Sentenza Tribunale civile di Roma 9 giugno 1950 - Attentato di via Rasella

Tribunale civile di Roma

1950 Attentato di via Rasella Diritto Sentenza 26 maggio-9 giugno 1950 - Attentato di via Rasella Intestazione 31 dicembre 2016 25% diritto

Organo giudicante: Tribunale civile di Roma
Deposito in Cancelleria: 9 giugno 1950
Normativa correlata:
D.L.L. 12 aprile 1945, n. 194


TRIBUNALE DI ROMA.


Sentenza 9 giugno 1950; Pres. Frangipani P., Est. De Rosa A.; Lidonici e altri c. Bentivegna e altri.

Occupazione del territorio nazionale — Attentato contro truppe occupanti — Episodio del 23 marzo 1944 in Roma, via Rasella — Atto legittimo di guerra — Responsabilità civile degli organizzatori e degli esecutori — Insussistenza (D. legisl. luog. 12 aprile 1945 n. 194, sull'impunibilità delle azioni di guerra dei patrioti nell'Italia occupata, art. un.).

L'attentato, commesso da partigiani in Roma il 23 marzo 1944 contro militari germanici, che transitavano per la via Rasella, fu atto legittimo di guerra.

Pertanto gli organizzatori e gli esecutori materiali dell'attentato non sono civilmente responsabili per l'eccidio delle Fosse ardeatine, successivamente disposto dal Comando germanico, a titolo di rappresaglia.

Il Tribunale, ecc. — Non si contesta dagli istanti che la guerra partigiana debba inquadrarsi storicamente e giuridicamente nella attività militare spiegata dallo Stato italiano nell'ultima e conclusiva fase del recente conflitto. Si contesta invece che l'episodio di via Rasella possa considerarsi un legittimo fatto di guerra, sia per la qualità degli agenti sia per la sua intrinseca natura.

Ma, prima di scendere alla disamina delle opposte tesi, occorre soffermarsi sull'orientamento della domanda rispetto ai suoi destinatari. Nell'atto introduttivo del giudizio si è affermato che l'ordine di eseguire l'attentato di via Rasella fu impartito dalla Giunta militare al Comando Gruppi azione patriottica (G.a.p.), di cui facevano parte il Salinari, il Calamandrei, il Bentivegna e la Capponi: nel corso dell'istruttoria, invece, pur senza un esplicito abbandono di tale assunto, si è dedotto e si è chiesto di provare che l'ordine di compiere l'attentato fu dato dal Partito comunista. Se fosse vera questa seconda ipotesi, i componenti della Giunta militare rimarrebbero automaticamente fuori causa, in quanto cadrebbe il presupposto sul quale si fonda la domanda proposta contro di essi, ma non sarebbero superate le questioni concernenti la proponibilità della domanda rispetto agli altri convenuti, perché anche in tal caso l'attentato di via Rasella resterebbe inquadrato nella guerra partigiana. È fuori discussione infatti che l'attentato non venne compiuto per un interesse particolare di un partito politico, ovvero dei mandanti o degli esecutori materiali, sibbene allo scopo di combattere i tedeschi, o se si vuole, per creare uno stato d'animo sfavorevole allo svolgimento delle operazioni belliche tedesche. Ciò, del resto, era nelle finalità istituzionali dei G.a.p. che erano formazioni militari di aderenti al Partito comunista, il cui compito precipuo era quello di compiere attentati contro comandi o singoli esponenti politici e militari del nemico ed atti di sabotaggio. La particolarità dei compiti demandati ai G.a.p., e la diversità concettuale di tale organizzazione rispetto alle altre bande partigiane trovano un implicito riconoscimento legislativo nel decr. legisl. luog. 21 agosto 1945 n. 51[8], il quale, all'art. 7, costantemente distingue le formazioni armate partigiane da quelle “gappiste”. Tale contrapposizione denota che un quid doveva distinguere le une dalle altre, in modo da imprimere a ciascuna di esse una propria fisionomia, atta ad escludere qualsiasi possibilità di assimilazione. L'elemento di distinzione era costituito appunto dal carattere anche terroristico delle organizzazioni “gappiste”. Né la eventuale provenienza dell'ordine dell'attentato dagli organi di un partito politico snatura il carattere dell'azione di via Rasella, sia perché è indiscusso che, nel periodo della Resistenza, i vari gruppi politici svolsero un'azione di primo piano e si innestarono nell'attività statuale mediante un organo da essi creato, il Comitato centrale di liberazione nazionale, sia perché, indipendentemente da siffatto inquadramento, il citato decreto 21 agosto 1945 riconosce e qualifica anche l'attività di “coloro che, a sud della linea gotica, pur non avendo fatto parte di formazioni inquadrate dal C.l.n., hanno militato per un periodo di tre mesi in formazioni partigiane o squadre cittadine indipendenti” (art. 7, n. 4, lett. c. e n. 5, lett. c), e di “coloro che, a nord ed a sud della linea gotica, hanno svolto attività od azioni di particolare importanza” (art. 7, n. 7).

