Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: differenze tra le versioni

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Credo che l'originale sia "del miele", non "del mele"
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Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale. Dice il Cavaliere che la smania poetica degli antichi veniva soprattutto dall’ignoranza, per la quale maravigliandosi ''balordamente'' d’ogni cosa, e credendo di vedere a ogni tratto qualche miracolo, pigliarono argomento di poesia da qualunque accidente, e immaginarono un’infinità di forze soprannaturali e di sogni e di larve: e soggiunge che presentemente, avendo gli uomini considerate e imparate, e intendendo e conoscendo e distinguendo tante cose, ed essendo persuasi e certi di tante verità, ''nelle facoltà loro'' non sono, dic’egli co’ suoi termini d’arte, ''compatibili insieme e contemporanei questi due effetti, l’intuizione logica e il prestigio favoloso; smagata è dunque di questa immaginazione la mente dell’uomo''.
Ora da queste cose, chi voglia discorrer bene e da logico, segue ecessarissimamente che la poesia non potendo più ingannare gli uomini, non deve più fingere né mentire, ma bisogna che sempre vada dietro alla ragione e alla verità. E notate, o lettori, sul bel principio quell’apertissima e famosa contraddizione. Imperocché i romantici i quali s’accorgevano ottimamente che tolta alla poesia già conciata com’essi l’avevano, anche la facoltà di fingere e di mentire, la poesia finalmente né più né meno sarebbe sparita, e di netto si sarebbe immedesimata e diventata tutt’uno colla metafisica, e risoluta in un complesso di meditazioni, non che abbiano soggettata pienamente la poesia alla ragione e alla verità, sono andati in cerca fra la gentaglia presente di ciascheduna classe, e specialmente fra il popolaccio, di quelle più strane e pazze e ridicole e vili e superstiziose opinioni e novelle che si potevano trovare, e di queste hanno fatto materia di poesia; e quello ch’è più mirabile, intantoché maledicevano l’uso delle favole greche, hanno inzeppate ne’ versi loro quante favole turche arabe persiane indiane scandinave celtiche hanno voluto, quasi che ''l’intuizione logica'' che col ''prestigio favoloso'' della Grecia non può stare, con quello dell’oriente e del settentrione potesse stare. Ma di questa incredibile contraddizione d’aver fatto tesoro delle favole orientali e settentrionali dopo scartate le favole greche come ripugnanti ai costumi e alle credenze e al sapere dell’età nostra, parlerò più avanti a suo luogo. Ora tornando al Cavaliere, seguita egli dicendo immediatamente che la facoltà immaginativa è sostanzialissima nell’uomo, di maniera che non può svanire né scemare, ma per l’opposto arde oggi come sempre d’''essere invasa rapita innamorata atterrita'' E PERFIN SEDOTTA (qui sta il punto); ''né avverrà mai che non soggiaccia alle'' ILLUSIONI ''delle forme armoniche, alle estasi della sublime contemplazione, all’efficacia dei quadri ideali, purché non sieno più arbitrari'' DEL TUTTO, E DEL TUTTO ''nudi di analogia con quel vero che ne circonda, o con quello ch’è in noi''. Ed ecco come anch’egli concede che la poesia debba ingannare, la qual cosa poi asserisce e conferma risolutamente in cento altri luoghi delle sue osservazioni. A me pare di scorgere molto chiaramente che il Cavaliere medesimo arrivato a questo passo vide che il suo ragionamento si piegava, e la punta si disviava, e s’io non erro, quelle parole ''perfino'' e ''del tutto'' sono la saldatura ch’egli ci volle fare, come tutto giorno si fa, dopo che quello, torcendosegli fra le mani, se gli fu rotto. Ma questa saldatura è veramente di parole, perché dalle cose precedenti seguita che la poesia non possa né debba ingannare, e se ella può e deve ingannare, tutti i raziocini susseguenti del Cavaliere e dei romantici, non avendo