Sentenza Corte di Cassazione n. 2374-1998
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Organo giudicante: Tribunale di Reggio Emilia Deposito in Cancelleria: 16 marzo 1999
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Normativa correlata:
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Cass. Civ, sez. I, 20 maggio 1998 (depos. 16 marzo 1999) n. 2374.
- SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 5 luglio 1988 S.B. ha proposto opposizione avverso il decreto con il
quale il presidente del Tribunale di Milano gli ha ingiunto il pagamento di L. 22.143.185 in favore
della filiale di Milano del Banco di Napoli, in relazione a uno scoperto di conto corrente di pari
importo. L'opponente ha sostenuto che la revoca dell'apertura di credito gli era stata comunicata
solo dopo la notifica del decreto ingiuntivo, che non era dovuta la somma richiesta e che,
comunque, era illegittima la richiesta di interessi in misura superiore a quella pattuita. Con sentenza
del 16 settembre 1991 il Tribunale di Milano ha respinto l'opposizione e tale decisione è stata
confermata dalla Corte d'appello di Milano.
La Corte territoriale, limitatamente a quanto in questa sede ancora rileva, ha rigettato l'eccezione di nullità della sentenza impugnata, fondata sulla pretesa mancanza di sottoscrizione del presidente, rilevando che in calce alla sentenza stessa, oltre alla firma dell'estensore, risultava apposta altra firma illeggibile che, in difetto di altri elementi, doveva essere attribuita al presidente.
Quanto alla dedotta nullità della clausola del contratto di conto corrente relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti, la Corte territoriale ha affermato che nei rapporti tra istituti di credito e clienti l'anatocismo è applicato secondo un uso normativo che autorizza la deroga a tutte le condizioni elencate nell'art. 1283 c.c. Avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi il B.. Resiste con controricorso il Banco di Napoli. Entrambe le parti hanno presentato memorie.
- MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, deducendo la violazione dell'art. 132 c.p.c., il ricorrente afferma che
la sottoscrizione della sentenza, diversa da quella del giudice estensore, non sarebbe illeggibile,
come sostenuto nella sentenza impugnata, perché, quanto meno, sarebbero individuabili le prime
due lettere "M" e "G", che corrispondono alle iniziali del giudice a latere e sono incompatibili con il nome del presidente, di cui non è stato attestato impedimento.
Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata ha accertato che in calce alla sentenza di primo grado risultano
apposte due firme: una del giudice estensore e un'altra illeggibile. La firma illeggibile, ha aggiunto
la Corte territoriale, in difetto di altri elementi, deve attribuirsi al presidente del collegio giudicante.
Il ricorrente contesta che la seconda sottoscrizione sia illeggibile, affermando che sono individuabili nel tratto grafico due lettere, ma l'affermazione non può condividersi, perché la sigla non consente di per sé l'individuazione del sottoscrittore.
Ora, premesso che l'accennata illeggibilità della sottoscrizione non comporta difetto di
sottoscrizione, quando la stessa non impedisca, sia pure sulla base di ulteriori elementi risultanti
dalla sentenza, l'individuazione del giudice che l'ha pronunciata (Cass., n. 943/95, 9446/1993,
5635/1990), deve ritenersi che nella specie l'attribuzione della sigla al presidente del collegio, alla quale è pervenuta la sentenza impugnata, sulla base di una presunzione, non può essere vinta dai rilievi formulati in questa sede del ricorrente, perché la valutazione di tali rilievi implicherebbe un accertamento di fatto estraneo all'ambito di questo giudizio di legittimità.
2.1. Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo l'erronea interpretazione dell'art. 1283 c.c., lamenta che sia stata ritenuta legittima l'applicazione dell'anatocismo, nella forma della capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati a suo carico. Secondo il ricorrente, anche in presenza di usi contrari, gli interessi anatocistici non sarebbero "in ogni caso" dovuti per un periodo superiore ai sei mesi, perché l'art. 1283 c.c. è norma imperativa e non dispositiva. Comunque, la prassi bancaria della capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici non sarebbe basata su un uso normativo, ma su un semplice uso negoziale, mancando nel cliente la convinzione di adempiere a un obbligo giuridico ed essendo invece diffusa la convinzione che si tratti di una clausola vessatoria imposta dal cartello bancario.
