Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799/Capitolo VI
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VI
INQUISIZIONE DI STATO
I nostri affetti, preso che abbiano un corso, piú non si arrestano. L’odio segue il disprezzo, e dietro l’odio vengono il sospetto ed il timore. La regina, che non amava la nazione, temeva di esserne odiata; e questo affetto, sebbene penoso, ha bisogno, al pari di ogni altro, di essere fomentato. Chiunque le parlò male della nazione fu da lei ben accolto.
Le novitá delle opinioni politiche accrebbero i suoi sospetti e diedero nuovi mezzi ai cortigiani per guadagnare il suo cuore. Acton non mancò di servirsene per perder Medici e qualche altro illustre suo rivale. Quindi si sciolse il freno e si portò la desolazione nel seno di tutte le famiglie.
Un esempio. I nostri giovinetti in quegli anni aveano per moda di far delle corse a cavallo per Ghiaia ed ai Bagnuoli. Si dette a credere ad Acton, o piuttosto Acton volle dar a credere alla corte, che essi volessero rinnovare le corse olimpiche. Qual rapporto tra le corse de’ nostri giovani napolitani e quelle de’ greci? E, quando anche quelle fossero state un’imitazione di queste, qual male? qual pericolo? Acton intanto incaricò la polizia di vegliare su queste corse, come se si fosse trattato della marcia di venti squadroni nemici che piombassero sulla capitale.
Alcuni giovani entusiasti, ripieni la testa delle nuove teorie, leggevano ne’ fogli periodici gli avvenimenti della rivoluzione francese e ne parlavano tra di loro o, ciocché val molto meno, ne parlavano alle loro innamorate ad ai loro parrucchieri. Essi non aveano altro delitto che questo, né giovani senza grado, senza fortuna, senza opinione potevano tentarne altro. Fu eretto un tribunale di sangue col nome di «Giunta di Stato» per giudicarli, come se avessero giá ucciso il re e rovesciata la costituzione.
Pochi magistrati, tra coloro che componevano la Giunta, amanti veracemente del re e della patria, vedendo che il primo, il vero, il solo delitto di Stato era quello di seminar diffidenze tra il sovrano e la nazione, ardirono prendere la difesa dell’innocenza e proporre al re che la pena de’ rei di Stato mal si applicava a pochi giovani inesperti, i quali non di altro delitto eran rei che di aver parlato di ciò che era meglio tacere, di aver approvato ciò che era meglio esaminare; delitto di giovani, i quali si sarebbero corretti coll’ etá e coll’esperienza, che avrebbe smentite le brillanti ma fallaci teorie onde erano le loro menti invasate. I mali di opinione si guariscono col disprezzo e coll’obblio: il popolo non intenderá, non seguirá mai i filosofi. Ma, se voi perseguitate le opinioni, allora esse diventano sentimenti; il sentimento produce l’entusiasmo; l’entusiamo si comunica; vi inimicate chi soffre la persecuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l’uomo indifferente che la condanna; e finalmente l’opinione perseguitata diventa generale e trionfa.
Ma, ove si tratta di delitto di Stato, le piú evidenti ragioni rimangono inefficaci. Imperciocché di rado un tal delitto esiste, e di rado avviene che un uomo attenti con atto non equivoco alla costituzione o al sovrano di una nazione: il piú delle volte si tratta di parole che vagliono meno delle minacce, o di pensieri che vagliono anche meno delle parole. Tali cose vagliono quanto le fa valere il timore di chi regna1. Guai a chi ha ascoltato una volta le voci del timore! Quanto piú ha temuto, piú dovrá temere. Molto temeva la regina di Napoli, ed Acton voleva che temesse di piú. Le frequenti impressioni di sospetti e di timori, che aveva sofferte, avevano quasi alterato il di lei fisico e turbata interamente la serie e l’associazione delle sue idee. Persone degne di fede mi narrano che non senza pericolo di dispiacerle taluno le attestava la fedeltá de’ sudditi suoi.
Si volle del sangue, e se n’ebbe. Furono condannati a morte tre infelici, tra’ quali il virtuoso Emmanuele de Deo, a cui si fece offrire la vita purché rivelasse i suoi complici, e che in faccia all’istessa morte seppe preferirla all’infamia.
