Relazione sulla Federconsorzi/IX
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Capitolo Nono
La SGR; l'acquisizione e la dismissione del patrimonio della Federconsorzi
1. Il valore del patrimonio della Federconsorzi
Il tema della congruità del prezzo, pagato dalla società SGR per acquisire il patrimonio della Fedit, implica la necessaria determinazione del valore reale dei beni offerti ai creditori dalla società insolvente per soddisfare i loro crediti.
Nell'affrontare la questione, la Commissione ha compiuto una scelta metodologica, rinunciando a commissionare e a discutere nuove stime, per le ragioni di seguito enunciate.
Innanzitutto, qualsiasi nuova stima non avrebbe mai potuto sottrarsi, per sua natura, come tutte le stime, all'opinabilità e non avrebbe, quindi, assicurato risultati indiscutibili.
In secondo luogo, il decennio trascorso dal momento in cui tutte le stime disponibili furono eseguite, avrebbe reso ancora più opinabili valutazioni eseguite ora per allora, in un contesto del tutto mutato.
Da ultimo, i risultati delle vendite e delle cessioni e, quindi, i valori di realizzo, avrebbero pesato sulle valutazioni; queste avrebbero teso inevitabilmente a non discostarsene.
Non è sembrato, per contro, possibile integralmente accedere ad una impostazione radicalmente opposta, assumendo che il vero valore del patrimonio della Fedit si individua nell’entità del realizzato.
Ciò perché i valori del realizzo sono inscindibilmente collegati con le modalità ed i tempi dello stesso e sembrano essere stati condizionati anche dal sequestro penale che ha interessato una parte dei beni.
Non si può, inoltre, affermare che il valore del patrimonio ceduto alla SGR è pari all'entità di quanto da quest'ultima realizzato per ulteriori due ragioni.
La prima, logica, è costituita dal fatto che il realizzo di SGR non coincide - e non poteva coincidere - con il patrimonio che le fu ceduto.
Tra l’altro, tacendo ogni considerazione economico-aziendale, con atto di transazione del 31 luglio 1998, la SGR rinunciò al trasferimento in suo favore dei crediti che la Federconsorzi aveva verso il MAF, e verso alcuni consorzi agrari, il cui attuale valore nominale è pari a ben 1.700 miliardi. In particolare i crediti nei confronti dello Stato hanno un valore nominale di circa 1.000 miliardi.
La seconda, di ordine oggettivo, consiste nella circostanza che due tra gli amministratori della SGR, il commissario governativo dell'epoca ed il giudice delegato al concordato preventivo, sono chiamati dalla Procura della Repubblica di Perugia a rispondere di aver ceduto i beni della Fedit ad SGR ad un prezzo vile, tale da procurare ad essa un profitto ingiusto.
La Commissione ha ritenuto, quindi, ai fini della propria indagine e delle proprie determinazioni, di prendere le mosse dai valori sui quali insorse la questione:
affidandosi a valutazioni, coeve ed assistite da presunzione di legalità, di cui è stata posta in dubbio l'adeguatezza, ma non la buona fede e cioè le stime dei periti e del commissario giudiziale, recepite nella sentenza di omologa. Esse, se opinabili, sono tuttavia quelle in base alle quali fu possibile stabilire l’omologabilità del concordato, perché le previsioni di realizzo garantivano il soddisfacimento dei creditori chirografari per una percentuale largamente superiore al 40 per cento;
fondando i propri approfondimenti su dati oggettivati, sia perché riguardati ex post, sia perché consolidati dal mercato e quindi di natura non previsionale.
Il tribunale fallimentare di Roma fece stimare i beni ad un nutrito numero di specialisti. In data 9 dicembre 1991, il dottor Enrico De Santis depositò una relazione che le raccoglieva e sintetizzava tutte. Le risultanze furono le seguenti. Secondo i periti del Tribunale - tutti ispiratisi dichiaratamente a criteri di grande prudenza - il valore realizzabile dal patrimonio della Federconsorzi era di 4.800 miliardi. In particolare i valori di realizzo, espressi in miliardi, dei principali cespiti furono indicati come segue:
Crediti
2.325
Partecipazioni
1.435
Immobili
921
Impianti
20
Magazzino
68
E’ opportuno però rammentare che i commissari governativi erano pervenuti, in tempo di poco anteriore, a stimare il patrimonio della Fedit prima 4.121 e, da ultimo, 3.693 miliardi. Il commissario giudiziale, facendo a sua volta esercizio di massima prudenza, ritenne, depositando la sua relazione definitiva in data 21 gennaio 1992, di rettificare notevolmente l’entità del realizzo complessivo presunto riducendolo di circa 900 miliardi e quantificandolo in 3.939 miliardi, cifra intermedia tra le due esposte stime dei commissari governativi.
La differenza considerevole attesta l’intrinseca opinabilità e difficoltà delle valutazioni; risulta altresì evidente che il valore più basso stimato era pur sempre prossimo a 4.000 miliardi.
La riduzione del commissario giudiziale interessò il valore di tutti i cespiti ed in particolare dei crediti e delle partecipazioni; i risultati furono i seguenti:
Immobili
785/737
Partecipazioni
1.141
Crediti
1.888
Magazzino
68
Altro
55
Quattro mesi dopo, il 27 maggio 1992, la costituenda società, la SGR, offrì globalmente 2.150 miliardi di lire.
2. La formazione dell’offerta
Il prezzo offerto dalla SGR per l’acquisto in massa dei beni della Fedit fu fissato in 2.150 miliardi, a fronte di una stima di 3.939. Il Tribunale fallimentare di Roma accolse l’offerta.
Nel caso di un normale acquisto anche in massa di beni, nell’ambito di una procedura concordataria, sarebbe un’ultronea interferenza chiedere all’acquirente le ragioni per le quali abbia deciso di offrire un certo prezzo. Chi acquista esegue una stima soggettiva dei valori in gioco ed ove non punti alla conservazione dei beni per il proprio uso, effettua un investimento di capitali, confidando legittimamente in un profitto.
Spetta ai creditori ed ai giudici vagliare l’offerta e decidere per il meglio, al fine di soddisfare gli interessi di tutti i creditori.
Ne consegue che la verifica di eventuale anomalie non passa e non ha ragione di passare attraverso un approfondimento delle ragioni dell’entità dell’offerta ma esclusivamente delle ragioni della sua accettazione.
Quello che deve essere congruo, infatti, non è il prezzo offerto ma quello di cessione.
Nella vicenda Fedit, invece, molto si è discusso delle modalità di formazione del prezzo offerto per un duplice ordine di ragioni.
La prima: la società offerente ed acquirente era formata da soci che erano tutti nello stesso tempo creditori ed anzi i maggiori creditori della Fedit che acquistavano, quindi, i beni per soddisfarsi direttamente con il ricavato, senza nessun apporto di organi esecutivi concorsuali.
