Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo VIII: differenze tra le versioni

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Senza dubbio maggiore stima è dovuta, nel regno della scienza legale, a i trattatisti, siccome gente non venale, e che per lo più con amore alla verità e giustizia sogliono trattare qualunque quistione, che appartenga al loro argomento, ed onoratamente schierarsi da quella banda, dove più credono trovarsi la ragione. Ne si credesse già, che impresa mirabile fosse il comporre uno di questi libri. Basta raccogliere quanto han detto tanti altri con varie o contrarie opinioni, e aderire ora ad una, ed ora ad un’altra: ed ecco in piedi l’edilizio. Il che dico io senza intenzion di pregiudicare ad alcuni eccellenti giurisconsulti, che con gran pesatezza di ragioni e fondamenti legali han compilato i loro trattati. Maggiore rispetto ancora esigono e meritano le decisioni nelle cause particolari, massimamente le provenienti da i più riguardevoli corpi collegiali. Ma per le ragioni altrove accennate, cioè per le contrarietà ed istabilità delle opinioni, che da i consulenti e ripetenti son passate ne i trattati, e nelle decisioni stesse, seguita tuttavia la confusione, trovando ogni avvocato in quella gran copia di libri, di che fortificar le pretensioni de’ suoi clienti. Il peggio è, che siam giunti a mirare, farsi più conto di queste decisioni, e de’ pareri de’ moderni dottori, che delle leggi stesse; e di questo abuso fece menzione fino a’ suoi tempi il Rubeo Alessandrino nel Consiglio II, n. 24. Fate, che la legge sia espressamente favorevole al caso sostenuto dall’uno de’ campioni: allora egli sfodera la conclusione tenuta da Baldo nel Consiglio 459, lib. V, da Rolando dalla Valle nel Consiglio 99, n. 47, lib. 2, dal Cravetta, dall’Ancarano, e da altri. Cioè, che « la legge, benchè apparisca dura e rigorosa, pure si ha da osservare, nè convien più disputare, nè interpretarla ». Ma chi combatte per l’altra parte, salta in campo con opposta conclusione, sostenendo, che tocca alla prudenza lo spiegar le leggi nel più convenevol modo, e « che in dubbio (e questo dubbio si fa nascere tosto) sempre s’hanno esse da interpretare nel senso più benigno », come c’insegna il Bellamera nel Consiglio IX, n. 3 e « che la legge parlante in generale si può ristrignere », come decretò il Socino nella Reg. 284, con addurre cinquantacinque limitazioni. Così coll’interpretazione, coll’equità, e coll’epicheia si tira la legge dove si desidera, giacchè ad ogni dottore è permesso d’interpretarla, nè manca mai chi precedentemente ha tenuta l’opinion che si vuole. Perciò ebbe a dire il Cardinal de Luca, de Conflict. Legis. e Ration. Observ. IX: « Ubi namque lex expressa habetur, quæ generaliter ac precise aliquid mandet: tunc intrat quæstio, an ratio potius, quam litera, vel e converso litera potius, quam ratio attendi debeat ». E conseguentemente vuole, che più si stia alla ragione, intorno a cui è più largo il campo di disputare, che alla lettera, la qual forse sarà chiara. Vien egli poi dicendo nel Proemio al Dottor Volgare, cap. VII, « che contro la chiara ed espressa determinazion della legge, non si dà facoltà a i dottori di fermare il contrario»; ma con aggiugnere: « se non quanto così porti l’uso diverso, il quale abbia tolto la forza alla legge, sicché bisogni ricorrere alle opinioni ed interpretazioni de i dottori », la superiore intelligenza e sapienza de’ quali ha goduto e gode il privilegio di annientar le leggi vecchie, e farne delle nuove, con quella ragione, « che l’autorità delle leggi civili nasce più dal consenso e dall’uso de’ popoli, che dalla precisa ed obbligatoria podestà dell’antico imperio romano ». Il che vuol dire in buona forma: che in tanto han da valere le leggi di Giustiniano, in quanto sieno approvate da i sapientissimi nostri legisti: altrimenti si dee stare a quel che essi vanno determinando in una maniera per un secolo, e in un’altra nel susseguente. Vero è, che i principi e le città hanno determinato, doversi eseguire ciò che è prescritto ne gli Statuti particolari, e nel resto si abbia da seguitare il Gius comune, cioè le leggi di Giustiniano. Non importa: l’ordine loro si dee intendere, come dicono, cum grano salis, cioè che il Gius comune ha da prendere norma da i nostri dottori, a’ quali si dà, nel conferir loro la laurea, la facoltà d’interpretare, come più lor torna in acconcio, le leggi d’esso Augusto, di cui s’ha da tenere per fermo, ch’essi sanno la mente precisa; e quand’anche se ne dubitasse, certamente, come s’ha dal suddetto de Luca, « in caso dubbio si dee sempre abbracciare quell’interpretazione o opinione, che più si adatti alla ragione naturale, e all’uso comune mentre la ragione si dice anima della legge, e il legislatore si dee supporre una persona molto savia e ragionevole ».
