Si conta e si racconta.../Pappafichi

Pappafichi

Si conta e si racconta.../La vecchina Si conta e si racconta.../Re Prudenzio IncludiIntestazione 3 settembre 2010 50% Fiabe

La vecchina Re Prudenzio

C’era una volta un ragazzo che sembrava nato proprio per fare il buffone.

Già, bastava guardarlo per mettersi a ridere. Testa a pera, con capelli che parevano setole; occhi, labbra, mani continuamente irrequieti, quasi egli portasse dentro il corpo un congegno che gli impedisse di star fermo.

Ma questo era niente a petto di certi gridi stranissimi - della gola? dello stomaco? - che non si capiva bene donde quella specie di burattino potesse cavarli.

Inoltre, di tratto in tratto, come se qualcuno gli avesse dato un pizzicotto, scattava con balzi e salti, faceva rapide giravolte da sembrare una trottola; e, sùbito, si rimetteva serio serio, impalato, guardando attorno, fissando negli occhi le persone che a quelle smorfie ridevano, ridevano fino a dover gridargli:

- Basta! Basta, Pappafichi! - E allora era il caso che Pappafichi non la finisse più.

Perché gli avevano dato quel buffo nomignolo? Perché, durante la stagione dei fichi, egli passava le giornate scommettendo con tutti:

- Venti, trenta, cinquanta fichi, fin cento alla volta; voi ci mettete i fichi, io ci metto prima la bocca e poi la pancia. Se sbaglio, pago un soldo; eccolo qui! E lo mostrava.

Tutti sapevano anticipatamente di perdere la scommessa; ma era un gran divertimento veder Pappafichi che lanciava i fichi per aria e, con le mani dietro la schiena, li riceveva in bocca, e li inghiottiva senza sbucciarli, quasi fossero pillolette. Un vassoio, o una cesta, o un paniere; li posava su una seggiola, su uno sgabello; e, un pezzetto guardava, anzi si mangiava con gli occhi i bei fichi freschi là ammucchiati, poi: - E uno! E due! - Un fuoco d’artifizio. I fichi, ripiombandogli in bocca, facevano un piccolo scoppio. - E tre! E quattro! E cinque! - Uno scendeva giù, e l’altro andava su, senza intervalli, finché il vassoio, o la cesta, o il paniere non erano vuotati.

Avrebbero dovuto fargli indigestione, dargli dolori di stomaco: niente! Vinta una scommessa in un posto, si avviava verso un altro.

- Venti, trenta, cinquanta, fin cento alla volta; voi ci mettete i fichi, io ci metto prima la bocca e poi la pancia. Se sbaglio, pago un soldo; eccolo qui!

E lo mostrava.

Di chi era figlio? Non lo sapeva nessuno. Pareva che non lo sapesse neppur lui. Dov’era nato? Non lo sapeva nessuno. E se lo domandavano a lui, rispondeva con un gesto che significava: lontano, lontano, lontano!

- Sei piovuto dal cielo?

- Può darsi.

- E non ti sei rotto il collo?

Prendeva la testa tra le mani, la voltava a destra, la rivoltava a sinistra, tirandola in su, allungando il collo per dimostrare: - Ecco! È sano! - E il gesto era così espressivo, buffo che la gente si sforzava invano di trattenere le risa per evitare che, sùbito dopo, Pappafichi non chiedesse: - Ora datemi un soldo! Due soldi!

Gli servivano per mostrarli nel momento delle scommesse; mostrarli soltanto, perché le rare volte che gli accadeva di perdere, buttava il soldo per aria, lo prendeva in bocca e faceva il verso d’inghiottirlo, come aveva praticato coi fichi. Lo nascondeva sotto la lingua, apriva la bocca, perché vedessero che era andato giù; oppure fingeva che gli era rimasto a mezza gola, e si agitava tutto, facendo strani versacci per provocare le risa. Aveva fin la sfacciataggine di soggiungere:

- Ho perduto un soldo! Peccato!

Figuriamoci, dunque, la maraviglia della gente quando, da un giorno all’altro, Pappafichi parve, per dir così, mutato di bianco in nero, cioè così serio, da non riconoscerlo affatto.

- Pappafichi, che t’è accaduto?

- Non é questo il mio nome!

- Qual è? Dillo.

- Mi chiamo...

E voltava le spalle alla gente.

- Pappafichi è malato! - Pappafichi è ammattito!

- Pappafichi vuol morire. Non fa ridere più!

Lo compiangevano sinceramente. Sembrava che a tutti fosse venuto meno qualcosa, non potendo più godere le buffonerie di Pappafichi.