La seconda: il professor Capaldo non si è limitato ad affermare che dell'accoglimento dell’offerta non poteva rispondere che il Tribunale il quale, pur potendo respingerla, l’aveva accolta, e non chi si era limitato a farla, ma, nel proclamare di non aver perseguito alcun lucro, ha voluto confrontarsi nel merito, escludendo l’adeguatezza delle stime eseguite dai periti ufficiali e rivendicando alle proprie valutazioni la qualità di una vera e propria stima alternativa, nell’interesse della massa di creditori.
L’avvocato Casella ha dichiarato in merito a questa Commissione: "(…) Riguardandomi un appunto del maggio 1992 ho costatato che si era preso come dato di partenza la valutazione del commissario giudiziale e cioè 3.939 miliardi. Quindi, venne fatta una quantificazione del tutto "spannometrica", per quel che mi risulta, del possibile realizzo che si collocava tra il 50 e il 60 per cento dei valori accertati dagli organi della procedura. Allora, attribuire un valore del 50 per cento avrebbe portato a 1.970 miliardi, del 60 per cento a 2.364 miliardi, del 55 per cento (che è una via di mezzo tra il 50 e il 60 per cento) a 2.167 miliardi, cifra che è stata poi arrotondata a 2.150. Questa è la genesi di tale valutazione".
A sua volta il professor Capaldo, nel ricostruire per la Commissione il percorso logico-estimativo della formazione del prezzo, ha presentato l’offerta di 2.150 miliardi come una corretta e realistica stima del valore di realizzo del complesso dei beni: "(…) Le stime che più rilevano ai nostri fini sono due: quella effettuata dai periti nominati dal tribunale, pari a 4.800 miliardi, e quella contenuta nella richiesta di concordato preventivo, fatta dal commissario giudiziale, pari a 3.939 miliardi. E’ chiaro che la nostra offerta di 2.150 miliardi partiva da quest’ultima stima.
Ad un rapido esame appariva evidentissima l’inattendibilità tecnica di quelle stime (…). La prima stima conteneva vistosissimi errori di carattere tecnico poiché non era stata fatta come deve essere una stima in questo contesto, in funzione e sulla base della prospettazione dei valori di realizzo e dei valori di recupero (…) ma era stata fatta secondo quella che tecnicamente si definisce la "logica di funzionamento" di un’impresa, tant’è che vi sono delle valutazioni di cespiti che si spingono fino alla lira (…). Vi era quindi questo vizio di fondo che pesa enormemente. (…) Ve ne è poi una seconda. Il commissario giudiziale, con una valutazione di 3.939 miliardi contro i 4.800, ha capito che quei valori erano esagerati. Tuttavia si è limitato genericamente ad operare un abbattimento; non ha percepito, a mio parere, l’errore metodologico che era alla radice. Ha capito che si trattava di valori abbastanza generosi, per non dire incongrui, ed ha operato qua e là degli abbattimenti riducendo le cifre di circa un 15 per cento (…).
Quindi siamo partiti da una cifra di 3.939 miliardi, che concettualmente conferma in un certo senso la stima precedente, abbattendo i valori, ma non a sufficienza (…).
A nostro parere, e mi riferisco ai tecnici di varie banche e di altri creditori che parteciparono alla società, appariva chiaro come questi valori dovessero essere ulteriormente e mediamente abbattuti di un altro 25 per cento; al massimo si poteva attribuire a questo compendio di beni un valore di 3.000 miliardi. Ora dalla cifra di 3.000 miliardi, che resta pur sempre una stima, anche se dal nostro punto di vista più corretta, occorreva passare ad un prezzo (…). Esisteva quindi un problema di attualizzazione: si pagava quasi subito e si sarebbe incassato a distanza di 4 o 5 anni (…). C’erano poi i costi dello smobilizzo perché, bene o male, bisognava mantenere in piedi una struttura per poter vendere questi beni, e quindi arriviamo a quella cifra di 2.150 miliardi, che parte proprio dall’assunto che l’operazione non dovesse avere finalità speculative (…)".
3. il prezzo offerto e la questione della percentuale di soddisfacimento dei crediti
La Commissione ha svolto particolari approfondimenti in merito alle prospettazioni del professor Capaldo. Se la somma offerta da SGR si dovesse contrapporre alla stima ufficiale, come un diversa previsione di realizzo nell’interesse della massa e se, quindi, essa non si dovesse considerare una offerta ma una sorta di controstima; inoltre, se la controstima di SGR dovesse ritenersi corretta, la conseguenza sarebbe un puntuale approfondimento della misura di cui si presumeva l’effettivo realizzo (da destinare ai creditori chirografari), in conformità alla soglia minima del 40 per cento previsto dalla legge fallimentare.
In prima approssimazione, detratti da 2.150 miliardi gli 836 necessari per pagare i crediti pre-dedotti e privilegiati, parrebbe che non rimanevano che 1.314 miliardi per pagare i 4.072 miliardi di crediti ordinari. Operando un facile calcolo, si otterrebbe, infatti, una misura del 32,27 per cento.
Ma le cose cambiano ove si consideri il fatto che i suddetti 2.150 miliardi si sono aggiunti alle somme entrate nel patrimonio Fedit nel semestre intercorrente tra il maggio (data del commissariamento) ed il novembre 1991 (data di riferimento della consistenza patrimoniale assunta a base dell’offerta SGR) durante il quale vi è stata la sospensione di tutte le uscite ma la continuità negli incassi di pagamenti e dei crediti. La somma totale sulla quale operare il calcolo percentuale muta e, di conseguenza, si modifica in apprezzabile rialzo la citata misura del 32,27 per cento. Al riguardo, nessuno dei chirografari ha lamentato il mancato pagamento del 40 per cento dei propri crediti, né alle Commissione sono pervenute segnalazioni o reclami.
3.1 Prezzo offerto e stima analitica dei beni
Secondo quanto affermato dal professor Capaldo, la SGR, allora costituenda, si limitò ad eseguire una riduzione percentuale, in funzione del realizzo, dei valori del patrimonio determinati dal commissario giudiziale, non procedendo, all’apparenza, ad un analitica valutazione dei singoli beni.
Dal verbale del Comitato esecutivo della Banca San Paolo di Torino del 25 maggio 1992, si evince tuttavia quanto segue: "Esame della proposta della presidenza della Banca di Roma. (…) In ordine all'attivo è utile ricordare che i Commissari Governativi, al momento del commissariamento, avevano valutato le relative poste in L. 3.680 miliardi, gli esperti della procedura in L. 4.800 miliardi, mentre il Commissario Giudiziale ha quantificato la suddetta cifra in L. 3.940 miliardi.
La nuova costituenda società invece valuta l'attivo:
Immobili L. 571 miliardi
a fronte di 785
Partecipazioni: 894 miliardi
1.140
Crediti: L. 642 miliardi
1.890
Magazzino: L. 31 miliardi
70
Altre poste all'attivo: L. 29 miliardi
55
per un totale di L. 2.167 miliardi, come meglio evidenziato nelle tabelle all'uopo predisposte.
(…) L'azione di realizzo sinora posta in essere, di cui la cessione della Polenghi Lombardo rappresenta un primo significativo passaggio, ha mostrato tuttavia difficoltà nel procedere allo smobilizzo dei cespiti e alla realizzazione dei valori, tanto da indurre a serissime perplessità sull'esito finale e sulle aliquote di rimborso della liquidazione.
