Raimondo Montecuccoli (Chiossi)

Giovanni Chiossi

1903 Saggi letteratura Raimondo Montecuccoli (Chiossi) Intestazione 12 giugno 2009 25% Saggi

Giovanni Chiossi Raimondo Montecuccoli Modena, 7 giugno 1903



Non per altro che per aderire al grazioso invito della Marchesa Albertina Montecuccoli degli Erri do alle stampe le parole che io dissi commemorando il Maresciallo Raimondo Montecuccoli. Onde poi il nome, già benedetto, della illustre gentildonna, sia ancora una volta legato a quella beneficenza che essa ama, voglio che, se alcun profitto darà la vendita di questo opuscolo, sia versato al modenese Patronato dei figli del popolo ed alla Cassa di soccorso pei famigli bisognosi della scuola militare.

Nell’ottobre 1902, il Ministero della Guerra, dando nuove denominazioni alle caserme di questo Presidio in onore di quegli illustri Modenesi, che furono grandi per virtù militari ed esempio di patriottismo, dispose che da Raimondo Montecuccoli s’intitolasse la caserma assegnata ai Sottufficiali allievi della Scuola Militare, e che fu già, per lungo tempo, il convento delle Salesiane.

Il Marchese Federico Montecuccoli degli Erri donò, nell’anno successivo, al Comando della Scuola Militare un quadro rappresentante il suo illustre antenato; e ricorrendo la festa dello Statuto, pubblicamente, nella caserma stessa, al munifico donatore si resero grazie dal Sig. Tenente Generale Ludovico Barbieri.

Alle nobili parole del Comandante la Scuola, seguì la presente conferenza sul grande Maresciallo.


Come gli antenati nelle avite sale dei loro castelli tenevan l’armi gloriose, non a vana pompa esposte ma alla difesa raccolte, così, bene meritando di quella gloria che i posteri incorona e delle generose aspirazioni, che per recondite vie ai discendenti si trasmettono, questi, alieni dal volere esposte a vana pompa le gloriose immagini, attesero il giorno in cui esse diventar potessero usbergo contro la fallacia delle ambizioni, stimolo potente nella diuturna lotta per il nome immacolato, superba insegna sulla via dell’onore, ed, a chi vuol segnalarsi tra i soldati, insuperabile esempio di valore.

Or se poc’anzi ben più nobili labbra, e per noi veneratissime, ringraziarono l’egregio donatore di questa effigie, non sarà sgradito se anch’io gliene esprima la nostra riconoscenza universale e profonda: poiché sonvi tai doni dinnanzi ai quali scompare il valore delle più ricche gemme; e sono quelli che, l’anima temprando più forte del diamante, nel cuore dei giovani suoi figli alla patria preparano i destini. Ma, certamente, molto più che le mie parole gli sarà gradito compenso il vedere tanta e così eletta parte della modenese cittadinanza accorsa per il legittimo orgoglio di riudire il nome di Raimondo Montecuccoli, uno dei tanti e grandi che questa città ha portato, col suo patrimonio glorioso, alla nuova Italia. Un tal nome però non è più soltanto gloria Modenese, ma Italiana in Europa; onde ben più esteso, se non più profondo, omaggio convenne gli fosse tributato.

E giova credere, che di assai lunga mano una Provvidenza decreti agli uomini il giorno della glorificazione; poiché questo provvido fato, per Raimondo Montecuccoli, e forse per lui solo, volle che oggi, mentre per l’etra vanno le note dell’inno trionfale, a rappresentare questa nostra patria, riconoscente come la terra che i suoi fiori offre al sole che la feconda, i cittadini di tutta l’Italia in giovane baldanza ad ammirarlo qui convenissero. Son trascorsi pochi mesi, dacché io qui ebbi l’onore di parlare di R. Montecuccoli e de’ suoi tempi; e poiché nella presente immagine voi, signori, ammirate la figura di quel guerriero, ove l’artista volle, nello sguardo riprodurre la bontà e la fierezza dell’anima, nei solchi della fronte la durata esperienza, e nella più ambita fra le imperiali insegne, la sua grandezza, così io vorrei dalla sua vita, dalle sue gesta e dai suoi scritti ritrarre il pensiero e l’anima dell’illustre condottiero.

