Sentenza Corte di Cassazione n. 4741-2000

Corte di Cassazione

2000 diritto diritto Sentenza corte di Cassazione n.4741/2000 Intestazione 15 dicembre 2011 50% Da definire


Organo giudicante: Corte di Cassazione Sezione V penale
Deposito in Cancelleria: 27/12/2000

Corte di Cassazione, Sezione V Penale,

Sentenza 17 novembre - 27 dicembre 2000, n. 4741


REPUBBLICA ITALIANA


IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE


SEZIONE V PENALE



Ha pronunciato la seguente

SENTENZA


La Corte osserva in fatto

D. M., con atto di querela datata 1 marzo 2000, esponeva al Pm di Genova che su alcuni «siti» internet erano stati pubblicati scritti ed immagini, lesivi della sua reputazione e della privacy sua e delle figlie minorenni, D. e Da.. Riferiva il D. che le due minori, nate dal suo matrimonio con T. P., erano state affidate ad entrambi i genitori al momento della separazione legale degli stessi. Successivamente, la madre aveva arbitrariamente portato con sé le due bambine in Israele, dove ella si era risposata con un rabbino, aderendo ad una «versione» particolarmente rigorosa ed «ultraortodossa» della religione ebraica. D. e Da., rintracciate dalle autorità israeliane, erano state affidate al solo padre (il D., appunto) che le aveva condotte con sé in Italia. A partire da tale momento, su alcuni «siti» internet, erano stati immessi scritti ed immagini, che riferivano ed illustravano la vicenda appena esposta, formulando giudizi estremamente negativi e diffamatori sulla personalità e sul comportamento del D. (oltre che sull’operato della autorità giudiziaria italiana), nonchè messaggi contenenti l’invito, rivolto agli aderenti alla religione ebraica, a «liberare» le due minori, «tenute prigioniere» dal padre, che impediva loro di professare i culti relativi alla predetta fede religiosa.

Il Pm genovese avviava attività di indagine, ipotizzando la commissione del reato previsto dall’articolo 35 legge 685/96 e di quello ex articolo 595 Cp. Con riferimento solo a tale secondo reato, disponeva quindi il sequestro preventivo in epigrafe indicato, misura che il Gip non convalidava, ritenendo insussistente il fumus del reato di diffamazione, e sostenendo che il sequestro rappresentava uno strumento inappropriato, dal momento che scritti ed immagini su internet possono variare continuamente. Secondo il Gip, il provvedimento era inappropriato anche in considerazione del fatto che il sequestro avrebbe inevitabilmente colpito il provider, la cui responsabilità, in assenza di una norma come quella di cui all’articolo 57 Cp, avrebbe potuto essere ritenuta solo a titolo di concorso nel reato (ipotesi non coltivata dal requirente). Infine il Gip rilevava che il sequestro si sarebbe necessariamente dovuto estendere anche al server, comportando il «blocco» di numerosi altri «siti» del tutto estranei a quelli per i quali il Pm stava procedendo.

Il tribunale del riesame, investito dell’appello del Pm, riteneva, viceversa, pienamente sussistente il fumus criminis, mentre giudicava irrilevanti, ai fini della convalida, tutti i rilievi relativi alla fase esecutiva del provvedimento, in quanto non attinenti all’oggetto della convalida stessa; ciò nonostante, l’appello veniva rigettato, ravvisando il giudicante il difetto di giurisdizione della Autorità giudiziaria italiana, per il fatto che i «siti» internet di cui sopra risultavano «pubblicati» all’estero ed il reato doveva considerarsi commesso al di fuori del territorio nazionale.

