Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799/Capitolo III
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III
STATO D’ITALIA FINO ALLA PACE DI CAMPOFORMIO
In breve tempo li francesi si videro vincitori e padroni delle Fiandre, dell’Olanda, della Savoia e di tutto l’immenso tratta ch’è lungo la sinistra sponda del Reno. Non ebbero però in Italia sí rapidi successi; e le loro armate stettero tre anni a’ piedi delle Alpi, che non potettero superare, e che forse non avrebbero superate giammai, se il genio di Bonaparte non avesse chiamata anche in questi luoghi la vittoria.
Quando l’impresa d’Italia fu affidata a Bonaparte, era quasi che disperata. Egli si trovò alla testa di un’armata alla quale mancava tutto, ma che era uscita dalla Francia nel momento del suo maggiore entusiasmo e che era da tre anni avvezza ai disagi ed alle fatiche; si trovò alla testa di coraggiosi avventurieri, risoluti di vincere o morire. Egli avea tutti i talenti, e quello specialmente di farsi amare dai soldati, senza del quale ogni altro talento non val nulla.
Se le campagne di Bonaparte in Italia si vogliono paragonare a quelle che i romani fecero in paesi stranieri, si potranno dir simili solo a quelle colle quali conquistarono la Macedonia. Scipione ebbe a combattere un grandissimo capitano che non avea nazione; molti altri non ebbero a fronte né generali né nazioni guerriere: solo nella Macedonia i romani trovarono potenza bene ordinata, nazione agguerrita ed audace per freschi trionfi, e generali i quali, se non aveano il genio, sapevano almeno la pratica dell’arte. Bonaparte cangiò la tattica, cangiò la pratica dell’arte; e le pesanti evoluzioni de’ tedeschi divennero inutili come le falangi de’ macedoni in faccia ai romani. Supera le Alpi e piomba nel Piemonte. Costringe il re di Sardegna, stanco forsi da una guerra di cinque anni, privato di buona porzione de' suoi domini, abbandonato dagli austriaci, ridotti a difendere il loro paese, a sottoscrivere un armistizio, forse necessario, ma al certo non onorevole, ed a cedere a titolo di deposito fino alla pace quelle piazze che ancora potea e che difender dovea fino alla morte. Dopo ciò, la campagna non fu che una serie continua di vittorie.
L'Italia era divisa in tanti piccoli Stati, i quali però, riuniti, pur potevano opporre qualche resistenza. Bonaparte fu si destro da dividere i loro interessi. Questa è la sorte, dice Machiavelli, di quelle nazioni le quali han già guadagnata la riputazione delle armi: ciascuno brama la loro amicizia, ciascuno procura distornare una guerra che teme. Cosí i romani han combattuto sempre i loro nemici ad uno ad uno e li han vinti tutti. Il papa tentò di stringere una lega italica. Concorrevano volentieri a questa alleanza le corti di Napoli e di Sardegna, la prima delle quali s'incaricò d'invitarvi anche la repubblica veneta. Ma i «savi» di questa repubblica alle proposizioni del residente napolitano risposero che nel senato veneto era giá quasi un secolo che non parlavasi di alleanza, che si sarebbe proposta inutilmente; ma che, se mai la lega fosse stata stretta tra gli altri principi, non era difficile che la repubblica vi accedesse. Ma, quando il gabinetto di Vienna ebbe cognizione di tali trattative, vi si oppose acremente e mostrò con parole e con fatti che più della rivoluzione francese temeva l'unione italiana!
Allora si vide quanto lo stato politico degl'italiani fosse infelice, non solo perché divisi in tanti piccoli Stati (ché pure la divisione non sarebbe stata il più grave de' mali), ma perché da duecento anni o conquistati o, quel che è peggio, protetti dagli stranieri, all'ombra del sistema generale di Europa, senza aver guerra tra loro, senza temerne dagli esteri, tra la servitú e la protezione, avean perduto ogni amor di patria ed ogni virtú militare. Noi, in questi ultimi tempi, non solo non abbiam potuto rinnovar gli esempi antichi de' nostri avi antichissimi, i quali, riuniti, conquistarono tanta parte dell'universo, ma neanche quei meno illustri dei tempi a noi piú vicini, quando, divisi tra noi, ma indipendenti da tutto il rimanente dell’Europa, eravamo italiani, liberi ed armati.
Gli austriaci, rimasti soli, non poterono sostener l’impeto nemico: tutta la Lombardia fu invasa, Mantova cadde, ed essi furono respinti fino al Tirolo. Bonaparte era giá poco lontano da Vienna, l’Europa aspettava da momento a momento azioni piú strepitose; quando si vide la Francia condiscendere ad una pace, colla quale essa acquistava il possesso della sinistra sponda del Reno e dell’importante piazza di Magonza, e l’Austria riconosceva l’indipendenza della repubblica cisalpina, in compenso della quale le si davano i domini della repubblica veneta. Questa, col risolversi troppo tardi alla guerra, altro non avea fatto che dare ai piú potenti un plausibile motivo di accelerare la sua ruina.
Per qual forza di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtú ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de’ sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtú de’ propri sudditi? Non so che avverrà dell’Italia; ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oligarchia veneta, sarà sempre per l’Italia un gran bene. Ed io che, tra i beni che posson ricevere i popoli, il primo luogo do a quelli della mente, cioè al giudicar retto, onde vien poi l’oprar virtuoso e nobile; io credo esser già sommo vantaggio il veder tolto l’antico errore per cui i gentiluomini veneziani godevan nelle menti del volgo fama di sapienti reggitori di Stato.
Il trattato di Campoformio era vantaggioso a tutt’e due le potenze contraenti. L’Austria, sopra tutto, vi avea guadagnato moltissimo; e, se rimaneva ancora qualche altro oggetto a determinarsi, era facile prevedere che a spese de’ più piccoli principi di Germania essa avrebbe guadagnato anche dippiú. Ma era facile egualmente prevedere che l’Inghilterra, avendo sola tra gli alleati colla guerra guadagnato e dovendo sola restituire, esser dovea lontana dai pensieri di pace.
Il governo che allora avea la Francia, checché molti credessero, avea, almen per poco, rinunciato al progetto di democratizzazione universale, il quale, al modo come l’aveano i francesi immaginato, era solo eseguibile in un momento di entusiasmo. I romani mostravan di rendere ai popoli gli ordini che essi bramavano, ma non avevan la smania di portar dappertutto gli ordini di Roma. Quindi i romani conservarono meglio e più lungamente l’apparenza di liberatori de’ popoli. Ma il governo francese riteneva tuttavia il primiero linguaggio per vendere a piú caro prezzo le sue promesse e le sue minacce: eravi sempre una contraddizione tra i proclami de’ generali e le negoziazioni de’ ministri, tra le parole date ai popoli e quelle date ai re; e, tra queste continue contraddizioni, si faceva, ora coi popoli ora coi re, un traffico continuo di speranze e di timori.
Giá da questo ognuno prevedeva che il trattato di Campoformio avea sol per poco sospesa la democratizzazione di tutta l’Italia. Il re di Sardegna non era che il ministro della repubblica francese in Torino; il duca di Toscana ed il papa non erano nulla. Berthier finalmente occupò Roma; la distruzione di un vecchio governo teocratico non costò che il volerla; tale è lo stato dell’Italia, che chiunque vuole o salvarla o occuparla deve riunirla, e non si può riunire senza cangiare il governo di Roma. L’indifferenza colla quale l’Italia riguardò tale avvenimento mostrò bene qual progresso le nuove opinioni avean fatto negli animi degl’italiani.