Da questa considerazione è emersa l'idea di approntare un intervento articolato, proposto dalla Banca di Roma, che si basa sulla costituzione di una spa (…) che acquisterebbe l'attivo della Federconsorzi per L. 2.150 miliardi, pari a poco meno del 55 per cento dell'attivo stimato dal Commissario (…).
Il professor Capaldo e l'avvocato Casella, nella stessa riunione, hanno precisato:
la valutazione fatta dal commissario della Federconsorzi si può considerare molto ottimistica ed i riscontri lo hanno già dimostrato.
I tempi di realizzo da parte della società dovrebbero essere più veloci ed a costi inferiori di quelli della procedura (…).
Il prezzo d'acquisto dell'attivo per una cifra abbattuta rispetto alle stime commissariali dovrebbe consentire di realizzare i beni almeno agli stessi prezzi, senza escludere la possibilità di realizzare plusvalenze (…)".
Sembrerebbe, dunque, che i promotori di SGR motivarono ai potenziali soci com’erano pervenuti alla valutazione globale: sommando i valori autonomamente stimati dei singoli cespiti. La determinazione di SGR di non rendere pubblica una logica metodologia può destare qualche perplessità. Non veniva infatti prospettata la somma che, acquistando alla cifra di 2.150 miliardi, si sarebbe potuta effettivamente realizzare.
3.2 La stima dei crediti
La disponibilità delle stime delle diverse categorie di beni della Fedit, fatta da SGR, consente di evidenziare come i maggiori scostamenti riguardassero il ricavo presunto dai crediti.
A fronte di una stima di realizzo ufficiale di 1.890 miliardi, la SGR riteneva di poter incassare solo 642 miliardi; vale a dire oltre il 60 per cento in meno.
Sommando tutte le altre voci, la divaricazione si riduce molto sensibilmente a circa un 25 per cento: ad un totale di 2.150 miliardi si contrappone un totale di 1.525.
Per quanto riguarda il credito nei confronti del MAF, va qui sinteticamente chiarito che esso non veniva pagato da anni e che ogni tentativo politico di farlo pagare era, fino ad allora, fallito.
Il credito sarebbe stato esigibile solo se il debitore Stato avesse deciso di pagare.
La situazione contabile dei crediti nei confronti dei consorzi non era chiarissima tanto che gli organi della procedura non furono mai in grado di garantirne il cosiddetto nomen verum e cioè la certezza della loro esistenza.
Ma se fossero stati certi, e se lo Stato avesse pagato i suoi debiti nei confronti dei consorzi e della Fedit, cosa tuttora, dopo otto anni, ancora virtuale, la loro entità era tale che il pagamento del debito pubblico avrebbe consentito un realizzo in percentuale di gran lunga superiore a quella indicata da SGR, che sarebbe stata conseguentemente costretta a presentare un’offerta adeguata.
Non sono da trascurare, comunque, le seguenti circostanze: subito dopo che l’offerta di SGR fu accettata, vi fu, come si è visto, un fiorire di decreti-legge i quali attestavano una diversa e decisa volontà del Governo di pagare (mai attuata). Inoltre, come si è parimenti già sottolineato, fino all’anno 1995 la SGR tentò di ottenere il pagamento dei crediti nei confronti dello Stato anche in funzione del rilancio dell’iniziativa Agrisviluppo (pagamento mai ottenuto).
3.3 I temi della congruità e dell’opportunità dell'offerta
Il Tribunale fallimentare non giudicò l’offerta come una controstima, ma bensì quale offerta proveniente da un’ancora costituenda società.
E’ evidente che le valutazioni esplicite od implicite dell'offerente, in ogni caso, non potevano, come ovvio, avere influenza alcuna sulle decisioni del Tribunale fallimentare di Roma. Le difficoltà della procedura connesse con una vendita frazionata non potevano, ontologicamente, avere particolare rilievo, anche se quello della Federconsorzi, pur non essendo il primo concordato complesso che si presentava al Tribunale fallimentare di Roma, era di certo di gran lunga il più grande e rilevante della storia italiana. L’evoluzione della situazione economica e, quindi, del valore di mercato dei beni, non era prevedibile, tenuto conto che l’operazione di dismissione sarebbe durata anni.
Non fu prevista la cessione immediata, ma una cessione differita nel tempo dei beni. L’offerta non proveniva da una società operativa che avesse interesse ad acquisire per sé immobili, partecipazioni magazzino e crediti, ma da una società il cui unico scopo era quello di rivendere al meglio ciò che acquistava.
I beni apparivano pertanto cedibili tutti e cedibili in breve, nell’arco di tempo previsto per il pagamento integrale delle rate e cioè il dicembre 1995.
Infatti la SGR contava proprio sul ricavo delle cessioni per pagare le rate senza ricorre ad alcuna forma di indebitamento.
L'affare appariva conveniente per i soci di SGR i quali speravano di attingere gran parte delle risorse necessarie dalla vendita del patrimonio della Fedit, con modalità simili ad un leverage buy out. Questi non erano però normali operatori economici, ma tutti creditori della SGR, ed in massima parte banche. Nella qualità di creditori chirografari, essi avrebbero recuperato tanto più quanto maggiore fosse stato il ricavo dalla cessione del patrimonio.
Si può ipotizzare che i creditori erano convinti che non si poteva ottenere di più, ma non risulta che qualcuno dei soci-creditori si preoccupò di fare proprie stime; tutti si affidarono a quelle della procedura. I soci affrontarono, dunque, una impresa sconosciuta, assumendosene i rischi. L’operazione consentiva, comunque, di sistemare la "questione banche estere"; permetteva al patrimonio della Federconsorzi di conservare la sua organicità e, quindi, poteva rendere possibile il rilancio del ruolo della holding nella nuova veste Agrisviluppo; rendeva infine possibile realizzare apprezzabili "plusvalenze" se, come si è già evidenziato, lo Stato avesse pagato i suoi debiti.
In conclusione, l’operazione non può dirsi senza rischi, ma semmai con il vantaggio di comportare un basso fabbisogno finanziario.
4. La costituzione della società SGR. L'atto-quadro: i contenuti; i beni trasferiti e le modalità di trasferimento.
La società SGR spa (Società Gestione per il Realizzo spa) fu costituita a Roma il 27 aprile 1993 per atto del notaio Gennaro Mariconda. A presiederla fu designato il professor Pellegrino Capaldo. Il primo Consiglio di amministrazione fu composto dai dottori Giovanni Peluso, Luigi Maranzana, Federico Ronza, Sergio Amato e Francesco Carbonetti.
Lo scopo della società era, secondo lo statuto: "l'acquisizione sotto qualsiasi forma, a fini esclusivamente liquidatori, di attività mobiliari ed immobiliari già di pertinenza della Federconsorzi in concordato preventivo e di altre procedure concorsuali connesse." Il capitale era di 10 miliardi di lire, elevabili a 30. I soci erano venticinque banche e due società non bancarie.