Non era malato, né ammattito e non aveva punto voglia di morire. Stava soltanto in gran pensiero per un portamonetino ritrovato. Lo aveva visto su un mucchio d’immondizie, tra bucce di aranci, minuzzoli di carta, foglie di verdura, cocci di ogni sorta. Di pelle rossastra, unto e bisunto, col fermaglio arrugginito, era stato buttato là, pareva, come cosa inservibile; ma per lui poteva passare quasi quasi per nuovo.

Si era forse mai sognato di arrivare un giorno a possederne uno? Quei tre, quattro soldi che formavano qualche volta la sua ricchezza gli sballottavano, mezzo sperduti, in una tasca dei calzoni. Ficcava la mano e doveva brancicare per trovarli in fondo alla tasca. Oh quel portamonetino gli faceva comodo davvero! Giusto quel giorno egli era troppo ricco: possedeva cinque soldi! Lo aperse, e con grande stupore lo vide foderato nell’interno di velluto cremisi nuovo. Meglio! I cinque soldi vi sarebbero stati come Principi!

Disse proprio così.

Nell’osservarlo attentamente, si accorse che, in un lato, impresse in oro, si potevano leggere tre parole: "Chiedi e avrai!". Il suo stupore si accrebbe. Pareva che il portamonetino gli tremasse fra le dita, palpitasse come cosa viva, impaziente nell’attesa di un comando, facendogli luccicar sotto gli occhi le strane parole: "Chiedi e avrai!".

Vi aveva già riposto il suo tesoretto, e stava per chiudere il fermaglio; per chiasso, gli venne l’idea di dire: - Voglio dieci soldi! - Lo chiuse, lo aprì: lo richiuse, lo riaprì. I soldi là dentro erano sempre cinque, i suoi cinque! Se non che, appena serbatoio nella tasca dei calzoni, sentì che il peso di esso era aumentato tutt’a un tratto. Lo cavò fuori, lo aperse e... trattenne a stento uno strillo. Avea detto: - Voglio dieci soldi! - e i dieci soldi erano là.

Egli dormiva in uno stambugino concessogli, per carità, da una vecchietta che gli faceva da madre, e gli diceva spesso:

- Invece di fare il buffone, dovresti lavorare.

- Anche questo è lavoro. Intanto bado a crescere! - rispondeva Pappafichi.

E così era arrivato a dodici anni.

Quella mattina la vecchietta lo vide ritornare insolitamente a casa e chiudersi nello stambugio col paletto di dentro. Dapprima non ci fece caso. Poi le parve disentir rimescolare delle monete di suono argentino. Stette a origliare: non si era ingannata! Pappafichi si divertiva a rimestare... qualcosa che dava il suono di molte monete di argento. La vecchia non poteva immaginare che si trattasse davvero di monete d’argento. E picchiò all’uscio: - Pappafichi, che rimesti?

Pappafichi aperse l’uscio a fessura:

- Nonna, ho trovato questi due scudi. Non so che farmene; ve li regalo.

Il rimescolio continuava, ma questa volta il suono era di monete di oro. La vecchietta picchiò all’uscio:

- Pappafichi, che rimesti?

Pappafichi aperse di nuovo l’uscio a fessura:

- Nonna, ho trovato queste due monete di oro. Non so che farmene; ve le regalo.

La chiamava Nonna per rispetto.

La vecchia credette che Pappafichi avesse commesso una mala azione, e da dietro l’uscio gli gridò:

- Ah! Pappafichi! Che hai fatto? Non voglio ladri in casa mia! Vattene! Vattene! Non voglio ladri in casa mia!

Si sentì un più forte rimescolio di monete; poi Pappafichi venne fuori, con le braccia ciondoloni, in maniche di camicia come soleva andare di estate, scalzo, coi calzoni stretti ai fianchi da una cinghia di cuoio; e, fatta una smorfia, disse:

- Addio, Nonna! Il ladro se ne va!

Questo fu il primo dispiacere che il portamonetino gli cagionò: farlo scambiare per ladro! Il secondo fu di fargli perdere la voglia dei fichi freschi. Pareva fatto a posta! Quell’anno n’erano venuti abbondantissimi, di ogni sorta: lardai, bitontoni, verdoni, asinacci, cavalieri, rossellini, gentili, vettaioli; una maraviglia, tutti col miele in cima. Ma Pappafichi, non che invitar la gente: - Venti, trenta, cinquanta, fin cento alla volta; voi ci mettete i fichi, io ci metto prima la bocca e poi la pancia. Se sbaglio, pago un soldo! - ora che di qua, di là gridavano: - Ehi, Pappafichi! Si scommette? Guarda che bellezza! - faceva una spallucciata, e non si voltava neppure. Aveva ben altro per la testa!

