Rubin e il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione/Capitolo 3.3

Componenti del prezzo di produzione

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Capitolo 3.2 Capitolo 3.4

Per sfuggire al circolo vizioso di voler determinare il prezzo di produzione attraverso il valore delle merci che lo compongono, che a loro volta è determinato dai prezzi di produzione1, Rubin procede all'esame delle condizioni delle variazioni delle componenti dei prezzi di produzione: costi di produzione e saggio medio del profitto.


Costi di produzione

Rubin afferma che, fermo restando il saggio medio del profitto e quello del plusvalore, i costi di produzione possono variare in due casi: 1) quando mutano le necessità di lavoro e mezzi di produzione per la produzione di quella merce, cioè quando varia la produttività del lavoro (in questo caso di quel settore produttivo); 2) quando cambiano i prezzi dei fattori di produzione, cioè quando varia la produttività del lavoro di tutte le altre industrie produttrici di merci che, in qualsiasi modo, entrano nei costi di produzione. In entrambi i casi "i costi di produzione variano in relazione a mutamenti della produttività del lavoro, ossia, in ultima analisi, alle leggi del valore-lavoro" (ivi, 189)2.

Per chiarire meglio il collegamento tra la legge del valore e i mutamenti dei costi di produzione, utilizziamo quello che Rubin chiama "il diagramma 2" del "metodo comparativo" di Marx3 (ivi, 193--194). Si tratta di quel metodo che Marx avrebbe usato per descrivere e confrontare i vari passaggi da un'economia mercantile semplice a una capitalistica compiuta, passando attraverso uno stadio puramente logico-astratto, derivato dall'introduzione di una sola variabile per volta: quella di capitalisti visti puramente come parassiti estorsori di valore generato dal lavoro altrui, in nessun rapporto competitivo tra loro, per cui il plusvalore non si presenta in realtà come profitto, ma è più simile a una rendita.

Rubin fa notare che siamo in una società dove, sostanzialmente, non è cambiato nulla nella determinazione del valore delle merci, eccetto l'introduzione del concetto di lavoro salariato e di un capitalista piombato dal cielo sulla schiena di ogni produttore che gli ruba tutto il ricavo eccetto quel minimo che serve al produttore-salariato per continuare a lavorare in quelle particolari condizioni. La società valuta allo stesso modo le merci, perché in ogni società mercantile sul mercato ci sono solo compratori e venditori; che una merce sia prodotto di lavoro autonomo o salariato non fa differenza per la sua equiparazione sociale con le altre merci. Il venditore è rappresentante di una determinata parte della produzione sociale di quella merce, contrapponendosi ad altri venditori e confrontando le produzioni. Che mille metri di stoffa siano stati prodotti da un artigiano o da un operaio salariato sotto le dipendenze di un capitalista, ciò cambia solo per il fatto che il guadagno personale del primo si presenta come , mentre tale somma viene ripartita dal secondo in per lui e per l'operaio, ed entrambe ovviamente debbono detrarre lo stesso .

Rubin ricorda che il mercato si limita a equiparare le merci attribuendo loro un prezzo e, attraverso questo, a influenzare e regolare la produzione sociale in virtù del feticismo della merce. Così se il mercato pone l'equivalenza sociale tra 1000 metri di stoffa e una causa in tribunale (e lo fa attribuendo a entrambe le merci lo stesso valore in virtù del fatto che forze produttive della società in quel dato momento richiedono quella determinata spesa di lavoro sociale per quelle due attività), i due lavori si equivalgono socialmente e sono la stessa quantità di lavoro astratto, producono la stessa quantità di valore; poco importa se il tessitore e l'avvocato sono entrambi salariati e possono guadagnare diversi : se il valore della merce è lo stesso, supposte invariate le condizioni di produzione (cioè identica composizione organica), ciò che il salariato guadagna in lo perde il capitalista in . Scrive Rubin:


"Il valore totale del prodotto e le parti individuali di cui si compone rimangono invariati. La differenza sta nel fatto che ora il fondo per l'espansione del consumo e della produzione (o di plusvalore) non rimane nelle mani dei produttori diretti, ma passa in quelle del capitalista. La stessa quantità di valore è divisa cioè diversamente tra le classi sociali." (ivi, 194-195).


