Racconti inverisimili di Picche/IV
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L'ANELLO DI PEPE
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Si è parlato molto a suo tempo di un dramma misterioso, del quale sarebbe stato eroe (secondo lo stile dei giornali, i quali non affermano altrimenti che dubitando) il più bravo galantuomo, il più tranquillo borghese di questo mondo. Si cercò in tutti i modi di caricar le tinte e di dare al fatto una intonazione equivoca, nella quale non avrebbe fatto male la giustizia a metter la mano. Si parlò di rivalità femminili, di cupi tradimenti, di vendette familiari, dichiarando sempre che non si poteva uscire dalle generali e che, per delicatezza prudente, non si doveva sollevare il lembo di quel velo che nascondeva segreti di famiglia. In verità la prudenza era una scusa, perché nessuno sapeva niente, perché delle cose dette una buona parte era anche inventata, e perché finalmente, ad onta di ogni più curiosa ricerca, non venne fatto di scoprire il minimo lato drammatico nella vita o nel carattere del supposto eroe. Via via, le voci si diradarono; la curiosità pubblica fu chiamata altrove; e di questa, come di tante altre cose, non si disse più una parola.
Come ho detto, il signor Pepe era un galantuomo della più limpida acqua. Si chiamava Giacomo. Una pinguedine incipiente, o per meglio dire un certo arrotondarsi di tutta la piccola persona, gli dava una impronta più chiara di onestà contenta e di posatezza borghese. Un viso aperto e colorito, che due sottili fedine bionde circoscrivevano, una fronte che sarebbe stata bassina senza gli assalti di una calvizie precoce, un sorriso bonario che invitava alla confidenza, faceano traspirare da lui, da tutti i pori della pelle liscia e lucida, la soddisfazione calma di un uomo che non può essere scontento dell’oggi perché è sicuro del domani. Parlava piano, con una risatina costante nel discorso, con un dolce accarezzamento delle mani con un battere frequente delle palpebre sugli occhietti grigi. Vestiva sempre corretto, avendo della propria persona una vera gelosia. Sempre pulito, sia che uscisse di casa, sia che vi tornasse; sempre con la cravatta bianca bene insaldata e col suo panciotto che smagliava di bianco sporgendo in bella curva dalle ali aperte del soprabito nero; sempre coi suoi scarpini di pelle lucida, tersi come specchi e scricchiolanti a misura; sempre con la sua canna d’India dal pomo d’avorio.
Non mancava alla sua felicità che una cosa sola, ed ebbe anche quella: certi uomini nascono vestiti. Molte volte mi aveva confidato che la sua più ardente aspirazione era quella di mettere su casa. Gli pesava la vita da scapolo, gli anni andavano di galoppo. E quando io gli domandavo perché indugiasse tanto a decidersi, egli si faceva serio per un momento e si sforzava di tacere. Poi, misurando bene le parole, per tema forse di dir troppo, rispondeva col solito suo risolino: «Vedremo, vedremo! per ora, il momento buono non è venuto. Non dubitate, non mi scordo degli amici. Gli assaggerete anche voi i miei confetti». E troncava subito il discorso, allontanandosi con un comico sospiro soffocato e col solito scricchiolio degli scarpini.
Il momento buono, come egli lo chiamava, arrivò finalmente. Ed era buono davvero, a giudicarne dalla scelta ch’egli avea fatto, o meglio dalla fortuna che gli era piovuta addosso. Buono e bello. Ho sempre notato questo singolare destino che accompagna gli uomini grassi e attempati e anche quelli che hanno dimensioni non comuni e che sono alti e costoluti, i quali incontrano il più delle volte sul loro cammino le donnette più piccine e sottili che abbiano mai rappresentato la delicatezza femminile. La sposa del signor Pepe era una di coteste donnette: un tipo di gioventù fresca, di proporzionata piccolezza, di forme svelte benché non magre, con certi piegamenti da fiore, che il vento muovesse leggermente. Aveva, quasi in contraddizione della personcina, una enorme massa di capelli neri ch’ella costringeva a fatica in groppi ed in trecce, ma che pure, mal suo grado, sfuggivano di qua e di là in ricciolini, rompendo il freno delle forcinelle. Gli occhi erano anch’essi grandi e neri, con uno sguardo eloquente che anticipava i sorrisi e le parole della bocca. Era pallidetta, ma di un pallore piuttosto appassionato che malaticcio. In somma, un fiorellino vero e proprio, il quale volgevasi con tutta la schietta verginità dei suoi profumi a farsi spiccare dalla mano grassotta e liscia del signor Pepe. Certamente, a vedere, ella amava lui o gli voleva bene; mentre egli, dal canto suo, si sentiva preso da una contentezza espansiva, da una impaziente e non grossolana febbre di anima, se così si può dire, per quella idealità squisita di donna. Doveano essere felici, e così senz’altro sarebbero stati: l’uno e l’altra insieme avrebbero goduto in quella pace del novello regno, della casa coniugale, dov’egli avrebbe riposato come in un comodo nido ed ella avrebbe brillato come un sole di amore e di pace.
Questo pensai, quando imparai a conoscere la fidanzata del mio amico; né però gl’invidiai una sorte per afferar la quale, secondo me, si dovea prima sottomettersi ad una cura ricostituente di animo e di corpo e acquistare in proporzioni quel che si perdeva in illusioni giovanili. Veramente, a vederlo, si sarebbe detto che il buon Pepe, per cogliere quel fiorellino, si fosse voltato indietro tornando di molte miglia sui suoi passi: tanto era più giovane nelle parole e negli atti, tanto gli premeva di far presto e così insolitamente snodati erano i suoi movimenti, l’andatura frettolosa, il girar del capo. Lo aveva pigliato una gioconda impazienza. Così almeno mi sembrò alla prima, quando una mattina gli feci i miei rallegramenti e gli auguri. Se non che, per una certa fastidiosa disposizione all’analisi che m’ha sempre infelicitato, credetti di scorgere di lì a poco che quell’assalto di gioia poteva bene essere un accesso di febbre e che quella impazienza che trovava posa si potea meglio definire per nervosità. Il sospetto non era affatto senza fondamento, perché se pure avessi voluto dubitare delle mie preoccupazioni, sarei stato confermato in quello, e fui infatti confermato, dalla domanda che mi fece due giorni dopo un amico comune, il conte d’Abresci, tenente dei bersaglieri. Mi venne incontro tutto sollecito e dopo avermi stretto la mano, mi domandò a bruciapelo:
- Che cosa ha quel povero Pepe? -
Risposi con un’altra domanda e quasi in tono di soddisfazione:
- Ha dunque qualche cosa?