Dalla maggior famiglia dei Montecuccoli, che numerose propaggini aveva nei feudi di Polinago, Montese, Renno, Salto, Riva, Semese, Montecenere e Sassostorno, nacque Raimondo, di Galeotto Montecuccoli e della nobil donna ferrarese Anna Bisi; e, decenne appena, restava orfano di padre.

Quanto gli sien valse le materne cure, sta il risultato a provarlo: ché colei, esemplare fra le donne, non sognò viril dominio ed autorità, ma nobilmente praticò l’ineffabile missione per cui la donna – fanciulla, è il sognato guiderdone alle forti imprese – madre, nell’infanzia agli uomini detta i destini.

Completò la sua istruzione presso il Cardinale d’Este, al quale la madre lo mandava come il più caro pegno della sua devozione, e che poco mancò non gli cambiasse il predestinato bastone di maresciallo in un aspersorio.

Paggio del Cardinale fu a Roma, ove fece ritorno dopo le sue prime armi accompagnando il conte Francesco Montecuccoli; ed imbevuto delle classiche dottrine, anch’egli s’ispirò dinnanzi ai monumenti di quella città, tanto viva nella sua morte: ma non come un mellifluo secentista, che va peregrinando tra i sepolcri e monumenti a confortarsi contro le ingiurie del tempo e del ferro ed a consolarsi del perduto imperio. No: la sua anima in ben diverso macigno era scolpita, e pensò fosse ridicola cosa, dopo secolari conforti di memorie, restare tra i deboli, ed in ciò esempio ai contemporanei, fosse ormai tempo di non più vagheggiare grandezze passate ma di esser qualcosa di grande.

Diciassettenne emigrò: a quei tempi persino la nostra lingua emigrava, ché a Vienna i dotti si piccavano di parlare italiano lasciando il tedesco agli staffieri . La madre, benché desolata, assentì, non volendo che le soverchie cure di lei l’uomo avessero a trattenere fanciullo; ed egli intraprese la carriera delle armi in Austria, dove lo avevano preceduto i cugini Ernesto, generale, e Girolamo ministro di stato. Dovea Raimondo militare in Italia? Forse fratricida servire le insegne di Spagna, dalla tirannia crudele e snervante? O quelle del Papa, per trascinare un branco di vagabondi benedetti a condurre simulacri di guerre, ed un giorno forse impigliarsi nella cardinalizia sottana d’un Barberini fuggiasco a Nonantola? O nel cuor dell’Italia, nella terra d’ogni incanto e d’ogni poesia, servire i gigli di Firenze sotto quel Ferdinando II, troppo libertino nella sua devozione per essere sincero, e nella sua dolcezza colpevole della tortura di Galileo? Oppure un grande italiano, il sabaudo Carlo Emanuele, l’ambizioso, l’irrequieto ed intollerante l’altrui superbia; e farsi reo di fellonia verso il suo principe, che in quel tempo teneva da Spagna, che era in guerra allora coi Savoia? Od il misterioso governo della veneta repubblica dalle tante teste , sempre trepidando per la propria? Od infine restar qui nella sua Modena, che era (come gli scriveva più tardi il Testi) un mare tranquillo, senza troppo fondo per i grandi vascelli, ma in compenso senza troppi scogli per i grandi naufragi? Mai no: erano per la sua ambizione gli orizzonti infiniti dell’oceano, le antenne sfidanti il cielo; per la sua tempra, le procelle e gli uragani.

E l’uragano imperversava nel Nord dell’Europa, dove, in nome della libertà del pensiero, si scatenavano feroci tutte le passioni, e dove per trent’anni tra il fragore delle armi, andarono i credenti al sacrificio, e gli egoisti alla conquista. Egli servì l’Austria, alla quale il suo sangue già si era prodigato, e dove già il suo nome era salito in onore : si schierò sotto le bandiere della reazione religiosa, perché era cattolico credente.

Credente di quella fede evangelica che fece i grandi, e che egli conservò illibata sino alla fine dei suoi giorni, pur in mezzo a quegli uomini che con singolare disinvoltura cambiavano fede e bandiera come d’abiti; in mezzo al triste spettacolo, ove i sacerdoti brandivano le croci per trascinare ai saccheggi ed alle rapine i pochi fanatici ed i molti codardi, e dove le immagini della vergine erano spettatrici agli oltraggi ed alle violenze; atroce ironia alle parole di Colui che aveva detto: insegnerete agli uomini ad amarsi come fratelli. Onde il Montecuccoli malinconicamente scriveva: qui tutti vogliono riformare la religione nei paesi, e così deformano paesi e religione .