Propone ricorso per Cassazione il Procuratore della repubblica presso il tribunale di Genova, deducendo erronea applicazione della legge penale. Sostiene che il reato di diffamazione si consuma nel momento e nel luogo in cui si manifesta la diffusione delle espressioni offensive. Orbene la diffusione costituisce concetto e momento differente dalla pubblicazione. La diffamazione è sicuramente, secondo la sua opinione, reato istantaneo di pura condotta, ma la condotta consiste nella comunicazione con più persone; a tanto consegue che il reato si consuma nel momento in cui i destinatari percepiscono le espressioni diffamatorie (consistendo in questo, in pratica, la comunicazione). La percezione, pertanto, afferma il ricorrente, non è l’evento del reato, ma ne è elemento costitutivo, in quanto fa parte della condotta dell’agente; essa non integra il danno, che viceversa si verifica nel momento in cui l’interessato, percependo le espressioni offensive che lo riguardano (ma che sono dirette a terze persone), sente lesa la propria reputazione. Riferendo tali principi al caso di specie, si deve giungere alla conclusione che il reato (ma non il danno) si è perfezionato nel momento in cui il messaggio, diffuso sul «sito», viene percepito da una pluralità di persone che a detto sito accedono. Dunque, poiché la percezione del contenuto offensivo dei messaggi è avvenuta in Italia, il reato deve essere considerato commesso sul territorio nazionale. Invero, l’articolo 6 Cp accoglie il principio della cosiddetta ubiquità, in base alla quale viene estesa, per quanto possibile, la applicazione della legge italiana. D’altronde, non vi è nessuna ragione per ritenere che la comunicazione in Italia sia avvenuta successivamente a quella verificatasi in altre parti del mondo. Pertanto è arbitrario, per il Pm ricorrente, ipotizzare che il reato si sia perfezionato altrove, piuttosto che nel nostro Paese.

La Corte ritiene in diritto

Allo scopo di decidere correttamente una questione, quale quella prospettata, che presenta, senza dubbio, alcuni caratteri di novità. Appare innanzitutto opportuno verificare come si caratterizzi il delitto di diffamazione consumato con quel nuovo mezzo di trasmissione-comunicazione che prende il nome di internet.

Il legislatore, pur mostrando di aver preso in considerazione la esistenza di nuovi strumenti di comunicazione, telematici ed informatici (si veda, ad esempio, l’articolo 623bis Cp in tema di reati contro la inviolabilità dei segreti), non ha ritenuto di dover mutare o integrare la lettera della legge con riferimento a reati (e, tra questi, certamente quelli contro l’onore), la cui condotta consiste nella (o presuppone la) comunicazione dell’agente con terze persone. E, tuttavia, che i reati previsti dagli articoli 594 e 595 Cp possano essere commessi anche per via telematica o informatica, è addirittura intuitivo; basterebbe pensare alla cosiddetta trasmissione via e-mail, per rendersi conto che è certamente possibile che un agente, inviando a più persone messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del delitto di ingiuria (se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di diffamazione (se i destinatari sono persone diverse).

Se invece della comunicazione diretta, l’agente «immette» il messaggio «in rete», l’azione è, ovviamente, altrettanto idonea a ledere il bene giuridico dell’onore. Per quanto specificamente riguarda il reato di diffamazione, è infatti noto che esso si consuma anche se la comunicazione con più persone e/o la percezione da parte di costoro del messaggio non siano contemporanee (alla trasmissione) e contestuali (tra di loro), ben potendo i destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri, ovvero dall’agente. Ma, mentre, nel caso, di diffamazione commessa, ad esempio, a mezzo posta, telegramma o, appunto, e-mail, è necessario che l’agente compili e spedisca una serie di messaggi a più destinatari, nel caso in cui egli crei o utilizzi uno spazio web, la comunicazione deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes (sia pure nel ristretto – ma non troppo – ambito di tutti coloro che abbiano gli strumenti, la capacità tecnica e, nel caso di siti a pagamento, la legittimazione, a «connettersi»). Partendo da tale – ovvia – premessa, si giunge agevolmente alla conclusione che, anzi, l’utilizzo di internet integra una delle ipotesi aggravate di cui dell’articolo 595 Cp (comma terzo: «offesa recata ... con qualsiasi altro mezzo di pubblicità»). Anche in questo caso, infatti, con tutta evidenza, la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale. Né la eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato il delitto di ingiuria (magari aggravata ai sensi del quarto comma dell’articolo 594 Cp), piuttosto che quello di diffamazione. Infatti il mezzo di trasmissione-comunicazione adoperato (appunto internet), certamente consente, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, ma il messaggio è diretto ad una cerchia talmente vasta di fruitori, che l’addebito lesivo si colloca in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso. D’altronde, anche per altri media si verifica la medesima situazione. Un’offesa propagata dai giornali o dalla radio-televisione è sicuramente percepibile anche dal diretto interessato, ma la fattispecie criminosa che, in tal modo, si realizza è, pacificamente, quella ex articolo 595 Cp e non quella ex articolo 594.