- Mi pare. So che s’ammoglia. Ma non può essere questo; il matrimonio non è cianuro di potassa che produca subito i suoi effetti: è un veleno lento.
- Già - dissi - è morfina. Ma tu che cosa hai notato? Per conto mio, ti confesso di averlo visto più gaio e rubizzo del solito. Gli traspira la contentezza da tutti i pori -.
Giocavo di finzione per avere il riscontro della mia analisi e la sicurezza del controllo.
- Contentezza? - esclamò d’Abresci. - Ho in mente, caro mio, che ti manchi il bernoccolo dell’osservatore.
- Può darsi benissimo.
- O non hai visto che non gli riesce più di azzeccare due parole che abbiano senso? non hai notato quella contrazione spasmodica della bocca? Poi, sul più bello del discorso, ti volta le spalle e ti pianta in asso. Per me, dico che il matrimonio comincia male.
- Sarà - risposi; - per me credo il contrario -.
Lo lasciai, persuaso anche questa volta e mortificato di aver mentito. Il povero Pepe, non c’era più dubbio, era tormentato da qualche cosa. Più i giorni passavano, più s’accostava il termine fatale, e più lo vedevo nervoso, a momenti ilare senza una ragione al mondo, rannuvolato come se gli fosse piombato addosso il guaio più massiccio. Ancora, mentre prima si contentava di farmi ogni tanto una visitina rapida, ora me lo vedevo davanti a tutti i momenti e si tratteneva con me delle ore, e s’indugiava nel punto di andar via, come se da me aspettasse una interrogazione o mi volesse fare una confidenza che gli bruciava la punta della lingua. Un mistero ci doveva essere. Ma di che natura? ma da quando in qua? e come si potea pensare che una brava e tranquilla persona come il signor Pepe chiudesse un mistero, più o meno drammatico, nella sua onesta pinguedine? Inutilmente mi stillavo il cervello; non trovavo alcuna spiegazione plausibile.
Giunse alla fine il giorno della rivelazione; e fu proprio la vigilia delle nozze: una rivelazione delle più comiche, come del resto c’era da aspettarselo, e che mi fece scoppiar dal ridere non senza suggerirmi le più pietose riflessioni sulla debolezza delle facoltà mentali largite al più perfetto essere della creazione.
Pepe venne di buon’ora, entrò in camera mia muto come un pesce e tragico come un tiranno da scena, non mi salutò, mi si pose a seder di faccia con la mazza dal pomo d’avorio fra le gambe, le gambe slargate e le mani sulle ginocchia: quelle sue belle mani grassotte e bianche. Lo guardai fiso e in tono interrogativo.
Non rispose nulla, altro che ficcando i suoi occhi nei miei. Poi gli abbassava a guardarsi le mani, com’era sua abitudine e suo innocuo compiacimento; poi, da capo, gli alzava verso di me.
- Bene - cominciai, vedendolo così ostinato in quel movimento automatico da bomboccio cinese - voi avete un groppo nella gola e un peso sullo stomaco, caro signor Pepe. Dite su. Per quanto è da me, sarò felice di darvi una mano e liberarvi -. Egli muoveva le labbra come per dir qualche cosa; balbettava, tornava a tacere con più ostinazione di prima e a guardar me e le sue mani: più le sue mani che me.
- Andiamo, via, signor Pepe. Vi rimetterò io sulla buona via. Vediamo un po’. Domani voi sposate -.
Egli si riscosse come allo squillo d’una tromba ferale e interrogò con voce sepolcrale:
- Domani?...
- Se non lo sapete voi, figuratevi! Non mi spiego il vostro stupore, mio buon amico. Sarebbe forse spuntata sull’orizzonte qualche difficoltà?
- No, no, vi pare. Tutto è disposto a dovere, niente è stato dimenticato. Però...
- Però?....
- Se avessi voglia di ridere, starei per dire che una sola cosa manca: una cosa da nulla.
- Le carte?
- No
- Il consenso della sposa?
- Nemmeno.
- Quello dei parenti?
- Eh via!
- Ebbene allora, non indovino.
- Ve lo dirò io in tre parole: manca lo sposo -. Mi levai di scatto; guardai fiso il mio interlocutore, temendo che avesse dato di volta. No. Il signor Pepe era sempre lì a sedere con la usata pacatezza, con le mani aperte sulle ginocchia, con la faccia rivolta a me in un godimento intimo della mia sorpresa.
- No - disse - il vostro sospetto è infondato; ve l’assicuro io. Godo di tutta la mia ragione; non sono mai stato così lucido come adesso. Eppure vi dico e vi ripeto che a queste nozze manca lo sposo.
- Avete mutato di parere?
- No.
- Avevate qualche legame precedente?
- Non ci siete.
- Siete morto?... - esclamai.
Il signor Pepe si diè a ridere a questa mia scappata con un riso a scatti che gli faceva balzare il petto e la pancia.
- No, sentite - riprese a dire quando si fu alquanto calmato - voi non potete indovinare. Vi dirò tutto e voi mi darete un consiglio. Bene, così; tornate a sedere e state bene attento. Voi non avete badato al mio anello.
-Io?... no davvero -. Così dicendo, mi chinai ad osservarlo, mentre il signor Pepe alzava un po’ la mano sinistra dall’appoggio del ginocchio e un po’ sollevava il mignolo. Era un anello poco vistoso: due cerchiellini d’oro saldati insieme che si fermavano di qua e di là ad una cornicetta quadrata, nella quale s’incastonava una corniola rossiccia. Sulla corniola, guardando meglio, scorsi una sottile incisione, quasi capillare, raffigurante un Ercole con la clava.
- Ebbene? - domandai, quando questo mio esame fu finito.
Il signor Pepe abbassò di nuovo la mano sul ginocchio e rispose lentamente:
- Quest’anello ha una storia.
- Che voi mi conterete.
- Son venuto per questo... È antico di molti anni.
- Lo vedo.