La sua vita fu quella di un soldato, e mi gioverà quindi tessere sulla trama della sua vita militare.

Fece le sue prime armi in Boemia contro gli svedesi del Weimar, ed in Olanda contro le milizie popolari del Nassau, militando in tutte le armi, specialmente in quella fanteria ove, ei diceva, nella durezza del continuo sacrificio meglio la disciplina si apprende. A vent’anni, alfiere di fanteria raccoglieva, tra l’ammirazione, i primi allori nelle fazioni volte a soccorrere la vergine fortezza del Brabante , e le corone ossidionali, primo sulla breccia, alla presa di Amersdorf e di Neubrandeburg.

Ma, a risollevare le sorti dei luterani prostrati dai saccheggi del deposto duca di Friedland, sbarcava in Germania il biondo re di Svezia, che , lento prima, poi a passi di gigante, vittorioso percorse la Germania, forse accarezzando l’idea di mutare il suo nome di Gustavo in Augusto .

Montecuccoli fu contro di lui sui campi di Lipsia, capitano nei corazzieri del cugino, accanto al reggimento del suo conterraneo Rangoni; e nella sua foga mal tollerando la pistola in pugno e la lenta andatura, lui sognante la lancia che corre rapida alla ruina , trasportato più d’una volta solo in mezzo al nemico, cadeva per più ferite prigione nelle mani degli svedesi, che al prossimo cambio lo liberarono.

E seguì le sorti di quell’esercito sconfitto e ramingo per la Germania, sinché rivide i veterani di Svezia e Lützen, da tenente colonnello nei dragoni del Fiston, dove, nell’universal sgomento dei protestanti, cadeva il biondo re vincitore anche dopo morte . Quanta messe d’esperienza egli venticinquenne appena avesse già raccolta, ne van pieni i suoi scritti.

Leggeva egli colla mente di guerriero filosofo, come lo chiama il Foscolo, in quel libro aperto innanzi ai suoi occhi della realtà più raccapricciante, che la storia moderna abbia registrato. Egli vide i popoli or ligi or ribelli; e ponderò il grave compito che s’appartiene allo statista, d’indagare a minuto entro la natura del corpo morale, che ei deve reggere e correggere, onde uguagliare i mezzi al fine, ed ai mali applicare convenevoli rimedi . Egli vide quei mercenari senza patria, già insolenti nelle vittorie, incalzati poi dalle sconfitte e dal vituperio, compiere gli orrori che più d’una storia pietosamente tace , e meditò le sue proposte di una milizia nazionale composta dai cittadini che, all’industria al commercio e all’agricoltura attendendo, fossero chiamati solo, e tutti, nel giorno del pericolo .

Né a lui sfuggì la festosa incuranza della corte imperiale, abbandonata a quel destino ignoto che salvò sempre quella corona dal supremo disastro. E meditava sulle vanità delle umane ambizioni: Vallenstein, vincitore deposto e nell’umiliazione della corona richiamato, ucciso poi traditore; e Tilly, l’esperimentato, morire sconfitto; e tremare la libertà d’Olanda per la morte del Nassau; e la catastrofe svedese, onde sui campi di Lützen al re dei Goti cantava

Non son queste, non son tragiche fole;
né sull’attiche carte
le miserie dell’uom lessi dipinte:
Vidi io, di vero mal storie non finte,
cader lo svezio Marte,
e in poca polve andar l’erculea mole.

Ma la guerra divampava più che mai feroce, per opera dei successori di Gustavo: il Torstenson, il Weimar, il Banner, il Königsmark.

E Montecuccoli proseguiva la sua gloriosa carriera, dovunque, come gli scrisse il Duca di Modena, gli onori meritando pria di conseguirli.

E fu coi vincitori a Nordlingen; ed eroico a Kaiserbitte guadagnava il grado di colonnello, col quale continuò la guerra in Boemia, ove cadde prigioniero degli svedesi nell’anno della sua maggior sciagura in cui perdette la madre.

Ma fu prigionia feconda: ché gli ozi forzati di Stettino egli consacrò allo studio, nessuna delle scienze d’allora trascurando, dalle matematiche all’astrologia, e dell’arte sua scrivendo i primi e preziosissimi libri .

