Sentenza Corte di appello Penale di Milano Vicenda Trizzino

Corte di Assise di Appello di Milano

1954 diritto diritto Sentenza Corte di appello penale di Milano Vicenda Trizzino Intestazione 30 agosto 2011 25% Da definire

Organo giudicante: Corte di Appello di Milano
Deposito in Cancelleria: 1954
Normativa correlata:


IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI MILANO

SEZIONE PRIMA


Composta dai Signori:

  1. Tramonte dott. Fedele ... Presidente
  2. Pontrelli dott. Antonio ... Consigliere
  3. Migliavacca dott. Mario ... Giudice Popolare
  4. Giuffanti rag. G. Battista ... Giudice Popolare
  5. Carnelutti dott. Ettore ... Giudice Popolare
  6. Di Simine dott. Eugenio ... Giudice Popolare
  7. Monti rag. Piero ... Giudice Popolare
  8. Quinto dott. Ezio ... Giudice Popolare

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa del Pubblico Ministero

Contro


Trizzino Antonio fu Calogero e Vincenza Trizzino, nato il 27-5-1899 a Bivona e residente a Roma, via trasone 20, libero, presente

appellante

della sentenza 5-12-1953 della Corte di Assise di Milano con la quale fu dichiarato colpevole del delitto di vilipendio delle FF.AA. dello Stato a mezzo stampa e condannato alla pena di otto mesi di reclusione reato commesso con la pubblicazione del libro Navi e Poltrone edito a Milano il 16-12-1952 nella Casa Longanesi & C.

* * *

In esito al dibattimento slotosi nei giorni 18, 19, 20, 21 e 22 ottobre 1954,-
Sentita la relazione di causa, sentiti l'imputato, i difensori e il Pubblico Ministero;
Ritenuto quanto segue:

IN FATTO


Il 19 gennaio 1953, il Ministero della Difesa presentó denunzia al Procuratore della Repubblica di Milano contro il pubblicista Antonino Trizzino, assumendo che costui, mediante pubblicazione di un suo libro intitolato Navi e poltrone edito in Milano per i tipi della Casa Longanesi & C., aveva vilipeso la marina militare dello Stato.

Esame critico del contenuto del libro

Un primo addebito che la sentenza muove all’autore di Navi e poltrone investe il titolo e la presentazione editoriale dell’opera: denigratoria è la metafora di poltrone riferita agli alti comandi; villipendiosa la vignetta del frontespizio dove campeggia la grassa caricatura di un ammiraglio bardato di lustrini e decorazioni.

Ma non hanno considerato i giudici della Corte di Assise che in quel titolo e in quella vignetta è racchiusa la forza evocatrice dell’antitesi che costituisce il motivo dominante dell’opera. Non hanno considerato che alle poltrone, ai pochi ufficiali installati negli uffici romani di Supermarina vengono contrapposte le navi, gli strumenti concreti della guerra sul mare: le navi che affrontano le insidie mortali di una lotta senza quartiere. le navi che in un passo del libro sono definite ‘magnifiche”, le navi con il loro carico umano, coi comandanti e gli equipaggi che combattono e muoiono in silenziosa gara di abnegazione e che l’autore esalta con l’attributo di valorosi.. Hanno visto l’aspetto grottesco della caricatura e non hanno voluto coglierne l’amaro significato allegorico. La distaccata immobilità di quell’ammiraglio in poltrona, che volge imperturbabile le spalle al mare disseminato di navi, vuol raffigurare il contrasto tra chi impartisce ordini da lontano e chi si espone da vicino ai rischi del combattimento: quel contrasto che l’autore denunzia come sintesi del dramma vissuto dalla nostra marina nell’ultimo conflitto.

