Elogio del principe Raimondo Montecuccoli: differenze tra le versioni

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ELOGIO DEL PRINCIPE RAIMONDO MONTECUCCOLI

DEL CONTE AGOSTINO PARADISI REGGIANO PRESIDENTE DELLA FACOLTÀ FILOSOFICA E PROFESSORE DI ECONOMIA CIVILE NELLA UNIVERSITÀ DI MODENA RECITATO NEL SOLENNE APRIMENTO DELLE SCUOLE DELLA MEDESIMA UNIVERSITÀ IL GIORNO 25 NOVEMBRE DELL’ANNO 1775

L’Editore a chi legge    Questo Elogio doveasi per buone ragioni tener celato alcun tempo. Il Pubblico giustamente  prevenuto pel merito singolare così dell’immortale Condottiero d’eserciti qui encomiato, come del  chiarissimo Oratore encomiante desiderò, appena fu recitato a scelta numerosissima udienza, di  averlo sotto degli occhi per contemplare e gustar meglio i pregj dell’uno e dell’altro. Crebbe il  desiderio al giudizio autorevolmente pubblicato poco dappoi, che “per la disposizione de’ fatti, per  l’economia, e dignità dello stile, per gli squarci della più sublime e maschia eloquenza, e infine per  tutto ciò che costituisce un maturo Filosofo, e un perfetto Oratore era l’inaugurale discorso riuscito  corrispondente alla comune espettazione, degno dell’argomento, e superiore a qualunque encomio”.  Quindi commossi, e quasi provocati i Signori Conte Francesco Caprara, e Marchese Giuseppe  fratelli Montecuccoli, riconoscenti alla memoria sempre a lor cara e preziosa di tanto Antenato, e  pieni di stima pel celebre Oratore, non si poterono dispensare dall’adoprarsi, perché, tolto ogni  indugio, se ne affrettasse la stampa. L’Autore poi, cui non è meno naturale l’eloquenza, che la  gentilezza, nell’atto di cedere alle loro richieste il suo manoscritto si compiacque accompagnarlo di  un nuovo ornamento, corredandolo di opportune annotazioni a maggiore risalto dell’argomento, a  decoro maggiore dell’insigne Capitano, e del suo illustre Casato: esse contraddistinguono insieme la  vasta erudizione, e la sana giudiziosa critica del valente Professore.  Di tanto io doveva avvisarti, e vivi felice.   Elogio di Raimondo Montecuccoli   Le lodi degli Uomini illustri e preclari non meno si debbono reputare un tributo di pietà e di  riconoscenza verso coloro, da’ quali venne l’uman genere decorato e beneficato, che un argomento  di generosa emulazione, istituito ad eccitare ne’ viventi per la ricordanza de’ trapassati quella virtù,  che molto meglio per gli esempi si scuote, che per gl’insegnamenti. E se la virtù, qualunque ella sia,  di qualunque età, di qualunque nazione, ha diritto di essere ammirata sempre, ed imitata; par  nondimeno che ella prenda un maggior grado di forza e di energia, quando più da vicino ne  appartiene, sia per ereditaria ragione di famiglia, sia per pubblico titolo e comune di patria1.  Utilissimo fu adunque il provedimento decretato a quest’annua celebrità de’ nostri Studj, di  reiterarsi con solenne Encomio, la memoria e le geste degli Uomini insigni, che qui fiorirono; e la  sapienza del consiglio venne ancor più commendata dalla opportunità del luogo, che è Modena, di  cospicui Cittadini fra le italiche Città doviziosissima, e dalla opportunità del tempo, che è il Regno  di Francesco III2 al quale le antiche lodi di queste Provincie non son men care, perché quelle del  felicissimo suo secolo pur le abbiano vinte e trapassate. Il cui genio magnanimo, sollecito al pari di  richiamare tra noi l’antica virtù militare, e la letteraria, si compiacerà certamente della immagine di  un chiarissimo vostro Cittadino, nel quale in eccellente grado convennero il valore e la scienza, i  pregj della penna e della spada, Raimondo Montecuccoli3. Io non oratore, e della milizia imperito,  diffidandomi di aggiugnere e a quella sublimità di stile, che le lodi di tando Uomo richieggono, e a  quella profondità di dottrina, che la materia desidera; vi supplico, Ascoltatori, non imputarmi a  biasimo, se in questa Cattedra serbata alla più squisita erudizione, e alla più adorna e splendida  eloquenza, verrà per me sostituita la ingenua e nuda verità. La verità, della quale io vi prometto  fedelmente servare le tracce, la verità vi parrà in sé stessa così grande ed elegante, che non mi  saprete malgrado, se io degli esterni, e non suoi fregj non l’avrò rabbellita; e la grand’Anima del  Montecuccoli non isdegnerà forse l’umil suo lodatore, se, come lui, di ogni artifizio nimico, lo  rappresenti con quella semplicità stessa, colla quale ei visse, e colla quale ei narrò modestamente le  sue vittorie.  Raimondo Montecuccoli4, Principe del S. R. I., Signore di Hoen-Eg, Gleiss, ed Handorf,  Consigliere privato di S. M. Cesarea, Cavaliere del Toson d’Oro, Presidente al Consiglio di Guerra,  Camerlengo, Luogotenente-Generale, Generale di Artiglieria, e Governatore di Raab, nacque l’anno    
di nostra salute MDCVIII in Montecuccolo, Castello di sua Famiglia, ed ebbe in Genitori Galeotto  Montecuccoli, e la Dama Ferrarese Anna Bigi.  Una Famiglia da sei secoli chiara e poderosa nella Provincia Modenese: l’aspetto delle Rocche  minacciose sopra i più ardui gioghi dell’Appennino: le Sale guernite d’armi, non per inutile  apparato di dignità, ma per necessaria guardia e difesa contra le insidie ognora preste e veglianti: le  stesse armi vittoriose, quando a soccorso della Repubblica Modenese, quando a servigio de’ Signori  Estensi ne’ tempi gravi e difficili: la memoria degli antichi meriti perpetuata nelle magnifiche  ricompense degli onori e de’ privilegj: la lode presente di un Padre chiarissimo per la virtù militare,  di due Zii, l’uno egregio Capitano, l’altro sublime Politico; tali furono gli oggetti che a Raimondo  ancor fanciulletto si offerivano: tali gli eccitamenti che suscitarono in lui l’amor della gloria colla  prima luce della ragione: tali le scintille, che scossero in lui ancor tenero quel genio magnanimo,  che nella maturità tutta doveva empiere di terrore e di stupore la Europa, rassicurare i Monarchi su i  lor Troni, e preservare Cristianità dal giogo degli Infedeli5.  Raimondo, corse le migliori Scuole d’Italia6 con somma lode d’ingegno e di diligenza, non differì  di condursi alle bandiere di Cesare, dove lo affrettavano e la militar Gloria, ed Ernesto suo Zio7.  Quell’Ernesto Montecuccoli, che frenò gli Svedesi, quando il vittorioso lor impeto minacciava di  eterno giogo l’Allemagna, e l’Imperio, che mise all’estremo di lor salute gli Ollandesi non debellati  da un Farnese, da uno Spinola, e condotti da un Maurizio: quell’Ernesto che avrebbe nella Italia  onor pubblico di monumenti e di simulacri, se la Italia, soverchiamente ammiratrice delle lodi  straniere, non fosse delle proprie spesso ignara, e sempre negligente.  La virtù non consentendo a Raimondo, che ei si obbligasse di alcun benefizio alla fortuna,  facilmente lo persuase ad incominciare la sua carriera dagl’infimi gradi8 semplice ed ordinario  Soldato, discepolo di Ernesto, e nella sublime Scuola delle guerre di Fiandra. Ivi gli Spagnuoli, e i  lor Confederati, trattavano colle arme la causa della Religione, e gli Ollandesi quella della libertà;  forti quelli per la fermezza delle loro Fanterie, per l’abitudine di vincere, per la copia de’ Veterani;  questi animosi della stessa lor povertà, pieni di quell’orrore della servitù, che tanto è forte nelle  nascenti Repubbliche, invincibili nell’asilo delle native loro paludi, e spertissimi in tutte quelle arti  di guerreggiare, che riparano colla sagacità, dove la forza non corrisponde. Ivi si eran dati il  convegno quanti aveva la Europa di valorosi Soldati, e di maturi Capitani: le frequenti Fortezze  tardavano ad ogni passo con lunghi assedj e travagliosi: le vaste pianure ed illimitate richiedevano  nelle Battaglie l’estremo del valore e della scienza, e le pianure stesse attraversate da’ larghi fiumi e  profondi mettevano spesso, ancor dopo le vittorie, indugj gravi e sanguinosi al progresso de’  vincitori9.  Che in così vario e vasto campo il giovinetto Raimondo meditasse in silenzio le parti sublimi della  guerra, non ne dubiterà chiunque ha cognizione de’ genj rari ed inusitati, de’ quali è proprio tutto  vedere, tutto investigare, e da’ minimi effetti estendere le conghietture fino alle supreme cagioni.  Ma per avventura non era ancor tempo ch’ei si manifestasse Capitano, quando la privata sua  condizione unicamente richiedeva ch’ei fosse valoroso.  Soldati, che di animo generosi, vi lagnate della oscurità vostra, persuasi che la fama, per quanto ne  siate meritevoli, non degnerà riguardarvi tra la plebe e la moltitudine, apprendete che un uom solo e  privato può talvolta essere di momento a tutti, e che talvolta, siccome si narrò di antichissimi Eroi,  può da un sol braccio pendere la somma delle cose, e la fortuna delle Nazioni. Osservate il  Montecuccoli all’assalto del Nuovo-Brandemburgo. Osservatelo10 primo a salire le infedeli scale, e  primo a porre il piede sul muro nimico: il ferro, il fuoco, e la disperazione de’ difensori lo  rispingono con tutti gli estremi sforzi della ferocia: la morte lo minaccia ad ogni passo, e ad ogni  passo gli convien reiterare nuova battaglia: ei nondimeno penetra vittorioso nella Città, ne acquista  le chiavi, per la porta dischiusa agevola l’ingresso agli assalitori, e la Città, che combatte al di fuori,  interiormente, non avveggendosi, si rimane vinta ed espugnata. Raimondo le conquistate chiavi  offre al Generale Tilli, e il vecchio Condottiero stupisce della impresa inopinatamente fornita;  stupisce di un valore, del quale non è forse l’esempio, se non si cerchi o tra le splendide favole de’  Poeti, o tra’ rimoti fasti de’ Greci e de’ Romani. Egli il vincitore, l’espugnatore di una Città addita    
a’ circostanti Capitani, essi all’Esercito: pari egualmente è in tutti il plauso e la meraviglia, e  l’universal plauso gli tien vece della corona murale e del trionfo.  Così per tempo si manifestò nell’Eroe Modonese quella virtù tutta propria e particolare degli  Uomini eccellenti, che moltiplica a misura degli ostacoli, e, quando nella opinione di tutti è spenta  la speranza, trova per non avvertiti modi la via della salute, e della vittoria. Di questo carattere  siccome furono tutte le posteriori imprese sue, così nemmen le prime ne erano dissimili, e la storia,  che tanto ebbe di che spaziare negli anni suoi provetti e maturi, non affatto dimenticò i freschi e  giovenili. E veramente non potevasi tacere, senza biasimo di colpevole negligenza, com’egli  all’assalto di cinque Città ebbe la miglior parte del merito, e come, resistendo all’Esercito Kaiser- Lautern forte luogo dell’Alsazia, ei tolse ogni difficoltà, conducendovi cinquecento Corazzieri  divenuti all’eccitamento ed esempio suo, ad onta della diversa milizia, e della grave armatura, fermi  Fanti ed espediti. Né la storia, che annovera fra le celebri giornate quella di Wistoch, può  dimenticare che, fidata al Montecuccoli la cura del Retroguardo, ei campò i fuggitivi da quella  irreparabile rovina, che loro minacciava l’insuperbito Nimico, incalzando con continua battaglia. E  il giovine Guerriero celebre nell’Esercito, presto il divenne a tutta la Europa, e presto ebbe fama di  Capitano, quando ancor tale non si intitolava di nome. E veramente niun Capitano fu mai sì grande,  che non se gli dovesse ascrivere a somma onorificenza tale impresa, siccome fu quella di Nemeslau,  città della Silesia, la quale assediata dagli Svedesi, e deliberata di cedere, dove temerario era il  contendere, venne da lui soccorsa opportunamente, non facendogli ostacolo gli occulti, ed  impraticati sentieri, non la enorme disparità delle forze, non la esperienza e il valore del rinomato  Torstedon11; e la Città fu libera, e il Nimico precipitosamente fugato, e la vittoria stessa nobilitata  dell’utile trofeo degli equipaggi, e della illustre preda delle artiglierie.  