Il suo costante desiderio di servire la patria e le sue relazioni col Duca di Modena, fecero sì che, appena liberato, questi lo chiamasse al comando delle milizie ducali, da Raimondo capitanate in quella guerra, dalla sua vittoria detta di Nonantola, che fu un episodio della maggior guerra di Castro condotta dal Farnese, cui l’Estense e Venezia erano alleati, contro quell’irrequieto Urbano VIII, che riempì l’orbe di guerre per fare uno stato ai suoi nipoti Barberini, i quali guidavano appunto quelle sue armi temprate nel fuoco della pietà. E che cosa ciò volesse dire, bisogna domandarlo a quei di Vignola . Fu allora, che nella profondità del suo senno politico propose al Duca un progetto di un’alleanza tra i principi italiani per scacciare lo straniero .

Non ebbe seguito il progetto; egli era solo a meditar l’accordo, mentre erano in tanti a provocar la disunione; ma di questo tuo forte pensiero che avesti comune solo col duca sabaudo, e che la tua grandezza attesta e la tua italianità, la patria nuovissima ti è riconoscente, o Raimondo, come di un primo conato per la sua redenzione. Ritornò in Austria ove le armi imperiali avevano la peggio, e dove l’imperatore lo desiderava perché non aveva nell’esercito un uomo che come lui riunisse tante e sì rare qualità. Si trovò nell’esercito condotto dal Galasso, che l’ostile incalzo aveva costretto a chiudersi in Magdeburgo; ma il Montecuccoli, mal tollerando di essere così facile preda al nemico, chiese ed ottenne: ed alla testa dei suoi dragoni, fra la meraviglia di tutti, si aprì la via, scampando con un buon terzo dell’esercito in Boemia a ristorar le armi imperiali. Il Torstenson audace minacciava dalla Moravia Vienna, che Raimondo salvò per la prima volta soccorrendo Brun; come più tardi salvò l’imperatore ad Egra. Ed egli si mostrò così instancabile a sbarrar la via agli svedesi per ogni dove, da far dire a loro che quell’italiano doveva esser soccorso da uno spirito famigliare, tanto sapeva divinare i loro disegni.

Ma lo spirito famigliare era la sua grande esperienza: sicché, quando allora trentacinquenne fu nominato maresciallo, a chi gli chiedeva se non fosse troppo giovane a tale ufficio, rispondeva che, pur augurandosi una tal sentenza recassero di lui le dame, agli altri poteva dichiarare aver egli, per un’abitudine contratta da fanciullo, accordate ben poche ore al riposo; e che il danaro ed il tempo, che altri spreca nelle feste e nel giuoco, egli aveva impiegato per acquistare la nozione delle cose dell’arte sua; e nelle vicende provate aveva acquistato quell’esperienza, che l’animo invecchia prima del tempo.

Sembrava imminente la rovina della Corona, tanto che gli si propose di lasciare il servizio; ma egli rifiutò, alto allegando la lealtà del suo giuramento, sicuro di quella singolar virtù per la quale nei generosi le maggiori sventure svegliano le maggiori energie.

E della sua devozione ed esperienza doveva presto dar grande prova.

A Surmashausen, l’esercito imperiale condotto dall’Holzapfel (che aveva lui per comandante in seconda) fu sconfitto dalle armi unite di Svezia e di Francia; e, morto il Generale, egli prese il comando dell’esercito, conducendolo in salvo sotto il cannone d’Augusta, in quella celebre ritirata che gli valse l’elogio del grande Turenne .

Intanto fra Münster ed Osnabrück i diplomatici, dopo eterni negoziati, conducevano a fine quel trattato che fu di Westfalia, dall’enigma alsaziano . Deposte le armi, egli fu ambasciatore dell’impero alla corte di quella nevropatica regina di Svezia Maria Cristina, che la fama artistica e galante macchiò di barbari capricci . Ella lo accolse con onori imperiali, in suo omaggio dando nei giardini della sua villa di Upsal presso ai Templi d’Odino una festa, ed ornandolo cavaliere di quell’ordine dell’Amaranto che (strano a dirsi) proprio lei, una donna, aveva creato .

Assistette alla rinuncia da lei fatta alla corona; e con rammarico scriveva allora, che egli era il solo italiano in Upsal, dove erano convenuti i rappresentanti dei principi di tutto il mondo.

Ed il Montecuccoli essa volle a compagno nel trionfal viaggio per andare a Roma, dove, in mezzo all’universal gioia della cristianità, forse mistificata, si recava a consacrare l’abiura; e quando, della rinuncia pentitasi, meditò di riacquistare una corona, credette che un esercito guidato da Raimondo potesse darle un regno in Pomerania.