Anche le intestazioni di alcuni capitoli costituiscono per la sentenza elemento di vilipendio. -Buchi nell’acqua-, e -Gita di ferragosto- sono i titoli con cui l’autore volge in ridicolo l’attacco dei nostri bombardieri contro la flotta nemica nella battaglia di Punta Stilo e l’impresa sfortunata di una squadriglia di aerosiluranti nel porto di Alessandria.

Ed anche qui bisogna dire che l’attenzione dei giudici si è fermata alla superficie. Quei titoli hanno evidentemente una intonazione sarcastica, ma il sarcasmo dei titoli trova il suo naturale correttivo nella serietà delle proposizioni che sviluppano il tema. L’episodio di Punta Stilo offre argomento all’autore per dimostrare l’inefficacia dei bombardamenti in quota contro le navi e per deplorare ancora una volta il disinteresse ostentato dai capi più autorevoli dell’aviazione italiana verso l’aerosiluro, In quella battaglia, ben 500 bombardieri si avvicendarono sul cielo della flotta inglese sganciando circa duemila bombe, col magro risultato che una sola di esse andò a segno su un incrociatore. senza peraltro arrecargli danni irreparabili. Furono fatti insomma molti buchi nell’acqua.

L’immagine è pittoresca e forse non si addice al linguaggio misurato dei critici militari, ma rispecchia una sconfortante realtà: l’inutile spreco di velivoli e di armi in un’azione di guerra che, condotta con mezzi più idonei, avrebbe avuto ben altro successo. ‘L’ora del siluro era scoccata.: esclamava l’autore. ‘Risultò chiaro anche ai ciechi che, se al posto dei 500 bombardieri avessimo avuto alcune decine di aerosiluranti, e invece delle migliaia di bombe qualche dozzina di siluri, ben difficilmente la flotta inglese sarebbe sfuggita ad un disastro. (pag. 90). Conclusione questa che, lungi dal coprire di ridicolo le nostre forze armate, si offre alla severa meditazione degli esperti.

‘Gita di ferragosto. presenta, a dispetto del titolo, una variazione altamente drammatica del medesimo tema.

L’attacco con l’aerosiluro contro la flotta inglese di Alessandria fu ideato dall’alto comando aeronautico con la stessa colpevole leggerezza con cui, fino alla vigilia del conflitto, era stato boicottato l’impiego di questo efficace strumento di guerra. Fu concepito insomma come una piacevole gita: senza adeguata preparazione, senza un minimo di addestramento, non si esitò, per farsi perdonare tanti anni di inerzia, a gettare allo sbaraglio un pugno di valorosi piloti contro una delle più munite basi navali nemiche.

Questo è per l’autore il significato dell’episodio. Si potrà dissentire, se si vuole, ma l’ironia scanzonata del titolo non deve distogliere l’attenzione dall’impeto di sdegno che sale attraverso le pagine del racconto: sdegno per una cosi flagrante prova di disprezzo della vita altrui. E d’altra parte, a riscattare quella ironia basterebbe, se ve ne fosse bisogno. l’amara riflessione che l’autore pone a suggello del capitolo: “Fallita l’impresa si stimò opportuno non fame parola. Ai valorosi equipaggi non fu consentito nemmeno di veder menzionata nel bollettino di guerra l’azione in cui avevano rischiata la vita„. (pag. 94), Come possa essere rivolta in ridicolo un’azione, della quale si denunziano, sì, gli aspetti negativi ma si esalta alla fine il valore sfortunato dei protagonisti, è difficile comprendere. La rampogna non manca, ed è beffarda e spietata; ma tocca soltanto i capi, gli ideatori sconsigliati di quell’impresa, i responsabili del suo fatale insuccesso. Ugualmente fallace è il metodo di attingere la materia del vilipendio ad un florilegio di frasi espunte qua e là dalle pagine del libro. Sono brevi battute di commento salace, dove l’indignazione si rifugia nel sarcasmo. similitudini ricche di colore e vivacità figurativa, talvolta grossolane e spesso irriverenti che testimoniano di uno stile, risentito e polemico, di una scontrosità aliena dagli eufemismi.