Ecco un esempio di ciò che possa e che produca il timore negli animi, una volta turbati. Nel giorno dell’esecuzione della sentenza si presero quelle precauzioni che altre volte si erano trascurate e che anche allora erano superflue. Si temeva che il popolo volesse salvare tre sciagurati, che appena conosceva; si temeva una sedizione di circa cinquantamila rivoluzionari, che per lo meno si diceva dover esser in Napoli. Intanto, le truppe che quasi assediavano la cittá, gli ordini minaccevoli del governo, tutto allarmava la fantasia del popolo; qualunque moto piú leggiero, che in altri tempi sarebbe stato indifferente, doveva turbarlo; temeva i sollevatori, temeva gli ordini del governo, temeva tutto; ed il minimo timore dovea produrre, come difatti produsse, in una gran massa di popolo un’agitazione tumultuosa. Cosí i sospetti del governo rendono piú sospettoso il popolo. Da quell’epoca il popolo napolitano, che prima quasi si conteneva da se stesso senza veruna polizia, fu piú difficile a maneggiarsi; tutte le pubbliche feste furono fatte con maggiori precauzioni, ma non furono perciò piú tranquille.
Si sciolse la prima Giunta. Si sperava poter respirare finalmente da tanti orrori; ma, pochi mesi dopo, si vide in campo una nuova congiura ed una Giunta piú terribile della prima. Si vollero allontanati tutti que’ magistrati che conservavano ancora qualche sentimento di giustizia e di umanitá. Si mostrò di volere i scellerati, ed i scellerati corsero in folla. Castelcicala, Vanni, Guidobaldi si misero alla loro testa. La nazione fu assediata da un numero infinito di spie e di delatori, che contavano i passi, registravano le parole, notavano il colore del volto, osservavano finanche i sospiri. Non vi fu piú sicurezza. Gli odii privati trovarono una strada sicura per ottener la vendetta, e coloro che non avevano nemici furono oppressi dagli amici loro medesimi, che la sete dell’oro e l’ambizione aveva venduti ad Acton ed a Vanni. Che si può difatti conservare di buono in una nazione, dove chi regna non dá le ricchezze, le cariche, gli onori se non ai delatori? dove, se si presenta un uomo onesto a chiedere il premio delle sue fatiche o delle sue virtú, gli si risponde che «si faccia prima del merito»? Per «farsi del merito» s’intendeva divenir delatore, cioè formar la ruina almeno di dieci persone oneste. Questo merito aveano tanti, i nomi de’ quali la giusta vendetta della posteritá non deve permettere che cadano nell’obblio. La regina, indispettita contro un sentimento di virtú che la massima parte della nazione ancora conservava, diceva pubblicamente che «ella sarebbe un giorno giunta a distruggere quell’antico pregiudizio per cui si reputava infame il mestiere di delatore». Tutte queste e molte altre simili cose si narravano: forse, siccome sempre suole avvenire, in picciola parte vere, pel maggior numero false e finte per odio. Ma queste cose, o vere o false che sieno, sono sempre dannose quando e si dicono da molti e da molti si credono, perché rendono piú audaci gli scellerati e piú timidi i buoni. Che se esse son false, meritano doppiamente la pubblica esecrazione que’ ministri i quali colla loro condotta danno occasione a dirle e ragione a crederle. Per cagione intanto di queste voci, una parte della nazione si armò contro l’altra; non vi furono piú che spie ed uomini onesti, e chi era onesto era in conseguenza un «giacobino». Vanni avea detto mille volte alla regina che il Regno era pieno di giacobini: Vanni volle apparir veridico, e colla sua condotta li creò.
Tutt’i castelli, tutte le carceri furono ripiene d’infelici. Si gittarono in orribili prigioni, privi di luce e di tutto ciò ch’era necessario alla vita, e vi languirono per anni, senza poter ottenere né la loro assoluzione né la loro condanna, senza neanche poter sapere la cagione della loro disgrazia. Quasi tutti, dopo quattro anni, uscirono liberi, come innocenti; e sarebbero usciti tutti, se non si fossero loro tolti i legittimi mezzi di difesa. Vanni, che era allor il direttor supremo di tali affari, non si curava piú di chi era giá in carcere; non pensava che a carcerarne degli altri: ardì dire che «almeno dovevano arrestarsene ventimila». Se il fratello, se il figlio, se il padre, se la moglie di qualche infelice ricorreva a costui per sollecitare la decisione della di lui sorte, un tal atto di umanitá si ascriveva a delitto. Se si ricorreva al re e che il re qualche volta ne chiedeva conto a Vanni, ciò anche era inutile, perché per Vanni rispondeva la regina, la quale credeva che Vanni operasse bene. Vanni diceva sempre che vi erano altre fila della congiura da scoprire, altri rei da arrestare; e la regina tutto approvava, perché temeva sempre altri rei ed altre congiure.