Così, in questo modello puramente teorico, viene ammessa anche la diversità dei saggi di profitto nelle varie sfere di produzione:


"Poiché il valore prodotto nelle singole sfere non è cambiato, il plusvalore si distribuisce come in precedenza tra le diverse sfere e i capitalisti individuali. [...]Ma essi calcolano queste masse di plusvalore in rapporto all'intero capitale investito. Di conseguenza si hanno saggi di profitto differenti, in assenza della concorrenza tra le diverse sfere." (ibidem).


Rubin fa notare che nel "diagramma" descritto sopra è evidente che i costi di produzione possono variare soltanto in base alla legge del valore: è il valore dei mezzi di produzione, quello della forza-lavoro. Se le altre aziende impiegano meno tempo di lavoro astratto nella produzione dei mezzi di produzione e/o dei beni di consumo degli operai, i costi di produzione diminuiscono, poiché diminuito è il loro valore. Se l'azienda diviene più produttiva, abbassando la composizione organica4 si risparmia lavoro e dunque si abbassa il costo di produzione poiché minore è il tempo di lavoro astratto impiegato nella produzione della merce, minore è il suo valore sul mercato.

Egli spiega che nel capitalismo ("diagramma 3", capitalisti in concorrenza tra loro) (ibidem) le cose si complicano, perché il capitalista non è solo colui che si appropria di quasi fosse una semplice rendita, ma è anche divenuto l'organizzatore dell'attività economica, il proprietario dei mezzi di produzione e delle merci prodotte dal lavoro altrui. Ed esso, in forza di tale potere, dirige la produzione dove più gli piace, cioè dove può trarre maggior guadagno possibile e, comunque, mai inferiore al livello medio.

Se la vendita delle merci ai propri valori e la presenza di capitalisti ("diagramma 2") comporta la diversità dei saggi di profitto individuali, il caso di capitalisti in concorrenza tra loro per ottenere il medesimo saggio del profitto implica necessariamente che le merci non possono essere vendute al loro valore perché lo stesso prezzo di produzione è composto da quantità diverse di lavoro astratto. Ma anche in questo caso è la legge del valore a determinare le variazioni nei costi di produzione, anche se tali variazioni si esprimono in nuovi prezzi di produzione. Indipendentemente dal tipo di domanda aggregata, una variazione positiva della produttività del lavoro dell'impresa del capitalista comporta pur sempre un abbassamento del prezzo di produzione a causa della diminuzione dei costi di produzione, come una variazione positiva della produttività di tutte le altre imprese comporta spese minori per mezzi di produzione e salari e, ancora, una diminuzione dei costi di produzione.

Ora, il fatto che "le espressioni quantitative divergano non cambia nulla al rapporto causale tra le due serie di fenomeni [cambiamenti di produttività nel valore--lavoro determinati da variazioni della produttività comportano cambiamenti nei costi di produzioni]" (ivi, 189); così se in una società priva di concorrenza tra capitalisti avremmo una variazione del prezzo d'equilibrio [valore] pari a a causa della legge del valore, nella società capitalistica vera e propria la variazione causata dalla stessa legge del valore sarà al più pari a . Essa non sarà sempre uguale in termini numerici, ma certamente concordante causalmente e in proporzionalità diretta (infatti variazioni positive del valore comportano variazioni positive per il prezzo di produzione e viceversa). Tra valore e prezzo, anche se non esiste un rapporto di identità (ed è ovvio, visto che esprimono due equilibri differenti), esiste però un rapporto causale diretto dal valore al prezzo di produzione che si può notare già da ora.