Peraltro, la diffusività e la pervasività di internet sono solo lontanamente paragonabili a quelle della stampa ovvero delle trasmissioni radio-televisive. Internet è, senza alcun dubbio, un mezzo di comunicazione più «democratico» (chiunque, con costi relativamente contenuti e con un apparato tecnologico modesto, può creare un proprio «sito», ovvero utilizzarne uno altrui). Le informazioni e le immagini immesse «in rete», relative a qualsiasi persona sono fruibili (potenzialmente) in qualsiasi parte del mondo. Ma proprio questo è il nodo che qui interessa sciogliere, dal momento che, in considerazione della caratterizzazione «transnazionale» dello strumento adoperato, può apparire, in un primo momento, problematica la individuazione del luogo in cui deve ritenersi consumato il delitto commesso «a mezzo internet». In realtà, una espressione ingiuriosa, una immagine denigratoria, una valutazione poco lusinghiera inserite in un «sito» web sono soggette ad una diffusione al di fuori di ogni controllo e di ogni ragionevole possibilità di «blocco», se non attraverso i mezzi coercitivi legalmente riservati alla pubblica autorità (e sempre che siano disponibili adeguati strumenti tecnici). Ma, va da sé, le procedure, appunto legali o tecniche, hanno bisogno di tempi lunghi, mentre il messaggio veicolato dal computer si propaga fulmineamente.

Per il tribunale di Genova, si è in presenza di una vera e propria lacuna legislativa, dal momento che non sarebbero perseguibili in Italia quelle azioni diffamatorie consumate tramite internet, nella ipotesi in cui la diffusione del messaggio sia partita dall’estero; e ciò anche nel caso in cui il provider sia italiano. Ed invero, fatta salva la ipotesi di concorso nel reato, quest’ultimo non è responsabile del contenuto dei di messaggi trasmessi. Osservano ancora i giudici del Riesame che non è prevista deroga ai comuni criteri di attribuzione della giurisdizione. Infatti il tetto sanzionatorio dell’articolo 595 Cp rende inapplicabili le disposizioni degli articoli 7 e 10 Cp (in tema di reati commessi all’estero) mentre, per altro verso, manca una norma derogatoria della competenza come quella prevista dall’articolo 30 legge 6 agosto 1990 n. 223, che, come è noto, stabilisce che, in materia di diffamazione televisiva o radiofonica, foro competente è quello del luogo della persona offesa.

Conseguentemente, si legge nel provvedimento impugnato, nel caso di diffamazione «a mezzo internet», se la diffusione è avvenuta fuori dai confini dello Stato italiano, anche la consumazione deve ritenersi avvenuta all’estero. Questo perché la diffamazione si consuma, secondo quanto si legge nel provvedimento impugnato, nel momento in cui si verifica la diffusione della manifestazione offensiva diretta a più persone e, in caso di manifestazione separata, alla seconda persona. Quindi, quando il messaggio è stato diffuso su sito internet, benché esso sia leggibile (anche) in Italia, ciò non significa che parte della condotta si sia necessariamente verificata sul nostro territorio nazionale. Si tratta, infatti, scrive il giudice a quo, di reato istantaneo ed in Italia si è verificata solo parte della diffusione, se non la mera percezione; in tale momento (percezione da parte dell’interessato) si verifica il danno, ma non si consuma, secondo il Riesame, il reato, in quanto gli elementi costitutivi della fattispecie sono già tutti presenti.