Ma il valore degli uomini ha una fatal misura dalla necessità e dalla forza, e Montecuccoli astretto a  combattere nuovamente cogli Svedesi, sopraffatto da troppo maggior numero, e inutilmente tentate  quante eran le vie di vincere o di morire, ebbe finalmente a rimanersi loro prigione12. Cattività felice  nondimeno, e degna di esser comparata a quella di Regolo, se all’estrinseco splendore di una  costanza orgogliosa vuolsi adeguare una modesta pazienza, che si giovò della servitù per agevolarsi  la via delle imprese e de’ trionfi. Le scienze consolatrici della sua solitudine e dell’esilio, lo  erudirono compiutamente di quanto gli rimaneva a sapere, perché ei fosse perfetto Capitano, e tale  egli uscì, meditando, della sua prigionia, qual già Lucullo della sua nave13. Euclide lo instruì della  Geometria, Tacito della Politica, Vitruvio della Architettura; le quali scienze celeremente percorse e  penetrate, gli avanzò tempo, tanta era in lui la misura di usarlo, perché ei si erudisse della Filosofia,  della Medicina, e della Giurisprudenza, ed anco ebbe valore di sollevarsi co’ Teologi nella  contemplazione della Divinità. Dotto di tante scienze, versato in tanti idiomi, per la dimistichezza  delle storie a tutte le età presente, e a tutti i fatti memorabili, secondo il suo secolo non inelegante  Poeta, non ignaro in qualunque genere di erudizione. Io non veggo qual titolo a lui manchi, perché  come non si dubitò di annoverarlo tra’ sommi Condottieri, così non se gli nieghi luogo tra i sommi  Letterati. Le quali cose tutte io non oserei narrare dinanzi una assemblea di Sapienti, che sanno  quanto di tempo e di sussidj richiegga una sola facoltà, e non oserei credere che in un uomo in tanti  negozj occupato, avesse potuto capire tanta e sì vasta dottrina, se l’aureo libro delle sue Memorie  non ne additasse i semi luminosamente, e se tutto dì non ne venisse ricordato quel Cesare, il quale  colla mano stessa che soggiogò Roma, stese i Commentarj, calcolò i periodi dell’anno, e prescrisse  le leggi della latina eleganza14 .  Libero di sua cattività, parve che la fortuna volesse riconciliarsi seco, offerendogli quella occasione,  della quale niun’altra poteva essergli più cara e desiderata, di servire util cittadino alla Patria, e al  Sovrano15. Consultate, o Modonesi, gli Annali vostri, ed essi vi ricorderanno la vicina Nonantola  stretta di assedio, e Modena minacciata: Francesco I, magnanimo Principe in lega con discordi  Confederati, che il lascian solo contra l’urto delle arme Pontificie: le sue genti piene di quel valore,  che loro spirava tal Sovrano, ma troppo disuguale al bisogno, e appena il terzo delle nimiche: le  nimiche forti per la copia, e non vili per la qualità: il paese libero ed aperto: gli animi insuperbiti de’  prosperi successi, e rialzati a grandi speranze dalle esortazioni di un Legato, che recava l’apparato    
sublime della Religione in mezzo la militar dignità delle artiglierie, e degli stendardi. Dalle rimote  Provincie della estrema Allemagna, e dalle bandiere di Cesare, per quella unica volta nobilmente  abbandonate, corse Raimondo al vostro pericolo, e le Estensi milizie a lui fidate, presero tosto il  cuore e la forza di grandi Eserciti. Bastò loro mostrar fronte, perché dall’assedio si desistesse, bastò  loro assalire, perché la battaglia incominciata colla spada si terminasse col disordine, e lo spavento  corresse co’ fuggitivi nelle vicine lor Terre, che si rassicuravano di rivederli vittoriosi. La quale  impresa siccome nelle eterne pagine della storia vien giustamente annoverata fra le illustri del  secolo, e della scienza militare; così, credo io, che quanti ha Modena egregj e leali cittadini, tutti in  cuor loro si dolgano di non vederla dalla patria gloria, e dalla patria gratitudine elevata in perpetuo e  cospicuo monumento, affinché meglio apprendano gli stranieri che alla Colonia Romana non  mancarono anime romane, e che il Panaro, egualmente che il Tebro, si nobilitò di un suo Manlio, di  un suo Camillo.  Se la fortuna, nimica di nostra Nazione da lungo tempo, non avesse disgiunto dal più prode de’  Principi16 il migliore de’ Condottieri, non è da dubitare, che le arme italiane non fossero tosto  ritornate all’antica eccellenza, e l’Estense famiglia all’antica grandezza. Ma l’Austria, lontano  Montecuccoli, non poteva riputarsi lungamente sicura, il perché dall’Italia, ove rapidamente venne,  e rapidamente vinse, con pari celerità si ricondusse nell’Allemagna.  Era l’Austria allor travagliata dalla implacabil nimicizia de’ Franzesi e degli Svedesi17, Nazioni  cupidissime di quella stessa Signoria, che fu per alcun tratto da lei sovra l’Imperio Germanico  esercitata. Poderosi i Franzesi per la natural forza del lor Reame, prodi per vivacità di sangue, e per  una certa dimestichezza di combattere, contratta nelle civili guerre, e favoriti da’ piccioli stati di  Allemagna per la invidia de’ Maggiori. Gli Svedesi conquistatori sotto Gustavo Adolfo, e freschi  ancora di quella nobilissima scuola, nati sotto militar costituzione, come i Romani, e, come i  Romani, agricoltori a vicenda e soldati, e tanto più certi di opprimere l’Imperio, quanto che per la  Pomerania vi erano domiciliati, e quanto che ne contenevano i Principi sotto il freno di una simulata  protezione. E quasi per gli accennati nimici non fossero abbastanza mal condotte le cose austriache,  si aggiugneva il terrore de’ Turchi, sempre sull’arme, e sempre, quando palesemente non  nuocevano, intenti ad assecondare la ribellione, che impunemente inalberava nella Ungheria il suo  stendardo fra le acclamazioni de’ Popoli, cui pareva esser liberi, quando si mutava titolo e nome  della loro soggezione.  Gli affari di Cesare per tante forze congiurate ridotti a miserabile stato e luttuoso, furono a  Raimondo confidati, a quell’unico forse tra gli uomini che fosse capace di riordinarli, e le prime  imprese ch’ei fece, non ismentirono la opinione che si era divulgata di lui18. Gli Svedesi, rotti in  battaglia frenati nella Franconia, nella Silesia, e nella Moravia, esclusi da tanti luoghi forti donde  signoreggiavano l’Allemagna, conobbero che l’arte loro era da miglior arte combattuta. Invano a’  Franzesi congiunti agli Svedesi riuscì di valicare il Reno e il Danubio, rompere l’Holtzapel in fiera  giornata e sanguinosa, e ridurre le speranze e le difese degli Austriaci alle reliquie di un esercito  fuggitivo. L’esercito fuggitivo implorò il genio di Raimondo, e il valore e la scienza sua tennero  vece delle schiere che mancavano alla necessità. Ella intratteneva l’Inimico di que’ lievi  combattimenti, che preservano il campo da’ grandi ed universali, riparava a’ luoghi angusti e  difficili, i quali, senza moltiplicar le arme, moltiplicano la forza e la difesa, riduceva in salvo le  Fanterie di continuo insidiate, e le ricoverava, dove, potendo non molestate aspettare i rinforzi, le  cose nella primitiva loro integrità si restituissero.  L’ozio che si godé per la pace, non fu riposo a colui, cui niuno istante di tempo correva vuoto ed  inutile, e di alcuna sua particolar lode non illustrato19. Vago di nuova erudizione, ei la procacciò da’  viaggi, i quali sono appunto scuola feconda di utili ammaestramenti, ed efficacissima a procacciare  quella pratica conoscenza degli uomini, dalla quale deriva la scienza di ben governarli. Trascorse, o  a meglio dire, misurò con occhio filosofico la Germania, sede di tanti Dominj, e maravigliosa  Repubblica di stati, che sussiste per la contraddizione medesima de’ suoi principj. Esaminò la  Fiandra Region militare, della quale, per così dire, ogni sasso è monumento di alcuna battaglia.  Vide la Ollanda, sede della libertà, e portento della industria, e del commercio; e finalmente    
approdò alla Svezia, alla patria di Gustavo e di Cristina: di quella immortal donna, che allora  conduceva sul trono di una bellicosa Nazione la pacifica sapienza, e che dipoi per amor della  sapienza e della verità, osò magnanimamente ricoverarsi nella tranquillità della vita privata.  Il desiderio di osservar nuove genti, e nuove cose, e la immensità della distanza non rattennero  Raimondo, che non ponesse ad effetto il pensier suo di rivedere la Patria, ed ei la rivide per l’ultima  volta20. Non vi sia grave, se io non vel rappresento invincibil giostratore nell’arena del Torneo, e  così degno della palma olimpica, come dell’alloro di Marte, e permettetemi che io tenga silenzio di  quella sua funesta vittoria, ch’ei detestò finché visse, e di quella fatal lancia, che scossa  dall’irresistibile impeto del suo braccio, ritornò a lui tinta del sangue di un amico. E nemmen vi sia  molesto, se volto ad oggetti lieti, io non ve lo addito21, quando Ambasciadore a’ Monarchi, ed  ammirato, siccome colui, nel quale si congiungeva alla fortezza di Achille la non men pregiata  facondia di Ulisse, e quando trascelto al supremo onore di condurre all’Imperial Talamo, e al Trono  della Polonia Spose Reali. E siami ancor concesso di tralasciare, come la fama del suo Nome, e  l’amabilità della sua Persona, furono ampiamente ricompensate dal possedimento di Margherita  Principessa22 di Diectristein sua sposa, fiore della Corte Cesarea, e inimitabil modello così della  somma bellezza, che della somma virtù. La gloria che non gli lasciò riposo, se non breve ed  interrotto, non consente che il lodator suo si allontani da quel teatro di Guerra, ch’ella nuovamente,  e con tanto strepito dal Settentrione gli dischiudeva.  Gli Svedesi non meritevoli di un Re Filosofo, ebbero, in vece di Cristina, Carlo Gustavo23 Principe  turbolento, della quiete nimico, perturbatore de’ vicini, ed avidissimo di dilatare i termini del suo  Reame, estimando men del dovere la equità, e forse più del giusto la propria potenza. Il perché colto  il tempo, che la Polonia era perturbata dalla ribellione de’ Cosacchi, e combattuta da’ Moscoviti, ei  non differì di volgersi sopra quel Reame, sperando, quando era messo in tumulto, non temeraria la  impresa di assalirlo, e non difficile di soggiogarlo. La Polonia, stato aristocratico, al quale i Nobili,  che fieramente vi presiedono, si proponevano per oggetto l’oppressione del Popolo, alla cui rovina  bastava un solo, e alla salute si richiedeva il raro consentimento di tutti, non avrebbe lungamente  combattuto per la sua libertà, se la pietà di Cesare non la soccorreva, non perché nell’ottimo suo Re  Casimiro non fosse animo e cuore, non perché alla Nazione mancassero Combattenti; ma non era  nel Re tanta autorità da contenere i Grandi nella osservanza de’ suoi Decreti, e nella fede alla Patria,  e non era nelle Milizie alcuna disciplina e alcun uso di obbedire all’Imperio di un solo Condottiero.  Ricorderanno i Polacchi, se la memoria de’ benefizj duri nelle Nazioni, e la invidia verso gli  stranieri più facilmente non la cancelli, come essi furono della loro salvezza principalmente al  Montecuccoli debitori; quando ei dapprima resse la Cavalleria, dipoi tutto l’Esercito, quando ei  ruppe e disfece il Transilvano Ragotzi congiunto a Gustavo, quando ei batté più volte per la  Campagna gli Svedesi, gli discacciò di Cracovia, gl’inseguì fino a Thorn, e privi di asilo e di  sussistenza, gli astrinse ad abbandonare e lasciar vacuo delle arme loro quel Regno, che poc’anzi  corso ed occupato, quasi tra le Provincie loro si annoverava.  Ma l’impeto di Carlo Gustavo rotto e respinto nella Polonia, inopinatamente si gittò sopra la  Danimarca, la quale non preparata, vide gli Svedesi correre vittoriosi ogni parte di lei, infino a che  la somma della guerra si ridusse intorno le mura della Capitale, unico ed estremo asilo di una  Nazione quasi debellata. Pareva giunto il momento che la Svezia vendicasse con perpetua servitù  l’antico giogo, che ella aveva portato degli odiati Danesi; pareva il tempo che la vasta Scandinavia  servisse ad un sol Re, e si adunasse in una sola Monarchia; pareva quasi che la Europa inorridita ne  presagisse da’ Goti più poderosi e men barbari quelle invasioni, delle quali dura tuttavia la memoria  in tanti magnifici vestigj di rovine e di devastazione.  Non era la Danimarca meno oppressa, e meno sbigottita, che la Italia dopo il fatal giorno di Canne,  e alla Danimarca non mancò Scipione, se lecito è di un medesimo nome intitolare due sommi  Capitani, ne’ quali fu tanta somiglianza della virtù, e delle imprese.  Raimondo avanti di procedere alla nuova guerra, trasse a collegarsi con Cesare quel Sovrano di  Brandemburgo, che la Posterità distinse col nome di Grande, né fu difficile ch’ei lo persuadesse con  parole, dove precorreva tanta persuasione di fatti. E aggiunta colla energia del suo genio nuova e    