- E me l’ha dato, in punto di morte, mia madre.
- Ah!...
- Voi dite: questa è tutta la storia? No, c’è dell’altro. Né vi aspettate, com’è vostro solito, una storia complicata. In poche parole vi avrò detto tutto. Mia madre, nei suoi ultimi momenti, mi chiamò al suo capezzale e pregò che tutti si allontanassero. Volea confidare a me solo un segreto. Mi prese per mano come per farmi animo e insistette perché non piangessi e perché non dimenticassi una sola delle sue estreme raccomandazioni. «Ne dipende la tua felicità - disse -. Ecco. Ti do per memoria di me, che ti starò sempre vicino, che ti proteggerò in ogni momento più grave della tua vita, ti do questo anello». E in così dire, si tolse dall’anulare questa corniola e me la pose al mignolo. Poi, dopo un minuto di silenzio, nel quale parve riprender lena proseguì: «Tu lo terrai sempre al dito; non te ne separerai mai. Un giorno, la pietra di questo anello, senza che tu te ne avveda, cadrà. Qualcuno si chinerà a raccattarla; una donna; e una mano di donna te la porgerà». Io stavo in ascolto, trattenendo il respiro. Mia madre sollevò un poco il capo dal guanciale, mi fisò gli occhi negli occhi e mi susurrò, scolpendo le parole con un movimento preciso e misurato delle labbra: «Quella donna sarà tua moglie. Giuralo». Io giurai. Poi, spossata dal grande sforzo, ella ricadde, fattasi più pallida. Né mi riconobbe più, né mi disse altro fino al punto di morte. Quell’estremo consiglio, quel comando mi rimaneva improntato nel cuore. Giurai a me stesso, come avevo giurato a quella povera anima, che non sarei venuto meno alla volontà di mia madre. Aspettai gran tempo. Adesso vi potete spiegare le mie indecisioni e gl’indugi che a voi parevano irragionevoli. Un bel giorno - forse dovrei dire un giorno disgraziato - conobbi Caterina incominciai ad andar per casa; tutte le sere ero da lei; mi sentivo preso. E tutte le sere, a tutti i momenti, guardavo con impazienza al mio anello per vedere se la pietra se n’era staccata. Niente, era sempre lì, più salda che mai. Debbo dire che tentai anche segretamente, e forse senza pur saperlo, di agevolare l’opera del destino? Fatto sta, che più d’una volta mi sorpresi a stringere e scuotere col pollice e l’indice della destra il castone dell’anello. E poi, che v’ho da dire?... non seppi più stare alle mosse. Feci una subita e solenne rivoluzione. Domandai la mano di Caterina. Voi capite il resto, amico mio. La corniola è sempre al suo posto; siamo alla vigilia delle nozze, e non c’è segno che si voglia muovere -.
Il signor Pepe non avea mai fatto un discorso così lungo. Involontariamente, benché fossi sicura della cosa, tornai a guardare quell’anello sacro e misterioso. Ne avrei riso di cuore, se non mi avesse trattenuto il rispetto di quella memoria, ed anche in parte la singolare agitazione da cui vedevo preso il mio amico. Mi studiai nondimeno di rassicurarlo, prima augurandogli che la pietra cadesse in tempo, poi voltando il fatto in burletta e facendogli notare che, in tutt’i casi, per quanto valore possa avere una promessa fatta al letto di morte a una persona adorata, un galantuomo deve soprattutto tenere alla sua parola.
Ed egli la tenne; e non c’è mai stato uomo che con tanta trepidazione stendesse la mano a una cosa desiderata o che con tanto terrore guardasse la propria gioia. Non dimenticherò mai quel suo aspetto contrito e raggiante; quella mortificazione di essere troppo contento, quel rimorso, stampatogli sulla fronte depressa, di fare una cosa che gli piaceva. Prendeva forza, deliziandosi nella contemplazione di quella bellezza serena della sua Caterina, un vero fiorellino nella sua veste da sposa, un fiorellino di un nitore smagliante che da un mite raggio di sole avesse ricevuto vita e sorriso. Non sapeva stornare gli occhi da lei, quasi stupiva che tanta fortuna fosse proprio incolta a lui; eppure, di tratto in tratto, per un moto nervoso che gli scuoteva tutta la persona e lo afferrava al collo, egli abbassava e rialzava il capo come un fantoccio, a scatti improvvisi, e gettava un’occhiata rapidissima, un comico lampo dei suoi occhietti grigi sul dito mignolo della mano sinistra. E ogni volta gli balenava sulla faccia un guizzo di luce ed un’ombra, una subita tristezza e un sorriso confidente. Per quanto la cosa fosse ridevole, il povero signor Giacomo mi faceva una vera pietà; perché io ho pensato che i dolori e i piaceri ci feriscono e ci esaltano, non già secondo la forza loro, ma a quel modo che l’animo nostro è disposto a riceverne l’assalto: così è che un bambino, cui si spezzi nelle mani un balocco, può soffrire quanto Bonaparte dopo Waterloo; così una bambina che veda il suo cardellino dar gli ultimi tratti può versare le stesse lagrime amare della classica Niobe. Il signor Giacomo, nel giorno stesso della sua massima felicità, era il più miserabile fra tutti gli uomini. Per buona sorte, non essendo uomo di lotta, avrebbe prima o dopo ceduto a uno dei due sentimenti che lo tenevano e in quello si sarebbe acquetato.
Così avvenne di fatto. La cerimonia si svolse e si compiè senza incidenti notevoli. Gl’invitati complirono la coppia avventurata, lasciando loro i più schietti rallegramenti e portando via il loro diritto inalienabile di menar le forbici sulle persone che gli avevano accolti come amici. Ultimo di tutti, io mi accomiatai dall’amico Pepe e dalla sua graziosa metà. A cose fatte, egli era già entrato in un periodo di calma. Ancora pochi giorni, e lo incontrai che se n’andava a spasso, sorridendo alla propria contentezza. In capo ad un mese, la vittoria era assicurata a uno dei due sentimenti che se lo dividevano.
- Vedete? - mi disse, e ridendo di cuore mi mostrava il mignolo della sinistra -. Ercole al bivio non s’è mosso.
- Gli è che ci trova il suo tornaconto - risposi.