Pertanto, qualsiasi delle ipotesi dedotte potesse essere accolta può tenersi per fermo che l'episodio di via Rasella si inquadra nella resistenza e nella lotta partigiana, con tutte le conseguenze che da tale inquadramento derivano.

Ciò posto, può passarsi all'esame delle questioni che scaturiscono dalla eccezione di improponibilità dell'azione a cagione del carattere statuale della attività partigiana e della conseguente insindacabilità degli atti discrezionali della pubblica Amministrazione. In relazione a tale eccezione, gli istanti oppongono innanzi tutto che nell'episodio di via Rasella non può ravvisarsi un legittimo fatto di guerra, mancando negli agenti la qualifica subiettiva di legittimi belligeranti.

Se ciò fosse esatto, dovrebbe negarsi la legittimità di tutto il movimento di resistenza, di cui l'azione partigiana è stata, in Italia e fuori d'Italia, la più fattiva esplicazione. Non si deve dimenticare infatti, che la guerra partigiana è fiorita, presso le nazioni che hanno subìto l'occupazione tedesca, come una spontanea reazione delle popolazioni alla diuturna sopraffazione dell'occupante, che aveva tramutato il territorio occupato in un teatro di operazioni, nel quale non sempre poteva organizzarsi ed operare un corpo di volontari che avesse la forza di opporsi apertamente al nemico, così come avviene nella guerra combattuta dagli eserciti regolari. Il più delle volte quindi l'attività partigiana dovette esplicarsi nella più stretta clandestinità ed in siffatte condizioni non poteva operare un corpo organizzato, avente un capo responsabile, una uniforme o un distintivo fisso riconoscibile a distanza e che portasse apertamente le armi, così come esige la legge di guerra.

Tuttavia, se l'azione partigiana dovesse essere valutata alla stregua del diritto bellico internazionale, non potrebbe non essere considerata illecita, perché contraria alla Convenzione dell'Aja del 18 ottobre 1907, che fissa nei termini di cui sopra i requisiti per il riconoscimento della qualifica di legittimo belligerante. In tali sensi ed in questi limiti si può negare la qualifica di legittimo belligerante al combattente partigiano, che difatti i tedeschi non hanno mai trattato per tale: in tali sensi e con questi limiti può intendersi l'apprezzamento dato dal Tribunale militare territoriale di Roma, allorché dovette inquadrare l'episodio di via Rasella nella legge internazionale per giudicare della responsabilità del Kappler.

Ben altro è invece il punto centrale del problema, allorché si tratta di stabilire se il nostro ordinamento giuridico abbia riconosciuto ed inquadrato fra le forze combattenti dello Stato i cittadini che, in gruppi organizzati o isolatamente, parteciparono alla guerra partigiana, nei modi e con i mezzi che le circostanze consentivano; se abbia impresso il crisma del fatto di guerra ad ogni operazione compiuta dai partigiani per le necessità di lotta contro i tedeschi. L'eventuale contrasto fra l'ordinamento internazionale e l'ordinamento interno si risolve con la prevalenza di questo su quello, perché il primo segna norme di condotta allo Stato rispetto all'altro Stato, il secondo invece segna le norme di condotta nei rapporti fra cittadini e fra Stato e cittadini.