2.2. Il motivo è fondato. Ha carattere logicamente preliminare il secondo profilo, in quanto se dovesse condividersi la tesi secondo cui l'uso bancario della capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente ha natura negoziale e non normativa, rimarrebbe assorbita la questione relativa ai limiti temporali di operatività dell'anatocismo. L'art. 1283 c.c., in conformità con una tradizione legislativa risalente alla codificazione napoleonica, supera l'antico divieto, di origine cristiano-giustinianea, e ammette l'anatocismo a determinate condizioni. La disposizione che pacificamente è ritenuta di carattere imperativo e di natura eccezionale, contiene due norme: con la prima si limita la possibilità che interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi alla sola ipotesi di interessi dovuti per almeno un semestre, con la seconda la produzione di ulteriori interessi è subordinata alla proposizione di una domanda giudiziale (che ne determini anche la decorrenza) ovvero al perfezionamento di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi stessi. Le finalità della norma sono state identificate, da una parte, nella esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurari, e, dall'altra, nell'intento di consentire al debitore di rendersi conto del rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell'inadempimento (onere della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di sottoscrivere l'apposita convenzione, l'esatto ammontare del suo debito. Richiedendo che l'apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi, il legislatore mira anche ad evitare che l'accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per potere accedere al credito. Finalità, va anche detto, che lungi dall'apparire anacronistiche, per quanto riguarda gli intenti antiusurari, sono di grandissima attualità, perché la lotta all'usura ha trovato in tempi recenti nuove motivazioni e nuovi impulsi e ha portato all'approvazione della legge 7 marzo 1996, n. 108, che ha radicalmente innovato la disciplina preesistente, rendendo più agevole l'applicazione delle sanzioni penali e civili (con la modifica del secondo comma dell'art. 1815 c.c.), anche con l'introduzione di un meccanismo semplificato di accertamento della natura usuraria degli interessi, consistente nel mero superamento obiettivo di un tasso-soglia determinato dal Ministro del tesoro per ogni trimestre. Ora, pur rimanendo nei limiti del tasso-soglia, le conseguenze economiche sono diverse a seconda che sulla somma capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti. É stato, infatti, osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del cinque per cento si raddoppia in venti anni, mentre con la capitalizzazione degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa quattordici anni.
2.3. Nonostante l'evidente rilievo economico e sociale delle finalità perseguite dalla disciplina limitativa dell'anatocismo, la disposizione ammette tuttavia la possibilità di deroga da parte di usi contrari. Ora, con un orientamento giurisprudenziale che ha avuto inizio con la sentenza n. 6631 del 1981 (secondo la quale "nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l'anatocismo trova generale applicazione, in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono - nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi - come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull'originario importo della somma versata, ma sugli interessi da questo prodotti e ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall'art. 1283 c.c."), questa Corte ha ripetutamente affermato l'esistenza di un uso normativo che consente di derogare, nei rapporti tra banche e clienti, secondo la stessa volontà del legislatore, ai limiti posti all'applicazione dell'anatocismo (v. in senso conforme Cass. n. 5409/83, 4920/87, 3804/88, 2644/89, 7571/92, 9227/95, 3296/97, che si limitano a richiamare i precedenti, senza aggiungere proprie argomentazioni). Ritiene tuttavia la Corte che il tradizionale orientamento debba essere rivisto, anche alla luce delle obiezioni sollevate da una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, in quanto l'esistenza di un uso normativo idoneo a derogare ai limiti di ammissibilità dell'anatocismo prevista dalla legge appare più oggetto di una affermazione, basata su un incontrollabile dato di comune esperienza, che di una convincente dimostrazione.