In data 2 agosto 1993, dinanzi allo stesso notaio, professor Mariconda, l'avvocato Alberto Giordano (procuratore di Pellegrino Capaldo) in rappresentanza della SGR poteva stipulare il negozio giuridico che le trasferiva tutti i beni della Federconsorzi.
Il Tribunale fallimentare di Roma, il 20 luglio 1993, aveva autorizzato la Fedit nella qualità di liquidatore del concordato, a sottoscrivere l'atto.
Esso prevedeva il trasferimento alla SGR di tutte le attività della Fedit - beni mobili, immobili, partecipazioni, crediti - individuate facendo riferimento a quelle indicate nella relazione particolareggiata del commissario giudiziale Picardi del 21 gennaio 1992.
Per i crediti "tenuto conto dell’estrema difficoltà per il commissario giudiziale di redigere un affidabile inventario analitico, in considerazione del cospicuo numero delle posizioni creditorie", si stabiliva che "la Fedit consegnerà alla SGR tutti i titoli in suo possesso e tutta la documentazione necessaria o utile per il realizzo dei crediti".
Il corrispettivo, fissato in lire 2.150 miliardi, doveva essere decurtato: delle somme incassate da Fedit per le alienazioni intervenute nel frattempo; dell’ammontare dei crediti nel frattempo estinti; del valore dei beni non trasferibili per qualsiasi causa. Il meccanismo di detrazione favoriva notevolmente la SGR che, mentre acquistava il tutto per un prezzo di stima, veniva autorizzata a detrarre dal dovuto valori effettivi e non proporzionali. Le modalità del pagamento del prezzo erano le seguenti:
lire 322,5 miliardi (15 per cento dell'importo totale) entro 10 giorni, con trasferimento contestuale di cespiti di pari valore;
lire 913,7 miliardi (42,5 per cento dell'importo totale) entro 12 mesi dal pagamento della prima rata (anticipi possibili per 250 miliardi);
lire 913,7 miliardi (42,5 per cento dell'importo totale) entro 18 mesi dal pagamento della prima rata.
Di conseguenza, l'entità del prezzo attualizzato era in realtà inferiore a 2.150 miliardi, che si ridussero a 1.850 miliardi (beninteso a fronte di minori trasferimenti) per effetto del sopra ricordato meccanismo di detrazione dal prezzo globale di quanto incassato da Fedit prima del trasferimento effettivo.
In effetti, alla data del 31 dicembre 1999, la SGR ha versato alla procedura in totale 1.800 miliardi.
L'atto-quadro prevedeva, all'articolo 9, una clausola arbitrale: tutte le controversie che fossero insorte tra le parti venivano rimesse alla composizione arbitrale e, in caso di mancata composizione, alla valutazione ed alla decisione di un collegio arbitrale.
Esso disciplinava, inoltre le modalità del trasferimento del patrimonio con anomale modalità. Nulla veniva, infatti, trasferito immediatamente alla SGR.
La Federconsorzi s’impegnava ad eseguire successivi trasferimenti parziali dei beni in favore di chi avesse indicato la SGR.
Si stabiliva infatti che: "I singoli atti attuativi del trasferimento avverranno, nel rispetto delle modalità di carattere giuridico e tributario proprie di ciascuna categoria di beni, secondo la disponibilità della documentazione occorrente e con gli strumenti contrattuali, ad efficacia reale od obbligatoria, e con qualsivoglia legittimo strumento attuativo di volta in volta indicati dalla società.
La società (SGR) si riserva la facoltà di indicare per le attività della Federconsorzi a propria scelta soggetti diversi da se stessa a favore dei quali effettuare il relativo atto di trasferimento, ovvero di richiedere - essendo Federconsorzi fin d'ora impegnata ad aderire a tale richiesta - mandati irrevocabili per la vendita con obbligo di rendiconto".
Il concordato con cessione in massa si trasformava così, operativamente, in un anomalo concordato con cessioni frazionate nell’interesse e per conto, ma non in favore, di un’acquirente che aveva anticipato un prezzo globale.
5. La vicenda del trasferimento dei crediti della Federconsorzi
Tra le attività della Federconsorzi, costituenti oggetto dell'atto-quadro, rientravano i crediti nei confronti dei consorzi agrari e del MAF. I crediti della Federconsorzi nei confronti dei consorzi agrari provinciali traevano in massima parte origine, per oltre 678 miliardi, dall'emissione da parte dei consorzi di cambiali all'ordine della Federconsorzi e da quest'ultima scontate presso il sistema bancario.
Alla scadenza, gli effetti non erano stati pagati dai consorzi agrari emittenti e, pertanto, le banche portatrici delle cambiali avevano maturato un credito diretto nei confronti dei consorzi, e in via di regresso, nei confronti della Federconsorzi.
Nel patrimonio della Fedit c'era inoltre una posta di cui si è già evidenziata l’importanza: i crediti vantati nei confronti del Ministero dell'agricoltura acquistati, per cessione, dagli originari titolari, i consorzi agrari. L'origine dei crediti era costituta dalle spese sostenute dai consorzi per la gestione degli ammassi obbligatori, mai pagate dallo Stato.
Al tempo in cui la Fedit li aveva acquistati, eseguendo in tal modo un’operazione di finanziamento dei consorzi, essi assommavano complessivamente a 400 miliardi. Il loro valore nominale, per effetto degli interessi, era continuamente aumentato. Poiché si trattava di crediti certi ma di fatto inesigibili, perché lo Stato non aveva mai stanziato nel proprio bilancio i fondi necessari, essi furono oggetto di una stima i cui risultati furono recepiti sia dal commissario giudiziale sia dal Tribunale fallimentare. Il valore di presumibile realizzo fu determinato in 314,2 miliardi.
Si tratterebbe di una valutazione davvero incongrua perché assimilava i crediti verso lo Stato a quelli verso un comune debitore a rischio. Non era, infatti, possibile una terza opzione rispetto alla chiara alternativa: o non valevano niente perché lo Stato non li avrebbe mai pagati o valevano esattamente il loro valore nominale che, al luglio 1995, era asceso a ben 716 miliardi. Ebbene la Fedit si era impegnata a cedere alla società SGR tutti i crediti vantati nei confronti dello Stato, perché nell’articolo 1 dell’atto-quadro si faceva esplicito rinvio, per l’individuazione delle attività cedende, a tutte quelle elencate da pag. 68 a pag. 115 della relazione del 21 gennaio 1992 del commissario giudiziale Picardi.
In quest’ultima, da pag. 95 a pag. 98, erano esposti i crediti verso il MAF, derivanti da cessioni dei Cap, per un valore nominale - all’epoca - di lire 430.445 milioni e di stima (pag. 97) pari a 314.225 milioni. In proposito giova rammentare che la Fedit, con atto di citazione del 10 agosto 1992, e, quindi nel corso del secondo anno di gestione commissariale, aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, il MAF per ottenerne la condanna al pagamento dei crediti direttamente vantati per lire 463 miliardi nonché degli interessi. Il MAF riconobbe il debito, ma dichiarò non disponibile la somma.