- Già, come me. Chi sta ben non si muova. Quanto siamo sciocchi alle volte, eh? -
E si allontanò a passo più franco dell’usato, più che mai cigolando sugli scarpini lucidi, e lasciandomi solo sotto l’impressione mortificante di quel plurale.
Nella mia qualità di vecchio amico di casa fui, invitato anch’io a quella bella gita a Maiuri, che mi diè occasione di conoscere tutta la famiglia Calitri - era questo il casato della signorina Caterina - e specialmente di ammirare la signorina Lucia, sorella minore di lei. Ammirare non è forse la parola giusta; se mi fosse lecito, esprimerei il mio pensiero con quello stare degli Inglesi, al quale non c’è termine corrispondente nella nostra lingua. La signorina Lucia non era bella. Aveva in tutta la persona la stessa delicatezza minuscola e proporzionata della sorella, senza però averne la svelta pieghevolezza. Si muoveva piano e parlava piano; ma con questo non c’era cascaggine in lei; anzi la circondava una grazia composta ed uniforme, tanto più efficace quanto meno era dato scorgere da che derivasse. Un pallore più diffuso e costante che la sorella non avesse facea meglio spiccare uno sguardo pensoso che non vi veniva incontro ma piuttosto rimaneva e s’indugiava nel fondo degli occhi nerissimi. Così pure da quel pallore era meglio rialzato il volume scuro e abbondante dei capelli. C’era in somma tra l’una e l’altra una grande somiglianza di famiglia: la signorina Lucia era come un’ombra di Caterina che si mostrasse all’ora mesta ed incerta del crepuscolo; la signora Caterina era una Lucia che apparisse ad un tratto insieme con la luce del giorno e sotto lo zaffiro del cielo.
La conoscenza fu fatta presto con quella semplicità di modi e di affetto che non è ancora perduta in provincia come non si trova più nei grandi centri. Eravamo buoni amici, dopo poche ore di conversazione, e ci conoscevamo da un anno, quando la sera ci raccogliemmo sulla terrazza a discorrere del più e del meno e a contemplare l’ampia distesa del mare. Dopo un’oretta passata a questo modo, il signor Calitri padre propose che si andasse di là, nel salottino, così per ripararsi dall’umido come per dar prova del suo riconosciuto valore al gioco del tressette. Erano venuti, come solevano tutte le sere, i tre suoi compagni, senza dei quali non gli pareva di poter vivere e co’ quali si scambiavano a tavolino le più fiorite insolenze e le più iraconde minacce. Per farlo contento, lo seguimmo tutti: e noialtri, i due sposi e la signorina Lucia ed io, sedemmo poco discosto dal campo dei giocatori, un po’ guardando alle vicende della lotta, un po’ ripigliando il filo d’un discorso, ch’era poi rotto sul più bello dagli scoppi di voce o dai pugni energici di uno dei giocatori.
Fu rapida la scena che seguì fra noi e parve non avere importanza, a giudicarne dal silenzio che l’accompagnò e che quasi la lasciò cadere nell’indifferenza. Le due sorelle naturalmente, non se ne impensierirono; e, se debbo dire la verità, io stesso non ne fui colpito così forte come si potrebbe credere. Caterina e Giacomo si dicevano non so che cosa a bassa voce con quella intimità che è la voce stessa dell’affetto. La signorina Lucia era volta dalla mia parte con la serenità pensosa dei suoi grandi occhi neri che vi guardavano dentro. Taceva, né io osavo disturbare quel suo silenzio. Si riscosse ad un tratto, come se una mano la sfiorasse sul collo o una voce misteriosa la chiamasse. Si chinò sollecitamente, raccattò qualche cosa che non mi riuscì alla prima di distinguere.
- Signor Giacomo - disse, piegandosi un po’ con la seggiola verso di lui e sporgendo il braccio - v’è caduta la pietra dell’anello -.
Era niente, ma fu pel povero mio amico un vero colpo di fulmine. Si volse e fece per parlare; ma la sua bocca ebbe quella medesima contrazione che il tenente d’Abresci aveva già notato altra volta.
Gli tremavano le labbra fattesi bianche. Si guardò prima alla mano sinistra. Allungando poi le dita per prendere la pietra che gli era presentata dalla signorina Lucia, fisò in volto di costei gli occhietti grigi e lucidi per una scintilla che vi guizzò dentro. Né disse motto. Evitò di guardare in tutti i modi dalla mia parte, e soffriva molto - come io vedevo bene - dal sentirsi osservato. In silenzio e con atto involontario trasse di tasca un suo portafogli, lo aprì, vi ripose dentro la corniola, lo rintascò, si abbottonò il soprabito dall’ultimo al primo bottone. Tacevano tutti. Alla signora Caterina l’incidente non era sembrato di tale importanza da meritare una qualunque osservazione. Un momento, quando il marito aveva preso la pietra dalle mani della signorina Lucia, avea fatto per stendere la mano e per vedere; ma il signor Giacomo a quell’atto naturalissimo avea risposto ritraendo la propria con prestezza e nascondendo l’oggetto raccolto. Dopo un poco, durando il silenzio e l’ostinazione di lui a non voltarsi dalla mia parte, io chiesi il permesso di ritirarmi in camera mia. Ci alzammo tutti, anche i giocatori che intanto aveano aggiustati i loro conti. Ci separammo, dandoci la buona notte. Dovendo io tornare a Napoli il giorno appresso e partire nelle prime ore del mattino, mi accomiatai ringraziando. Il signor Calitri e la signora Caterina furono soli a darmi il buon viaggio; la signorina Lucia si contentò di stringermi la mano, in quanto al signor Pepe, non diè segno di avvedersi di me: seguitava a tacere e a tener gli occhi inchiodati in viso alla giovane cognata. Non era più di questo mondo. Io lo compativo dal fondo del cuore; ma anche questa volta pensai, mentre me n’andavo a letto, che l’agitazione del mio povero amico avrebbe prima o dopo trovato il riposo e la calma.