inusitata celerità all’esercito, per lunghissimo cammino pervenne alla Danimarca non intempestivo.  I primi passi furon vittoriosi, e l’Isola d’Alsen, ponte quasi e tragitto alle Isole maggiori, e munita  del presidio di quattromila Cavalli, e della Fortezza di Neoburg, e Federiscöde, antemurale della  Jutlandia medesima, vennero in podestà de’ Confederati, estenuandosi e dimezzandosi in  brevissimo tratto le conquiste dell’inimico. Ma questi, ed altri progressi, non riuscivano a molta  utilità, quando l’Esercito svedese accampava nella Fionia, Isola troppo opportuna a contenere un  Reame non molto esteso, e tutto marittimo. Non pareva scampo alla Danimarca, se gli Svedesi non  si assalissero nelle loro trincee: la stessa impazienza che trasse i Pompejiani nell’irreparabile  sconfitta di Farsaglia, quella stessa animava i Confederati: uno era in tutti il desiderio di combattere,  e la fiducia di trionfare: tutti, come sicuro ed espedito termine delle fatiche loro, la Fionia  riguardavano. Consiglio più assai generoso che prudente, nel quale convenendo il maggior numero,  non valse che Raimondo dissentisse. Ad onta del mar procelloso, e colla scorta di nocchieri che  abborrivano dalle mete, ove le navi si diriggevano, pur si pervenne a quell’Isola male augurata, né  si volsero addietro le vele, perché ella apparisse aspra, terribile, minacciosa, dove chiusa di acuti  scogli ed innaccessibili, dove munita di Batterie, torreggiante di Fortezze, e difesa dall’Esercito  ferocemente ordinato a combattere; Esercito florido, preparato all’assalto, e condotto  dall’Ammiraglio Wrangel, il miglior Capitano di una Nazione, dove rari non erano gli eccellenti.  Pur si provocarono, tanta era l’alacrità, pericoli maggiori di ogni forza umana, e si provocarono da  genti inesperte all’orrore de’ marittimi cimenti. La spiaggia fulminava su gl’inudi fianchi delle navi:  le navi, fendendosi in molti lati, si approssimavano verso gli abissi aperti ad ingojarle: i lor colpi  debilmente rispondevano, percuotendo sulla invincibil rupe, o sulla impenetrabil trincea. Tinte  erano l’onde di molto sangue, e sullo sparso sangue non però si agevolava la via della discesa.  Furono, non vuol negarsi, rispinti i Confederati. Ma colui che non ebbe parte all’errore, egli ne  meditava il riparo, rivolgendo in suo cuore uno di que’ consigli, che, nati in mente degli uomini  grandi, contengono in sé stessi un non so che di portentoso e di divino, cui pare che la forza  medesima non abbia efficacia di resistere, e la indocile fortuna non osi disubbidire. Conobbe  Scipione, che Roma, minacciata nel Lazio, non altrove meglio sarebbesi difesa che nell’Affrica, e  l’emulo ed imitator suo opinò che la Fionia si dovesse vincere nella Pomerania. La qual Provincia,  trascorsa da’ Confederati quasi a un tratto e conquistata, implorò soccorso, né parve agli Svedesi  conveniente di abbandonarla. Ma le divise forze né bastarono a difendere il proprio, né ad offendere  l’altrui. Allora l’ingresso nella Fionia fu agevolato, e le Arme Cesaree, opportune e prossime nella  Jutlandia, vi tragittarono impunemente. In vano gli Svedesi, all’avvicinarsi dell’Esercito, ripararono  sotto i bastioni e le mura di Città forti e poderose: l’impeto degli assalitori non si ritenne per  ostacolo, ed essi, provocati a giornata, lasciaron sul campo il fiore delle lor genti, e, alla eccezione  di due, tutti i Generali. Copenaghen fu libera e sciolta dal lungo assedio, che già stancato aveva il  valore de’ più forti: la gloria di una bellicosa Nazione depressa eternamente salvo il Trono Danese,  e per la mano del Montecuccoli rassicurato. Che se coloro tra gli uomini son meritatamente  celebrati, che gli hanno beneficati maggiormente, e meglio per la pubblica utilità si sono adoperati:  se il valor de’ Guerrieri è degno de’ plausi della fama e dell’immortalità, allor solamente che ei per  la giustizia combatte, e dalla violenza e dalla oppressione i conculcati diritti protegge della umanità  e delle Nazioni: io non veggo che alcuno antico o nuovo titolo di lode possa anteporsi a questa lode  del Montecuccoli, aver potuto egli privato preservare al Soglio due Monarchi, e due Reami alla  libertà: aver vendicata la Europa, rivolgendo le procelle della dissensione sul capo a coloro, che da  tanto tempo si erano malignamente compiacciuti di suscitarle.  Ma le procelle sopite nel Settentrione, risorsero dall’Oriente più gravi e più minacciose, e Cesare  provocato a guerra da’ Turchi, ebbe presto a sperimentare quelle angustie stesse, ond’altri era uscito  poc’anzi per la sua beneficenza.  L’Austriaca Monarchia, alla quale oggi giorno il magnanimo genio di Maria Teresa e dell’Augusto  suo Figlio hanno restituito, se non i Dominj, certo l’antica forza ch’ella godeva all’aureo per lei  secolo di Carlo V, languiva allora malferma nelle fondamenta, e debilitata dal peso stesso della  propria grandezza24 . L’oro, primo argomento di tutte le imprese, mancava agli erarj, e gli erarj    
spesso larghi alle profusioni, erano sempre angusti alle necessità: quindi appena le frontiere munite  di Presidj: gli Eserciti levati al bisogno, e poi disarmati, e niuna stabilità di difesa: gli Eserciti stessi  adunati in gran parte degli stranieri sussidj dell’Imperio, armi sempre nuove, e non mai volontarie:  quindi i popoli gravati dall’intrattenimento de’ Soldati, e per occulta avversione nimici de’ loro  molesti ed importuni difensori. Al contrario ne’ Turchi erano, siccome25 molti vizj di natural  barbarie, così il compenso di molte virtù. Sempre apparecchiati di armamenti e di munizioni,  sempre guardati da un Esercito di Giannizzeri perpetuo per costituzione, per necessità veterano: le  leve non forzate, non tumultuarie, ma spontanee, ma scelte: la profession militare appresa per  iscuola dalla fanciullezza, contenuta dalla atrocità de’ castighi, rialzata dalla larghezza de’ premj, e  sola che alle dignità conducesse: un dogma che toglie l’orrore alla morte, e la morte de’ valorosi  rallegra di lusinghiere ed immortali promesse: un erario perenne che non teme impoverire: una  potenza illimitata, difficile a stancarsi per avversità, ed attissima a stancare anco i vittoriosi.  Niuno imperio fu mai così vicino a perire come l’Austriaco a quella occasione, avvegnaché tanta  fosse la sua strettezza, che a centomila nimici poté appena contrapporre seimila Combattenti26. E  qual uomo senza nota di temerità avrebbe potuto della salute dell’Austria non disperare, salvo un  Montecuccoli, al quale fidata l’avea l’ordine eterno della Providenza, e la superior tutela della  Cristianità? La storia narrerà per qual modo con sì tenui forze,che ancor più tenui divennero,  tenesse fronte a tanto nimico l’intero tratto di una campagna, e la verità, non dubito, prenderà faccia  di favola e di esaggerazione. Narrerà come lasciando che i Barbari spaziassero per ampio paese, ei  le anguste forze in angusto Territorio restrinse; come accampò, dove né per moltitudine poteva  circondarsi, né per alcuna parte venire esplorato, dove come a cenno li riferiva a Città forti e  munite, e per navi signoreggiando il Danubio, non potevansi al Campo proibire i sussidj e le  vittovaglie. Narrerà la storia minutamente dove di ogni minuta azione grandissima era la utilità,  com’egli, facendo fronte alle ripe de’ fiumi, acquistò tempo, indugiandone i passaggi, e come  finalmente egli intrattenne il Turco lentissimo in un assedio, in fino a che la rigida stagione lo  ritraesse ai quartieri, e all’ozio inoperoso del Verno.  Nel qual tratto di riposo ebbero le Armi Cesaree tempo e spazio di ristorarsi, e alla imminente ruina  dell’Austria non mancò di sussidj la Francia e l’Allemagna27. Già il Raab angusto fiume è il sol  limite che separi le due Nazioni, e tutto lo sforzo e il furore di quella lunga guerra, e gli animi e  l’attenzione dell’Asia e dell’Europa, i timori, le speranze, la libertà, la gloria di Cristianità sono  ridotti a quel varco, utilissimo a’ Turchi se lo tragittino, fatale a’ Cesarei se nol difendano. Fida il  Visir nella moltitudine e nel barbarico lusso delle artiglierie, e de’ cavalli, fidano i Cristiani nella  fermezza, e nell’ordine. Le prime lor linee son munite delle picche, le estreme de’ moschetti,  mescolamento di arme opportunissimo, aprendo quelle la via coll’urto, queste sgombrandola col  fuoco. Riempiono il centro le genti nuove e colletizie dell’Imperio, e le ale, luoghi da non  iscompigliarsi impunemente, son tenute da’ Veterani. Son prima gli Ottomani ad assalire: condotti  dal Visir varcano il Fiume, si gittan sul centro de’ Cesarei, e il centro si rompe, si disordina. Vince  il Condottiero il panico timore nato fra’ suoi di quel primo assalto, gridando magnanimamente,  nulla doversi paventare, quando ancor non si era tratta la spada, e raccolte genti dalle riserve,  percuote di fianco i barbari, e li rispigne nel fiume. Ma la moltitudine supplendo a’ difetti della  minor disciplina, somministra nuovo esercito a’ nimici, e la battaglia in un luogo fornita, ripullula  nell’altro più fiera, e più sanguinosa. Non giova resistere, e servare il Campo, quando, gl’Infedeli  fermi a’ luoghi occupati, non si rimuovono; intanto che la sollecita opera de’ guastatori li ripara col  presidio delle trincee; intanto che interminabili squadroni di Cavalli tragittano il guado, e poco  manca a’ Cristiani che non sien chiusi e circondati, terribil situazione, dove dubbio è l’uscire e certo  il perdere. La timida prudenza de’ Confederati consiglia che si suoni a raccolta, e la generosa  prudenza del Condottiero non vede scampo che nella spada e nella vittoria. Si ricurva a foggia  d’arco l’Esercito Cristiano, e con generale battaglia, di assalito assalitore, investe il nimico per la  fronte e per li fianchi: il furor suo vien lungamente ributtato dal maggior furore de’ Giannizzeri e  degli Albanesi, e lungamente dubbiosa è la sorte del cimento: ma le migliori arme prevalgono alle  molte, prevalgono alle stesse trincee. Finalmente il Visir si delibera di retrocedere, e ricoverarsi    