Fu in quei tempi che si disse fosse al Montecuccoli offerta la corona ducale di Modena, che egli rifiutò . Sarà stata forse la sua modestia che gli suggerì la ripulsa? ma non è a credersi di lui, autore dell’unico grande progetto politico dei tempi per l’Italia. Oppure, vanagloria smodata cui il motto dei Rohan sarebbe umil parola, si credette tra quei grandi che le corone possono dare o togliere a loro posta? No, una tale vanità non albergava nell’animo suo nobilissimo, benché si potrebbe a buon diritto annoverarlo tra quei grandi, ricordando, che ebbe fama di aver salvate ai loro re le corone di Polonia e Danimarca; e che, essendo al comando dell’esercito cristiano di fronte all’orda dei turchi sulla Raab, ai generali proclamava: oggi si compie il sesto anniversario dacché Leopoldo d’Austria fu incoronato imperatore, e noi vogliamo che oggi quella corona gli venga gloriosamente riconfermata: ed in quel giorno egli sbaragliava i turchi nella memorabile battaglia di S. Gottardo. Non fu dunque la modestia, né la vanagloria che gli suggerirono il rifiuto, ma la profonda filosofia onde credeva che vanamente s’impongono ai popoli principi non legittimi, e che solo sotto legittimo principato la vera libertà fiorisce .

Oh! se quella fu la ragione del tuo rifiuto, certo si può per te, Raimondo, ripetere, che, sdegnando cingere mortal corona, di gloria immortale ti sei incoronato.

Poco dopo deponeva le galanti insegne dell’Amaranto per impalmare la bella contessa Dietrichstein, che gli fu sposa adorata ed affettuosa, e che lo accompagnò in più d’una delle sue campagne, come in quella di Polonia dove gli diede la prima figlia, che, tenuta al sacro fonte dalla regina Maria Luisa, ebbe nome Luigia.

Ma l’irruzione di Carlo Gustavo, che pretendeva forse rinnovare le gesta del grande cugino, fece riprendere le armi; ed il Montecuccoli, ora comandante in capo, raccolse allori, che sarebbe troppo lungo enumerare, in Polonia e Danimarca, in quelle guerre terminate colla pace d’Oliva, che all’Impero fu così poco vantaggiosa perché i consigli di lui rimasero inascoltati. Ricorderò soltanto due fatti che la sua grande anima rivelano.

I magistrati di Amburgo, Brema e Lubecca, per essere esenti dall’occupazione militare, gli offrirono 400.000 fiorini, che rifiutò dicendo spettar tal compenso ai suoi soldati: il Brandeburghese, cui aveva salvato Stettino, propose gli fossero dati 30.000 fiorini, ed egli nella sua fine delicatezza scrisse all’imperatore domandando se poteva accettare, e poiché le lettere, forse smarrite, non ebbero risposta, egli rifiutò. Unico esempio a quei tempi, in cui tutti lucravano sugli eserciti, tanto che parve un diritto il farlo.

Tu, o Montecuccoli, il danaro disprezzasti, il danaro che tu hai chiamato “quello spirito universale che per lo tutto si diffonde e lo anima, che è l’istrumento degli istrumenti, che virtualmente è tutto, e che ha la forza d’incantare lo spirito dei più savi e l’impeto dei più feroci”. Più grande dei savi, quel denaro non ebbe per te alcun incanto, e l’ammirazione dei posteri colloca la tua figura presso quella di Curio Dentato. Premio alle sue vittorie fu il governatorato della Raab di fronte al Turco minaccioso. E’ l’apogeo della sua gloria, quando dal 1660 al 1664 conduce la guerra contro i Turchi, Terribile situazione la sua: solo contro l’irruenza audace d’un nemico formidabile: solo contro l’inerzia della corte e del ministro sognante la pace, sordi ai suoi consigli ; contro gl’invidiosi, e furono molti, contro i pubblici declamatori, e contro l’improntitudine degli utopisti, di quelli che la storia non cessa mai di registrare, e che, smaniosi di veder trionfare tosto una loro idea, forse generosa, ma che va maturata nel tempo e nel consiglio, senza pietà mettono la patria a soqquadro, molto avendo sulle labbra e poco nel cuore.

