I Viceré/Parte seconda/1: differenze tra le versioni

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Quando in città si seppe che il conte Raimondo era piovuto da Firenze in casa Uzeda, ospite inatteso, solo, senza bagagli, con una sacca nella quale aveva ficcato appena la poca biancheria occorrente in viaggio, fu un sussurro generale, uno scambio di commenti, di supposizioni, di domande curiose ed insistenti come per un grave avvenimento pubblico. La prima notizia corsa di bocca in bocca diceva che il contino aveva abbandonato la moglie per separarsene definitivamente. I bene informati sapevano che donna Isabella Fersa, da Palermo, se n'era andata a Firenze, dopo la rivoluzione. Questo solo fatto non bastava a spiegar tante cose? Era dubbio soltanto se l'amica avesse raggiunto il contino di sua propria iniziativa o d'accordo con lui. Dicevano alcuni che ella era andata nel continente per divertirsi, senza pensare più all'Uzeda; ma perché sceglier proprio la città dov'egli stava? Lei come lei aveva oramai ben poco da perdere. Poteva forse sperare d'essere ripresa dal marito, dopo due anni di separazione? Vivendo la suocera, non era possibile; don Mario poteva commettere la debolezza di perdonare, tanto più che voleva ancora bene alla moglie e la piangeva giorno e notte peggio che se fosse morta; ma la madre vegliava per lui. Donna Isabella, dunque, non arrischiava più nulla, anzi, non potendo resistere alle tentazioni, così giovane com'era, piuttosto che procurarsi nuovi amici le conveniva tornare col primo: l'unico errore le sarebbe stato così più facilmente rimesso... Ma per Raimondo la cosa era diversa. C'erano i figli di mezzo, due innocenti creature!... E la buona gente compiangeva la contessa, così mite, così dolce, così devota al marito e condannata intanto - che cosa è il mondo! - ad una vita d'angustie.
La servitù, al palazzo Francalanza, non discorreva d'altro, dimenticava perfino il fidanzamento di Benedetto Giulente con la signorina Lucrezia. Quest'avvenimento, benché previsto e discusso da tanto tempo, aveva già provocato un risveglio dei partiti in cui i famigliari del principe eran divisi; e mentre Giuseppe, il portinaio, si scappellava inchinandosi all'arrivo del fidanzato come se rincasasse il padrone in carne ed ossa, Pasqualino Riso non si toccava neppure il berretto, da sotto l'arco del secondo cortile dove stava a prendere il sole, e a mala pena degnavasi d'abbassar la pipa e di voltarsi di fianco se gli veniva di tirare uno scaracchio. Solo Baldassarre serbava la sua bella imparzialità, badando esclusivamente al servizio e trattando il promesso della signorina come lo vedeva trattato dal principe: con grande compitezza ma senza confidenza. "I padroni sono padroni," diceva il maestro di casa; e se udiva il basso servitorame discutere con troppo calore della scelta della padroncina, rimandava i famigli alla stalla e gli sguatteri in cucina. "È forse tua sorella, animale?" Che cosa avevano essi da vedere se donna Ferdinanda e don Blasco, sempre d'accordo quantunque non si potessero tollerare, non venivano più al palazzo, disapprovando il matrimonio? Faceva veramente un certo effetto anche a lui, Baldassarre, che una degli Uzeda dovesse sposare un avvocato: ma il giovanotto aveva studiato per suo piacere, non già per esercitare la professione. E quantunque non fosse della costola d'Adamo, pure aveva l'educazione dei signori, dava dell'Eccellenza al padre e alla madre; quand'era entrato in casa della promessa aveva regalato alla servitù quel che si deve. Forse i suoi parenti non erano molto fini; ma gli sposi non dovevano fare tutta una casa con loro. Per tutte queste ragioni, Baldassarre non poteva permettere che i suoi dipendenti cicalassero; ma le chiacchiere non finivano mai, e soltanto l'arrivo del contino le avviò sopra un altro soggetto. Che il padroncino Raimondo non fosse venuto per affari, come certuni volevano dare a intendere, era certo e sicuro agli occhi della servitù: se fosse venuto per affari avrebbe portato almeno una valigia, non già quella sacca con due camicie e due paia di calze e di mutande; né avrebbe avuto quella brutta ciera, lui che era sempre di buon umore, lontano dalla moglie! Gli affari, se mai, li aveva col principe suo fratello, e invece se ne andava tutti i giorni dalla zia donna Ferdinanda, quella che era servita di coperchio, nei primi tempi dell'amicizia con la Fersa. E donna Ferdinanda diceva chiaro a tutti la sua opinione: allo stato delle cose, attesa l'incompatibilità dei caratteri tra marito e moglie, non c'era da far altro che separarsi, da buoni amici: mettere le ragazze in collegio, maritarle al più presto, e del rimanente ciascuno per la sua vita.
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Intanto il duca, giù nell'amministrazione, riceveva i delegati dei sodalizi e una gran quantità di elettori influenti e una vera processione d'ammiratori di ogni condizione che venivano a fargli atto di omaggio. La stessa scena della sera prima, ma più grandiosa; a poco a poco tutta la città sfilava dinanzi al deputato; per due persone che andavano via, quattro ne sopravvenivano; e non essendoci più posto da sedere, tutti restavano in piedi, coi cappelli in mano, aspettando i saluti che il duca veniva distribuendo in giro. Alcuni oratori improvvisati, persone che egli non conosceva neppure, parlavano a nome dei compagni, affermavano in risposta alle sue espressioni di modestia che il paese non avrebbe mai dimenticato ciò che doveva al signor duca. Tutti gli altri, a bocca aperta, badavano a raccogliere religiosamente le parole dell'Onorevole; il quale, cessati i complimenti, ragionava della cosa pubblica, prometteva la Venezia, aveva Roma in tasca, assicurava insieme col politico il risorgimento morale, agricolo, industriale e commerciale del paese. "Questo era il programma di Cavour. Che testa! Ragionava della Sicilia come se ci fosse nato; sapeva il prezzo dei nostri frumenti e dei nostri zolfi meglio di un sensale di piazza..." Il governo gli aveva promesso una quantità di provvedimenti per l'isola, giacché bisognava pensare a tutto: dall'educazione della gioventù al lavoro per gli operai. A poco alla volta, con la concordia e la pace, la prosperità pubblica e privata sarebbe stata raggiunta. Egli la faceva quasi toccar con mano, e le persone venute per sapere che ne era delle loro domande d'un posticino, o d'un sussidio, o d'una pensione, andavano via portandolo alle stelle come se avesse colmato loro le tasche, spargendo per la città la nuova della riconciliazione avvenuta tra il conte e sua moglie: opera e merito del duca, il quale aveva fatto il sacrificio di lasciar la capitale in un momento come quello per indurre il nipote alla ragione. Non s'udivano se non esclamazioni di lode all'indirizzo del deputato; dal cortile del palazzo al Gabinetto di lettura, tutti ad una voce giudicavano che in questa occasione egli aveva fatto opera buona e doverosa; solamente don Blasco, nella farmacia borbonica, gridava come un ossesso:
"Ah, gli credete?... Perché credete che l'ha fatto? Per dar soddisfazione alla canaglia! Perché si dica che difende la morale!... E per un'altra ragione ancora...per ingraziarsi quell'altro cialtrone amico dei mangiapolenta!... Il sonatore dei miei sonagli!... Il barone con sette paia di effe..."
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