Una specifica applicazione di tali principi risulta fatta dallo stesso codice penale militare di guerra, laddove all'art. 165 dispone che “i reati preveduti dal capo secondo (atti illegittimi o arbitrari di ostilità), dalla sezione prima del capo terzo (dell'abuso dei mezzi per nuocere al nemico), e dal capo sesto di questo titolo (dei reati concernenti le requisizioni, contributi e prestazioni militari), quando sono commessi da cittadini italiani contro lo Stato nemico o i sudditi di esso sono punibili in seguito a disposizione del comandante supremo, e solo in quanto lo Stato nemico garantisca parità di tutela penale allo Stato italiano ed ai suoi cittadini”. Le limitazioni contenute in detta norma non solo rappresentano una pratica applicazione del principio di autonomia dell'ordinamento giuridico interno rispetto a quello internazionale, ma consentono di classificare le stesse disposizioni della legge di guerra italiana come norme di condotta i cui precetti non impegnano in modo assoluto, ma ammettono possibilità di deroghe.

Così posto il quesito, non giova far richiamo a quelle norme del nostro ordinamento, nelle quali risultano trasfusi gli impegni internazionalmente assunti dallo Stato e, in particolare, all'art. 25 della legge di guerra approvata con r. decreto 8 luglio 1938 n. 1415, quando tutta la legislazione che si occupa in modo specifico della guerra partigiana e dei partigiani inquadra l'una fra le attività dello Stato e gli altri fra gli organi destinati ad attuarle. Fra le molteplici leggi emanate al riguardo, particolare riguardo assume il citato decreto legisl. 21 agosto 1945, concernente il riconoscimento delle qualifiche dei partigiani e l'esame delle proposte di ricompensa, ove si prescinde del tutto dalla esistenza di quelle condizioni, dalle quali l'art. 25 della legge di guerra fa dipendere il riconoscimento della qualità di legittimo belligerante. Del resto, la stessa legge di guerra, all'art. 27, considera per tale “la popolazione di un territorio non occupato che, all'avvicinarsi del nemico, prende spontaneamente le armi per combattere le forze dell'invasione, senza aver avuto il tempo di organizzarsi nel modo indicato nell'art. 25... purché porti apertamente le armi e rispetti le leggi e gli usi di guerra”. Queste due ultime limitazioni poste dall'art. 27 della legge di guerra (purché porti... e rispetti...) sono ancora giustificabili quando il territorio nazionale è solamente in pericolo, ma non ancora violato da una occupazione nemica e la popolazione si affianca ed opera con l'esercito regolare; quando, invece, il territorio nazionale viene militarmente occupato, si determina una carenza dei vincoli che l'ordinamento nazionale pone alle libere iniziative dei cittadini dirette a contrastare lo stato di occupazione, perché dette iniziative non trovano più una limitazione nel potere di imperio dello Stato sopraffatto, ma si espandono come mezzo di autodifesa di quel diritto alla libertà che è uno dei maggiori attributi della personalità umana.

Per questa fondamentale esigenza ed in virtù di tali principi, il nostro ordinamento ha potuto dare un postumo riconoscimento giuridico alle libere iniziative che hanno fatto fiorire la resistenza, senza che ciò implichi la rinnegazione di altri principi tendenti a disciplinare le modalità dei conflitti armati al fine di attenuare gli orrori della guerra.

Dal riconoscimento dato dal nostro ordinamento giuridico ai partigiani ed alla guerra partigiana discende, per necessaria conseguenza, che deve qualificarsi come legittimo fatto di guerra un episodio che si riallaccia alla resistenza e, come tale, non può non essere considerato quale esplicazione di attività statuale.

Pertanto, anche se si desse per ammesso che l'episodio di via Rasella possa definirsi un attacco proditorio; che esso fosse stato realizzato contro le direttive ed i divieti dei comandanti militari accreditati presso il Governo legittimo; che fosse stato compiuto in una zona nella quale doveva essere rispettata la stretta neutralità, non per questo cesserebbe di essere un fatto di guerra.