2.4. Un primo rilievo, non estraneo, peraltro, allo stesso orientamento che viene ora sottoposto a revisione critica, deve essere fatto. Gli "usi contrari", ai quali il legislatore fa riferimento, sono i veri e propri usi normativi, di cui agli articoli 1, 4 e 8 delle disp. prel. al c.c. che, secondo la consolidata nozione, consistono nella ripetizione generale, uniforme, costante, frequente e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla condizione che si tratti di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, e cioè conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento (opinio iuris ac necessitatis). Agli usi normativi, che costituiscono fonte di diritto obiettivo, come è noto, si contrappongono gli usi negoziali, disciplinati dall'art. 1340 c.c., consistenti nella semplice reiterazione di comportamenti ad opera delle parti di un rapporto contrattuale, indipendentemente non solo dall'elemento psicologico, ma anche dalla ricorrenza del requisito della generalità. L'efficacia di detti usi è limitata alla creazione di un precetto del regolamento contrattuale, che si inserisce nel contratto salvo diversa volontà delle parti. Ancora diversi, infine, sono gli usi interpretativi (art. 1368 c.c.), consistenti nelle pratiche generalmente seguite nel luogo in cui è concluso il contratto o ha sede l'impresa, che non hanno funzione di integrazione del regolamento contrattuale, ma costituiscono soltanto uno strumento di chiarimento e di interpretazione della volontà delle parti contraenti. Consegue da quanto osservato che, in materia, non hanno, quindi, alcun rilievo in quanto tali (indipendentemente cioè dalla loro eventuale efficacia probatoria di un preesistente uso normativo conforme, di cui si tratterà oltre), le cosiddette norme bancarie uniformi predisposte dall'associazione di categoria (Associazione bancaria italiana - A.B.I.), che non hanno natura normativa, ma solo pattizia, nel senso che si tratta di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate dall'associazione alle banche associate (la cui validità, peraltro, in relazione alla disciplina comunitaria e interna della concorrenza, è stata di recente, per alcuni aspetti non secondari, messa in discussione dalle autorità amministrative di vigilanza). Come tali, quindi, le c.d. norme bancarie uniformi assumono rilevanza nel singolo rapporto contrattuale con il cliente in quanto siano richiamate nel contratto stesso, secondo la disciplina dettata dagli articoli 1341 e 1342 c.c.
2.5. L'indagine alla quale la Corte è chiamata non può, inoltre, essere limitata a rilevare se nei rapporti tra banca e cliente esista un generico uso favorevole all'applicazione dell'anatocismo, essendo evidente che la specifica e puntuale disciplina limitativa legale può essere sostituita, per volontà del legislatore, solo da una normativa consuetudinaria altrettanto specifica e puntuale e non da una generica prassi derogatoria, che, proprio a causa della sua genericità non potrebbe mai costituire fonte di diritto obiettivo. D'altra parte, se l'unico contenuto di una regola consuetudinaria fosse quello di ammettere l'anatocismo nei rapporti tra banca e cliente, si tratterebbe di una regola inutile, in quanto puramente ripetitiva della norma di legge, che, si ripete, non contiene un divieto assoluto, ma, all'opposto, afferma l'ammissibilità dell'anatocismo, sia pure nei limiti della stessa norma indicati. Lo specifico oggetto di indagine è, pertanto, come esattamente propone il ricorrente, l'esistenza o non di una consuetudine in base alla quale nei rapporti tra banca e cliente, gli interessi a carico del cliente possano essere capitalizzati (e quindi possano produrre ulteriori interessi) ogni trimestre. Ora, dall'orientamento giurisprudenziale richiamato, non emerge che questa Corte abbia in precedenza affermato l'esistenza di una norma consuetudinaria di questa precisa portata, essendosi limitata ad affermare, sulla base di un dato di comune esperienza, che l'anatocismo trova generale applicazione nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti. Anzi, la dottrina formatasi nel vigore della disciplina anteriore all'entrata in vigore del nuovo codice, anche sulla base della giurisprudenza dell'epoca, affermava che gli usi normativi in materia commerciale, fatti salvi dall'art. 1232 del c.c. del 1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ad ogni semestre e che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi scaduti. Inoltre, anche tra i primi e più autorevoli commentatori dell'art. 1283 del codice vigente, si affermava che l'uso contrario richiamato da detta disposizione prevedeva che divenisse produttivo di interessi solo il saldo annuale o semestrale del conto corrente. Non v'è alcun elemento, quindi, che autorizzi a ritenere esistente, prima del 1942, un uso normativo che autorizzava la capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente di un istituto di credito.