sull’altra ripa: ma dato il segno di ritirarsi, le genti, rotto ogni ordine, misti cavalli e fanti, si  addensano al letto del fiume troppo angusto a tanta moltitudine: impacciati né posson rispondere al  fuoco de’ Cristiani, né salvarsi col nuoto, e i gorghi del Raab, traendoli a fondo, compiono quella  vittoria, che le spade non avevano ancor pienamente maturata. Tal fu l’esito della giornata di San  Gottardo, così detta dal luogo del combattimento, giornata illustre, ed eternamente memorabile, se,  considerati i pericoli, le difficoltà, e le conseguenze, ella fu alla Cristianità quello che Zama ai  Romani, quello che Maratona agli Ateniesi.  Felice Cristianità, se la pace conseguita per tanto valore, non si fosse perturbata dalla cupidità della  Francia, e del suo giovine Monarca, il quale troppo della propria possanza era lusingato, perché egli  innorridisse del sangue, e delle disavventure che deturpano il lauro de’ conquistatori. Io mi veggio  pur condotto, dove forse il desiderio vostro da lungo tempo mi affrettava, a quella memorabile  stagione, quando la Europa, quasi di ogni altro pensiero dimenticata, stette attonita e sospesa ad  osservare la fortuna dubbia in egual virtù fra’ due maggiori Capitani del secolo, Montecuccoli e  Turenna28 . La sublime scuola del guerreggiare non ha forse alcun tratto più eccellente, né più  fecondo di ammaestramenti, siccome quella campagna; ed io non dubiterò di reputarla  maravigliosa, quando ella parve tale all’oracolo della scienza militare, a Federigo, quel Grande che  nobilita il Trono e l’età nostra, o se colla spada eserciti l’arte di vincere, o se la insegni colla penna  e colla lira. Posso io tacere, com’egli, agguagliando Raimondo al vincitore di Pompeo, inviti i  giovani guerrieri a riguardarlo sul Reno, o se per la scelta del campo ei preserva l’Allemagna, o se  mutando spesso di luoghi, dovunque è presente a’ Franzesi, dovunque rende infruttuosi i loro  progressi, o se, antiveggendo sempre, le azioni sue misura colle intenzioni del nimico, se animoso  approssima, se cauto retrocede, se, accennando sempre nuovi disegni, i disegni dell’avversario  debilita ed interrompe? Per tali atti di incomparabile prudenza si conduceva il sagacissimo Italiano,  quando la morte immatura e momentanea del Turenna cangiò di aspetto le cose, e il pubblico  giudizio, che pendeva dallo sperimento di una battaglia, si rimase incerto a qual de’ due competitori  convenisse aggiudicarsi la preferenza.  Certificato della morte dell’avversario, Raimondo lo pianse con lagrime sincere e generose,  parendogli che non potesse giammai bastevolmente deplorarsi la perdita del maggiore degli uomini,  siccome ei si espresse, e di colui che parve nato per onore dell’uman genere: parole, nelle quali è il  senso del più ampio elogio, e più facondo, e delle quali può nascer dubbio se maggiormente il  lodato onorino o il lodatore: parole piene di equità, che non furono con pari gratitudine dagli  scrittori Franzesi ricambiate29. Certo coloro che non temerono di asserire essere allora il Turenna  pervenuto al vantaggio, ed aver la morte sua preservato il Montecuccoli dal rossor di soccombere,  hanno dimenticato il Montecuccoli nell’anterior campagna espugnatore in faccia a’ nimici della  munitissima Città di Bona, il tragitto del Reno lungamente conteso, e nobilmente superato, e  l’emulo suo condotto alla necessità di una battaglia: hanno dimenticato che il franzese assalitore, e  deliberato di spaziare largamente per l’Allemagna, fu represso nella frontiera e contenuto  nell’angusto circolo di poche leghe: hanno dimenticato che l’Italiano egregiamente sostenne le parti  della difesa che erano le sue per allora, di che ne seguita che ei poté meritamente arrogarsi quel  titolo di vincitore, che si compete a colui che ha soddisfatto all’intento, al quale ai guerreggiava.  Io però, lasciate a miglior senno del mio queste contese, non dissentirò al tutto dalla opinione di chi  reputò essere stati fra que’ due chiarissimi condottieri i lineamenti della più evidente somiglianza.  Amendue nipoti di due grandissimi Capitani, l’uno del Principe Maurizio, l’altro di Ernesto e loro  discepoli: amendue dagli infimi gradi pervenuti a’ supremi: amendue di elevato ingegno, di  rettissimo giudizio, e non alterabili per alcuna passione: valorosi abbastanza, perché niuna nota di  timidezza li contaminasse, e abbastanza moderati, perché non fosse loro rimproverato giammai  alcuno eccesso di temerità. Assuefatti a combattere e a vincere per istudio, reggendosi tutti per la  ragione e nulla per la fortuna: solleciti dell’esito e della pubblica salute molto più che della privata  lor gloria: solleciti del sangue de’ lor soldati e delle ricompense, e degnissimi dell’egregio titolo di  padri dell’Esercito. Tali sono i rapporti comuni, a’ quali siami lecito per amor della verità  contrapporre alcune dissimiglianze. La predilezione dei soldati, moderata nel Montecuccoli, spesso    
diveniva eccedente nel Turenna, al quale insolito non era rallegrare l’esercito delle sostanze de’  popoli disarmati ed innocenti. La severità, virtù funesta, ma tra l’arme necessaria, nel Turenna  qualche volta prese colore di inumanità, e non sono, per così dire, affatto spente le fiamme del  Palatinato, dell’Alsazia e della Lorena, e si odono tuttavia con ribrezzo della storia gli scherni,  ond’egli rispondeva alle strida de’ popoli, e alle querele de’ Principi30. Turenna finalmente cessò di  giovare alla patria, dacché ei cessò di vivere, e Montecuccoli, perpetuando nelle auree sue Memorie  la dottrina ch’ei praticò con tanta lode ed utilità, poté freddo e taciturno dalla tomba ancor vincere e  preparare all’Austriaco Imperio la sua futura grandezza31 .  Se la vasta e fertile Ungheria più non geme sotto il giogo degli Ottomani, se la effrenata potenza  loro si contien ne’ limiti della moderazione, se l’Austria prese consiglio di rimanersi sempre armata  e difesa, se le frontiere dell’Imperio suo munite di validi presidj più non temono l’impeto delle  subite e non prevedute irruzioni, altro non è tutto ciò, se non gli insegnamenti di quell’aureo volume  posti ad effetto, e religiosamente adempiuti. L’arte della guerra ebbe in esso quelle istituzioni di  nuova scienza32, che le nuove arme da tanto tempo desideravano, ebbe il fondamento di semplici ed  innegabili principj, e in mezzo i dubbj delle conghietture, il certo lume degli aforismi. Ammiravano  le Memorie del Montecuccoli non meno i militari, che i letterati. I militari, fra’ quali non si tace di  un Duca di Lorena, di un Principe di Anhalt, e dello stesso celebre nome del gran Condè, non pur  riconobbero l’arte ordinata, ma di nuovi e insigni documenti accresciuta33. La Militare Architettura,  nata in Italia, e dagli Italiani Geometri ridotta a forma di arte e qualità di scienza, assai prima che la  illustrasse il facil metodo e il sublime disegno di un Coheorn e di un Vauban, vi è considerata con  quella ragione, che si conveniva a tanto senno, congiunto a così lunga e ponderata sperienza. Le  artiglierie, delle quali era allor l’uso incerto e difficile per la soverchia varietà delle forme furono  primieramente dal Montecuccoli condotte a quella utile semplicità, dalla quale la moderna Scienza  Militare non si è giammai dipartita. La sussistenza degli eserciti, spesso di que’ tempi avventurata al  caso, fu per aurei documenti assicurata sopra sagacissime cautele. L’arte di accampar con  vantaggio, salute de’ piccioli eserciti, vi fu dimostrata sottilmente, e i Capitani appresero viemeglio  a ricoverarsi in quelle fortezze, che tra’ monti, fiumi e foreste delineò la stessa natura. Piacque a’  letterati la nitidezza del metodo, e nella immensità delle materie la brevità prodigiosa, lo stile non  inculto, e non soverchiamente ornato, libero de’ vizj del secolo, e tanto eloquente di cose da  negliger volentieri la splendidezza delle parole. Parve maravigliosa la erudizione sparsa per tutto il  libro, la quale, raccogliendo in un prospetto la sperienza nuova ed antica delle bellicose nazioni, le  lodi, i biasimi, le virtù, gli errori, i chiari fatti, gli illustri capitani, mai non degenera nel lusso, e mai  non trapassa i limiti della opportunità.  Un uomo elevato di tanto intervallo sopra gli altri uomini del suo tempo, e della sua professione,  doveva a un tratto eccitare e la ammirazione nel pubblico, e la invidia nella Corte34. Quella invidia,  che Camillo e Scipione liberatori della lor patria, che il prode Xantippo, e il giusto Aristide trasse a  tristo ed oscuro esiglio, quella stessa più volte intentò gravi ed acerbe molestie al liberatore  dell’Imperio e della Cristianità! La invidia che prendendo colore di zelo, scusa sotto il titolo della  sincerità la calunnia e la frode: che moltiplica le lodi, dove elle sono superflue e inopportune, per  meglio riserbare alle opportunità i biasimi e le censure: che ammaestrata di tutte le vie sotterranee,  per le quali si nuoce alla virtù, vegliante sempre con guardia gelosa al passaggio delle anticamere e  de’ gabinetti per allontanare dal Trono la paventata verità, umile e pronta a qualunque mezzo,  ancorché turpe ed indecoroso, dove giovi a conciliar favore, superba dopo l’intento, e fiera a  conculcar l’oppresso merito: quella invidia stessa poco mancò che non deprimesse il Montecuccoli,  che non potesse ella sola quello, che né gli indomiti Svedesi, né gli impetuosi Ottomani, né la  scienza e l’accorgimento del gran Turenna avevano potuto. Pur la luce e la forza del merito di  Raimondo fu così splendida e vigorosa, che le armi della invidia non produssero lungo effetto e  durevole, cosicché egli, a malgrado de’ colleghi suoi, trionfò assai volte nel campo, trionfò  similmente, ad onta degli emuli, alla Corte; dove, quando la sua persona dalle ferite, da’ disagi e  dagli anni debilitata, non gli permetteva di condurre eserciti, ei nondimeno dalla prima sede del  consiglio di guerra ne fu legislatore e giudice supremo. Nel qual grado, non mai disgiunto dal suo    
Signore Leopoldo Cesare, ei morì, seguendolo in Lintz l’anno del secolo ottantesimo primo, e della  età sua settantesimo terzo.  Il suo sepolcral monumento si illustrò di tanti titoli, quanti mai possono adunarsi in un privato, se  privato può dirsi quegli, che il sublime Collegio dell’Imperio annoverò tra’ suoi Principi. Su la sua  tomba pianse la Milizia un Capitano, nel quale convennero la prudenza di Fabio, la fermezza di  Scipione e la celerità di Cesare: la Religione l’osservator più leale del suo culto e de’ suoi decreti: la  Civil società il più gentil cortigiano, e il più culto cavaliero: la Filosofia il cuor più fermo alle  avversità, e nelle prosperità il più modesto: le Lettere non meno il coltivator loro, che il lor  protettore munificentissimo. Su la sua tomba la Germania armata ricorda il suo liberatore, e il  maestro degli eserciti suoi: la Germania erudita ricorda la promossa per lui Filosofica Società de’  Curiosi della natura, e con essa il moltiplicato patrimonio delle scienze35. Su la sua tomba l’Italia si  riconforta delle ingiurie del tempo e del ferro, dell’Imperio perduto, e de’ suoi lunghi e crudeli  infortunj, quando, periti tutti gli argomenti della Romana grandezza, tanto ancor le avanza della  Romana virtù.    