dove posino, è forza che caschino a terra. Imperocché non c’è chi non sappia che bisogna distinguere due diversi inganni; l’uno chiameremo intellettuale, l’altro fantastico. Intellettuale è quello per esempio d’un filosofo che vi persuada il falso. Fantastico è quello delle arti belle e della poesia a’ giorni nostri; giacché non è più quel tempo che la gente si guadagnava il vitto cantando per le borgate e pe’ chiassuoli i versi d’{{AutoreCitato|Omero|Omero}}, e che tutta la Grecia raunata e seduta in Olimpia ascoltava e ammirava le storie d’{{AutoreCitato|Erodoto|Erodoto}} più soavi del melemiele, onde poi nel vederlo, l’uno diceva all’altro, mostrandolo a dito: ''Questi è quegli che ha scritte le guerre di Persia, e lodate le vittorie nostre''<ref>{{AutoreCitato|Luciano di Samosata|Luciano}} nel principio dell’''Erodoto''</ref>: ma oggi i lettori o uditori del poeta non sono
altro che persone dirozzate e, qual più qual meno, intelligenti: vero è ch’il poeta in certo modo deve far conto di scrivere pel volgo; se bene i romantici pare che vengano a volere per lo contrario ch’egli scriva pel volgo e faccia conto di scrivere per gl’intelligenti, le quali due cose sono contraddittorie, ma quelle che ho detto io, non sono; perché la fantasia degl’intelligenti può bene, massime leggendo poesie e volendo essere ingannata, quasi discendere e mettersi a paro di quella degl’idioti, laddove la fantasia degl’idioti non può salire e mettersi a paro di quella degl’intelligenti. Ora di questi che ho detto essere i lettori o uditori del poeta, l’intelletto non può essere ingannato dalla poesia, ben può essere ed è ingannata molte volte l’immaginativa. Il Cavaliere dunque e coi Cavaliere i romantici quando gridano che il poeta nel fingere s’adatti ai costumi e alle opinioni nostre e alle verità conosciute presentemente, non guardano che il poeta non inganna gl’intelletti né gl’ingannò mai, se non per avventura in quei tempi antichissimi che ho detto di sopra, ma solamente le fantasie; non guardano che sapendo noi così tosto come, aperto un libro, lo vediamo scritto in versi, che quel libro è pieno di menzogne, e desiderando e proccurando quando leggiamo poesie, d’essere ingannati e nel metterci a leggere preparando e componendo quasi senz’avvedercene la fantasia a ricevere e accogliere l’illusione, è ridicolo a dire che il poeta non la possa illudere quando non s’attenga alle opinioni
e ai costumi nostri, quasi che noi non le dessimo licenza di lasciarsi ingannare più che tanto, e che ella non avesse forza di scordarsi né il poeta di farle scordare e opinioni e consuetudini e checchessia, non guardano che l’intelletto in mezzo al delirio dell’immaginativa conosce benissimo ch’ella vaneggia, e onninamente e sempre tanto crede al meno falso quanto al più falso, tanto agli Angeli del {{AutoreCitato|John Milton|Milton}} e alle sostanze allegoriche del {{AutoreCitato|Voltaire|Voltaire}} quanto agli Dei d’{{AutoreCitato|Omero|Omero}}, tanto agli spettri del {{AutoreCitato|Gottfried August Bürger|Bürger}} e alle befane del {{AutoreCitato|Robert Southey|Southey}}, quanto all’inferno di {{AutoreCitato|Publio Virgilio Marone|Virgilio}}, tanto che un Angelo collo scudo celeste «di lucidissimo diamante» abbia difeso Raimondo, quanto che Apollo coll’egida «irsuta» e «fimbriata» abbia preceduto Ettore nella battaglia. In somma tutto sta, come ho detto da principio, se la poesia debba illudere o no; se deve, com’è chiaro che deve, e come i romantici affermano spontaneamente, tutto il resto non è altro che parole e sofisticheria e volerci far credere a forza d’argomenti quello che noi sappiamo che non è vero; perché in fatti sappiamo che il poeta sì come per cristiano e filosofo e moderno che sia in ogni cosa, non c’ingannerà mai l’intelletto, così per pagano e idiota e antico che si mostri, c’ingannerà l’immaginazione ogni volta che fingerà da