2.6. É, comunque, decisivo un ulteriore rilievo, puntualmente messo in evidenza da una parte della dottrina. La capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti a debito del cliente è stata prevista in realtà per la prima volta dalle c.d. norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi predisposti dall'ABI con effetto dal 1° gennaio 1952. La clausola sei, dopo aver affermato che in via normale i rapporti di dare e avere sono regolati annualmente, portando in conto (e cioè capitalizzando) gli interessi al 31 dicembre di ogni anno, disponeva che i conti che risultino anche saltuariamente debitori dovevano essere regolati invece, in via normale, ogni trimestre e con la stessa cadenza gli interessi scaduti producevano ulteriori interessi, al tasso da determinarsi tenendo conto delle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito operanti sulla piazza. Non è stata mai accertata, invece, dalla Commissione speciale permanente presso il Ministero dell'industria, ai sensi del d.Lg.vo del C.p.S. 27 gennaio 1947, n. 152 (modificato con la legge 13 marzo 1950, n. 115) l'esistenza di un uso normativo generale di contenuto corrispondente alla clausola di cui si è detto. Tale uso generale è stato oggetto di accertamento e pubblicazioni in raccolte di natura meramente privata. Per quanto riguarda, inoltre, l'accertamento di usi locali da parte di alcune Camere di commercio provinciali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 34, 39- 40 del r.d. 20 settembre 1934, n. 2011 e dell'art. 2, del d.L.g.vo luogoten. 21 settembre 1944, n. 315, deve rilevarsi che si tratta di accertamenti avvenuti tutti in epoca successiva al 1952 e ciò esclude che, in concreto, possa essere attribuita alla indicata clausola delle c.d. norme bancarie uniformi in vigore dal 1952 una funzione probatoria di usi locali preesistenti. Peraltro, la presunzione derivate dall'inserimento nelle raccolte delle camere di commercio, di cui all'art. 9 delle disp. prel. al c.c. riguarda l'esistenza dell'uso e non anche la natura, normativa o negoziale. Anzi, in concreto, il rapporto temporale che è intercorso tra la predisposizione delle c.d. norme bancarie uniformi in tema di conti correnti di corrispondenza e le deliberazioni camerali con le quali sono stati accertati usi locali di contenuto corrispondente, può autorizzare la presunzione che l'accertamento dell'uso locale sia conseguenza del rilievo di prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI, prassi alle quali mai potrebbe riconoscersi efficacia di fonti di diritto obiettivo, se non altro per l'evidente difetto dell'elemento soggettivo della consuetudine, potendo al massimo ritenersi che si possa trattare di clausole d'uso ai sensi dell'art. 1340 c.c. A conferma della fondatezza di tale presunzione può ricordarsi che nella raccolta degli usi bancari curata dalla Camera di commercio di Firenze, edizione 1960, l'uso relativo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente è espressamente definito come uso negoziale. Giova, peraltro, sottolineare che, comunque, nella specie la banca controricorrente non ha invocato un uso normativo locale, ma un uso nazionale che, in conformità con una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, sulla base dei puntuali rilievi, storici e giuridici, ora sinteticamente indicati, deve ritenersi inesistente.
2.7. Infine, non appare irrilevante anche quanto può desumersi dalla concreta esperienza giurisprudenziale e dalla dottrina più volte richiamata, circa l'elemento psicologico che si accompagna al generalizzato inserimento nei concreti regolamenti contrattuali di clausole (la cui validità, alla stregua dell'art. 1283 c.c. e in mancanza di un uso contrario, non potrebbe certo essere data per scontata) conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI, che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del cliente, mentre gli interessi a carico della banca sono capitalizzati annualmente. Dalla comune esperienza, infatti, emerge che l'inserimento di tali clausole è acconsentito da parte dei clienti non in quanto ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile che fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l'opinio iuris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente. Su questo aspetto soggettivo, peraltro, l'orientamento di questa Corte non aveva fatto alcuna specifica considerazione, essendosi limitata ad osservare che sia le banche che i clienti chiedono e riconoscono come "legittima" la pretesa degli interessi anatocistici. Ma tale osservazione non è rilevante, perché la legittimità della pretesa della corresponsione degli interessi anatocistici deriva direttamente dalla circostanza che il legislatore del '42 non ha ripetuto l'antico divieto ma, al contrario, ha ritenuto ammissibile l'anatocismo, sia pure nei limiti segnati dall'art. 1283 c.c. Il punto da decidere era, invece, di vedere se tali limiti erano superabili, per l'esistenza di una norma di diritto obiettivo consuetudinario di contenuto diverso, mentre su tale aspetto il citato orientamento non esprime alcuna valutazione.
3. Sulla base dei rilievi formulati si deve, quindi, ritenere che la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata su un uso negoziale, ma non su una vera e propria norma consuetudinaria è nulla, in quanto anteriore alla scadenza degli interessi. Un'ulteriore ragione di invalidità della clausola, quanto meno per i contratti bancari stipulati dopo l'entrata in vigore della legge, deriva inoltre dall'art. 4 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 (trasfusa poi nel t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al d.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385), che vieta le clausole contrattuali di rinvio agli usi. In accoglimento del secondo motivo la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano, che provvederà anche sulle spese di questo giudizio.
- P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata
e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Milano.