L’assunto è errato.

Va innanzitutto chiarito che la possibilità di dare applicazione alla legge penale italiana dipende essenzialmente dalla concreta formulazione delle singole norme incriminatrici, strutturate, di volta in volta, come reati commissivi od omissivi, di danno o di pericolo, di pura condotta o di evento, ecc.

La diffamazione, contrariamente a quello che il Riesame e lo stesso Pm ricorrente affermano, è un reato di evento, inteso quest’ultimo come avvenimento esterno all’agente e causalmente collegato al comportamento di costui. Si tratta di evento non fisico, ma, per così dire, psicologico, consistente nella percezione da parte del terzo (rectius dei terzi) della espressione offensiva. Pertanto è sicuramente in errore il ricorrente quando, a proposito, appunto, della percezione, scrive che essa è elemento costitutivo della condotta; in realtà la percezione è atto non certamente ascrivibile all’agente, ma a soggetto diverso, anche se – senza dubbio – essa è conseguenza dell’operato dell’agente.

Il reato, dunque, si consuma non al momento della diffusione del messaggio offensivo, ma al momento della percezione dello stesso da parte di soggetti che siano «terzi» rispetto all’agente ed alla persona offesa. Sul punto, ha avuto modo di pronunziarsi, sia pure implicitamente, la giurisprudenza di questa Corte (Asn 199908118 – Rv 214128; Asn 199202883 – Rv 189928; Asn 198100847 – Rv 147558; Asn 198100847 – Rv 147405).

Per di più, nel caso in cui l’offesa venga arrecata tramite internet, l’evento appare temporalmente, oltre che concettualmente, ben differenziato dalla condotta. Ed invero, in un primo momento, si avrà l’inserimento «in rete», da parte dell’agente, degli scritti offensivi e/o delle immagini denigratorie, e, solo in un secondo momento (a distanza di secondi, minuti, ore, giorni ecc.), i terzi, connettendosi con il «sito» e percependo il messaggio, consentiranno la verificazione dell’evento. Tanto ciò è vero, che, nel caso in esame sono ben immaginabili sia il tentativo (l’evento non si verifica perché, in ipotesi, per una qualsiasi ragione, nessuno «visita» quel «sito»), sia il reato impossibile (l’azione è inidonea, perché, ad esempio, l’agente fa uso di uno strumento difettoso, che solo apparentemente gli consente l’accesso ad uno spazio web, mentre in realtà il suo messaggio non è masi stato immesso «in rete»).

Orbene, l’articolo 6 Cp, al comma secondo, stabilisce che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando su di esso si sia verificata, in tutto, ma anche in parte, l’azione o l’omissione, ovvero l’evento che ne sia conseguenza. La cosiddetta teoria della ubiquità, dunque, consente al giudice italiano di conoscere del fatto-reato, tanto nel caso in cui sul territorio nazionale si sia verificata la condotta, quanto in quello in cui su di esso si sia verificato l’evento. Pertanto, nel caso di un iter criminis iniziato all’estero e conclusosi (con l’evento) nel nostro Paese, sussiste la potestà punitiva dello Stato italiano.

A tanto consegue che l’impugnata ordinanza va annullata con rinvio al medesimo tribunale, che, per il nuovo esame, dovrà fare applicazione del principio di diritto sopra riportato, verificando innanzitutto se la condotta o l’evento del reato di diffamazione si siano verificati sul territorio nazionale; trattene quindi le necessarie conseguenze in tema di giurisdizione, si determinerà in ordine al gravame interposto dal Pm avverso il provvedimento del Gip del 13 maggio 2000.

PQM

La Corte annulla l’impugnata ordinanza con rinvio al tribunale di Genova per nuovo esame.

Roma, 17 novembre 2000