Solitudine e raccoglimenti dello spirito

Giovanni Prati

Olindo Malagodi 1844 Indice:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. I, 1916 – BEIC 1901289.djvu sonetti Solitudine e raccoglimenti dello spirito Intestazione 23 luglio 2020 25% Da definire

Una cena d'Alboino re Alla malinconia
Questo testo fa parte della raccolta V. Da 'Memorie e lagrime'
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I

SOLITUDINE

E RACCOGLIMENTI DELLO SPIRITO

1

     Che mi giovò peregrinar per tante
terre, temprando i mesti carmi e i lieti?
Sotto l’ombra de’ gelsi e degli abeti
or sogno i dí quand’io sorrisi infante.
     Cara cittá del Tanaro sonante,
patria d’imperadori e di poeti,
molli prega per te l'aure e i pianeti
la nostra musa, della pace amante.
     La nostra musa, che un romito albergo
or chiede al cielo, d’ascoltar giá lassa
tanto vacuo rumor stridersi a tergo.
     Rumor di biasmo che matura affanni,
rumor di lode che col vento passa.
Oh, i cari sogni de’miei giovani anni!

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2

     Nei cari sogni de’ miei giovani anni
vidi una mesta creatura bella,
e sul cammin de’ cominciati affanni
per man la presi, e la chiamai sorella.
     Or basso giace! E piacque alla mia stella
riconfortarmi con illustri inganni;
ond’io sclamai: — Gloria, ti cerco. — Ed ella
mi rispose: — Figliuol, cerchi i tuoi danni! —
     E ben fu il ver: perché ho consunti gli occhi
per tante veglie lacrimate, e sento
su per l’aspro cammin rotti i ginocchi.
     Sui fior giá tristi la imminente neve
si versa, e picchia ai morti rami il vento.
Primavera dell’uom, quanto sei breve!


3

     Primavera dell’uomo, quanto sei breve!
Perciò natura con pietoso affetto
fece uscir di sue mani il fanciulletto
cosí ridente, spensierato e lieve.
     Son rose i lini del suo picciol letto,
rose i baci che dona e che riceve;
è rugiada del ciel l’acqua che beve,
divina è l’aura che gli scorre in petto.
     Lasciamo in grembo al luminoso incanto
questo picciolo re dell’allegrezza,
che in breve diverrá schiavo del pianto.
     Oh rimembranza dell’etá fanciulla!
Chi serba amor di quella prima altezza
sospira, e torna a ribaciar la culla.

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4

     La culla a ribaciar torna e sospira
chi per suoi dolorosi esperimenti
apprese l'arti, onde si volve e gira
questa torbida razza de’ viventi.
     Chi vide uscir dai ben orditi accenti
l’opre difformi, e il viver dolce in ira
e poderosi i rei sugli innocenti,
la culla a ribaciar torna e sospira.
     Io l’amo sí, dal vulgo inavvertita
quest’umil casa, ove sognar si ponno
le larve piú soavi della vita.
     Ma, al par di questa, che con dolci tempre
chiama sugli occhi ai pargoletti il sonno,
amo quell‘altra ove si dorme sempre!


5

     Amo quell'altra ove si dorme in pace,
ove allo stanco figlio del dolore
è pio contorto una solinga face,
una stilla di pianto, un mesto fiore.
     Colá dentro sepolto, il rumor tace
di tanti sogni, che fêr nodo al core.
Oh, ben s’apre ai dolenti la tenace
porta, onde vassi all’ultime dimore!
     Io quando sento come si consuma
in me il vigor della nascosta vita,
visibil cosa alle persone accorte,
     d’una súbita luce si ralluma
l’anima vagabonda, e un’infinita
gioia mi prende in vagheggiar la morte.

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6

     Sí tu verrai; verrai, Morte invocata,
ultimo dono che il Signor dispensa.
E: — Vieni, amico — mi dirai: — la mensa
nuzial, che volesti, è preparata.
     Vieni meco alla piaggia avventurata,
ove da lunga cecitá rinsensa
questa misera polvere, che pensa
pensieri ed opre che non han durata. —
     Ed io verrò, cortese ultima amica,
verrò nella tua pace. E il viatore
chi sa che alla modesta urna non dica:
     — Dorme lá dentro un infelice ingegno
consumato da sé nel piú bel fiore.
Ma sofferse, e di pace egli era degno! —


7

     Quel dí che dentro agli occhi moribondi
mi nuoterá la fuggitiva luce,
della barchetta mia chi sará duce
sul mar che mena negli eterni mondi?
     Rimembro io ben d’un cherubino il truce
brando, e la pena delle offese frondi;
e so che a quei perduti orti giocondi
nessun merito mio mi riconduce.
     Pure ho speme, buon Dio, che tu sia mite
ad un che amò, che delirò, cercando
suo bene in terra, e non trovò che duolo.
     Aimè! Signor, da tenebre infinite
i’ mi sento cerchiar, sino da quando
il buon angelo mio mi lasciò solo!

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8

     Il buon angelo mio fu quella cara
che, or è il quart’anno, s’è da noi partita,
tramutando le rose della vita
negli oscuri giacinti della bara.
     Di quella donna affettuosa e rara
in noi la ricordanza illanguidita
par talvolta alle genti, e la romita
nostr’alma il riso dei felici impara.
     Ma, Dio! Qual riso d’amarezza pieno,
riso che sfiora i freddi labbri appena,
e dentro al cuore in lagrime si muta!
     Ond’io gli occhi sollevo, e chiudo al seno
le braccia, e tra me dico: — Or la serena
stagion volga per altri: io l’ho perduta. —


9

     Volga per altri la stagion serena,
che a me rise negli occhi, or nella mente
sí mi travaglia, che da mesta vena
spuntar sempre i miei carmi ode la gente.
     E tuttavia l’afflitta anima sente
anco una gioia; ed è che fatta piena
sia la speranza di veder possente,
come un tempo giá fu, l’itala arena
     d’una schiatta animosa, alta e gentile,
che si rammenti degli antichi padri,
stelle fiammanti in procelloso nembo;
     e fiorisca una volta il forte aprile
dai fiori eterni; e sentano le madri
con gioia il peso che lor vive in grembo