Per l’Elogio del Principe Raimondo Montecuccoli  Composto dal Signor Conte Agostino Paradisi  Sonetto    Del Macedone Eroe l’ombra guerriera  Surse animata dalla polve antica,  E l’asta scosse colla destra fiera,  Riverberando al Sol l’ignea lorica;   Quindi ascoltò la bellic’Opera altera,  Che al crin del Modanese i lauri implica,  E desta in petto Italian la vera  Gloria conobbe al duro Marte amica.   Poi disse: indarno del Pelide Achille  Pianger sul marmo un giorno ebbi pensiero,  Pel cantor sommo de l’Achee faville.   Poiché sparger di nuovo or è mestiero  Di Raimondo alla tomba invide stille,  Ch’ha in Agostino un più felice Omero.   In segno di sincera stima  Gioan Battista Vicini  Poeta Primario di S. A. S.    Vidit D. Antonius Maria Copelloti Cleric. Regul. S. Pauli, & in Eccl. Metropolit. Bononiæ Poenitentiarius pro Illustriss.  & Reverendiss. Dom. D. Andrea Joannetto Nob. Bonon., Ord. S. Benedicti Congreg. Camaldul., Episc. Himeriensi,  atque Archiepiscopatus Bononiens. in Spiritual. & Temporal. Administratore.   Die 29 Martii 1776  IMPRIMATUR  Fr. Carolus Dominicus Bandiera Vic. Gener. S. Officii Bononiæ.   Bologna MDCCLXXVI  Dalla Stamperia di Lelio dalla Volpe     
Note   1 E’ stabilito che, in vece della consueta Orazione inaugurale, si reciti all’aprimento annuo delle Scuole della Università  di Modena l’Elogio di alcun soggetto illustre Modanese, o dello Stato.  2 Le Opere di Sovrano così glorioso, come Francesco Terzo, non sono da restrignersi in una nota; senza che oggimai  superfluo sarebbe il noverarle, dove tutta la Europa ne è consapevole ed ammiratrice. La povertà ricoverata nel grande  Albergo, e nello Spedale, Modena quasi riedificata, la difesa dello Stato proveduta di arme copiose, il commercio  agevolato per ampie vie su le più ardue montagne, la pubblica felicità stabilita nelle ottime Leggi, le lettere soccorse e  colla doviziosissima Biblioteca, e colla Università grandiosamente creata, ed infiniti altri benefizj procacciati dal suo  Governo, son tali vanti, che vogliono essere compiutamente noverati, e descritti da uno storico, e debbonsi tacere,  quando non è permesso che di accennarli.  3 Il Principe Montecuccoli visse in un tempo, nel quale assai men rare erano le azioni generose e segnalate, che gli  scrittori capaci di degnamente raccontarle. E’ stato dunque bisogno ricorrere a’ libri brevi, disordinati, e spesso ancor  non del tutto veritieri, e questi raffrontare colle storie del tempo, e delle varie nazioni, colle quali il Montecuccoli ha  combattuto, affine di riconoscere i fatti più al minuto, e di separare la verità dalla menzogna.  L’Autore non sarebbe venuto a termine di questa sua fatica, se l’altrui soccorso non gliela avesse agevolata,  procurandogli, ed additandogli gli opportuni materiali.  Egli dee moltissimo a S. E. il Signor Marchese Gherardo Rangone, Consigliere Intimo Attuale di Stato di S. A. S.,  Riformatore del Dicastero degli Studj, e Ciamberlano delle LL. MM. II. e RR., Cavaliere pieno di erudizione di ogni  genere, non men profondo nelle più sublimi Facoltà, che dotto in moltissime Lingue, cui le Scienze debbono assaissimo  per la sua generosa sollecitudine di proteggerle, e cui dovranno assai più, se egli, in vece di promoverle coll’opera  altrui, elegga piuttosto di usare la propria.  Il Chiarissimo Signor Abbate Gabardi, uno de’ Prefetti della Ducale Biblioteca, ha pure additati all’Autore parecchj  reconditi documenti intorno la persona del Principe Montecuccoli nascosti a tutt’altri, e noti alla sua grande ed  infaticabile erudizione.  Il dotto non men che cortese Signor Avvocato Lodovico Ricci con liberalità spontanea ha comunicate all’Autore  parecchie lettere originali dello stesso Montecuccoli, ed altri rari, e pregevoli documenti, che a lui si riferiscono.  4 Il Moreri ed altri scrittori non italiani dicono che il Montecuccoli fosse stato investito dal Re di Spagna del Ducato di  Amalfi. Io non prenderò né a negarlo, né ad asserirlo, non parendomi di avere riscontri abbastanza sicuri su tal fatto.  Ben potrebbesi facilmente essere preso equivoco con Ottavio Piccolomini Sanese, Generale anch’egli di Cesare, e  antecessore del Montecuccoli, il quale veramente era Duca d’Amalfi. Fu il Montecuccoli dichiarato Principe  dell’Imperio l’anno 1678.  5 Aveva in animo l’Autore di riepilogare in una Nota la storia della Famiglia Montecuccoli, affinché nulla mancasse di  ciò che poteva illustrare la Vita del Gran Raimondo. La vastità della materia, e la brevità del tempo non lo hanno  permesso. E veramente superfluo quasi sarebbesi giudicato in un secolo, che non molto si compiace delle Genealogie,  diffondersi su la storia di una Famiglia così cospicua, e così dovunque conosciuta. Le Vite del Conte Raimondo  pongono tutte, che la Famiglia sua fosse nobile da sei secoli. Non lo hanno asserito senza ragione. Perché, lasciando le  tradizioni, che la dicono venuta di Germania fino dall’anno 860, e la opinione di Gasparo Sardi nella storia Ferrarese,  che la crede venuta in Italia l’anno 1014, abbiamo nelle Cronache Modonesi, che un Gherardo Montecuccoli, Signore di  Montevelli, giurò di condurre a sue spese le sue genti a benefizio del Comune di Modena l’anno 1170. Una Famiglia  così potente nel duodecimo secolo, dee presumersi di una origine anteriore al secolo stesso.  6 Studiò in Modena, in Perugia, e in Roma.  7 Girolamo fu primo Ministro di Stato del Tirolo. Ernesto pervenne al grado di generale delle Artiglierie di Cesare, e fu  veramente uno de’ maggiori Capitani del secolo. Nelle guerre di Fiandra ei si diportò per modo che Grozio ebbe a dire:  Nunquam res Ordinum pejori loco visæ, quam cum Ernestus Montecucculus Bataviam premeret. Il Signor di Voltaire,  avendo fatta menzione di lui negli Annali dell’Imperio anno 1598, così riflette: Ceux qui ont portè ce nom  (Montecuccoli) ont etè destineès à combattre heureusement pour la Maison d’Autriche.  8 Ristringerò qui la carriera militare del Conte Raimondo. Entrò volontario. Militò nella Fanteria ora colla Picca, or col  Moschetto; nella Cavalleria or Dragone, or Corazziero, praticando così tutte le arme che erano in uso al suo tempo.  Servì Alfiere nella Compagnia del Colonnello Wrangler. Ebbe una Compagnia di Corazze nel Reggimento del Conte  Ernesto suo Zio. Fu fatto Sergente-Maggiore nello stesso Reggimento. Fu Tenente-Colonnello nel Reggimento Fiston.  Passò nello stesso grado nel Reggimento del Principe D. Annibale Gonzaga. Nel 1635 ebbe il Reggimento di Cavalleria  del Principe Aldobrandini, morto nella battaglia di Nordlingen. L’anno 1642 fu promosso al grado di Sergente-Generale  di Battaglia. Per la guerra di Castro, Francesco I Duca di Modena lo dichiarò Maresciallo Generale delle sue Armi.  Cessata quella guerra ritornò in Germania, e l’Imperadore lo creò nell’anno 1644 Tenente Maresciallo. Poco dopo ebbe  il comando supremo dell’Armi nella Franconia, in assenza del Generale Hatzfeld. Ebbe il comando dell’arme  similmente nella Silesia, e lo ebbe della Cavalleria, sotto l’Arciduca Leopoldo, nella Ungheria. Ebbe il comando  supremo contra i Franzesi nell’anno 1672, e dippoi nella stessa guerra del 1674. Lo aveva avuto anteriormente pur nella  Ungheria nelle guerre del Turco. Nel 1665 fu dichiarato Presidente al Consiglio di Guerra.  9 Un uomo nato per le armi non poteva desiderare scuola migliore delle guerre di Fiandra. Non vi ha esempio di altre,  che egualmente durassero. La Religione ne fu il pretesto; ma le vere cagioni bisogna dedurle dalla acerbità di Filippo II    
Re di Spagna, e del Cardinale di Granvela suo Ministro, il quale, promulgati Editti, che distruggevano i Privilegj e il  Commercio della Nazione, puniva, come di fellonia, qualunque rappresentanza. Dall’altre parte Maurizio di Nassau,  mettendosi a capo de’ Malcontenti, mostrando di proteggere e la Setta di essi quasi tutti Protestanti, e la pubblica  libertà, tendeva a signoreggiare in quelle Provincie. Il sanguinario Duca d’Alba compié l’opera colla crudeltà, e non vi  fu più chi amasse il Governo Spagnuolo (qual’era allora, è tutto l’opposto dell’odierno) dopo che furono decapitati i due  maggiori signori della Nazione, il Conte di Horn, e il Conte di Egmont. Nulla giovò che il moderato e savio  Commendatore di Requesens tentasse la via della conciliazione. I tre sommi Capitani, Giovanni d’Austria, Alessandro  Farnese, Ambrogio Spinola, preservarono dalla alienazione dieci delle Diciassette Provincie.  Gli Spagnuoli erano i migliori Soldati della Europa; ma le Provincie Unite avevano il vantaggio di esser soccorse da’  Protestanti di Allemagna e di Francia e dalla Inghilterra, avevano il benefizio di una situazione bassa e paludosa, la  quale ad arte si poteva sommergere. Finalmente poco potevasi sperare dal valore degli Spagnuoli, i quali spesso non  erano pagati. Il Possessor dell’oro e dell’argento del Messico e del Perù spesso non aveva di che pagare l’Esercito, e gli  Avversarj suoi, poveri e deboli, non deponevano le arme per alcuna avversità. Se le guerre di Fiandra potessero aver  paragone nell’antichità, parmi che considerata e la ostinazione reciproca, e le varie vicende, e la sceltezza de’ Soldati, e  la virtù de’ Capitani, fossero da compararsi alla guerra del Peloponneso.  L’anno 1606 fu riconosciuta la indipendenza delle Sette Provincie. Liberi appena que’ nuovi Repubblicani, furono  aggressori della Spagna, e l’anno 1629 erano all’assedio di Bosleduc, e vicini a conquistare il Brabante. In quella  occasione l’Imperadore Ferdinando II mandò soccorso agli Spagnuoli, e ne ebbe il comando il Conte Ernesto  Montecuccoli, il quale in quella Guerra appunto si condusse seco il giovinetto Raimondo.  10 Era Raimondo Capitano di quel tempo, e conduceva la Vanguardia. Il fatto è narrato concordemente da tutti gli  Scrittori della sua Vita. La storia pure narra che veramente egli ebbe la maggior gloria nella presa di cinque Città, tre  delle quali son nominate, cioè Calbe, Anesleben, Stasfort.  Alla battaglia di Lipsia, inoltrato troppo addentro, dagli Svedesi ne fu circondato e preso. Per quella volta rimase  prigione sei mesi, e venne secondo l’uso di quel tempo, riscattato a danaro.  11 Il Conte Lionardo Torstedon succedette all’illustre Banner, e venne riputato uno de’ maggiori Capitani della Nazione  Svedese e de’ migliori discepoli di Gustavo Adolfo.  12 Stette il Conte Raimondo prigione degli Svedesi la seconda volta per ben due anni, parte a Wismar, parte a Stettino, e  fu liberato col cambio dello Slang preso dal Piccolomini.  13 Cum Totum iter (Lucullus) & navigationem consumpsisset, partim in percontando a peritis, partim in rebus gestis  legendis, in Asiam factus Imperator venit, cum esset Roma profectus rei militaris rudis (Cicero Accad. Quæst. lib. I).  14 Nulla di esaggerato sulla letteratura del Montecuccoli. Le sue Memorie manifestano ch’ei possedeva la lingua latina,  la franzese, la spagnuola, e non è da dubitare della teutonica. Quanto alla propria non si può negare ch’ei non ne avesse  fatto studio su buoni autori, e segnatamente sul Segretario fiorentino. Gli strani e sconcj vocaboli, che si scontrano alle  volte nelle Memorie, debbonsi imputare più verosimilmente a sbaglio dell’editore, che era tedesco, e che per alcuni suoi  saggi dimostrò di posseder poco l’Italiano. Aggiungasi che l’edizione ne fu postuma, che il libro andava attorno  manoscritto, e da amanuensi non italiani. Sicché a torto alcun forse ha tacciato di barbaro il nostro Montecuccoli. Resta  anche un argomento, che mi pare senza risposta, a dimostrare, ch’ei non ebbe colpa ne’ falli della sua edizione, ed è che  in alcuni luoghi manca il senso gramaticale. Può egli sospettarsi tal difetto in tal Uomo, e in un’Opera, che vedesi scritta  con somma posatezza e maturità?  Ch’ei fosse versato nella Teologia lo attesta l’Abbate Pacichelli nelle sue lettere. Egli connobbelo di persona, usò seco  famigliarmente, e racconta che passava le intere notti nella sua scelta Biblioteca, che disputava volentieri, e che aveva  sempre fra le mani la Teologia del Padre Gonet.  Della Poesia si dilettò similmente. Un suo saggio lascierà luogo a giudicare come ei vi fosse disposto, e come vi sarebbe  riuscito, se fosse vissuto in altro secolo, e avesse avuto ozio di esercitavirsi.   SONETTO  Di Raimondo Montecuccoli in morte della  sua sposa Margherita di Diechtristein,  tratto dalla vita della medesima,  scritta dall’Abbate Filippo Maria Bonini.    D’una Perla, cui pari in Oriente  Fra’ Tesori eritrei non mai s’è visto,  Fecemi fido Amor far ricco acquisto,  Onde tutte mie voglie eran contente.    Ahi Morte! impoverito di repente (hai misto:  M’hai tu, e al mio dolce ogni tuo assenzio  Ahi Mondo! in un momento e lieto, e tristo:  Nate appena le gioje, eccole spente.    Qual fluttua voto a sera, e va ramingo  Legno che pien di merci era il mattino,  Tal’io, tutto pur dianzi, or nulla stringo.     