M’ingannavo. Tutti gli avvenimenti che seguirono parevano apparecchiati a posta e guidati da una mano cappricciosa e maligna che si volesse prender giuoco delle previsioni più sicure sulla nostra facoltà di analisi e sulla superba nostra conoscenza del cuore umano. Non si è mai dato il caso, per quanto io ne sappia, che un carattere si sia svolto in condizioni così contrarie alla sua stessa natura e che un uomo si sia mostrato così diverso da sé stesso. Ho pensato tante volte, quando questa storia m’è tornata in mente, a quella singolare pretensione dei critici di arte, i quali cercano e vogliono così nelle commedie come nei romanzi che le creature della fantasia «conservino il loro carattere» dal principio alla fine dell’azione. Si vuole, in altri termini, trovare nella copia quel che non è nell’originale; alla vita fittizia si chiedono quei caratteri che mancano alla vita reale.
Ebbi dal tenente d’Abresci le prime notizie di quella trasformazione. Non vi prestai molta fede, ma una curiosità istintiva mi pungeva perché andassi a vedere. D’Abresci era stato a Maiuri a fare una visita agli sposi, e vi s’era fermato due giorni, costretto da ogni sorta di cortesia dal vecchio signor Calitri, che aveva scoperto sotto la divisa dell’ufficiale un perfetto conoscitore del tressette e di altri giuochi affini. Anche questa volta, come la prima, egli mi domandò che «cosa avesse» quel povero Pepe, quasi io ne potessi essere informato meglio di lui che veniva di là.
- Ma che ha? - domandai a mia volta.
- Ha che non si riconosce più. È diventato mezzo. Si vede che il matrimonio gli ha fatto male. Non te lo dicevo io? -
Il tenente era di quelle persone che prevedono tutto, che sempre si trovano di aver detto tutto, e che un suicidio o un assassinio mette al colmo della gioia, perché viene a provare luminosamente la loro seconda vista. Quando ebbi sbrigate alcune mie faccende, scrissi due righe al signor Pepe, avvertendolo della mia prossima visita. Non n’ebbi risposta, il che non valse che ad accrescere la mia curiosità. Partii senza aspettare altro: volevo vedere e toccare con mano.
Al mio primo giungere, mi avvidi che su quella casa incombeva un’aria greve di mistero e che da tutte le persone di famiglia, per quanto si studiassero di atteggiarsi alla spensieratezza ed al sorriso, si stava nell’aspettazione di qualche cosa. La signora Caterina e il padre mi accolsero con molta festa, e vidi in effetto che la mia presenza li rincorava come quella di un amico. Dopo un poco, che si stava così sui convenevoli e sulle espansioni, apparve la signorina Lucia, nella quale mi parve di scorgere una pallidezza più tetra e una più profonda nerezza di occhi. Mi porse la mano amabilmente, ma senza fare atto di sorpresa o di molto compiacimento nel vedermi. Come l’altra volta, mi fisava senza guadarmi. Mi sedette vicino e rispose piano e breve a qualche mia domanda, chiudendosi subito dopo in quella nube di silenzio che l’avvolgeva. Il signor Calitri faceva di tutto per tener su la conversazione, parlandomi a sbalzi delle vicende della sua partita. La signora Caterina dissimulava molto bene una sua nervosità, alzandosi a tutti momenti, col pretesto di «andare a vedere» come mai quello smemorato di Giacomo non si mostrava, pur sapendo del mio arrivo. Alla fine, per toglierli da quell’impaccio tormentoso, feci io stesso la proposta di andare un po’ sulla terrazza a prendere una boccata d’aria. Né di Giacomo si parlò altrimenti, né all’ora del desinare lo si vide a tavola. Mandò a dire che un fiero mal di capo lo tratteneva in camera e che desiderava di abbracciarmi.
Non me lo feci dire due volte e andai subito a trovarlo. Entrate - mi disse - rispondendo alla mia bussata. Si alzò da sedere e mi venne incontro stendendomi la mano. Non l’avrei forse riconosciuto senza di questo. La mano era scarna e ardeva come per febbre. Tutto lui, nella persona e nel viso, mostrava una floscezza morbosa com’è quella di certi uomini grassi che si affidano per dimagrare alle droghe dei cosidetti segretisti, il viso, tutte rughe, era coperto di un pallore cadaverico: solo i pomelli erano rossicci: e così pure negli occhietti grigi si concentrava un lustro dell’antica vitalità, tenuti aperti da un fremito e nervoso, quasi un sussulto, delle palpebre grinzose e molli.
- Mio buon signor Giacomo - gli dissi - ho da farvi i miei rimproveri, perché rispondete così male all’affezione che vi porto. Perché non mi avete scritto? Sarei venuto prima, se avessi saputo che potevate aver bisogno della mia amicizia.
- Grazie - rispose finalmente, e ritirò la mano dalla stretta della mia. Tornò a sedere nella sua poltrona accanto alla finestra e ripetette due volte, forse senza saperlo: - Grazie, grazie.
- Grazie di che? - esclamai, studiandomi di dare alle mie parole un tono alto ed allegro e di riscuoterlo a questo modo -. O si è amici o non si è, che diamine! Ho bisogno dei vostri danari, vi scrivo; avete bisogno dei miei servigi, me li chiedete. C’è un po’ d’egoismo in questo, capite. Do ut des. Ma l’egoismo è pure un bel sentimento, quando trova corrispondenza. Non pare così anche a voi? Due egoismi presi insieme fanno un’amicizia o un amore -.
Mi accorsi che non mi ascoltava; forse non mi udiva nemmeno. Ma non mi diedi per vinto; avendo soltanto tastato il terreno, volli procedere animosamente e attaccare il nemico corpo a corpo.
- Bravo! - dissi - il vostro silenzio è una approvazione o una confessione. Alzo la mano e vi assolvo. Ma perché non dirmi subito l’animo vostro? che cosa vi accadeva? che cosa vi accade?-
Avevo colpito giusto.
- Che m’accade? - domandò trasalendo. - Niente accade che non debba accadere.
- Già, il Fato antico; ma con questo non mi avete risposto.
- Che volete sapere? già sapete tutto voi.
- Può darsi, e non voglio insistere. Non vi domando dei fatti, non cerco rivelazioni. Mi contento di molto meno, caro signor Giacomo. Come state? ecco tutto. Mi preme sopra ogni cosa la vostra salute.
- Vi pare ch’io stia male?
- Oh no, non dico. Un po’ giù, ecco, un tantino diverso da quello d’una volta -.
Crollò il capo lentamente e un sospetto di risolino gli contrasse le labbra.