Senonché ciò che si è ammesso per pura ipotesi, in realtà non trova alcun solido fondamento. Nella sua più ampia accezione, rientra nella nozione di “violenza proditoria” qualsiasi offesa inferta al nemico cogliendolo di sorpresa (letteralmente: a tradimento), ma tale accezione non è quella accolta dalla legge di guerra, perché detta legge considera lecito lo stratagemma (art. 36), cioè l'inganno ordito con astuzia, di cui una delle applicazioni è la cosiddetta imboscata. Una guida per la definizione del concetto di “violenza proditoria” è fornita dalla stessa legge di guerra, che comprende sotto lo stesso paradigma “l'uccidere o ferire un nemico a tradimento o quando questi, avendo deposto le armi e non avendo più modo di difendersi, si sia arreso a discrezione”. Una assimilazione di tal genere induce a ritenere che per “violenza proditoria” si sia voluto intendere l'atto violento compiuto quando si è perfidamente ingenerato nel nemico la ragionevole opinione di non avere a temere insidie od offese; quando, insomma, vengono violati quei minimi doveri di lealtà che l'onore militare impone.

Ridotta in tali termini la nozione di violenza proditoria non può dirsi che l'attentato di via Rasella abbia un carattere di tal genere, poiché non era ignoto ai comandi tedeschi che nuclei della resistenza operavano in ogni lembo d'Italia nelle circostanze più impensate e con i mezzi più disparati, tanto che quelli erano costretti ad imporre ai propri uomini un costante assetto di guerra ed a minacciare feroci rappresaglie. Pertanto, checché si possa pensare di tale attentato, non può negarsi ad esso il carattere di una qualsiasi imboscata.

La riprova si desume dallo stesso tenore delle direttive che si assumono impartite dai generali Armellini e Bencivenga, i quali avrebbero limitato il proprio divieto per azioni di tal genere solo in relazione alla città di Roma. Difatti, al processo Kappler, il gen. Armellini ebbe a dichiarare: “ho dato disposizioni perché nell'interno della città venissero evitati attentati e che si intensificassero all'esterno”. Orbene, la contraddizione non consente di qualificare diversamente un atto solo in relazione alla città o al luogo nel quale sarebbe stato compiuto.

Ben diversa è poi la questione relativa ai poteri di comando dei predetti generali ed alla forza vincolante degli eventuali ordini da essi impartiti. Anche se si desse per ammesso che essi vietarono di compiere attentati nella città di Roma, né la Giunta militare né le organizzazioni militari dipendenti avevano il dovere giuridico di attenervisi. Come in altra sede venne acclarato, i suddetti generali erano a capo di una “delle varie organizzazioni che operavano nel territorio occupato e non erano inquadrati nella Giunta militare. Fra questo ente e quella organizzazione sussistevano ottime relazioni, molto spesso aveva luogo uno scambio di idee, ma non passava un rapporto organico di preminenza o di subordinazione”.

Ma più che siffatto apprezzamento, che è basato sul materiale istruttorio acquisito al processo Kappler, giova a chiarificare la questione il richiamo di disposizioni legislative. L'art. 7 del decreto legisl. 21 agosto 1945, sotto il n. 3, lett. b, tratta di coloro che “a sud della linea gotica, hanno militato per almeno tre mesi in una formazione armata partigiana e gappista, regolarmente inquadrata nelle forze riconoscite e dipendenti dal C.l.n.”; e sotto il n. 4, lett. c, tratta di “coloro che, a sud della linea gotica, pur non avendo fatto parte di formazioni inquadrate dal C.l.n., hanno militato...”. La distinzione tra formazione armata riconosciuta e dipendente dal C.l.n. e formazione non inquadrata da detto ente riflette appunto la situazione politico-militare creatasi in seno alla resistenza, alla quale collaboravano gruppi organizzati e squadre indipendenti, rispetto ai quali si cercava di trovare una coordinazione mediante opportuni collegamenti tenuti dai supremi organi della resistenza (C.l.n., Giunta militare, organizzazioni politiche, rappresentanti del Governo legittimo). Pertanto, gli ordini dati dai predetti generali potevano vincolare gli appartenenti alle organizzazioni cui essi erano preposti, ma non quelli inquadrati nelle organizzazioni che facevano capo alla Giunta militare o i gruppi indipendenti.