Chiedeva, e il portamonetino rigurgitava di monete. Aveva scoperto, per caso, che dicendo: - Grazie tante! - le monete rientravano nel portamonete e sparivano. Meglio così? Intanto, tra la paura di perderlo e il non saper che cosa fare con quella fortuna del: "Chiedi e avrai!". Pappafichi aveva smarrito la gaiezza, la tranquillità. Era brutto, era buffo; ma ora, con quella mùtria, sembrava anche più brutto e più buffo.

Gli era venuto, tutt’a un tratto, il desiderio di ricercare i suoi parenti. Doveva averli: non era davvero piovuto dal cielo. E si decise di andare attorno pel mondo, per tentar di rintracciarli. Si rimpannucciò, comperò un paio di scarpe, tutta roba grossolana da non dar nell’occhio, e via.

Si accorse di un omo che gli andava sempre dietro, con una lanternuccia attaccata a una cordicella, e accesa anche di giorno. Lui svoltava una cantonata, e quegli svoltava la cantonata; lui si fermava a guardare un edifizio, una piazza, e quegli si fermava a guardare lo stesso edifizio, la stessa piazza. Lo trovava ogni mattina davanti all’uscio della casa o della locanda dov’era andato ad alloggiare, e se lo sentiva alle spalle, o se lo vedeva allato, sempre con la lanternuccia accesa anche di giorno, quasi la luce del sole non bastasse a fargli scorgere quel che cercava, curvo, frugando dappertutto con gli occhi.

Pappafichi cominciò ad essere atterrito di quella malombra che più non lo lasciava di un passo. - Chi era? Che voleva da lui? E un giorno, bruscamente, glielo domandò.

- Mi fu rubata - rispose quell’omo - la mia buona sorte. L’ho cercata invano da un anno; e neppur ora, che la sento e la fiuto vicina, riesco a trovarla. Mi fu rubato anche il Reuccio mio figlio.

- Siete Re?

- Che mi vale?

- E in che consisteva quella buona sorte?

- In un vecchio portamonetino.

- Questo qui?

- Questo qui!

Pappafichi non aveva potuto far a meno di mostrarglielo e l’omo gliel’aveva levato rapidamente di mano. Tremante di gioia, però, lo guardava, lo tastava, tutto deluso.

- Ah, tu non sei mio figlio il Reuccio! No! No!

- Io sono Pappafichi.

- Il Reuccio era bello!

- Ed io sono brutto, purtroppo!

Ma la voce... la voce!... Ma gli occhi, sì, gli occhi!... Dovresti venire con me, dal mago Sabino. Il cuore mi dice che tu sei il Reuccio mio figlio. Hai addosso la malia di una strega che voleva esser sposata da me per diventare Regina, e che ti portò via, non so dove, forse... forse!...

Pappafichi, udito dal mago Sabino che si trattava proprio di malia e che con un certo bagno sarebbe ritornato com’era una volta, non si rallegrò molto della fortuna di diventare Reuccio. E prima di tentare la prova di quel certo bagno, volle tornare al paesetto dove tutti lo conoscevano e gli volevano bene e farvi :parecchie belle scorpacciate di fichi, per onorare il nomignolo che stava per perdere.

Lo videro ricomparire con gli stessi cenci, com’era andato via, scalzo, coi calzoni fermati ai fianchi da una cinghia di cuoio.

- Venti, trenta, cinquanta, fin cento alla volta; voi ci mettete i fichi, io ci metto prima la bocca e poi la pancia. Se sbaglio, pago un soldo; eccolo qui.

E lo mostrava.

Fu una gran festa per tutto il paese. Vassoi, ceste, panieri, mucchi di fichi freschi! E Pappafichi: - E uno! E due!... - Un fuoco di artifizio! I fichi, ripiombandogli in bocca, facevano un piccolo scoppio. - E tre! - E quattro! - E cinque!... - Uno scendeva giù e l’altro andava su, senza intervalli!... Un’intera settimana.

Pappafichi diventò Reuccio; alla morte del padre, diventò Re. Ma in mezzo ai sopraccapi delle cure del regno egli rammentò quasi ogni giorno le belle scommesse dei fichi freschi. E quand’era la stagione, scendeva nel giardino del palazzo reale, cercava il posto più appartato; e i giardinieri, che avevano ordine di non avvicinarsi, udivano: - E uno! E due! E dieci! E cento!... - lontani mille miglia dal supporre che il Re si divertisse a lanciare in aria i bei fichi fatti cogliere allora allora, e a prenderli in bocca, come quand’era Pappafichi.

Lardai, verdoni, dottati...

Bisogna mangiarli sbucciati! Se non vi siete annoiati... Bisogna mangiarli sbucciati!