Imperterrito contro tutti, infaticabile contro il nemico, che disse di esser venuto a combattere contro un uomo e di avervi trovato un diavolo, egli nella fierezza del suo carattere, nella sicurezza della sua esperienza, non curò le pubbliche mormorazioni: e, come il temporeggiatore, sdegnò quel volubile favor di popolo, che nella sua incoscienza trasse i romani alla rotta di Canne; sicché la sua condotta gli valse appunto il titolo di Fabio Massimo. La minaccia era grave: Vienna, nello sgomento, demoliva i sobborghi, e si chiudeva nelle fortificazioni, per sua fortuna erette due anni prima dall’Italiano Giacomo Tensini: e tutto si voleva accordare, si acclamava all’esercito; a quell’esercito sciagurato, come ei dice, cui si canta l’osanna nell’ora del pericolo, per intuonargli, appena passato, il crucifige . E si volevano vittorie; si domandavano battaglie, che egli non accordava perché erano in via i soccorsi di Francia, della dieta e della cristianità; poiché (e fu vana esperienza ai posteri), non era egli tra quei generali che, forse per l’ambizione di vincere da soli, ingaggiano le battaglie mentre i rinforzi stanno per giungere, trascinando così gli eserciti alle sconfitte ed i popoli all’umiliazione.

Pareva che nulla avrebbe più arrestato il nemico; ma, dice lo storico dei Turchi , un solo ostacolo rimaneva, ed erano i 20.000 imperiali guidati da uno dei più grandi condottieri del secolo; e quell’ostacolo non fu superato mai.

Infatti, appena giunti i rinforzi, il Montecuccoli disfece i Turchi nella ricordata battaglia di S. Gottardo, salvando coll’impero la civiltà europea dalla barbarie ottomana. Raggiunse egli allora la più elevata dignità militare; fu nominato presidente del consiglio aulico, luogotenente generale dell’imperatore; ed indetta a lui l’obbedienza di tutte le armi cesaree dell’Impero. E fu provvido al consiglio, ma inascoltato, per quelle milizie nazionali e quegli eserciti perpetui che, come egli scrive, pel nome più che per la sostanza sono intollerabili. Saranno le sue, ora frasi trite e ritrite; ma Dio volesse che non fosse mai necessario il ricordarle: e, che le cose della guerra son punti, istanti che, se sfuggono, la rovina è irreparabile, per cui la preparazione è necessaria, poiché solo Iddio disse, e fu fatto; che lungo apparecchio produce presta vittoria; che la scienza militare non s’intuisce, né sui libri si apprende, ma nella pratica del campo si acquista; che le spese superflue van trascurate per le necessarie, e le finanze trattate con mani pure ed innocenti; che sono le leggi, senza le armi, prive di vigore, come le armi, senza le leggi, non hanno giustizia ; e, che all’ombra delle istituzioni militari prosperano le altre.

L’esercito è qual ancora poderosa issata ai fianchi della nave, suprema salvezza nell’ora del pericolo; ma non è, e non vuol esserle, di impedimento nella libera marcia del progresso civile, quasi per condannarla, colla permanente minaccia, ad avanzare arando sulle ancore. Ma fu, dissi, inascoltato.

La prepotenza di Luigi XIV aveva condotta l’Olanda alla disperazione, quasi al suicidio. Nella lega d’Augusta entrava l’imperatore contro Francia, ed il Montecuccoli alla testa dell’esercito riportava gli splendidi successi del Palatinato sull’emulo suo, il Turenne. Ma trionfarono gl’invidiosi: il Lobkowitz traditore dell’esercito, l’Auersperg venduto alla Francia, lo Zinzendorf dilapidatore del pubblico erario, pei quali fu lunga l’attesa alla final condanna, ed ai quali accennava il morente ministro Portia dicendo, che lasciava l’impero nelle mani di tali, che ne avrebbero fatto scempio; tutti, tranne uno solo: Raimondo Montecuccoli. Le sconfitte però si succedettero rapide e disastrose, e fu d’uopo rimetter lui al comando dell’esercito. Condusse egli allora contro il Turenne quella famosa campagna tanto celebrata per le mosse artificiose, sulle rive del Reno, ove bagna le terre di non mai sopite contese tra Francia ed Allemagna, e che non ebbe l’epilogo finale della battaglia perché, poche ore prima, una palla di cannone tolse di mezzo il Turenne.