- Una volta - balbettò dopo un poco - io ero quello che sono adesso. La giornata di oggi non ci potrebbe essere senza quella di ieri. Tra l’una e l’altra passa la notte, questo sì. Che cosa accade nelle notte? Si sogna. Quando la luce torna, i sogni se ne vanno lontano nella ragione delle ombre? Io ho sognato, ho sognato, ho sognato -.
Alla terza ripetizione, detta con voce sempre più fioca, alzò gli occhi dalla mia parte e mi fisò stupito come se in quel punto si accorgesse della mia presenza. A poco a poco, brillò in quegli occhi una luce di ricordo e d’intelligenza. Non so bene se fosse una luce o una lagrima. Appoggiò le mani ai bracciuoli della poltrona, si levò a grado a grado, fisandomi sempre, fece un passo dalla mia parte. Poi, in un impeto irrefrenabile, gettandomi le braccia al collo, nascondendo la faccia sulla mia spalla, si diè a piangere e a singhiozzare come un bambino.
Sperai che quello sfogo gli avrebbe fatto bene e non ne lo distolsi. Ma anche questa volta la mia speranza fu vana. Dopo cinque minuti di quel pianto infantile, il signor Pepe tornò in calma, si asciugò gli occhi e mi diè la buona sera. Era un congedo bell’e buono. Inutilmente lo interrogai; non mi venne fatto di cavargli di bocca una sola parola. Uscii da quella camera col cuore stretto e col fermo proposito di agire più energicamente il giorno appresso, giovandomi del concorso del signor Calitri, della signora Caterina ed anche, occorrendo, della signorina Lucia.
Quello che vidi però valse a fare abortire i primi miei tentativi. Le mie domande, per discrete che fossero, erano accolte con una paurosa diffidenza, la quale si nascondeva ora dietro un sorriso, ora dietro una distrazione, ora dietro un subito mutar di discorso. Era forse gradita la mia compagnia; non così il mio spirito inquisitore. Lo stesso signor Giacomo, uscendo di camera sua e girando per la casa, mi facea quasi veder chiaro di non voler essere colto a quattr’occhi e sottoposto a un altro interrogatorio come quello della sera precedente.
Non potendo altro, stetti in osservazione, e trovai intanto un pretesto plausibile per giustificare la mia partenza di lì a tre giorni, mentre prima avevo detto di trattenermi da loro una settimana.
Osservai molte cose e nulla; ripartii per Napoli, profondamente turbato da niente. Il mistero rimaneva per me un mistero ancora più fitto prima; disperavo di scoprirlo. E d’altra parte, che interesse poteva essere il mio d’immischiarmi nei fatti altrui?
Questo vidi in quei tre giorni, che così all’ora del desinare come a quella della cena, il signor Giacomo non si fece attendere, anzi fu sempre il primo ad occupare il suo posto. La conversazione, a tavola, non era molto vivace; e la sostenevano con grandi sforzi il signor Calitri e la signora Caterina, ai quali io mi studiavo di soccorrere alla meglio, benché fossi distratto da altro. Guardavo di sfuggita, e quando potevo esser sicuro di farlo impunemente, ai due personaggi muti che sedevano di fronte l’uno all’altro. La signorina Lucia taceva, forse per indole; l’altro, per quello strano male che lo avea preso, e che mi pungeva di sapere. A momenti un gran silenzio piombava su tutti, ed era solo interrotto dal rumore che facevano insieme le scodelle portate via dalla fantesca. Notai che, dei cibi serviti in tavola, il signor Giacomo poco o nulla assaggiava. Di rado abbassava gli occhi nel suo piatto. Li teneva fisi di fronte a sé quasi attratti da un potere sovrumano sulla personcina delicata della signorina Lucia, su quel visino cereo splendente sotto quella massa magnifica di capelli neri. Ella non si sottraeva a quella ostinata contemplazione, forse non la sentiva; forsanco la circondava quella sua abituale tranquillità di persona assorta. Nondimeno, se per caso le si volgeva una domanda, non rispondeva subito o anche non la udiva. Agli scoppi di voce del padre, alle risate della signora Caterina che volevano essere ed allegre, né trasaliva né rideva. Alle frutta, si levava dal suo posto, faceva un piccolo cenno del capo, si allontanava prima ancora che il caffè fosse servito. Noialtri si rimaneva in tre, ma per poco. Il signor Giacomo era preso da una certa apprensione; si voltava intorno con sospetto; si scoteva ad ogni menomo rumore; origliava: prendeva a due mani la tazza del caffè; se l’accostava alle labbra tremando, la vuotava in un sorso. Poi si alzava anch’egli da sedere, usciva sulla terrazza, guardava in giardino, tornava dentro, girava per tutte le stanze, evitava la compagnia nostra.
- Così fa sempre - mi disse la signora Caterina. - È la sua passeggiatina del dopo desinare. Bene bene non sta; ma come si fa a star sempre bene? -
Quello stesso secondo giorno, volli anch’io uscire sulla terrazza, precedendovi il signor Calitri che intanto dava fuoco alla sua pipa. Mi accostai al parapetto e mi vi appoggiai sopra. Naturalmente, guardai di sotto; e la prima cosa che chiamò la mia attenzione fu una figurina di donna che leggermente si muoveva in fondo al giardino, quasi temesse di calpestare l’erba dei viali. Era la signorina Lucia. Dopo un poco, da un altro viale vidi spuntare il signor Giacomo, il quale andava verso quella medesima parte senza distorglierne gli occhi un momento, senza badare dove mettesse i piedi e se urtasse in una siepe o calpestasse un’aiuola. Ma la distanza tra le due figure non mai scemava di un passo. In lei, si sarebbe detto, c’era il senso e la paura di quella muta persecuzione. La personcina leggiera percorreva tutto il viale, entrava in un altro, si avvolgeva fra l’ombra delle piante, scompariva ricompariva; e sempre dopo di lei, con lo stesso passo, col medesimo sguardo fisso, con la stessa ansietà misurata, appariva e scompariva l’ombra del signor Giacomo. Non mi allontanai dal mio posto di osservazione, nemmeno quando il signor Calitri e la signora Caterina mi vennero a fianco e tentarono con modi accorti di ricondurmi dentro; non me ne allontanai, se non quando vidi tornare verso la casa la signorina Lucia, e dopo un poco il signor Giacomo; rientrare, girar per tutte le camere, e poi anch’essi sulla terrazza, non tanto per raggiungere noi, quanto per cercarvi un luogo di rifugio e di riposo.