Saggio medio del profitto

Rubin passa ad analizzare la seconda componente del prezzo di produzione, vale a dire il saggio medio del profitto. La teoria del profitto è costruita da Marx sulla base di quella del plusvalore, che considera il rapporto tra i redditi delle due classi (ibidem). Il valore di una merce è composto dalle tre componenti c, v, pv: il primo compensa il valore del capitale costante speso nella produzione, detratto il quale si ottiene il valore aggiunto nella produzione; il secondo è il fondo di sussistenza dei lavoratori; il terzo è il plusvalore per il capitalista, da impiegare nel consumo personale e nella accumulazione. Il plusvalore scaturisce dal fatto che le spese per il mantenimento dei lavoratori sono minori del valore aggiunto nella produzione (ivi, 190)5; perciò le dimensioni del plusvalore dipendono o dalla quantità di lavoro pagato rispetto a quello non pagato, o dal numero di lavoratori, dalla quantità di lavoro vivo che un capitale assume.

Rubin fa però notare che, nel capitalismo, capitali con composizione organiche diverse -- dunque composti da quantità di lavoro vivo diverse -- pretendono lo stesso profitto in proporzione alla loro entità; tuttavia è evidente che la massa totale del plusvalore non può essere modificata rispetto al modo in cui successivamente essa è distribuita tra i capitali6 Supponiamo il caso limite, con due soli capitali di 100 ciascuno, di cui il primo è composto per il 10\% da e il secondo tutto da , sempre fermi i salari e il saggio di sfruttamento del 100%. Ora, qualsiasi sia il modo con cui i due capitalisti determinino il prezzo delle loro merci7, dal punto di vista complessivo è la spesa necessaria per il logorio delle macchine, e va sempre ripagata integralmente (pena un'interruzione o rallentamento della funzionalità delle stesse, l'acquisto della materia prima, ecc.); è solo il compenso per gli operai che può essere eventualmente minore del valore totale aggiunto, per il fatto che l'uomo, da un certo stadio del suo sviluppo in avanti, ha saputo produrre con un grado di produttività tale da garantirgli un certo surplus rispetto a ciò di cui aveva strettamente bisogno per la pura sussistenza.

Non si tratta quindi di una qualche proprietà metafisica del fattore di produzione lavoro, quella di creare un plusvalore: essa deriva semplicemente dal fatto che, al costo di un "piatto di spaghetti in più", un uomo può far funzionare una macchina per un giorno intero e produrre un prodotto che vale più del cibo consumato. Nell'esempio dei due capitali, socialmente il prodotto è : il necessario per la riproduzione dei mezzi di produzione e della forza lavoro va ripagato. Rimane solo che, nonostante sia denaro estorto soltanto agli operai della seconda azienda, la legge dell'egual rendimento di capitali uguali si esprime in prezzi tali da ridistribuirlo anche alla prima azienda.

Vediamo ora l'interpretazione che Rubin fornisce del legame causale con la produttività del lavoro mediante un altro esempio. Supponiamo presenti nella società due soli capitali, espressi già in prezzi di produzione: 1) e 2) , con fissato il saggio del plusvalore pari al 100%. I prezzi di produzione dei rispettivi capitali sono 140.000 e la massa totale del plusvalore è 80.000, in quanto si è detratto dal ricavo totale sociale di 280.000 il fondo per il capitale costante e quello il salario degli operai (cioè i costi di produzione totali), detratti i quali il plusvalore viene ripartito a metà (essendo entrambe i capitali uguali a 100.000) in virtù della legge dell'uguale profitto per uguale grandezza del capitale.

Se per qualsiasi motivo la produttività generale del lavoro aumenta, per esempio, di un terzo, ferme restando le altre condizioni, abbiamo un dimezzamento del capitale variabile: 1) e 2) , con un plusvalore totale di 60.000. Poco conta che, per raggiungere un uguale saggio di profitto per uguale entità di capitale, spetti un profitto di poco più che 29.000 al primo e di quasi 31.000 al secondo e che quindi, se i prezzi fossero identici quantitativamente ai valori, il primo perderebbe 8.333 e l'altro guadagnerebbe la stessa cifra: dal totale di 240.000 è necessario sottrarre sempre i 120.000 di , poi i 60.000 per gli operai, poiché all'inizio abbiamo ipotizzato fermi (nel valore reale) i loro salari. Il totale per i capitalisti non può che essere il rimanente, 60.000; che esso venga spartito a metà, in una partita a poker, in virtù della legge dell'uguale profitto per uguale entità del capitale o sulla base di qualsiasi altra regola, "la quantità totale del fondo per l'espansione del consumo e della produzione rimane immutata. Il saggio medio del profitto è in tal caso una grandezza derivata [... ] determinata dal rapporto tra la massa del plusvalore complessivo e il capitale sociale totale" (ivi, 195). Dunque, determinato anch'esso dalla legge del valore; concettualmente, dal punto di vista globale, vale ancora il "diagramma 2".