L’esercito francese in rotta, fu dal Montecuccoli sconfitto in sanguinosa battaglia sotto Strasburgo, riconquistando l’Alsazia, il pomo della discordia. Si diede allora un onorato riposo, non ostante che l’Imperatore e la Regina di Spagna insistessero perché accettasse il comando delle truppe in Fiandra, e gli offrissero un principato; ma continuò a soccorrere di consiglio l’Imperatore, e conservò la direzione degli apparecchi militari. Morì nel 1680 in Linz, coperto di gloria e celebrato fra i più grandi capitani del secolo: e se morendo non ebbe il conforto della sposa a lui premorta, né dei figli lontani, certo ebbe l’inestimabile consolazione che né la sua coscienza né i posteri nulla gli avrebbero rimproverato.

Morì; e fu grande la pompa dei suoi funerali quando fu sepolto in S. Stefano a Vienna, ove la riconoscenza imperiale gli fece erigere un monumento. Ma non fu grande la pietà: egli moriva lontano dalla patria.

Morì ammirato: ed in mezzo a quella tempesta di metafore di cui è gonfia la letteratura del tempo, per indicare che nessuno ebbe come lui tante qualità, benché vi sia stato chi in alcuna l’abbia superato, si disse che era: l’Escuriale vivente . Egli morì italiano nell’anima. E lo attesta il progetto a cui ho accennato, ed il rammarico di Upsala, ed il non aver comandate, benché il più adatto, le milizie scese da Germania preludianti alla conquista lombarda; ed il consiglio da lui sostenuto dinnanzi all’imperatore di far passare senz’altro la Lombardia da Spagna ai Savoia; e quello slancio di gioia, che si legge nel suo libro dell’Ungheria ove, descritta la battaglia di S. Gottardo, modestamente tacendo gli onori avuti scrive: “E l’imperatore volle onorarmi con due lettere scritte di suo pugno e nell’Italiano idioma; tesoro a me preziosissimo, e la più degna memoria che io possa tramandare ai miei posteri” .

Si falserebbe la verità storica, ove si dicesse che il Montecuccoli fu uno di quei condottieri che diedero il loro nome ad un’epoca; poiché questa gloria, per i suoi tempi, spetta a Gustavo Adolfo ed al Nassau: ma si trarrebbe di lui falso giudizio, paragonandolo appunto al re svedese libero nelle sue azioni ed alla testa dei suoi sudditi fedelissimi, od all’olandese messo a capo di un popolo ben deliberato a difendere la propria indipendenza. Egli comandò ad un branco di mercenari avidi di bottino; e l’obbedienza agli ordini sovrani fu suo principal dovere; e questa condizione richiedeva quelle elevate qualità di carattere che gli furono particolari, e la cui grandezza compendiano quelle famose parole sue: “protestai, ubbidii, e mi sacrificai”, dette quando gli ordini giuntigli da Vienna, da chi mal giudicava delle condizioni, perché lungi dal teatro d’operazione, ponevano a repentaglio il successo dell’impresa e la sua fama di generale.

Non ebbe (egli stesso lo riconosce) per ideali, né Cesare, né Alessandro, ma il famoso cunctator romano; e la sua prudenza salvò, per molti anni, la corona austriaca al suo principe. Non fu neppure l’eroe popolare, affascinante colle imprese meravigliose; ma diventò grande condottiero per assiduità di studio, per profondità di osservazione, per la chiarezza del giudizio acquistata con lunga esperienza.

Di figura severa, quasi arcigna, il suo volto (dice il biografo) si illuminava nel momento del pericolo, e coll’esempio e colla parola trascinava i soldati. Rigido con sé stesso, fu giusto e clemente cogli altri: affabile nei modi, lasciò fama di prode, gentile e colto cavaliere.

Merita di essere ricordato l’omaggio, che a lui rende il Pepe scrivendo, che non macchiò la sua fama coi saccheggi che offuscarono la gloria di Turenne; e quello di Federico il Grande, che in un suo poema lo proclama salvatore della Germania nella sua lotta contro la Francia. Erudito cultore delle lettere, e protettore delle scienze, presiedette l’accademia, sorta in Vienna, dei Curiosi della Natura, e scrisse le sue memorie nel patrio idioma, trattando il grave argomento dell’arte militare in forma semplice e concisa, tenendosi sovente immune dal comune contagio della pompa esagerata con cui, nel suo secolo, si velò, bene spesso, la vanità dei concetti.