Vanni, il quale meglio di ogni altro sapeva con quali arti si era ordita un’inquisizione, diretta piú a fomentare i timori della regina che a calmarli, tremava ogni volta che gli si parlava di esame e di sentenza. Ei volea trovare il reo, e temea che si fosse ricercata la veritá2.
Sembrerá a molti inverisimile tutto ciò che io narro di Vanni. E difatti il carattere morale di quell’uomo era singolare. Egli riuniva un’estrema ambizione ad una crudeltá estrema e, per colmo delle sciagure dell’umanitá, era un entusiasta. Ogni affare che gli si addossava era grandissimo; ma egli voleva sempre apparir piú grande di tutti gli affari. Uomini tali sono sempre funesti, perché, non potendo o non sapendo soddisfare l’ambizione loro con azioni veramente grandi, si sforzano di fare apparir tali tutte quelle che possono e che sanno fare, e le corrompono. Vanni incominciò ad acquistar fama di giudice integro e severissimo colla condotta che tenne col principe di Tarsia, il quale era stato per qualche anno direttore della fabbrica di seterie che il re avea stabilita in San Leucio. Il primo errore forse lo commise il re, affidando tale impresa al principe di Tarsia anziché ad un fabbricante; il secondo lo fu di Tarsia, il quale, non essendo fabbricante, non dovea accettar tale commissione. Ne avvenne quello che ne dovea avvenire. Tarsia era un onestissimo cavaliere, cioè un onestissimo spensierato, incapace di malversare un soldo, ma incapace al tempo istesso d’impedir che gli altri malversassero. Si trovò ne’ conti una mancanza di circa cinquantamila scudi. Fu data a Vanni la commissione di liquidare i conti. Non eravi affare piú semplice, perché Tarsia era un uomo che poteva e voleva pagare. Pure Vanni prolungò l’affare non so per quanti anni: cadde il trono, e l’affare di Tarsia ancora pendeva indeciso; ed intanto non eravi genere di vessazioni e d’insulti ai quali non sottoponesse la famiglia di Tarsia, perché, dicesi, tale era l’intenzione di Acton. Gli uomini di buon senso, alcuni dicevano: — Che imbecille! — altri: — Che impostore! — Ma nella corte si faceva dire: — Che giudice integro! Con quanto zelo, con quanta fermezza affronta il principe di Tarsia, un grande di Spagna, un grande officiale del palazzo! — Come se l’ingiustizia che si commette contro i grandi non possa derivar dalle stesse cagioni ed essere egualmente vile che quella che si commette contro i piccioli.
Si avea bisogno d’un inquisitor di Stato, e si scelse Vanni per la ragione istessa per la quale non si avrebbe dovuto scegliere. La prima volta che Vanni entrò nell’assemblea de’ magistrati che dovean giudicare, si mostrò tutto affannato, cogli occhi mezzo stralunati, e, raccomandando ai giudici la giustizia, soggiunse: — Son due mesi da che io non dormo, vedendo i pericoli che ha corsi il mio re. — «Il mio re»: questo era il modo col quale egli usava chiamarlo dopo che gli fu affidata l’inquisizione di Stato. — Il vostro re! — gli disse un giorno il presidente del Consiglio, Cito, uomo rispettabile e per la carica e per cento anni di vita irreprensibile — il vostro re! Che volete intender mai con questa parola, che, sotto apparenza di zelo, nasconde tanta superbia? E perché non dite «il nostro re»? Egli è re di tutti noi, e tutti l’amiamo egualmente. — Queste poche parole bastano per far giudicare di due uomini; ma, in un governo debole, colui che pronunzia piú alto «il mio re» suole vincere chi si contenta di dire «il nostro re» .
Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in se stesso; il colore del volto pallido-cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt’i suoi affetti atterrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar di piú di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de’ signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l’uomo che dovea salvare il Regno!