Rubin, nel capitolo dedicato alla teoria del prezzo di produzione, sostiene che la popolare immagine nella letteratura marxista che il plusvalore sia "distribuito" tra i capitalisti come i dividendi tra gli azionisti di una s.p.a., non deve far pensare che questo processo di redistribuzione del plusvalore abbia luogo davvero nella realtà fenomenica; non esiste evidentemente nessun luogo dove i capitalisti si riuniscono per spartirsi "il bottino". Questo processo di distribuzione avviene continuamente nel mercato per via dei prezzi di produzione, che ripartiscono il valore non sulla base dell'eguale quantità di lavoro astratto socialmente necessario per la produzione di quella merce, ma sull'entità del capitale in rapporto al profitto medio; così il capitale trae i suoi 17.000, con i 2.000 in più di quello che gli spetterebbe, in teoria se non ci fosse concorrenza tra i capitali. Ma è del tutto evidente che gli altri capitalisti non hanno nulla da recriminare, proprio in virtù della legge del livellamento dei profitti. Sono soldi di cui si appropria direttamente nello scambio in virtù della legge dell'uguale saggio di profitto, saltando la fantasia dei capitalisti riuniti a spartirsi il plusvalore "traboccante", che sarebbe "travasato" (ivi 191) da un capitale all'altro.

Note

  1. "In realtà è un bel cercle vicieux il voler determinare il valore della merce mediante il valore del capitale, poiché il valore del capitale è uguale al valore delle merci, di cui esso consta." (Marx 1863) e anche in Rubin (1976, 188).
  2. Ma anche in Marx (1965, cap. 12).
  3. Che è il nome che Rubin da al modello teorico che Marx esamina nel primo libro del Capitale, che è quello preso in esame dalla seconda sezione del libro in avanti, un capitalismo senza concorrenza e rapporti di produzione specifici tra capitalisti. Marx, però, non gli attribuisce alcun nome.
  4. E sempre supposta la produzione al massimo dell'efficienza possibile, quindi senza sprechi di capitale costante.
  5. E se si osserva la cosa dal punto di vista complessivo (cioè a livello di classi sociali) è evidente che da altro non può giungere; il capitale costante è semplice detrazione delle spese per il reintegro dei mezzi di produzione, detrazione comune sia nel caso di una produzione artigiana, sia nel caso di quella capitalistica. La differenza sta nel fatto che la classe dei piccoli produttori si appropriava di tutto il resto, mentre quella operaia guadagna , che è solo una parte del valore aggiunto, in vista dell'appropriazione dell'altra parte per mano dei capitalisti in quanto reddito di proprietà dei mezzi di produzione.
  6. Infatti non muta e anche </math>v</math> non può scendere oltre un certo limite (che in una data società è fissato), pena la riproduzione parziale o mancata della forza-lavoro. Di conseguenza anche il saggio del pluslavoro non può variare a piacere e tende a livellarsi.
  7. Escludendo, naturalmente, la determinazione arbitraria basata sul "rialzo" a casaccio e sulla truffa reciproca. È fin troppo ovvio che un rialzo arbitrario del prezzo del, mettiamo, 1000\%, provocherebbe un eguale rialzo dall'altra parte una volta scoperto il bluff (e pure dei salari, è ovvio, visto che il prezzo del sostentamento della forza lavoro deve necessariamente salire, pena la mancata riproduzione), con il solo risultato che la stessa quantità di merce (e di valore) si esprimerà in una maggiore quantità nominale di denaro.