La cessione dei crediti MAF non suscitò contrasti, rilevi ed osservazioni, fino all’anno 1995, quando si pose la questione dell’attuazione della promessa. La SGR chiedeva il trasferimento dei crediti verso il MAF, al valore contrattuale di 51 miliardi. L’ammontare nominale dei crediti ceduti era nel frattempo notevolmente lievitato, per effetto degli interessi, pari all’11,40 per cento su base annua, fino a raggiungere l’entità di ben 716,2 miliardi.
Nel frattempo era giunto al Dicastero dell'agricoltura, per la prima volta nella storia repubblicana, un ministro non democristiano, l'onorevole Adriana Poli Bortone, che aveva nominato, con decreto del 14 novembre 1994, come nuovo commissario governativo della Fedit, l'avvocato dello Stato Francesco Lettera.
L’avvocato Lettera rifiutava l’esecuzione della richiesta della SGR e proponeva di cederli al valore nominale, ponendo varie questioni.
Contestava la validità della cessione originariamente eseguita dai consorzi perché mai formalmente approvata dal MAF e sottolineava che, trattandosi di crediti derivanti dalla gestione ammassi, non avrebbero potuto essere esposti correttamente nell'attivo del bilancio Fedit e compresi nella massa fallimentare, ma menzionati "sotto la riga" e cioè fuori bilancio, ed in forma del tutto separata.
Ne conseguiva che, a suo parere, i crediti in trattazione dovevano ritenersi esclusi dall'atto-quadro.
I giudici, con provvedimento del 5 luglio 1995, declinavano la loro competenza sull’attuazione dell’atto-quadro.
La SGR, con nota del 28 luglio 1995 a firma del professor Carbonetti, contestava le determinazioni dell’avvocato Lettera e dichiarava di aver diritto, in caso di inadempimento della Fedit, al riconoscimento del controvalore nominale dei crediti: 792 miliardi.
Il commissario giudiziale si pronunciava il 2 agosto 1995 per la rimessione della questione ad un collegio arbitrale o al giudice conciliatore.
Nel contempo l’avvocato Lettera sollevava dinanzi al Tribunale il problema della nullità dell’atto-quadro, denunciando la natura "leonina" della pattuizione contenuta in esso.
A sostegno delle sue tesi, l'avvocato Lettera invocava un parere redatto nel maggio 1995 dal professor Sergio Scotti Camuzzi, componente della Commissione ministeriale d'indagine sulla Federconsorzi.
Sosteneva infatti il professor Camuzzi che "di fronte all'abnormità ed iniquità" dell'atto-quadro "cade nella responsabilità del commissario governativo Federconsorzi (in tale sua qualità e in quello di liquidatore del concordato) e per quanto di competenza del ministro (…) di fare il possibile per porre in essere gli opportuni e legittimi rimedi".
Egli suggeriva la possibile impugnazione dell'atto-quadro, per nullità dello stesso, ed evidenziava che tra i cespiti non ancora ceduti si trovavano i crediti verso il MAF che le parti avevano valutato inesigibili, ma che potevano diventare esigibili in base ai decreti-legge mai convertiti e quindi in virtù di un evento straordinario ed imprevedibile che avrebbe consentito la risoluzione del contratto (atto-quadro) per eccessiva onerosità sopravvenuta. Tra il commissario governativo ed i giudici fallimentari si determinava un fortissimo contrasto risolto d’autorità dal Tribunale che, in data 2 dicembre 1995, revocò alla Federconsorzi, e di conseguenza all’avvocato Lettera, commissario governativo che la rappresentava, l'incarico di liquidatore giudiziale. L'incarico di liquidatore giudiziale fu conferito all'avvocato Antonino Cautadella.
6. I sequestri preventivi disposti dalla magistratura di Perugia
Con decreto del 22 marzo 1996, il giudice per le indagini preliminari di Perugia, nell'ambito del procedimento a carico del presidente del tribunale fallimentare Greco, del professor Capaldo ed altri dispose il sequestro preventivo:
- dei crediti della Federconsorzi promessi in cessione, attraverso l'atto-quadro, alla SGR, tra i quali in particolare i crediti verso il Ministero dell'agricoltura per le gestioni ammasso cereali, cedutile dai Cap per l’ammontare di 716.198.553.645;
- delle azioni della Banca nazionale dell'agricoltura, cedute dalla Federconsorzi alla SGR, e delle azioni delle società Indipendenza anonima immobiliare spa, SAGRIM - Società agraria immobiliare spa, e SAIIM - Società agricola immobiliare interconsorziale del Mezzogiorno spa, tutte già cedute dalla Federconsorzi alla SGR.
Il giudice nominò custode giudiziale di tutti i beni l'avvocato Lettera, nella qualità di commissario governativo che, in tal modo, rientrò nella disponibilità di cui l'aveva spogliato il Tribunale fallimentare di Roma.
Il sequestro preventivo superò il vaglio del Tribunale per la libertà e della Corte di Cassazione. Il Gip affermava tra l’altro che: "Il valore della cessione (2.150 miliardi) è talmente inferiore alle stime pur prudenziali circa il valore del patrimonio Fedit da far ipotizzare, allo stato, che a tale risultato, estraneo agli interessi della Fedit, della Pubblica Amministrazione e degli stessi creditori complessivamente considerati, si sia voluto giungere attraverso una serie di passaggi programmati (…) In assenza di un inventario dei beni e dei crediti nessun altro eventuale offerente era in grado di valutare la congruità del prezzo per poter eventualmente avanzare proprie offerte; (…) alla vendita si addivenne senza procedere ad aste al fine di ottenere un prezzo maggiore di quello offerto da SGR (…)".
Con successivo decreto del 24 aprile 1996, lo stesso Gip disponeva il sequestro di titoli cambiari per l'importo complessivo di lire 784.859.318.575 rinvenuti casualmente dall'avvocato Lettera in una cassaforte della Federconsorzi e nominava custode dei titoli lo stesso avvocato Lettera.
In conseguenza del disposto sequestro preventivo e della successiva transazione sulla validità ed efficacia dell’atto-quadro, il trasferimento dei crediti pubblici alla SGR non fu più attuato.
7. Le controversie sull'atto-quadro
Fin dal 1994, un gruppo di dipendenti della società SIAPA, di proprietà della Fedit ceduta alla SGR, instaurava un giudizio civile contro la SGR, chiedendo che fosse dichiarata la nullità degli atti esecutivi della vendita in blocco dei beni da Fedit a SGR ed in particolare di quello riguardante la SIAPA.
Non si ebbero in merito iniziative del commissario governativo e liquidatore giudiziale, avvocato D'Ercole, che aveva sottoscritto l'atto-quadro.
L’anno dopo, il Tribunale, a seguito delle vicende descritte nel paragrafo precedente, chiedeva un parere pro veritate al professor Pietro Schlesinger che, in data 24 ottobre 1995, lo depositava. Il noto giurista affermava che l’atto era affetto da nullità parziale, limitatamente alla clausola che prevedeva il trasferimento delle attività della Fedit non considerate nella relazione particolareggiata del commissario giudiziale, alla quale l'atto faceva riferimento per individuare i beni trasferiti.