Ma la macchina di quattro anni dovea finalmente sciogliersi. Gl’interessati fremevano; gli uomini di buon senso ridevano di una nuova specie di delitto di Stato che in quattro anni d’inquisizione non si era ancora scoperto; nel popolaccio istesso andava raffreddandosi quel caldo che nei primi tempi avea mostrato contro i rei. e quasi incominciava a sentir pietá di tanti infelici, i quali non vedendo condannati, incominciava a credere innocenti. Acton, che da principio era stato il principal autore dell’inquisizione, dopo averne usato quanto bastava ai suoi disegni, vedendola innoltrar piú di quel che conveniva e non volendo e non potendo arrestarla, avea ceduto il suo luogo a Castelcicala. Costui, il piú vile degli uomini, avea bisogno, per guadagnare il favore della regina, di quel mezzo che Acton avea adoperato solo per atterrare i suoi rivali, ed in conseguenza dovea spingerne l’abuso piú oltre, e lo spinse. Fece di tutto perché la cabala non si scoprisse: giunse ad imputare a delitto la religiositá di coloro che diedero il voto per la veritá; giunse a minacciare un castigo agli avvocati da lui stesso destinati, perché difendevano i rei con zelo. Ma la nazione era oppressa e non corrotta, e, se diede grandi esempi di pazienza, ne diede anche moltissimi, ed egualmente splendidi, di virtú. Nulla potette smuovere la costanza de’ giudici e lo zelo degli avvocati. Quando si vide la veritá trionfare, ed uscir liberi quei che si volevano morti, Castelcicala, per giustificarsi agli occhi del pubblico e del re, il quale finalmente si era occupato di un tal affare, immolò Vanni, e tutta la colpa ricadde sopra costui.
Vanni avea accusati al re tutti i giudici, il presidente del Consiglio Mazzocchi, Ferreri, Chinigò, gli uomini forse i piú rispettabili che Napoli avesse e per dottrina e per integritá e per attaccamento al proprio sovrano; e per un momento forse si dubitò se dovessero esser puniti questi tali o Vanni. Se Vanni rimaneva vincitore, avrebbe compita l’opera della perdita del Regno e della rovina del trono. Per buona sorte era giunto all’ estremo, e rovinò se stesso per aver voluto troppo. Ma, prima che ciò avvenisse, di quanti altri uomini utili avrebbe privato lo Stato, e quanti fedeli servitori avrebbe tolti al re? Quando anche il rovescio del trono di Napoli non fosse avvenuto per effetto della guerra, Vanni sarebbe bastato solo a cagionarlo, e lo avrebbe fatto.
Vanni fu deposto ed esiliato dalla capitale: si tentò di raddolcire in segreto il suo esilio, ma invano. L’anima ambiziosa di Vanni cadde in un furore melanconico, il quale finalmente lo spinse a darsi da se stesso una morte, che, per soddisfazione della giustizia e per bene dell’umanitá, avrebbe meritato da altra mano e molto tempo prima. La sua morte precedette di poco l’entrata de’ francesi in Napoli. Egli li temea, avea chiesta alla corte un asilo in Sicilia, e gli era stato negato. Prima di uccidersi scrisse un biglietto, in cui diceva: «L’ingratitudine di una corte perfida, l’avvicinamento di un nemico terribile, la mancanza di asilo mi han determinato a togliermi una vita che ormai mi è di peso. Non s’incolpi nessuno della mia morte; ed il mio esempio serva a render saggi gli altri inquisitori di Stato». Ma gli altri inquisitori di Stato risero della sua morte, ne rise Castelcicala; e l’inquisizione continuò collo stesso furore, finché i francesi non furono a Capua.
Note
- ↑ Giuliano a quel miserabile pazzo, il quale quasi pubblicamente ambiva l’impero, inviò in dono una veste di porpora: Tiberio lo avrebbe fatto impiccare.
- ↑ Invece di tanti luoghi comuni satirici, che ne’ primi giorni della repubblica si son pubblicati contro il governo del re, non vi è stato un solo che abbia pensato a pubblicare un estratto fedele de’ processi della Giunta di Stato! Tanto è piú facile declamare che raccontar fatti! Ma le declamazioni passano, ed i fatti arrivano alla posteritá.