Quanto allo status internazionale della città di Roma, basta rilevare che la qualifica di “città aperta” viene smentita dalla concessione della medaglia d'oro alla Capponi in dipendenza di fatti d'arme da lei compiuti in Roma dall'8 settembre 1943 al 6 giugno 1944, perché, pur escludendo da tali fatti d'arme l'episodio di via Rasella, la ricompensa si riconnette ad altri fatti di guerra compiuti “nella cerchia dell'abitato di Roma”, come è specificamente detto nel contesto della motivazione. Ma, se occorresse acclarare lo status di Roma all'epoca del fatto per cui è controversia, mai potrebbe darsene la prova a mezzo di testimoni, poiché esso investirebbe una qualificazione giuridica che non scaturisce da uno stato di fatto accertabile a mezzo di testi, bensì da accordi internazionali, che avrebbero dovuto trovare consacrazione in forme protocollari. Se tale fonte di prova potesse essere sostituita da notizie fornite da testi, potrebbe attribuirsi pari efficacia ai molteplici, concordanti elementi indiziari che si traggono dalle attestazioni e dalle cronache dell'epoca e soprattutto dal fatto notorio che la qualifica di “città aperta” risale ad una dichiarazione unilaterale del governo Badoglio, notificata agli anglo-americani il 31 luglio 1943, mai formalmente accettata da costoro e mai rinnovata rispetto ai tedeschi, dopo che questi vennero posti al di là della barricata con la successiva dichiarazione di guerra.

A suggello della infondatezza delle obiezioni mosse dagli istanti contro la eccezione di improponibilità dell'azione, può ricordarsi che, immediatamente dopo l'attentato e l'eccidio delle Fosse ardeatine, il Comitato centrale di liberazione nazionale, in un proclama diretto al popolo italiano, ebbe a riconoscere nel fatto di via Rasella “un atto di guerra di patrioti italiani”. La qualificazione soggettiva ed oggettiva attribuita a tale episodio dal supremo organo della resistenza, che, in quell'epoca e fino alla Costituzione, aveva assunto le redini della Nazione, inserendosi nella vita dello Stato come un organo di fatto, rimuove qualsiasi contestazione. A ciò si aggiunga che tale qualificazione ha avuto una convalida specifica da parte degli organi costituzionali dello Stato, allorché è stata concessa la pensione di guerra a coloro che ebbero a subire conseguenze dannose in dipendenza dell'attentato. Ma se, non ostante siffatti riconoscimenti, sussistesse ancora un dubbio sulla qualificazione da dare all'episodio di cui si tratta, basterebbe a dissolverlo il richiamo al decreto legisl. 12 aprile 1945 n. 194, il quale così dispone: “sono considerate azioni di guerra, e pertanto non punibili a termini delle leggi comuni, gli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica”. È appena il caso di chiarire che nella disposizione di cui sopra la qualifica di “patriota” equivale a quella di “partigiano”, perché tale era l'appellativo che veniva attribuito ai combattenti della guerra di liberazione dai decreti legisl. 9 novembre 1944 n. 319 e 5 aprile 1945 n. 158.

Quanto al contenuto sostanziale della citata disposizione, è da rilevarsi che essa non si limita alla semplice esclusione di responsabilità penale relativamente alla attività esplicata dai patrioti per le necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti, ma ne detta un inquadramento che trascende il ristretto campo penalistico, per assumere il significato di una enunciazione di carattere generale. Tale è infatti la portata della premessa “sono considerate azioni di guerra”, sia perché tra siffatta enunciazione e la statuizione di carattere penale, che ne fa una specificazione, non vi è un rapporto di necessarietà, sia perché la enunciazione stessa è di tal natura da consentire ulteriori applicazioni oltre la norma che la contiene. Ai fini della disciplina penale sarebbe stata sufficiente la sola dichiarazione di non punibilità degli atti compiuti dai patrioti per le suddette necessità, nulla aggiungendo il loro inquadramento fra le azioni di guerra; d'altra parte la formulazione di una così generale premessa non può essere circoscritta alla specifica applicazione fattane dalla stessa disposizione, senza una arbitraria limitazione degli effetti che possono normalmente derivare da un inquadramento che scaturisce da una enunciazione fatta senza riserve.