Censure roventi contro Maugeri

Pantelleria ed Augusta sono le ultime tappe attraverso le quali l’autore perviene alle gravi conclusioni del sedicesimo capitolo: quelle che sono state interpretate come un’accusa di intelligenza col nemico rivolta indiscriminatamente a tutti i capi della marina.

Occorre subito chiarire che non si tratta di accusa indiscriminata contro tutti. i capi: intanto rimangono esclusi dal sospetto, per la stessa costruzione logica del libro, i comandanti in mare, che l’autore considera vittime delle perfidie del centro.

E’ Supermarina l’oggetto dell’attacco, e neppure con tutti i suoi componenti: per esempio: l’ammiraglio Somigli, che attribuiva gli insuccessi delle nostre armi ad un complesso di inferiorità degli Stati maggiori. l’ammiraglio Sansonetti, che si duoleva con Cavallero per le fughe di notizie sui movimenti delle nostre navi, l’ammiraglio Girosi, che si rammaricava con Cavallero della crisi della marina e diceva che bisogna rimontare la corrente, riattivando il mordente per combattere i mezzi nemici. appaiono evidentemente immuni da sospetto. Anche a proposito dell’agguato di Matapan, l’unica volta che afferma in termini categorici la certezza del tradimento, l’autore si rifugia nel dubbio sul nome del traditore: tradimento di un singolo, dunque, non tradimento collettivo anche se il concorso delle oscure circostanze di quel tragico episodio sia tale da allargare la cerchia dei sospetti. E quando si chiede se l’ammiraglio Maugeri fosse anche lui tra quelli che desideravano la sconfitta per liberare l’Italia dal giogo della dittatura, l’autore propone con tutta evidenza un problema di numero e di identità.

Naturalmente, poiché si tratta di un problema insolubile per lui, non resta che rivolgersi all’impersonalità di Supermarina. Ma il ragionamento del Trizzino segue un filo conduttore che è stato tracciato da altra mano: prende le mosse, da una frase rivelatrice che si legge nel libro dell’ammiraglio Maugeri pubblicato in lingua inglese da un editore americano (From the Ashes of Disgrace): “L’ammiragliato inglese aveva una quantità di amici tra i nostri ammiragli di alto rango e nello stesso ministero della marina Io sospetto che gli inglesi erano in grado di ottenere informazioni autentiche dalla fonte„. Rivelazione gravissima, come si vede, e tanto più grave in quanto proviene da una fonte qualificata: da colui che fino all’armistizio fu a capo dell’ufficio informazioni della marina, resse cioè le fila del servizio di controspionaggio. Il Maugeri ha poi ripudiato la prima parte della frase, attribuendola a involontario travisamento del suo pensiero da parte del pubblicista americano che redasse il testo del libro sulla traccia di appunti presi nel corso di vari colloqui diretti a raccogliere il materiale occorrente per la stesura. Ma non ha ripudiato la seconda parte, e questa non, ha senso se non è collegata concettualmente con la prima: giacché è chiaro che l’ammiragliato britannico non avrebbe potuto ottenere notizie autentiche dalla fonte, cioè dallo stesso ufficio di Supermarina che custodiva i piani segreti delle operazioni militari, senza l’ausilio di quegli amici fidati che contava nell’ambiente degli ammiragli italiani.

Comunque, anche mutilata della prima parte, la rivelazione si afferma con tutto il peso del suo valore indiziario e trova riscontro in altri indizi specifici e particolarmente nelle tenebrose circostanze di episodi inesplicabili, come l’agguato di Matapan, il bombardamento di Genova, la perdita degli incrociatori Giussano e Da Barbiano, gli affondamenti del Perseo, del Foscolo e dell’Ariosto.