Segneranno il mio misero destino,   Estatici pensier, viver solingo,   Neri panni, umid’occhi, e viso chino.  15 Nel secolo passato la Italia fu teatro di continue guerre, delle quali, combattendosi fra piccioli eserciti, e non  riuscendo a niuna conseguenza, pochissimo ha parlato la storia. Una di tali guerre fu quella di Castro, la quale però  avrebbe potuto produrre grandi mutazioni negli stati. Odoardo Farnese Duca di Parma osò invadere lo stato Pontificio  con tremila cavalli. Entrato senza contesa, ebbe gran fatica ad uscirne salvo. Il Pontefice armato avrebbe potuto privarlo  de’ suoi dominj, se la necessità di tener equilibrio nella Italia non gli avesse procacciato difensori. Però la Repubblica  Veneta, il Gran Duca di Toscana, e Francesco I Duca di Modena si collegarono a favor del Farnese, dopo avere  inutilmente tentato tutte le vie della pace. Seguirono alcune zuffe sul Territorio Ferrarese, delle quali non si terrà gran  conto nella storia militare. Fatto si è che i Pontifizj, dopo alcuni piccioli vantaggi, invasero il Modonese. Il Duca si  trovò con quattro mila uomini soli. Forse dodici mila erano i nimici, condotti dal Signor di Valencè, e dal Mattei,  sperimentati Capitani, e di non ignobil fama. Posero assedio a Nonantola, che per sé stessa non si poteva difendere.  Dava grandissimo animo alle milizie il Cardinale Antonio Barberini Legato a Latere. Il Conte Raimondo fece sciogliere  l’assedio, e venne a battaglia. E’ certo ch’ei fece dugento prigionieri, e trovo scritto che rimanessero sul campo  ottocento morti; il che non oserei assicurare per vero. Certo è che i Pontifizj fuggirono precipitosamente nelle Terre  ecclesiastiche. Il Cardinale ebbe il cavallo ucciso. Pochi Cardinali hanno avuto il coraggio di arrischiarsi tanto in un  fatto d’arme, ma niuno è fuggito mai con tanta velocità come il Barberini. La vittoria fu compiuta per ogni titolo, e non  le mancò, siccome osserva uno scrittore contemporaneo assai giudiziosamente, che maggior teatro per farlo risapere  alla pubblica fama, come una delle maggiori prodezze di fortuna, e di valor militare (Vita ed Azioni del Conte  Montecuccoli).  16 Tra gli Eroi della Casa d’Este, pochi agguagliano Francesco I, e niuno forse lo supera.  Ei regnò a tempi duri e difficili. La Spagna signora delle due Sicilie, della Sardegna, e del vasto e dovizioso Ducato di  Milano, dominava la maggior parte e la migliore della Italia. I suoi Viceré e Governatori usavano superbamente co’  Principi italiani. La Francia aveva anch’essa Aderenti, e si sforzava di stabilirsi nella Lombardia. La emulazione delle  due Monarchie produceva due Fazioni fra’ nostri Principi, e un continuo stato di diffidenza, e di guerra, nel quale  possibile non era durar neutrali. Francesco I seguendo la necessità e la prudenza, fu lungamente collegato degli  Spagnuoli. Ne ebbe onori grandissimi, ma niuna ricompensa, anzi al contrario non pochi e non leggieri torti e  vessazioni. Esacerbato di questi, aderì alla Francia. Condottiero supremo delle arme confederate, egli espugnò Valenza,  e Mortara, e sarebbe giunto forse a conquistare tutto il Ducato di Milano, se la morte non lo rapiva a mezzo il corso de’  suoi trionfi. Fu gran Capitano, e riuscì sempre felice, quando i suoi consiglj furono posti ad effetto. Fu magnifico sopra  ogni Sovrano del suo tempo. Niuno lo vinse nella benignità, nella liberalità, e nell’amore della giustizia. Le quali qualità  rare e belle, furono di tal valore, che lo stato gravato di straordinarj pesi, non si dolse. Lo stato veramente durò fatica a  riaversi di tante ferite. Si trovò in un tempo aver Francesco I al suo stipendio circa quindici mila uomini. Lo stato  sarebbe rimasto risarcito de’ suoi danni, se la Spagna avesse tenuto parola, ma quella Corte che non pagava le proprie  truppe, difficilmente avrebbe voluto rimborsare un Confederato, che non la poteva costringere.  17 Su i primi anni dello scorso secolo, gli Svedesi, nazione poco cognita, e nulla temuta, divennero gli arbitri della  Germania.  L’Austriaco Imperadore Ferdinando II aveva quasi ridotti i Protestanti agli antichi limiti, e tutto l’Imperio era atterrito  della sua potenza, e minacciato di servitù. La Francia gelosa dell’ingrandimento di Casa d’Austria, eccitò Gustavo  Adolfo Re di Svezia a prender le parti de’ Principi Protestanti, e gli somministrò danaro. Ei venne, e assunse il titolo di  Protettore della pubblica libertà. La battaglia di Lipsia dimostrò qual uomo ei fosse, e qual Condottiero. Il Tilli, che  comandava gli Austriaci, troppo superiori di numero, non si trovò preparato alla nuova Tattica Svedese, e fu  compiutamente disfatto. La battaglia di Lutzen, dimostrò qual Nazione fossero gli Svedesi. Il Re loro morì: la sua morte  si divulgò nel campo: tutt’altro esercito sarebbesi disordinato: essi si proposero di vendicarlo, ed egregiamente ne  riuscirono. Gustavo fu de’ maggiori uomini che mai regnassero. Fiero e intrepido soldato, egli era benigno ed umano al  medesimo tempo. Si dice, che geloso di non contravvenire alla giustizia, ei non movesse le arme, senza prima  consultare il celebre trattato del Grozio sul diritto della guerra, e della pace. Grozio interpretato da lui approvò ogni  cosa, ed approvò anco che egli occupasse, a titolo di compenso, la Pomerania, vacante per la estinzione de’ suoi Duchi.  Nella minorità di Cristina, figlia di Gustavo, gli Svedesi, per consiglio del Presidente Conte di Oxenstiern, continuarono  nelle stesse imprese.  Il valore e la scienza del gran Gustavo risorsero ne’ Banner, ne’ Torstedon, negli Wrangel, ne’ Königsmark, co’ quali il  Montecuccoli ebbe a guerreggiare assai volte. La Francia continuò sempre nella loro confederazione, soccorrendoli,  quando di danaro, quando di genti.  Cessò la gloria e la potenza degli Svedesi nell’Imperio Germanico, quando la Francia ascesa al sommo della grandezza  poté operare per sé stessa, senza cercare sussidj dal Settentrione.  18 L’anno 1646 il Maresciallo di Turena erasi congiunto agli Svedesi ed Hassiani. I primi penetrarono in Boemia. Al  celebre Giovanni de Werth, e al Montecuccoli fu commesso di discacciarli colle tenuissime forze di otto mila cavalli e  due mila fanti. Gli Svedesi furon disfatti colla morte del loro Generale Wrangel. Montecuccoli ebbe un cavallo ucciso, e  fu ferito egli stesso. L’anno 1648 il Königsmark e il Turrena passarono il ponte da lor gittato sul Danubio presso    
Laubinghen per andare ad Augusta. Il Generale supremo Holtzapel prese in suo ajuto il Montecuccoli. Gl’Imperiali  furon vinti, e morto in battaglia lo stesso Holtzapel. Il Montecuccoli comandò in sua vece, e in mezzo infiniti svantaggi  e pericoli, che sempre si moltiplicavano, preservò quel poco che gli restava con gran lode degli Alleati, e ammirazione  de’ Nimici.  19 Dopo la pace di Munster e di Osnabruk, il Conte Raimondo intraprese gli accennati viaggi, ed ebbe compagno il  celebre Conte Enea Caprara, uno anch’egli de’ grandi Capitani del secolo. Ebbe onori e presenti dalla Regina Cristina,  la quale tenne seco dipoi corrispondenza, e fu uno di quelli, cui ella degnò prevenire confidenzialmente del suo pensiero  di abdicare. La lettera stessa ne esiste, ed è inserita nelle memorie del Signor la Beaumelle.  Il Puffendorff nella sua storia di Svezia, asserisce che il Montecuccoli venne a Stokolm non per diporto, ma in grado di  Ambasciadore.  20 E perciocché uno de’ pregj dell’Estense (Francesco I) era la magnificenza, trattenne egli per più giorni quell’illustre  brigata (due Arciduchi d’Austria) con sontuosi divertimenti di commedie, cacce, conviti, e danze. Superbo specialmente  riuscì un Torneamento a cavallo fatto nella piazza del Castello per le ricche comparse, per la rarità delle macchine,  voli, e battaglie. Restò nulladimeno funestata sì allegra giornata da un sinistro accidente; cioè dalla morte di Gio:  Maria Molza, Cavalier modenese, il quale correndo colla lancia incontro il Conte Raimondo Montecuccoli,  miseramente ferito alla gola, perdé tosto la vita. Sì afflitto rimase per questa disavventura il Montecuccoli, perché suo  grande amico era il Molza, che non tardò a tornarsene in Germania, dove &c. (Muratori Annali d’Italia anno 1651).  21 L’anno 1666 il Montecuccoli, in grado di Ambasciadore, andò a ricevere al Finale di Genova l’Infanta Margherita  figlia del Re Cattolico, e sposa dell’Imperadore Leopoldo. A quella occasione ebbe dal Monarca delle Spagne il  rarissimo onore del Toson d’Oro.  L’anno 1670 condusse a Czestokow in Polonia Eleonora Maria, sorella dell’Imperadore, e moglie di Michele  Wiesnowiskj Re di Polonia.  22 L’anno 1657 Raimondo prese in Moglie Margherita, figlia di Massimiliano Principe di Diectristein, Maggiordomo  Maggiore dell’Imperadore Ferdinando III, e di Anna Maria de’ Principi di Lictenstein. Questa Dama accoppiò a’ pregj  di una rara bellezza le più ammirate doti dell’animo. Vi fu chi ne scrisse la vita diffusamente. Tenerissima pel marito,  ne fu di egual tenerezza corrisposta. Ebbe il dolore di perderla l’anno 1676. Gli rimasero di lei tre figlie, ed un figlio. Le  figlie furon collocate in cospicui matrimonj, e il figlio corse la carriera del Padre, e morì Maresciallo di Campo.  23 Carlo Gustavo venuto al Trono per l’abdicazione di Cristina, pensò subito a mover guerra. Incerto se alla Polonia, o  alla Danimarca, antepose la prima, come la più facile a conquistarsi. Non s’ingannò. Vinti i Polacchi in varj scontri, fu  necessitato il lor Re Casimiro a fuggire, quando i suoi lo avevano abbandonato. Accresciuti i nimici del Regno colla  venuta di Giorgio Ragotzi Principe di Transilvania, il Re di Svezia corse tutta la Polonia, e non gli mancò che l’atto di  coronarsi, il quale era prossimo e decretato. L’Imperadore soccorse quel Monarca fuggitivo, Montecuccoli ebbe il  comando della Cavalleria, dipoi, morto il Generale Hatzfeld, di tutto l’Esercito. Gli Svedesi dovettero realmente, in  grazia del valor suo, abbandonare le conquiste.  Intanto il Re di Danimarca, geloso degli Svedesi emuli suoi, osò assalirli. Presto ebbe a pentirsene. Invase la  Danimarca, si venne all’assedio di Copenaghen, e a’ dieci Febbrajo se ne tentò, benché infelicemente, l’assalto  generale. Gli Imperiali, i Brandemburghesi, e i Polacchi per terra, e gli Ollandesi per mare andarono in ajuto di quello  stato. Il primo passo fu di assicurarsi della fede del Duca di Holstein, prendendo in ostaggio il Castello di Gottorp. In  seguito conquistarono moltissimo paese. Gli Svedesi si eran fortificati nella Fionia; bisognava discacciarli. Si tentò due  volte lo sbarco inutilmente. Non piaceva agli Ollandesi che riuscisse, però freddamente servirono, come è molto bene  accennato nelle Memorie. Non è però credibile, ch’eglino scaricassero i cannoni carichi a sola polvere. Tal fatto narrato  dal Puffendorff, si può riporre nel lungo novero delle menzogne stampate. Il parere della diversione nella Pomerania  salvò la Danimarca. La pace intempestiva fu cagione che gli Svedesi non perdessero interamente quella Provincia. Il  Conte di Erbestein sbarcò nella Fionia, e facilmente disfece i non molti Svedesi che vi accampavano. Seguì battaglia, e  de’ Generali Svedesi non si salvarono che il Principe di Sultzbach, e il Conte di Steinboch. E’ falso, quantunque asserito  da chi scrisse la vita della Contessa Montecuccoli, che il Conte conducesse egli stesso quell’ultimo sbarco (Vedi  Memorie part. I a 51. Puffendorff de rebus Svecicis).  