymond, 1999.
59: Cfr. Berra-Meo, ibidem
60: Cfr. Raymond 1998, Colonizzare la noosfera, paragrafo conclusivo.
61: Cfr. paragrafo 2.3.2
62: Riferimento ad una macroarea biologica che riconosce il “complesso” in una serie di comportamenti che, rispondendo a logiche locali, finiscono per creare un insieme omogeneo con comportamento riconoscibile come prodotto di tale “tutto”.
63: D’ora innanzi, per tutto il capitolo, si userà il termine “complessità” e l’aggettivo derivato nel senso esplicato nella nota precedente.
64: Si veda a proposito Kelly 1994 e Johnson 2001 che hanno abbondantemente trattato lo studio etologico dei formicai.
65: Cfr. Barabási 2004, ed. or. 2002
66: Ibidem, viene fatto il riferimento alla ricerca di un lavoro: come appare a livello empirico, spesso è più utile seguire un legame debole che però potrebbe a sua volta avere un collegamento utile per il mio scopo, che un legame forte dettato da affetto e tradizione.
67: Cfr. Johnson, ibidem
68: Cfr. Kelly, ibidem
69: Cfr. Rheingold 2002