Due anni dopo, nel corso del 1997, due soggetti privati, il signor Italo La Rocca, affittuario di un appartamento della Fedit ceduto a SGR, e la Eridania spa, debitrice della Fedit, citavano in giudizio, dinanzi al Tribunale civile di Roma, la SGR, contestando la validità e l'efficacia dell'atto-quadro. Si costituiva in entrambi i giudizi il liquidatore giudiziale.
Il giudice fallimentare tornava a riflettere sulla validità ed efficacia dell'atto-quadro, non ritenendo dissipati tutti i dubbi dal parere del professor Schlesinger, sia sotto il profilo dell'unitarietà dell'oggetto della cessione, sia sotto quello della sua determinabilità, sia perché, infine, la Federconsorzi si era obbligata in proprio e non quale liquidatrice dei suoi stessi beni. Chiedeva ed otteneva il liquidatore pro tempore, professor Cautadella, un nuovo parere dai professori De Nova e Gabrielli che, in data 22 dicembre 1997, concludevano il loro lavoro affermando che l'atto-quadro doveva ritenersi solo un memorandum non vincolante.
Il nuovo liquidatore giudiziale, avvocato Antonio Caiafa, subentrato il 17 settembre 1997 al professor Cautadella, dimessosi, chiedeva al giudice fallimentare di essere autorizzato ad instaurare un procedimento arbitrale per l'accertamento dell’inefficacia e della invalidità dell'atto. Esprimeva parere favorevole il nuovo commissario giudiziale, professor Pasquale Musco.
A quella data, la situazione di esecuzione della cessione dei beni era la seguente: la SGR aveva pagato lire 1.506.611.000.000 ed aveva ricevuto beni stimati per lire 3.104.560.000.000; la SGR doveva in tutto ancora lire 105.354.000 e doveva ricevere beni per lire 792.285.000.000 che comprendevano i crediti verso il Ministero, che avevano raggiunto un valore nominale di 995.690.000.000. Il giudice delegato autorizzava il ricorso al giudizio arbitrale con decreto dell’11 marzo 1998.
Con successivo decreto del 30 giugno 1998, il giudice delegato, dato atto che le due parti non avevano raggiunto un’intesa sulla designazione dell'arbitro e che nel frattempo pendevano altri due giudizi civili promossi da privati per far dichiarare l’invalidità e l'inefficacia dell'atto, autorizzava il liquidatore Caiafa a tentare una transazione con la SGR.
Il suddetto commissario giudiziale professor Musco osservava che: "L'esito della strategia di realizzo ha sconfessato le previsioni e le aspettative, dovendosi prendere atto dopo cinque anni di un insuccesso dell’operazione di vendita in blocco.
Il programma liquidatorio che prevedeva il pagamento di almeno il 40% dei creditori chirografari entro 18/24 mesi dalla stipula dell'atto-quadro non ha trovato concreta attuazione.
Il venir meno dei presupposti di segno positivo ha vanificato le aspettative della liquidazione e del ceto creditorio".
In data 30 luglio 1998, il Tribunale fallimentare autorizzava la transazione con la quale, il giorno dopo, la SGR rinunciava definitivamente ai crediti MAF.
Il negozio rogato dal notaio Mariconda è stato sottoscritto, per la parte pubblica, dall'avvocato Antonio Caiafa e, per la SGR, dal professor Francesco Carbonetti.
8. La transazione; natura, validità ed efficacia dell’atto-quadro
Stipulando l'accordo, le parti transigevano tutte le controversie riguardanti l'atto-quadro, la sua validità, la sua efficacia, la sua esecuzione ed applicazione, definendo tutte le connesse reciproche pretese, e rinunciavano ad ogni azione di nullità, annullabilità ed efficacia o comunque volta a rendere non vincolante e non efficace l'atto-quadro e gli atti esecutivi. Riconoscevano, inoltre, che l'atto-quadro aveva trovato parziale esecuzione e che tutti i negozi compiuti su sua attuazione dovevano intendersi vincolanti ed efficaci tra le parti. Concordavano infine di non dare esecuzione ulteriore all'atto-quadro.
Pertanto, la liquidazione giudiziale dei beni Federconsorzi era liberata dall'obbligo di trasferimento a favore di SGR di ulteriori cespiti, compresi nel patrimonio della Federconsorzi non ancora ceduti, e la SGR dall'obbligo di versare il saldo del prezzo. Le parti rinunciavano ad ogni risarcimento.
In buona sostanza, ha avuto pieno riconoscimento la validità e l'efficacia di tutti i negozi giuridici fino ad allora compiuti in attuazione dell'atto-quadro ed è stata esclusa ogni ulteriore esecuzione. Per l'effetto, la SGR ha rinunciato ad ottenere il trasferimento integrale dei beni della Fedit e quest'ultima al saldo del prezzo, non ancora versato.
Sono pertanto rimasti nella disponibilità della liquidazione giudiziale alcuni immobili, dei quadri, due autovetture Lancia, venticinque partecipazioni, ed infine e soprattutto, i crediti verso il Ministero delle politiche agricole e forestali, ed un parte dei crediti verso i consorzi agrari. La transazione ha posto fine alla controversia ma non sembra che, dal punto di vista giuridico, la questione della natura, validità ed efficacia dell'atto-quadro possa ritenersi completamente risolta.
Per completezza di indagine, si riporta la sintesi delle posizioni emerse nel corso dei lavori della Commissione.
Da un lato, alcuni studiosi hanno posto l’accento sul fatto che occorra chiedersi, innanzitutto, che cosa significa l'espressione "atto-quadro". La denominazione utilizzata per identificare il negozio è, infatti, assente nel linguaggio del legislatore italiano. Essa è tuttavia nota derivando dalle esperienze giuridiche tedesca e francese, dove con i termini, rispettivamente, di Rahmenvertrag e di contrat cadre, si allude al "contratto cornice" che svolge una funzione normativa. Il nomen "atto-quadro" sembrerebbe indicare l’intento delle parti di tracciare un quadro, appunto, di sintesi delle intese raggiunte.
L'assunto trova conforto nell’affermazione, contenuta nel negozio, secondo cui "il presente atto non costituisce né immediatamente né mediatamente atto traslativo delle attività del patrimonio Federconsorzi ma esclusivamente contratto-quadro dal quale far risultare l’accordo raggiunto e le modalità della sua attuazione".
L’atto-quadro potrebbe essere qualificato come una puntuazione o, secondo altra terminologia, una minuta contrattuale. La puntuazione o minuta di contratto indica i casi in cui le parti fissano, a fini esclusivamente probatori, le clausole sulle quali è stato raggiunto il consenso. Da una tale qualificazione giuridica deriverebbe un profilo di inefficacia e/o invalidità degli atti posti in essere sul presupposto giuridico della vincolatività dell’atto-quadro. L’inefficacia potrebbe certamente predicarsi quanto agli atti di alienazione posti in essere da SGR nella qualità di mandataria diretta di Federconsorzi.