E la sua fama appunto non si manterrebbe così alta, se egli non avesse saputo perpetuare la sua memoria affidando l’esperienza, da lui fatta nelle quarantuna campagne di guerra, a quella splendida sintesi enciclopedica dell’arte militare che sono i suoi Aforismi, ed ai due libri dell’Ungheria, superando in ciò tutti i grandi capitani suoi contemporanei. Ammirato e commentato all’estero prima che tra noi, dall’Huissen a Federico II, a Napoleone, al Guibert, al Folard, al Turpin dal lungo commento, lo fu poi in Italia, dal Foscolo, dal Grassi, dal Delvecchio, dallo Zanelli, e sovranamente dall’erudito suo biografo Cesare Campori. Ma egli non ebbe popolarità in Italia, e meno che mai quando impeto generoso di popolo, e coraggiosa prudenza di re, sfidando l’armi straniere e gli anatemi, ricomponevano le sparse membra della nostra patria. Egli aveva servito quell’Austria, il cui nome, coi ricordi di lagrime e di sangue, anche quelli degli eroismi e delle grandezze risveglia, onde i suoi patiboli son diventati i nostri altari.

Ma se la coscienza della nostra forza al perdono ci ha condotti, perché la pietà è retaggio dei forti, essa saprà ben anche risvegliare l’orgoglio onde la patria, stendendo le braccia agli Italiani di tutti i tempi e su tutti i lidi, superba raccoglie gli allori che essi hanno mietuto per straniere corone.

E’ insegna di vittoria audace, ritogliere tosto al nemico le prede ed i trofei; e sarà per gl’Italiani audacia di vincitori, il rivendicare la gloria del Montecuccoli, consacrandola in duraturo ricordo, prima che il tempo abbia fatto dimenticare l’odiosa tirannia, come accadde per quella ben più obbrobriosa degli Spagnuoli, dai quali la patria, se non le ceneri, l’anima almeno rivendicò del ligure imperterrito, che pure alla grande scoperta salpava, issando sull’antenna l’orifiamme di Castiglia.

Ben possono, per la loro potenza le terre e per il loro fasto i capolavori trattenersi gli stranieri, ma non le anime. E così è che oggi, in questo anniversario di una pasqua italiana, che nel patto di devozione e di libertà la nostra risurrezione ha consacrato, la tua anima, o Montecuccoli, ritorna, come l’esule rondinella, alle nostre primavere. E vi ritorna, guidando lo stuolo volante di quei tanti che la spada e la mente diedero alla grandezza dell’Austria, illusi forse dal titolo prognosticante, ormai vano fastigio di quella corona, di Re dei Romani.

Ed è vittoria incruenta, che ci dà la nostra forza al diritto sposata: poiché non si perpetua più fra noi la sentenza, che la forza schiacci il diritto; perché noi Italiani abbiamo appreso ed insegniamo, che la vittoria appartiene al diritto, ove unanimi e risolute le forze di tutti lo difendano: ed il diritto vuole, che alla madre legittima ritornino gli allori dei figli. Che se quando erano divenuti inefficaci i fulmini papali e quando la veneta repubblica lenta ammainava in oriente le insegne di S. Marco, tu sola, o Austria, raccogliesti la palma di aver difesa la civiltà europea dalla barbarie ottomana; ove si sappia e si ripeta che a ben dieci delle tue venti battaglie arrise la vittoria perché, accanto ai tuoi stendardi, stavano gli stemmi dei Montecuccoli e dei Savoia, chi non dovrà riconoscere che tanta della tua gloria a noi appartiene?

Ma l’anima di Montecuccoli non è qui giunta tra il fragore delle armi né per furia di popolo, ma direi per la volontà di un dio. E valga il vero alla mia parola, ove si ricordi che nella tua infanzia, o Raimondo, predicava il verbo dolcissimo il pietoso frate di Sales: e non molto dopo, fra queste mura, le Sorelle della Visitazione aprivano le labbra canore al cantico del re profeta; e tu, Montecuccoli, facevi nei tuoi scritti voto che fossero alfine soppressi i superflui monasteri e superflui seminari, e sorgessero invece scuole e scuole dove i cittadini il braccio ed il cuore apprestassero alla difesa della patria : e, quasi un dio abbia voluto sciogliere il tuo voto, oggi la tua immagine, come Farinata, tra queste tombe antiche d’ogni pensiero e d’ogni vita, s’innalza superba, e nel tuo nome il tuo sogno è realtà.

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