Posto, pertanto, che il decreto legisl. luog. 12 aprile 1945 n. 194 dichiara a tutti gli effetti che le operazioni compiute per la necessità di lotta contro i tedeschi sono considerate azioni di guerra, può trarsi la ulteriore e più importante conseguenza: che esse rimangono tali anche se abbiano trasmodato nel campo dell'illecito. Invero, proprio a cagione di tale sconfinamento può giustificarsi la declaratoria di non punibilità, perché la legittima azione di guerra, per la sua stessa natura, sarebbe sfuggita ad ogni sanzione, dovendo essere inquadrata per definizione nel campo del lecito. Orbene, l'avere riportato nella sfera della legalità le azioni di guerra, che avevano sconfinato nell'illecito, impedisce che possa essere proposta azione giudiziaria in rapporto ad esse.

Né può obiettarsi che il carattere legalitario è attribuito dalla necessità di lotta contro i tedeschi e che pertanto occorre accertare la sussistenza di tale condizione, poiché un accertamento di tal genere non può essere fatto in questa sede. L'azione di guerra, in quanto attiene alla esplicazione di una attività militare, risale allo Stato e la valutazione della necessità che l'ha determinata importa una indagine di merito, alla quale osta il principio della insindacabilità degli atti discrezionali della pubblica Amministrazione; e non può davvero discutersi che la valutazione della necessità di adottare una determinata linea di condotta in relazione a determinate contingenze rappresenti l'esplicazione della più schietta discrezionalità.

Per questa stessa ragione è fuor di luogo discutere se l'episodio di via Rasella fu utile ovvero opportuno e se elementari norme di prudenza avrebbero dovuto sconsigliarlo, giacché tutti tali apprezzamenti importano la valutazione di una condotta che non ammette sindacato giudiziario. Rispetto alla attività militare dello Stato, quando esso è impegnato in un conflitto armato, non vi è limite che possa arginare la sua libertà di azione, perché il principio del neminem laedere cede il passo di fronte alla suprema lex imposta dalla salus publica. Questa ferrea limitazione imposta alla valutazione dell'attività discrezionale della pubblica Amministrazione neanche viene spezzata dalla consapevolezza delle conseguenze dannose che possono derivare da una azione di guerra, poiché, fino a quando tale consapevolezza non si proietti sull'evento per farlo risalire all'agente a titolo di dolo, l'atto produttivo di danno rimane inquadrato nell'attività della Amministrazione con le limitazioni di cui si è parlato innanzi.

Pertanto l'inquadramento dell'episodio di via Rasella tra le azioni di guerra toglie ogni efficienza alla condotta tenuta, dopo l'attentato e prima della rappresaglia, dagli organizzatori e dagli esecutori materiali di esso.

In una libera valutazione di tale condotta ciascuno potrà apprezzarla in rapporto alla luce che promana dalle fulgide figure di Salvo d'Acquisto, di Vittorio Marandola e di altri generosi Italiani che hanno fatto volontario e cosciente olocausto della propria vita per sublimi moti dello spirito; ma, in una valutazione strettamente giuridica, non può farsi carico agli agenti di non aver “pagato di persona” allo scopo di evitare o ridurre la minacciata rappresaglia, poiché essi, come protagonisti di un'azione di guerra, non avevano il dovere giuridico di assumere il carico personale delle conseguenze che da essa potevano derivare.

L'indagine giudiziaria proposta dagli attori e dagli intervenuti in causa deve quindi arrestarsi, non essendo proponibile la domanda da ciascuno di essi avanzata.

Le spese giudiziali devono far carico sugli istanti, con il vincolo solidale stante la stretta comunanza di interessi, lasciando alla discrezione degli aventi diritto di devolverle all'Associazione famiglie martiri delle Fosse ardeatine, così come dichiarato nelle conclusioni.

Per questi motivi, ecc.