Se, infatti, si accedesse all’idea che l’atto-quadro altro non è se non un documento riepilogativo, privo di efficacia dispositiva, si dovrebbe escludere che esso abbia in qualche modo prodotto l’effetto di conferire a SGR la qualità di mandataria con potere rappresentativo. Dopo la sottoscrizione dell’atto-quadro, comunque, tra Federconsorzi e SGR non vi fu nessun ulteriore atto che attribuì a quest’ultima la titolarità dei beni di Federconsorzi, o che conferì a SGR il potere di compiere negozi sul patrimonio di Federconsorzi. Sarebbe, quindi, possibile far valere l’inefficacia degli atti posti in essere da SGR in nome (oltre che per conto) di Federconsorzi. Secondo alcuni studiosi, di tali atti d’alienazione, di conseguenza, si potrebbe ipotizzare l’invalidità, ai sensi del disposto dell’articolo 1398 del codice civile.
Il contenuto dell'atto richiama, comunque, un’opzione di preliminare unilaterale, essendo rimesso alla volontà della SGR il potere di determinare l’insorgenza, in capo alla sola Federconsorzi, dell’obbligo di trasferire le proprie attività. Ma il contratto preliminare non costituisce affatto espressione di una volontà meno intensa di quella coessenziale a qualsiasi atto negoziale.
Esso è, infatti, un negozio giuridico che, seppur prodromico e preparatorio rispetto ad un'ulteriore manifestazione di volontà negoziale, ha sin dall’inizio natura di atto negoziale perfetto e come tale necessita di tutti i caratteri coessenziali a tale qualità, primo fra tutti, quello della serietà e della definitività della manifestazione di volere in esso contenuta. Tale non potrebbe però considerarsi quella contenuta nell’atto-quadro dove, pur facendosi riferimento ad un futuro trasferimento, non è previsto un termine per l’adempimento dell’obbligo a stipulare. Pertanto, il fatto che nell’atto-quadro non è stato determinato o, comunque, reso determinabile il termine di adempimento è sembrato ad alcuni costituire un’ulteriore conferma dell’effettiva natura giuridica di esso.
L'atto-quadro, inoltre, potrebbe presentare profili di invalidità per violazione del disposto dell’articolo 1346 del codice civile che postula, ad substantiam actus, che l’oggetto del contratto abbia, oltre ai requisiti di possibilità e di liceità, quelli della determinatezza o della determinabilità. Più precisamente, la carenza di determinatezza ovvero di determinabilità dell’oggetto dell’atto-quadro si coglierebbe sia nella scarsa conducenza e precisione dello strumento di rinvio (ossia, la formulazione contenuta all’articolo 1 dove si fa riferimento "a tutte le attività che sono state richiamate nella Relazione Particolareggiata del Commissario Giudiziale (…) nonché nella sentenza di omologazione del Concordato Preventivo) sia nell’inadeguatezza della relativa fonte determinativa (ossia, la Relazione Particolareggiata e la sentenza di omologazione suddette), documenti privi di indicazioni chiare, estremamente articolati e composti di ulteriori determinazioni interne operanti mediante ulteriori forme di rinvio.
Secondo altro autorevole parere, agli atti della Commissione, la controversia circa la natura giuridica e la validità dell’atto non si risolve mercè lo scolastico raffronto tra contenuto del medesimo e schemi legislativi, ma indagando la meritevolezza degli interessi perseguiti e la liceità della causa. Riguardato in tale ottica, l’atto realizzerebbe una funzione di scambio, tutelata dall’ordinamento giuridico. La validità dell’atto, inoltre, non parrebbe dubitabile sotto il profilo della causa e degli interessi perseguiti dalle parti. Con riferimento all’oggetto, esso risulterebbe determinato per relationem, costituito da un’universitas jurium che, già isolata nella procedura di concordato, le parti circoscrivono alle diverse categorie di attività patrimoniali. Essendo gli atti esecutivi del tutto strumentali, non sarebbe rilevante che l’atto non ne indichi lo specifico oggetto. L’atto si qualificherebbe, in buona sostanza, come negozio di diritto privato che postula un giudizio di convenienza di ambedue le parti.
Un ulteriore tema di rilievo è costituto dallo stabilire se le disposizioni contenute nell'atto-quadro, indipendentemente dallo loro validità ed efficacia, fossero illecite, operando una verifica sull’attitudine dell’assetto di interessi realizzato a corrispondere alle esigenze poste dallo specifico contesto concorsuale.
Sul decisivo punto la questione è negativa. Va tuttavia osservato che il liquidatore (ovvero la Federconsorzi) fu privato di ogni potere gestionale. Non solo non aveva il potere di vendere uno per uno i suoi beni, ma assunse l'obbligo di concedere mandato a vendere i beni, avendo la SGR la facoltà di richiedere - essendo Federconsorzi fin da ora impegnata ad aderire a tale eventuale richiesta - mandati irrevocabili per la vendita. La Federconsorzi, lungi dal governare l’attività di liquidazione, attraverso la stipulazione dell’atto-quadro, se ne è spogliata per investirne SGR.
Quest'ultima ha conseguito il potere di accedere alla medesima posizione nella quale sarebbe venuta a trovarsi se fosse stata direttamente investita delle funzioni liquidatorie. Ed invero all’atto-quadro non è seguito alcun trasferimento da parte di Federconsorzi della titolarità del patrimonio contemplato nella Relazione Particolareggiata in favore di SGR, ma, al contrario, è accaduto che quest’ultima ha operato quale mandataria di Federconsorzi, nel trasferire a terzi i singoli cespiti appartenenti al patrimonio di Federconsorzi stessa.
L’atto-quadro è rimasto inattuato sotto il profilo dell’esecuzione dell’obbligo a trasferire la titolarità dei beni costituenti il patrimonio di Federconsorzi ed ha trovato attuazione solo ed esclusivamente in relazione alle opzioni di mandato irrevocabile in esso contemplate, recanti esclusivamente un’effetto dismissivo delle attività liquidatorie da parte di Federconsorzi in favore di SGR.
Lumeggiato in tale ottica, pertanto l’atto-quadro presenta spunti di perplessità che però non sembrano idonei a far discendere un giudizio di invalidità.
Taluno ha evidenziato che, nonostante la diversa valutazione operata dal Tribunale fallimentare, l’atto violerebbe il principio di ordine pubblico della par condicio, in quanto avrebbe attuato una sorta di liquidazione dell’insolvenza concepita a vantaggio di una società cui non hanno aderito tutti i creditori, come impone la lettera dell’articolo 160, comma 2, della legge fallimentare. Inoltre, avendo esso investito delle funzioni liquidatorie la SGR, così sottraendole ai suoi organi tipici per affidarle ad un privato, avrebbe violato le direttive inderogabilmente poste dall’articolo 185 della legge fallimentare. Esso stabilisce la necessità che lo svolgimento della procedura di concordato sia assoggettata a controllo da parte del commissario giudiziale, il quale ne sorveglia l’adempimento, secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione, a tutela della trasparenza e della correttezza delle operazioni volte a soddisfare i creditori.