24 Ferdinando II ebbe in arme centocinquantamila uomini, senza altri trentamila, che gli somministrò la lega cattolica.  Tal forza andò così rapidamente declinando, che diminuita assaissimo negli ultimi anni dello stesso Ferdinando II,  viemaggiormente si estenuò sotto Ferdinando III, e si annientò quasi sotto Leopoldo. Montecuccoli si trovò nell’epoca  della decadenza dell’Austriaca Monarchia, sicché ebbe quasi sempre a combattere con forze tenui ed inferiori. Le sue  guerre furon sempre difensive, e non decorate di quell’esteriore apparato di gloria, che è nel conquistare.  25 De’ Turchi, veggansi le Memorie parte III in più luoghi.  26 Non permetteva la necessaria brevità dell’Elogio, d’indugiarsi sulle prime campagne della guerra di Ungheria.  La Transilvania che il Turco voleva dipendente da sé, e l’Imperadore libera, fu occasione che si venisse a manifesta  rottura fralle due Monarchie. Alcuni Reggimenti Cesarei, condotti alle Frontiere della Transilvania dal Montecuccoli  avevano prevenuto qualunque movimento de’ Turchi. Ma un ordine della Corte, obbligandolo a retrocedere, disfece  quasi quel piccolo, ma sufficiente Esercito, e lasciò esposta la Ungheria. I Turchi ne profittarono. Appresso le epidemie,  la peste stessa introdotta nel campo Cesareo, la mala fede degli Ungheri, che negarono in ricever presidj, e somministrar    
genti, l’alienazione de’ Transilvani, la discordia de’ Generali Imperiali, furono i motivi della non ottima fortuna della  campagna seguente.  Una falsa voce di pace, divulgata da’ Turchi, e creduta dagli Austriaci, persuase Cesare a disarmare. I Turchi entrarono  nella Ungheria con centomila uomini, e non si poterono opporre a tanta forza, che seimila Soldati appena, e questi anco  in breve si ridussero a quattromila. Il Turco non fece altro in quella campagna, che prendere Neheufel.  Appresso vennero gli ajuti dell’Imperio, e della Francia, e così si poté combattere a San Gottardo. La battaglia seguì il  dì primo Agosto dell’anno 1670.  27 La battaglia durò sette ore. Il Generale non ebbe meno a combattere col valore de’ Turchi, che colla diffidenza de’  proprj Generali. La pace venne in conseguenza di sì segnalata vittoria.  28 Nella guerra de’ Franzesi il Montecuccoli riuscì di ciò che più importava, della presa di Bona, la quale assicurava la  libera comunicazione colle Provincie Unite, confederate di Cesare. Nondimeno gli Alleati non furon contenti di lui, ed  ei dovette dimettere il comando. La Campagna seguente dimostrò qual fosse il pregio di tanto uomo, appunto a quel  modo che il pregio dell’aria si conosce nel Vuoto Boileano, quando ella ne è estratta. I Cesarei in numero di  settantaduemila al principio della stagione, erano appena ventimila accostandosi l’inverno. Nulla avrebbe salvato  l’Imperio, fuorché un eccellente Condottiero. Montecuccoli ritornò al comando, e gli affari si rimisero subito. Fu l’anno  1675, che seguì quella memorabile campagna, la quale i dotti militari reputano essere stata il sommo della loro scienza e  del valore, così per parte del Turenna, che conduceva i Franzesi, che del Montecuccoli, che reggeva gl’Imperiali.  Il giudizio che io ne ho dato non è che una versione de’ giudizj de’ migliori maestri dell’arte militare.  Udiamo il Filosofo di Sans Souci:  Vous, Montecucculi, l’égal de ce Romain,  Vous sage défenseur de l’Empire et du Rhin,  Qui tintes par vos camps en savant Capitaine  La fortune en suspens entre vous et Turenne,  Mes vers oublieraient-ils vos immortels exploits?  Ah! Mars, pour le chanter ranimerait ma voix.  Venez jeunes guerriers, admirez la campagne,  Ou ses marches, ses Camps sauvèrent l’Allemagne,  Ou se montrant toujours dans des postes nouveaux,  Il contint, les François, et brava leurs travaux &c.  (Art de la Guerre, Chant. II).  Non men splendido è l’elogio del Signor di Folard, che pure suol essere parco lodatore degli uomini di guerra:  La campagne de Monsieur de Turenne de 1674 vaut bien une de plus belles de César. Celle de l’année suivante, qui fut  la dernière de ce grand homme, fut son chef-d’oeuvre. Elle est comparable à celle d’Afranius. Décidons sans être trop  hardis, elle est au dessus, car cet Afranius, quoique fort habile ne valait pas Montecuccoli. Celui ci était digne d’être  opposé à César, & non pas l’autre. Il le fut a Monsieur de Turenne. Quelle campagne! Ie n’en vois point de si belles  dans l’antiquité. Il n’y a point que les experts dans le métier qui puissent en bien juger combien d’obstacles réciproques  à surmonter! Combien de chicanes des marches, des contremarches, des variations d’armes, & des manoeuvres  profondes, & rusées! C’est en cela seul, que l’on reconnaît les grands hommes, & non dans la facilité de vaincre, & dans  le prodigieux nombre des troupes, qui combattent de deux cotés.  (Folard sur Polybe tom. I pag. 255)  Simile affatto è il sentimento dell’autore del Saggio generale di Tattica, uscito ultimamente a luce, e reputato a  quest’ora uno de’ classici libri della professione. Osserva il dotto autore, fra le oltre meraviglie di quella campagna, che  i due eserciti stettero sempre in moto, in uno spazio di paese lungo dieci, o dodici leghe, e largo quattro o cinque.  Lo stesso Folard, in altro luogo osserva che “il Montecuccoli era eccellente nell’arte de’ movimenti generali di ogni  sorta. Le sue marcie erano chiare, semplici, piene di sapere, e le sue colonne disposte e distinte per modo, che da  qualunque lato l’inimico si affacciasse, elle trovavansi sempre a un tempo stesso e d’uno stesso movimento poste in  battaglia. Pochi si sono approssimati a lui in questa scienza”.  (Folard sur Polybe livre II cha. VI remarque V).  29 Il paralello fra’ due Capitani fu primieramente immaginato dal celebre Padre Tournemine. Quel dottissimo scrittore si  dimenticò nondimeno della scrupolosa equità che si poteva pretendere da lui, quando conchiuse, che il Turenna era  divenuto superiore, e che la sua morte risparmiò al Montecuccoli il rossore di esser vinto. Vedi Journal de Trevoux an  1707 mois de Mai. Tal sentenza, uscita dalla penna di un grand’uomo, potrebbe sedurre coloro che non si avveggono  essere ella una condiscendenza a favore della propria Nazione, anziché un tratto di storica verità.  Hanno tutti gli scrittori sino al presente, che io mi sappia, celebrata ed illustrata la campagna dell’anno 1675,  accumulando i meriti di amendue i competitori. Io tenterò di separare quelli che sono proprj e particolari del nostro  Italiano.  Io gli ascrivo a merito proprio e particolare, quanto egli ebbe di svantaggio per lo stato delle cose, e lo svantaggio non  fu di poco momento. Il Turenna godeva de’ benefizj della precedente campagna, per lui felicissima, ed incominciava  vittorioso la susseguente, e il Montecuccoli si metteva a capo di un esercito sbigottito, e di affari sconcj e disordinati.  Tutte le forze erano adunate nell’esercito Franzese, e tutto era in ordine; ma tardi si riunì l’Austriaco, tardi se gli    
congiunsero parecchj Reggimenti, che ne eran divisi per lontani quartieri. Il Turenna poté impunemente prevenire  l’Avversario, passare il Reno, e mettersi alle spalle il ponte di Strasburgo, acciò non gli servisse. Gli Imperiali dovevano  guardare un paese quasi aperto, e i Franzesi avevan dopo di loro Brisac, Filisburgo, ed altre piazze fortissime.  Finalmente il Turenna era vegeto e vigoroso, tutto visitava in persona, tutto vedeva cogli occhi proprj, e tutto per sé  medesimo eseguiva; dove l’altro debilitato dalla vecchiaja e dalle infirmità, doveva prevalersi de’ subalterni, e giudicar  su i rapporti. Vedi Vie de Turenne tom. II pag. 135 e 136. Opera del Signore di Cavagnac, che conosceva di persona il  Montecuccoli, e aveva servito sotto di lui nelle campagne di Ungheria.  Indebolirebbe il merito di questi svantaggi, se fosse vero ciò, che alcuni scrittori Franzesi affermano che il  Montecuccoli avesse avuto tre o quattro mila uomini sopra il Turenna. Ma e gli Austriaci il negano (fra gli altri il Padre  Wagner scrittore assai diligente del regno di Leopoldo Cesare), e non par ragionevole il credere questa copia di soldati  sul Reno, in un tempo che la Casa d’Austria manteneva altri due corpi, quello che militava sulla Mosella, e quello che  in Pomerania faceva fronte agli Svedesi.  Se in quella campagna, almen sul fine, alcun de’ due Emuli era superiore, parrebbe, ben ponderate le cose, che quello  fosse appunto il Montecuccoli.  L’Esercito suo aveva vissuto in piena abbondanza di ogni cosa per la maravigliosa avvertenza del Generale, di tener  sempre aperta la comunicazione co’ fertili paesi della Svevia, e del Palatinato, dove i Franzesi erano stretti di  provvigioni, massime per i cavalli, a tal che per parecchj giorni ebbero a pascersi delle foglie degli alberi. Le Fanterie  Austriache erano da competere colle Franzesi. La Cavalleria Allemana era superiore alla Franzese, almen per questo  che la Franzese era notabilmente scemata e consunta per i recenti disagj. I Generali austriaci, fra’ quali si nomina il  Principe di Lorena, il Margravio di Baden, il Conte Enea Caprara, il Dunevald erano tutti uomini di sperimentato valore  e capacità. La situazione del Montecuccoli era sicuramente la più vantaggiosa. Egli stesso piantò batterie, schierò  l’esercito in battaglia, segno che voleva combattere; né egli avrebbe pensato ad avventurare la battaglia, se non avesse  veduto vantaggio manifesto.  Come adunque conchiudere, come inferire, che egli era sull’atto di soccombere, e presso al momento di perdere?  30 Enrico de la Tour d’Auvergne, Visconte di Turenna nacque a Sedan l’anno 1611 di Enrico, Duca di Buglione, e  Sovrano di Sedan, e di Elisabetta di Nassau, figlia del Principe Guglielmo di Oranges, e sorella del Principe Maurizio.  Non è mia intenzione, né di mio istituto ragionare di lui. Tutto sarebbe superfluo quanto io potessi dire in sua lode dopo  un Flechier, e tanti altri dotti e facondi oratori, che lo hanno meritamente celebrato. A me basterà di averlo comparato al  Montecuccoli, parendomi, che tutte le lodi sieno in questa unica riepilogate. Ei morì di una palla di cannone, mentre  osservava un luogo per collocarvi una batteria. Non avendo comunicato le sue intenzioni ad alcuno, il Conte di Lorges  suo Nipote, preso il comando dell’Esercito, ripassò il Reno, e vi fu inseguito dal Montecuccoli, il quale poi pose assedio  ad Haghenau e a Savern. Il Principe di Condè sopravvenuto al comando dell’Esercito lo necessitò a levare uno degli  assedj, e gli ordini superiori della sua Corte lo distolsero dall’altro. Poco appresso seguì la pace.  