Anche questo inseguimento, come altre cose nella vita dell’amico Pepe, aveva in sé molta parte di comico e molta di mistero. Questo era certo che di mente o di corpo egli non era sano.
Che ci poteva fare io? e d’altra parte chi è che mi chiamava a far qualche cosa? Una idea rapidissima m’avea rischiarata la mente per ripiombarla subito dopo nelle tenebre più fitte, al modo stesso di un lampo in una notte burrascosa. Credetti scorgere che in quel punto stesso la signora Caterina mi guardasse con apprensione; ma forse m’ingannavo, perché, voltandomi a lei, la vidi sorridere con piacevolezza e la sentii dire un sollecitudine:
- E così, gli è proprio vero che ci lasciate subito?
- Domani di buon mattino. Come si fa, quando si è legati alla catena del lavoro?
- Tornerete?
- Se non vi dispiace.
- Oh, vi pare, Può anche darsi, se non fate presto a tornare, che veniamo noi a farvi una visitina a Napoli.
- Ah?...
- Sì, verremo tutti, anche il papà e Lucia.
E allora vi piglieremo con la forza e vi ricondurremo qui -.
Si studiava di essere scherzosa. Né il marito né la sorella misero una sola parola nella breve conversazione. Solo il signor Calitri la punteggiò di «oh» e di «ah» che volevano essere espressione di cortesia, di rammarico, di desiderio o di niente.
Meno informato di prima, e certamente molto più impensierito, partii la mattina seguente, proponendomi di stare un bel pezzo per tornare a Maiuri, anzi di aspettare con pazienza di essere pigliato di peso e portato via. Non avea detto la signora Caterina che sarebbero tutti venuti a Napoli?
E così fu che accadde precisamente il contrario: L’uomo propone e Dio dispone. E così fu che tre mesi passarono - né lunghi né brevi - perché gli è già gran tempo che la mia vita non ha le impazienze tormentose che la indugiano né gli struggimenti che l’accorciano. I venti giorni trascorsi in un’ora e il minuto che vale un secolo sono misteriose esagerazioni a cui soltanto l’amore si aderge; quando l’amore, per fiacchezza di ali, si contenta di essere terragnolo, i giorni si succedono ai giorni e son tutti della stessa misura. Dicevo dunque una cosa vecchia, cioè che l’uomo propone e Dio dispone. Ricevo una mattina un telegramma. Apro, leggo: «Venite subito, indispensabile vostra presenza - Caterina ». Era da Maiuri. Arzigogolai un pezzo, come si suol fare con una lettera prima d’aprirla per indovinare chi l’abbia scritta, quando sarebbe tanto più semplice strappare la busta e guardare alla firma. Che poteva essere accaduto? a che potea giovare l’opera mia? che novità mi aspettava? E via di questo passo. Ne tenni parola anche al conte D’Abresci, al quale feci pure la proposta di venir con me. Accettò di buon grado, dopo avere anch’egli cercato inutilmente di penetrare il mistero. Tutto il giorno se ne passò a questo modo. Partimmo alla mattina seguente, sforzandoci di persuadere a noi stessi che il nostro ritardo non avrebbe portato alcun danno e che sempre a tempo saremmo arrivati sul teatro degli avvenimenti.
Ho nominato il D’Abresci, perché é oggi l’unica persona che potrebbe e vorrebbe attestare la verità dei fatti, così variamente interpretati. Con me egli ne fu testimone. Son passati oramai parecchi anni da quella sera spaventuosa: il signor Calitri non è più di questo mondo e la signora Caterina, partita dopo poco da Maiuri, l’ho perduta di vista.
Prima o dopo che fossimo giunti, le cose non avrebbero mutato aspetto. Credo anche adesso che la signora Caterina, in un’ora di turbamento, m’avesse battuto il telegrafo obbedendo a quella esaltazione che nelle donne è così frequente e che muta le cose di sana pianta o le crea. Mi venne incontro frettolosa, non appena m’ebbe scorto di lontano; non s’accorse lì per lì dell’amico che m’accompagnava. Con parole rotte e confuse e con le lagrime agli occhi mi parlò della disgrazia terribile che li minacciava tutti; una doppia disgrazia; non c’era più rimedio; da più di un mese Giacomo era mutato affatto, ma, in questi ultimi giorni, avea dato in frenesia, era diventato spaventevole. No, non già che fosse ammalato; non avea la febbre. Non si sapeva, o forse si sapeva troppo, quel che avesse. La mia presenza lo avrebbe forse ricondotto ad altri pensieri. Farneticava sempre con quel suo anello maledetto. Che storia era quella? La sapevo io? In somma, non c’era da perder tempo; entrassi in casa, vedessi da me. Almeno una delle due sventure si potesse scongiurare! una sola: l’altra era scritta nel libro del destino.
La signora Caterina non aveva mai detto tante parole insieme e così disordinate. Per una parte, ebbi subito a riconoscere che le sue erano esagerazioni; o almeno, se avea detto il vero, la condizione delle cose da un momento all’altro era mutata. Vidi il signor Giacomo di lì a pochi momenti. Mi salutò con affetto, abbracciandomi. Era più calmo dell’altra volta. Si scusò pel il momento non mi teneva compagnia, come sarebbe stato suo desiderio. Doveva andar di là. Io stupivo, e mi voltai verso la signora Caterina che in un cantuccio della stanza parlava a bassa voce col D’Abresci. Quando fu giunto sulla soglia si fermò in tronco come risovvenendosi; mi si accostò di nuovo. - Parleremo stasera, disse; non posso per ora -. E tirandomi a sé e mettendomi le labbra all’orecchio, mi susurrò con una voce tremolante e piena di lagrime: - Sapete? mia moglie muore -.