Come altrove già osservato, alla luce di quanto esposto, la Commissione non è in grado di offrire un’univoca e risolutiva risposta. Il dibattito è stato ampio ed i pareri contrastanti. Di certo, è interessante rilevare che il giudice Norelli, in sede di audizione, ha dichiarato che l’efficacia non è stata mai disattesa se non quando la si è voluta strumentalizzare, al fine di ottenere la transazione per la restituzione dei citati crediti MAF.
Alla transazione aderì la SGR, senza indugi, continuando a ritenere quei crediti virtuali, come in effetti erano e come sono tuttora, a distanza di vari anni. Ne consegue il convincimento che trattasi, in conclusione, di un atto atipico, ma legittimamente consentito dalla normativa civilistica. Per completezza, occorre rammentare che la Commissione non ha raccolto elementi a sostegno dell’ipotesi di dolo del giudice delegato e presidente del collegio che omologò il concordato. Al riguardo, si pronuncerà la magistratura nelle sedi proprie. Non risulta, inoltre, che sia mai stata chiesta, né proposta, la revocazione della sentenza di omologazione del concordato, ai sensi dell’articolo 395, sesto comma, del codice di procedura civile.
9. conclusioni
Da quanto sopra esposto, sembra potersi sostenere anzitutto che il Piano Capaldo non si riprometteva solo un recupero di crediti, ma sottendeva un’operazione innovativa di peculiari valenze strategiche. La crisi delle relazioni bancarie internazionali fu brillantemente affrontata e superata. Il rilancio ed il riassetto del sistema federconsortile sono stati, invece, perseguiti senza successo. Il Piano, come si ribadirà poco avanti, non avrebbe poi effettivamente rivelato finalità speculative, ma piuttosto funzionali al coagulo dei consensi e delle partecipazioni dei soci della società SGR ed in particolare delle banche, per le quali il debito della Federconsorzi era di grande importanza. Il sistema bancario era, infatti, nel 1992 creditore nei confronti della Federconsorzi di circa 3.000 miliardi; ma le sofferenze complessive ammontavano a ben 37.926 miliardi ed i crediti nei confronti dell’Iri e della Montedison a ben 100.000 miliardi.
Il problema dei crediti a rischio insolvenza aveva, quindi, una ben maggiore ampiezza ed esigeva scelte strategiche di politica economica e creditizia.
Il profilo dell’eventuale profitto economico dell’operazione SGR ha formato oggetto di approfondimenti. La Commissione ha verificato le dismissioni immobiliari eseguite dalla SGR, non rilevando particolari anomalie e non riscontrando la realizzazione di profitti. Al riguardo, si evidenzia:
che n. 178 transazioni - tra cui quelle munite di particolare rilievo (Palazzo Rospigliosi, Palazzo Della Valle, Palazzo D’Yser, l’Azienda Il Pino) - sono state sottoposte a maggiori approfondimenti;
che in ragione di elementi rilevati in conformità ai criteri di indagine esplicitati sulle cessioni cosiddette "sensibili", il campo di indagine è stato rivolto verso un numero di cessioni via via minore;
che solo in un numero molto esiguo e non rilevante di casi, nell’ambito dei campioni estratti, sono state rilevate rivendite successive e poco apprezzabili margini di guadagno;
che con riferimento alle gare immobiliari, solo nel 17 per cento dei casi è stato registrato uno scostamento minimo tra i prezzi base e quelli di effettiva aggiudicazione.
Inoltre, sulla base degli approfondimenti svolti su immobili e partecipazioni:
è emerso che nessun cespite è stato acquisito dai soci della SGR;
non sono affiorate significative anomalie ovvero riverberanti effetti al complesso generale dell’operazione circa i prezzi di vendita di taluni cespiti ed i successivi percorsi proprietari dopo la prima cessione;
non sono risultati elementi suscettibili di interesse circa le variazioni delle destinazioni d’uso dei terreni agricoli ceduti, utili ad incrementarne il valore successivamente alla prima vendita.
In materia di cessione di partecipazioni, gli approfondimenti eseguiti in punto di procedure e risultati hanno consentito di verificare che esse sono state predisposte ed attuate:
attraverso l’ausilio di intermediari mobiliari di assoluto prestigio e serietà, quali Mediobanca;
mediante modelli in base ai quali sono stati selezionati i soggetti economici interessati agli acquisti, sono state programmate le opportune attività di due diligence e poste in competizione le migliori offerte;
a mezzo degli strumenti offerti dal legislatore nei mercati regolamentati.
Al riguardo, sono stati disaggregati i valori mobiliari ceduti ed esaminati i dati percentuali delle quote, del valore convenzionale di trasferimento e di quello di realizzo e sono stati svolti approfondimenti, verificando:
che in alcune importanti competizioni i soci della SGR sono risultati addirittura soccombenti;
che le procedure hanno consentito il conseguimento di risultati apprezzabili per i creditori.
Infine, va osservato che il direttore generale della SGR, il dottor Rossetti, in una nota del 12 ottobre 1998, indirizzata agli avvocati Zaganelli e Vassalli, ha dichiarato: "La dimensione del divario fra stima (del valore dei beni della Fedit n.d.r.) e realtà (valore reale e prezzo pagato da SGR n.d.r.) pertanto dipenderebbe sostanzialmente dal valore attribuibile ai crediti degli ammassi.(…) Solo un ipotetico incasso del credito degli ammassi avrebbe potuto produrre un risultato positivo di dimensione proporzionali al valore effettivo di quanto incassato. La transazione (…) ha avuto non solo l’effetto di porre termine ad un contenzioso lungo, difficile e costoso ma anche di sanare qualunque ipotizzabile squilibrio di prezzo pagato da SGR ed il valore di beni delle Fedit".
La Commissione ha, pertanto, indagato anche la questione dei crediti verso i consorzi e verso il MAF, rinunciati solo a seguito di un atto di transazione. Era stato infatti ipotizzato che, aggiungendo alla somma che SGR ha riferito di poter realizzare, il valore di tali crediti, avrebbe potuto in astratto farsi discendere un profitto ingente per la SGR. Ma, allo stato, dopo circa otto anni, quei crediti rimangono solo e soltanto virtuali. Infine la SGR risulta ancora titolare di crediti verso consorzi in liquidazione coatta per 1.052 miliardi. Può considerarsi lo sforzo di alcuni consorzi per uscire dalla liquidazione coatta mediante concordato (i consorzi interessati, come comunicato dal MAF, sono almeno sei), talché le aspettative di realizzo della SGR nei loro confronti non apparirebbero necessariamente uguali a zero, ma anche in questo caso, allo stato, tali sforzi non hanno sortito alcun determinante effetto concreto.
La SGR ha presentato dati di bilancio (che la Commissione non ha ovviamente ritenuto di verificare sistematicamente per le citate ragioni di economia di tempo) in forza dei quali la società si avvia a chiudere la sua attività in pareggio ovvero in un lieve e non significativo utile.