 
Io non son qui per riprovare alcuna di queste asserzioni del de Luca, nè l’altre di sopra accennate, perchè in fatti si truovano leggi bisognose di moderazione, o sia limitazione in certi casi particolari, e suggette a varie interpretazioni per la loro oscurità. Suppongasi per esempio, che un Dottore di leggi abbia indotta una vedova a dargli mille scudi a titolo di buona mercatanzia, con obbligarsi egli di pagarle il frutto annuo del cinque o sei per cento, come si usa nel paese; e che dopo aver egli fatta polizza, e pagati per più anni i frutti, venendo pressato alla restituzion del capitale, egli pretenda che i frutti pagati s’abbiano da imputar nella vera sorte. Perciocchè i dottori non si presumono mercatanti, questa sarà un’usura palliata, e però condannabile anche nel Foro civile. A questo proposito citeranno canoni e dottori senza fine; e probabilmente non si potrà impedire la sentenza in favore del laureato debitore. Ma potrebbe anche darsi, che i giudici, attese le circostanze del fatto, giudicassero secondo l’equità in caso tale, e con più mite interpretazione spiegassero i canoni. E quando pur credessero di dover sentenziare contro la vedova, giusto sarebbe, che dipoi processassero il dottore, e il condennassero in pena pecuniaria, con cui rifacessero il danno patito dalla creditrice. E ciò a cagion dell’inganno patente, commesso qui in pregiudizio d’una povera ed ignorante vedova. Sa egli, o dee sapere, come addottorato in utroque jure, che danaro contante non rende frutto; sa di non essere mercatante; non gli è ignoto, che quella povera donna vive colle rendite di quel capitale, e non sarebbe mancato, chi avesse preso quel danaro a censo, o a vera mercatura; e pure promette il frutto: chi può scusarlo da inganno? Un cadà turco su due piedi fulminerebbe la sentenza contra di costui; ora che dovrà fare un giudice cristiano, il quale più de’ turchi ha da intendere i primi principj dell’equità? Non si può dunque negare, che le leggi a cagion delle circostanze ammettono restrizioni ed eccezioni. Solamente dovrebbe osservarsi, che sì fatte limitazioni fossero assistite da altre leggi o divine o umane, come si potrebbe far vedere anche nel suddetto supposto caso. Altrimenti a troppo gravi pericoli rimane esposta la misera giustizia. Perchè posto che sia in balia de’ nostri dottori l’interpretare e spiegare, come lor torna più in conto, le leggi; e dire, che questa o quella legge, benchè contenga un ordine o divieto assai chiaro, pure non ha da correre in questo o in quel caso, con far delle eccezioni a misura dell’intendimento e desiderio de’ causidici: un fiero squarcio si farà alle leggi stesse (anzi questo è già seguito) nè più presso i legislatori, ma presso i dottori, starà l’autorità di ordinare, che si faccia, o non si faccia un’infinità di cose. E similmente sarà in mano de’ giudici il favorir chi vogliono nelle liti. Imperocchè se lor parerà di star forti nel tenor della legge, e giudicare in fa vor di chi l’allega, già s’è detto, che dottori assaissimi asseriscono, doversi eseguir la legge, ancorchè apparisca dura e rigorosa; ed altri di non minor numero tengono, che dove la legge non distingue, nè pur noi dobbiamo distinguere. All’incontro se gli piacerà di adempiere le brame dell’altra parte, troverà una frotta d’altri dottori, affermanti, che s’ha da limitar quella legge, nè aver essa luogo nel presente caso, non mancando mai pretesti d’equità e di miglior ragione. Ma se è così, sempre più si vien a conoscere, che capogirli sovrastino alla giustizia messa in mano degli uomini, da che chi tanto loda ed allega le leggi, si riserba la libertà di ubbidire alle medesime, se piacciano, e di non attenderle, se dispiacciano. Poichè quanto al dire, doversi abbracciar quell’interpretazione ed opinione, che più si adatta alla ragion