La sera venne, ma non venne il signor Giacomo in camera mia. Né io lo aspettavo. Tutta la gionata, un silenzio triste, lugubre, pesò sulla casa. Io non osavo romperlo, non mettevo il piede fuori di camera mia, di tanto in tanto sporgevo il capo dall’uscio per fare qualche domanda, per avere qualche informazione, per cogliere qualche parola. Di ora in ora, di momento in momento, le notizie erano più gravi; alla nessuna speranza era succeduta la certezza della disgrazia, e quasi - debbo dirlo? - l’impazienza. Non mi fermo su questo strano sentimento, da cui son prese tutte le persone che assistono un moribondo, siano o non siano parenti. La signorina Lucia moriva. Una malattia che non perdona, la più tremenda di tutte benché da chi non la conosce sia reputata la più poetica, consumava le ultime stille di quella giovane vita. L’agonia, come seppi dopo, fu lunga e tormentosa. Verso sera, non ebbi più notizie di alcuna sorta, non vidi più nessuno, il silenzio crebbe, o forse mi pareva più profondo, perché nessuno pensò a venire in camera mia a portarmi un lume. Ad un tratto, fu rotto da un clamore alto e sinistro che mi si ripercosse nel fondo del cuore, da uno scoppio di pianti che si ripercossero per tutta la casa, come se le stessi pareti avessero grida e singhiozzi. La tragedia era compiuta. La povera fanciulla era morta.
Si vegliò tutta la notte, né io voglio ora rattristare il lettore con una enumerazione di particolari noti, purtroppo! a ciascuno di noi. Una volta, poco dopo la mezzanotte, volli entrare anch’io nella stanza mortuaria. Quattro suore grigie, sedute ed a capo basso, salmodiavano. Splendevano, immobili nell’aria greve, le fiamme gialle dei ceri intorno al letto verginale. Mi accostai trepidando; mi chinai su quel corpo disteso che la bianca veste faceva parere più etereo. Avea le mani intrecciate sul petto stringendo un piccolo crocefisso di avorio. Il viso, avendo la medesima pallidezza che io prima le conosceva quando la povera ragazza era viva, non si sarebbe detto di persona morta. Piuttosto, era stanca e riposava: stanca della vita, chiusa ostinatamente in quella meditazione intima, che era il carattere degli occhi di lei. Ora quegli occhi erano chiusi per sempre e forse splendevano altrove. Le labbra non s’atteggiavano al sorriso; ma avevano forse sorriso altra volta, quando la vita le si apriva davanti con tutte le sue promesse? Uscii di là col cuore stretto come in una morsa. Rividi il giorno appresso; e mi studiai di confortare il buon signor Calitri, la signora Caterina, lo stesso Giacomo: conforto difficilissimo, perché in casi simiglianti si cercano invano delle parole nuove ed efficaci a una lingua ignota. Nei grandi dolori, il cuore non parla; si contenta di piangere, e forse coteste sue lagrime sono il conforto più eloquente e più sicuro d’effetto.
Il mortorio ebbe luogo la sera appresso, un’ora dopo il tramonto. Non vedemmo, trasversando la casa, nessuno della famiglia, perché tutti, come suole, erano stati accolti da certi loro amici vicini e così tenuti lontani dalla scena di dolore. D’Abresci ed io ci unimmo al modesto convoglio, proponendoci di seguirlo fino al cimitero di Maiuri e di assistere alla tumulazione. In pochi minuti ci trovammo fuori dell’abitato. Il tempo era scuro; e la sola luce che ci rischiarava la via campestre era quella rossiccia delle fiaccole che precedevano e seguivano la bara. Entrati in un sentiero traverso, costeggiammo un muro basso. Un cancello cigolò nell’ombra, aperto da un uomo con in mano una laterna. Passammo oltre, calpestando un terreno molle che ammortiva il rumore dei passi. Eravamo nel cimitero: un breve recinto, senza ricchezza di vegetazione o lusso di monumenti. Qua e là si alzava una croce o biancheggiava un marmo. Nella tenebra, in un punto che pareva molto remoto per lo stesso inganno degli occhi, si vedeva raccolto un gruppo di persone, rischiarate sì e no da una luce guizzante. Ci aspettavano. La cassa fu posata a terra.
- Badate - mi disse una voce e nel tempo stesso una mano mi trattenne. - C’è la fossa -.
Ci fermammo. Una curiosità dolorosa mi faceva stringere gli occhi e spingere gli sguardi in fondo a quella buca che vaneggiava ai nostri piedi. Un uomo ne venne fuori, portando in spalla una vanga.
- È fatto - disse, e si accostò alla cassa e fece atto di sollevarla. - Datemi una mano -.
Ci fu un rumore di funi striciate e poi uno sfregamento pesante della cassa sul terreno. Vidi quella massa nera che s’avanzava verso l’abisso. Vidi anche, in un momento che il raggio di luce girò rapido intorno a noi per un subito voltarsi dell’uomo dalla lanterna, vidi una figura genuflessa dall’altro lato della fossa. Mi parve, in quell’attimo, di riconoscerla. Nel punto stesso, D’Abresci, che mi stava accanto, esclamò:
- il signor Pepe! -
Avrei voluto andargli vicino, ritrarlo di là, ricondurlo a casa. Non n’ebbi il tempo. Un urto senza eco ci avvertì che la cassa era arrivata in fondo. Mi sentii sulle mani uno spruzzo d’acqua che mi gelò il sangue: era l’ultima benedizione del prete. Una voce bassa intuonò il requie pei defunti. Tutti cademmo in ginocchio, tutti pregammo e forse, nell’ombra che ci avvolgeva, piangemmo tutti. Io tenevo sempre gli occhi fissi verso quella parte, dove un momento avevo intraveduto l’amico Pepe. Non mi parve che la sua voce di preghiera si unisse a quelle degli altri. L’uomo dalla vanga e un suo compagno si avanzarono.
- Si farà presto - disse uno dei due uomini - la terra è molle, perché scavata di fresco -.
E diè della vanga in un monticello nero che gli sorgeva vicino. Si udì come una cascatella di terreno e poi un lieve percuotere di pietruzze sul legno.
Nel silenzio solenne e lugubre si levò un grido. Due volte fu ripetuto, e la seconda suonò con uno schianto, con un laceramento doloroso di voce e di anima: - Moglie mia! moglie mia! - Accorremmo tutti verso il signor Giacomo. Seguì un rotolamento ed un tonfo. Il giorno appresso, nel piccolo cimitero di Maiuri si dovette scavare un’altra fossa. E così fu che il signor Pepe scomparve, e il suo anello, dalla scena del mondo.
Tornado a Napoli, tra D’Abresci e me non fu scambiata una sola parola.