I grandi avvenimenti producon sempre alcune novelle. Piacevolissima è quella che seriamente racconta Madama di  Sevigné alla occasione della morte del gran Turenna: “Si dice (così ella scrive) che il Montecuccoli, dopo aver  certificato il Signor di Lorges del suo rammarico per la perdita di sì gran Capitano, gli fece pur sapere che li lascierebbe  ripassare il Reno, non volendo esporre la sua fama alla furia di un esercito inferocito, e al valore della gioventù  franzese, cui nulla nel primo impeto può resistere” (Lettres de Madame de Sevignè, Lettre 203).  31 Il Turenna lasciò alcune Memorie, le quali non sono che una mera relazione delle sue campagne scritta unicamente  per conservare la ricordanza di quelle e senza alcuno apparato di scienza e di riflessioni, le Memorie del Montecuccoli,  libro scientifico ed universale, sono tutt’altra cosa.  32 Montecuccoli, dice il Signore di Folard, è uno de’ nostri Maestri e il Vegezio de’ moderni, o a dir meglio è assai  maggiore di Vegezio... è andato innanzi a tutti, e se tutto non vi si trova, bisogna considerare la strettezza che si è  prescritta nell’Opera sua, la qual altro non è, che la idea di un corso generale e completo dell’arte della guerra  (Folard sur Polybe, observations sur le passage du fleuve Achelous).  Aderendo al giudizio di tanto scrittore e censore dell’arte della guerra, dico, che le Memorie del Montecuccoli sono alla  scienza militare quello, che gli Aforismi d’Ippocrate alla medicina, il risultato d’innumerevoli osservazioni, che  comparate insieme si riuniscono in alcuni principj certi ed universali.  Tre sono le parti dell’Opera. L’una generale e precettiva. L’altra tratta dell’uso di essi documenti nelle guerre, che la  Casa d’Austria farà all’avvenire. L’ultima narrando la storia delle campagne d’Ungheria, conferma le teorie co’ fatti, e  coll’esperimento.  L’arte della guerra abbisognava di tal libro, che la riducesse a forma di scienza, che ne gittasse i fondamenti secondo  l’uso delle armi moderne, perché altri scrittori in seguito potessero, seguendo le molte diramazioni, ampliarla, e trattarla  diffusamente. Senza un Galileo non avremo un Newton, senza un Montecuccoli non avremmo un Folard, un Puisegur,  un Turpin, e forse non avremmo Quello, che ha condotto la Tattica al sommo della perfezione, il gran Federigo. Coloro  che credono aver potuto bastare a ciò gli antichi maestri, non si sono avveduti, che i divarj del vecchio e del nuovo  guerreggiare, sono esenziali e non accidentali.  L’invenzione della polvere ha indotto nel guerreggiare tanta diversità almeno, quanta ne ha prodotto la Bussola nella  navigazione. Mettiamo a confronto amendue le maniere: si vedrà somma simplicità nella guerra degli antichi, somma  complicazione nella nostra. Dall’una parte catapulte ed arieti, dall’altra il vario e vasto apparato delle artiglierie, e tutto    
il faticoso studio della Ballistica: là gli archi e le fionde, qui i moschetti di lungo tratto, e che tutto assordan di rumore, e  tutto involvon di fumo e di confusione: le spade, sole arme che ferisser daddovvero, come avverte egregiamente  Lucano:   Ensis habet vires, & gens quaecumque virorum est   Bella gerit gladiis:  le aste, i pili resi inutili, vani gli elmi e gli scudi, vana quasi la forza e la gagliardia. Invece di guerrieri inferociti che si  scaglino sul nimico e contendano corpo a corpo, e mescolino le arme e il furore, soldati che a passo misurato  s’innoltrano, danno la morte con regola e con metodo, e con ugual pazienza l’aspettano a piè fermo, appena ritorcendo  l’offesa. In vece delle torri e de’ merli, i bastioni, le cortine, e un labirinto di opere esteriori varie sommamente  all’aspetto, sommamente nell’oggetto analoghe ed uniformi: in vece degli scavamenti, o cunicoli degli antichi, condotti  senz’arte e da uomini puramente meccanici, oggidì le mine, lavoro di astruso calcolo e di ben ponderate misure. L’arte  degli assedj, arte di valore e di pazienza presso gli antichi, oggidì è somma speculazione, e tanto vasta quasi quanto è  l’immenso circolo delle Matematiche. Senza che, lasciate le considerazioni delle arme, non mancano altre insigni  disparità. La diversa qualità de’ soldati, cittadini e spontanei una volta, di presente spesso stranieri, sempre mercenarj, e  tutti forzati o dal governo, o dalla fame: l’accampar facile allora che si chiudevano nel vallo, dove rendevansi quasi  inespugnabili, arduo oggidì che bisognano tante avvertenze alle situazioni, tante cautele contra le sorprese e le  diserzioni: la cura de’ viveri agevole, quando i soldati si recavan seco le lor provigioni, grave a dì nostri che ella è  affidata a’ magazzeni, e avventurata in quelli la somma delle cose: “Ecco (dice l’illustre Autore del Saggio generale  sulla Tattica) ecco gli errori e gli abusi che imbarazzano la scienza moderna, che moltiplicano le nozioni che la  compongono, che rendono così rari gli ottimi Condottieri nel tempo nostro. (Cresce la difficoltà nella immensità degli  Eserciti) Tale, il cui ingegno avrebbe abbracciate tutte le parti della scienza militare degli antichi, che avrebbe  lodevolmente condotti quindici o ventimila Greci, o Romani: tale che sarebbe stato un Xantippo, un Camillo, non basta  oggi per la metà delle cognizioni che compongono la scienza moderna” (Essay General de Tactique -à Londres 1773.  Dans le discours preliminaire).  Le Memorie del Montecuccoli hanno avuto, come Polibio, un diffuso ed erudito commendatore nel Signor Conte di  Turpin de Crissè Brigadiere degli eserciti del Re Cristianissimo. Quel commentario non ha tanto per oggetto d’illustrare  il testo, quanto di far dissertazioni su i temi dal testi suggeriti. Il testo però benespesso vi è scordato, e spesso censurato,  e le ommissioni non si perdonano alla brevità. Il Commentatore del Montecuccoli non è del genere degli altri, troppo  passionato pel suo autore.  33 I Franzesi si attribuiscono la gloria di aver creato essi la moderna Architettura Militare. Il mondo abbagliato da’ lor  libri e dal nome di un Vauban facilmente ha potuto persuadersene, difficile essendo che apparisse la virtù nascosta ne’  disusati libri degl’inventori.  Niuna nazione è stata più tarda ad illustrare questa scienza, come la Franzese, tanto è lontano ch’ella ne sia la creatrice.  Il Barleduc loro più antico autore scrisse dell’anno 1620. Ventinove anni prima era uscita alla luce l’opera del Tedesco  Speker, e del 1551 ne era già stata stampata alcuna cosa di fortificazione in Italia dal bresciano Niccolò Tartaglia. Poco  tardarono altri autori più vasti ed estesi di lui. Il Lanteri, il Zancha, il Lupiccini, il Maggi, il Castriotto, il Cataneo,  l’Alghisi, e il Tethi avevano dati a luce intieri trattati della moderna fortificazione, avantiché alcuno oltramontano ne  avesse scritto. E non era ancor compiuto il decimosesto secolo, quando uscì l’opera vasta e rinomata del Capitan  Francesco Marchi bolognese, nella quale tutte le parti della scienza son contenute, e dove chiaramente si scuopre  l’illustre ritrovamento, del quale si è fatto onore al Vauban, le Parallele.  La nazione che precede in una scienza co’ proprj scrittori di considerabil tempo qualunque altra, ne è senza dubbio la  istitutrice, senzaché quasi tutti i nomi delle fortificazioni sono Italiani, e Italiani per modo che ritengono la forma della  loro origine anco intrusi nelle lingue straniere.  Per tutti i citati autori nostri vedesi veramente una successione di invenzioni, ma l’invenzion fondamentale è dovuta al  celebre architetto Veronese Michele Sammicheli.  Il fondamento della nuova fortificazione consiste nella sostituzione de’ bastioni triangolari alle torri degli antichi. Il  rimanente delle opere non è in sostanza che una riproduzione ed imitazione di quel primo disegno.  Dileguata la opinione che ne attribuisce la prima invenzione o all’Ussita Ziska, o a’ Turchi d’Otranto, opinione nata per  false descrizioni, è dimostrato per innegabili testimonianze, che ella appartiene al lodato Sammicheli, che ne fece il  primo sperimento nel recinto della sua patria. Egli fu, quanto all’operare, il Vauban de’ suoi giorni. Sono, per così dire,  innumerevoli le fortezze, che egli edificò o restaurò nello stato Veneto, nell’Ecclesiastico, nel Ducato di Milano, nella  Morea, nella Candia, in Cipro. L’arte nata con lui e da lui tanto esercitata, fece in breve tempo rapidi e insigni progressi.  Questa compendiata storia della moderna architettura militare, non è che un epilogo breve ed imperfetto di una  dissertazione dell’egregio ed eruditissimo Signor Conte Angelo Scarabelli, professore di Architettura Civile e Militare  nella Università di Modena, premessa alle sue Lezioni. Avrei potuto colla sua scorta parere erudito con poca fatica, ma  ho preferito di esser breve. Bastami di asserire sulla fede indubitabile del lodato scritto, corredato di tutti gli argomenti  della evidenza, che non rimane alcun dubbio, che gli Italiani sieno gli inventori e creatori della nuova maniera di  fortificare, comecché non vogliasi negare la lor lode a’ Franzesi, che l’hanno condotta a nuovi termini di perfezione.  34 Se le azioni del Montecuccoli fossero state scritte colla diligenza di quelle del Turenna, vedressimo troppe occasioni,  nelle quali egli ebbe da contendere colla invidia e la emulazione. Nondimeno que’ pochi documenti della sua vita che ci    
restano, dimostrano abbastanza quanto tentassero i malevoli e gli invidiosi di oscurare la sua gloria. Si fece in modo  che, dovendo guerreggiare contra i Turchi, ei mancasse di tutto: se gli diede biasimo ch’ei non frenasse le scorrerie de’  Tartari, quando non avea che quattromila uomini. Si accusava ordinariamente di timidezza, e per questa accusa ei  dovette l’anno 1673 rimoversi dal comando dell’Esercito. La ragione e la equità non sarebbero state forse bastevoli a  giustificarlo, se l’esito per avventura non lo avesse fatto trionfare a malgrado degli emuli.  35 Giorgio Volfango Wedelio nel Catalogo de’ Patroni e Colleghi dell’Accademia Leopoldina de’ Curiosi della Natura,  posto al principio della Decuria II per l’anno 1682, colloca a capo di tutti il Montecuccoli, aggiugnendovi le parole  seguenti: Qui quondam fuerat Praeses nostri Ordinis, eheu! Serenissimus Princeps ac Heros Dominus D. Raymundus  Sacri Romani Imperii Comes de Montecuccoli, Dominus in Hoen-Eg, &c. (col restante de’ suoi titoli).  Jam nunc aetherea sede beatus ovat.