naturale, e all’uso comune: la sperienza ci fa conoscere, essere la ragion naturale un bel nome, che si torce in varie maniere; e se voi dimandate a due avvocati contrarj, e a due giudici di contraria opinione, ognun d’essi sosterrà, stare la ragion naturale dal canto suo. E per quel che sia dell’uso comune, se si vuol dire di una consuetudine, che abbia tolto il rigore ad una legge, niuno suole in tal caso litigare: perchè la consuetudine allora entra in luogo di legge. Ma ordinariamente le liti procedono per casi dubbiosi, per gli quali pro e contra stanno dottori e sentenze di varj tribunali. E però si riduce per lo più l’aver torto o ragione all’intelligenza de’ giudici, i quali è da pregar Dio, che abbiano mente diritta, maturo giudizio, ed esenzione da ogni segreto, non che da un palese vento d’affezione.<ref>« {{AutoreCitato|Marco Tullio Cicerone|Cicerone}} e {{AutoreCitato|Valerio Massimo|Valerio Massimo}} raccontano, che Marco Antonio, celebre Avvocato romano, non volle mai pubblicare alcuna delle sue Orazioni, per non essere convinto d’aver oggi approvato ciò che dianzi egli avea riprovato. Si delicati non sono i nostri avvocati, e talvolta nè pure i Tribunali stessi ».</ref>
 
Poichè per altro per quel che riguarda le decisioni, le quali pur son tenute da alcuni per quintessenze le meglio lambiccate d’Astrea, ancorchè le più d’esse possiam presumere, che contengano retto giudizio, pure non son da credere tutte del medesimo peso, e ve n’ha di quelle, che contengono chiara ingiustizia. Non credo ardito il mio parlare, da che il sopra citato Cardinale de Luca, a cui pochi vanno innanzi nella conoscenza della scienza e >pratica legale, così lasciò scritto nel suo trattato Dello stile legale, cap. XVII: « Possono star bene insieme, che si giudichi male, e che la giustizia sia mal amministrata, e nondimeno che con un buon metodo, e con un dotto ed elegantissimo, e ben regolato stile si coonestino le fallacie, e si ornino con molte conclusioni, ed autorità, e ragioni. Non dandosi oggi in questa facoltà legale per la gran copia e varietà de gli scrittori cosa più facile, che il colorire e coonestar con dottrine e con regole generali ogni risoluzione per ingiusta e per iniqua che sia ». Chi non fosse peranche convinto delle miserie della giurisprudenza, badi di grazia alle buone pennellate di questo insigne giurisconsulto. E a ciò si aggiungano le parole del Deciano nell’Apologia contro l’Alciato, cap. 19, n. 4, dove confessa, che « communis est hic casus, ut sæpe non solum contra maximæ auctoritatis virorum sententias judicetur, sed etiam contra ipsam veritatem, vel errore, et ignorantia, vel sordibus, vel gratia, vel aliis de caussis, quæ solent pervertere sanum judicium, non enim judices nostri principum auctoritate coguntur sequi responsa prudentum, ut antiqui, nisi ex statutorum municipalium dispositione id cautum sit. Nil mirum ergo, si judices, qui sæpius sunt imperiti, contra prudentum opiniones judicant, gloriolam quamdam etiam aucupantes, quod nulla moti prudentum auctoritate contra eorum opiniones judicaverint, quasi melius ipsi juris et justitiæ medullam gustaverint, quam prudentes, qui de jure responderunt, et ætatem suam in his studiis consumserunt ». Ma anche i giudici dal canto loro potrebbono rispondere al Deciano: Se voi altri signori dottori, o pubblici lettori di leggi, o avvocati consulenti, i quali vi attribuite il bel titolo di prudenti, quei siete stati, e siete, che avete introdotto con tante contrarie opinioni una specie di pirronismo nella giurisprudenza: perchè vi lagnate de’ giudici, se ora seguitano un’opinione, ed ora un’altra? Perciocchè non sussiste il dire, che noi giudichiamo contro le opinioni de’ prudenti, non essendoci alcuna delle sentenze nostre, che non sia fortificata dall’asserzione di più d’uno de’ vostri