Esula dalla materia di questo giudizio ogni apprezzamento sulla condotta del Maugeri quale capo dell’ufficio informazioni. E perciò la Corte a proposito della decorazione americana conferitagli per i preziosi servizi resi agli alleati in tale qualità, non deve interloquire nel dissenso tra il giudizio del magistrato ordinario, che vide nella motivazione di quella decorazione la prova del tradimento del Maugeri, e il decreto di archiviazione del magistrato militare, che ricondusse la prestazione di quei servizi all’epoca della cobelligeranza (cosa poi non risultata vera).

Tuttavia non può esprimersi dal rilevare che l’ammiraglio Maugeri, come scrittore italiano in terra straniera, si è mostrato poco pensoso della dignità nazionale e dell’onore dei capi della nostra marina, dando adito a sospetti di tale gravità. Egli cosi prosegue nel suo libro di memorie: “..l.’inverno del l942-43 trovò molti di noi, che speravano in un’Italia libera di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremo potuti liberare delle nostre catene se l’Asse fosse stato vittorioso„. e precisa meglio il concetto. “Più uno amava il proprio paese, più doveva pregare per la stia sconfitta sul campo di battaglia„. Se tali erano i sentimenti di molti di noi, in quel triste inverno, bisogna pur pensare che tra il pregare per la sconfitta della patria e l’agire in maniera da affrettarla. il passo è breve.

E questo, dice il Trizzino, può valere per la resa di Pantelleria e per la caduta di Augusta, avvenimenti posteriori alla stagione dei dubbi indicati dall’ammiraglio (pag. 245). Ma egli risale indietro nel tempo e’ crede di ritrovare in questo nuovo concetto dell’amor di patria, la chiave di tutte le nostre sventure. Evidentemente si è lasciato trascinare dalla foga polemica. Questa generalizzazione di sospetti è eccessiva e ingenerosa, manca di equilibrio e di misura: non considera adeguatamente tutte quelle circostanze che consentono nella maggior parte dei casi di trovare una spiegazione plausibile dei nostri rovesci nella impreparazione, nella superficialità, nel dilettantismo dei capi senza bisogno di arrivare al tradimento. Non considera soprattutto che all’inizio della guerra la speranza di una facile vittoria poteva alimentare le ambizioni dei capi e determinare in essi fermezza di propositi e adesione spirituale all'avventura bellica, mentre nell’inverno del l942 lo spettro dell’inevitabile sconfitta incombeva sugli uomini e sugli eventi, e l’ansia di concludere comunque e ad ogni costo quella tragica avventura era al vertice di ogni sentimento.

Ciò che si può spiegare con gli scoraggiamenti dell’ultima ora, non si concilia invece con la euforia della prima. Si può ammettere che sin da principio vi sia stato negli ambienti dell’alto comando qualche occulto sabotatore della guerra, e le vagliate circostanze rivelatrici sembrano confermarlo, ma non si può in coscienza affermare che tutti i rovesci subiti dalle nostre armi rientrino in un’unica coerente trama, facciano parte di un unico piano premeditato.

Insomma, la conclusione a cui giunge il Trizzino è pessimistica e spietata: nessun critico sereno sarebbe disposto a sottoscriverla. Ma contiene elementi di giustificazione che non possono essere ignorati. E comunque non rivela né mala fede né proposito di vilipendio: rivela invece un desiderio inappagato di chiarificazione, che giunge fino all’iperbole ma poi si acquieta nella più serena istanza conclusiva che trova il suo presupposto deontologico nella salvezza del prestigio delle armi italiane. Occorre liberarsi dall’eredità del recente passato: non lasciare che nelle nostre tradizioni militari entrino usi e esempi rovinosi; voci, sospetti e dubbi non debbono esistere su coloro a cui si affidano le vite di milioni di persone e l’avvenire del paese.

Non si ravvisano dunque, neppure sotto il profilo dell’elemento morale, gli estremi del delitto di vilipendio delle forze armate: il Trizzino deve essere assolto da questa imputazione perché il fatto non costituisce reato.

Note