prudenti. Di voi dunque lagnatevi, che o per vaghezza di fare i begl’ingegni, o per servire al bisogno de’ clienti, e nello stesso tempo a quello delle borse vostre, avete fatto nascere, e messe in voga tante diverse e contrarie conclusioni legali, che han corrotto quasi quel tutto di sano, che restava all’infelice giurisprudenza. Nè si credesse già alcuno, che solamente a gli ultimi secoli nostri si avesse da attribuire il genio battagliere de gl’interpreti delle leggi, e de i fabbricatori delle risposte de i prudenti (che così piace ad alcuni di nominare, cioè d’incensare i consulenti d’oggidì, quasiche lo stesso fossero responsa prudentum degli antichi romani, e le consultazioni o sia le allegazioni de’ nostri legisti) dal qual malore è proceduta la fiera discordia, che troviamo per tante contrarie opinioni nello studio legale. Non altrimenti passò la bisogna anche ne gli antichi secoli, allorchè fiorirono que’ si rinomati giurisconsulti, che ne’ digesti fan sì bella figura. Imperocchè contra di Salvio Giuliano scrisse Marcella; e Giuliano contra di Paolo; e Paolo contra di Papiniano e di Labeone; e Giaboleno e Paolo contra di Marcello; e Marciano contro Scevola; e Scevola contro Pomponio; e Celso contra di Labeone, per tacere di tanti altri. E non è già da stupirsene per quella ragione, che accennai al cap. VI, cioè perchè non sappiamo i confini del giusto e dell’ingiusto, e varie son le teste e le idee de’ mortali: disgrazia, che si troverà sempre nella giurisprudenza: ne compete a lei sola, perchè si stende a varie altre scienze ed arti, aventi molto di certo, ma vie più d’incerto, verisimile e probabile, e non poco ancora di falso. Sarebbe più da maravigliarsi al vedere, che uno stesso uomo in questa si decantata professione discorda da se medesimo: il che accadde fino al celebratissimo Papiniano, compilator delle leggi di Giustiniano, come apparisce dalle l. si venditor § ult. ff. de seruis exportan. e a Scevola nella l. qui bona fide § si quis bona ff. de acquir. rer. domin. Contrarietà sì fatte di opinioni si possono osservare anche ne’ consulenti degli ultimi secoli, e sopra tutto è da osservare, che Bartolomeo da Saliceto, giurisconsulto di gran nome, pubblicò due consigli contrarj nella medesima causa. So ancora, che grande strepito faceva un dì nel contradittorio uno de’ nostri dottori, pretendendo chiamati ad un fideicommisso masculino anche i maschi delle femmine con citare ed esaltare l’allegazione 221 del Palma juniore nella famosa causa del Buffalo. Lasciollo ben dimenare il dottore avversario, ed eccoti ch’egli sfodera un’allegazion posteriore del medesimo Palma nella causa Farina, pubblicata nella raccolta da lui fatta delle decisioni di varj auditori alla decis. 212, in cui sostiene tutto il contrario, disdicendo quanto dianzi egli avea scritto su questo punto. Colpito da questa impensata archibugiata il contrario laureato, perdè la voce, e poco mancò, che non perdesse anche la pazienza, con fare una scappata di bile contra de’ maestri di legge, i quali sanno ben iscusare le loro metamorfosi colla ragione di aver meglio esaminata e trovata più felicemente la verità nel caso posteriore, ma senza poter levar di testa a più d’uno, ch’essi nello stendere i consulti mirino più al proprio profitto, che a raggiugnere il vero. Il che, torno a dire, sia detto, non già per iscreditar tutti i consulenti, e molto meno per giudicar inutile e biasimevole l’uso de’ consigli e delle allegazioni de i legisti: che anzi tengo per necessario questo rito; ma bensì per desiderare, che tutti i consulenti sieno quali li vorrebbe Deciano nel trattare del loro ufizio, e che ogni giurisconsulto avesse quella qualità ed abilità, che in essi richiede D. Francesco Rapolla, pubblico lettore nell’università di Napoli, nel suo bel trattato De Jurisconsulto.